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Morte del coniuge separato e risarcimento del danno (Cass. civ. Sez. III, 17-01-2013, n. 1025)

Domenica, 24 Novembre 2013
Giurisprudenza | Responsabilità | Legittimità
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Il risarcimento del danno non patrimoniale può essere accordato al coniuge, ancorché separato legalmente, purché si accerti che l'altrui fatto illecito (nella specie il sinistro stradale causa del decesso) abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona cara: è, tuttavia, necessario a tal fine dimostrare che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso (nella specie, congruamente individuato dalla corte di merito nella presenza di un figlio in comune e nel breve lasso di tempo - un mese - trascorso dalla separazione).

Cass. 1025/2013

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. Il (OMISSIS) perdeva la vita in un incidente stradale R.O., per l'impatto tra la vettura condotta da S. M. (assicurato con la Rhone Medierranee), sulla quale era trasportata, e la vettura condotta da M.E., assicurata con la ITAS. Nel (OMISSIS) i congiunti della defunta - F. R., coniuge separato, anche per il figlioletto M., il padre della vittima R.A., la madre C.I. ed il fratello R.L. - proponevano dinanzi il Tribunale di Milano azione risarcitoria nei confronti dei conducenti - proprietari e delle loro assicurazioni, integrando poi il contraddittorio anche verso le Assicurazioni Generali, quale impresa designata per la Rhone già sottoposta a l.c.a.. Dopo alcuni mesi quest'azione civile veniva trasferita in sede penale e, nel corso di questo giudizio, la M. "patteggiava" la pena, provvedendo la sua assicuratrice ITAS a versare - il 7-11-96 - L. 550.000.000 complessivi ai cinque danneggiati. Il processo penale proseguiva con la condanna definitiva anche di S., con la precisazione (in appello) delle quote di responsabilità personale (60% a carico di S., 40% per la M.), con la condanna generica di S. al risarcimento dei danni, ma senza alcuna liquidazione di essi. La causa civile veniva riassunta nel 1999 nei confronti di S., della Rhone e delle Assicurazioni Generali, le quali, nella contumacia di S., si costituivano resistendo alle pretese avversarie. Il Tribunale civile di Milano, respinta l'eccezione d'improcedibilità della domanda D.L. n. 576 del 1978, ex art. 8 ha quantificato il danno morale cagionato al figlio decenne nei due terzi dell'intero biologico in astratto spettante alla quarantaduenne defunta (circa 168.000,00 Euro), al marito ed al padre in un terzo di quel parametro (circa 84.000,00 Euro ciascuno), alla madre in un quarto (circa 63.000,00 Euro), al fratello in un ventesimo, e cioè 12.606,16 Euro. Ha escluso qualsiasi danno biologico iure hereditatis, atteso il brevissimo intervallo tra l'incidente e la morte della R.; ha aggiunto, in favore del figlio, il danno patrimoniale quantificato in Euro 36.196,98. Ha condannato dunque S. e le Assicurazioni Generali a pagare il 60% di detti importi, ritenendo sotto ogni profilo irrilevante la transazione a suo tempo intervenuta con la ITAS per la quota di responsabilità della M.. Sulle somme liquidate sono stati aggiunti interessi al tasso medio compensativo annuo del 5,69% dalla data dell'incidente fino alla pubblicazione della sentenza. Ha così proposto un primo appello principale la soccombente Rhone, riproponendo la questione dell'improcedibilità dell'azione ex art. 8 cit. ed evocando l'efficacia dell'intervenuto giudicato penale anche sulla domanda civile; nel merito contestando poi l'eccessività delle liquidazioni operale in favore del coniuge separato e del padre della vittima e l'applicazione indebita o comunque duplicatoria di rivalutazione ed interessi; chiedendo in ogni caso di tener conto di quanto in precedenza versato dal coobbligato solidale ITAS; infine, richiamando eventualmente il massimale di legge previsto, al tempo, per le imprese poste in liquidazione coatta. Altro appello principale è stato proposto dalle Assicurazioni Generali, che aveva posto sostanzialmente i medesimi argomenti, insistendo soprattutto sulla necessità di defalcare dal complessivo risarcimento quanto già percepito da parte dei coobbligati (e detta somma, opportunamente rivalutata, si sarebbe rivelata esaustiva). Anche quest'appellante contestava come eccessive le liquidazioni in favore dei marito e dei padre della R. e deduceva il limite del massimale di legge.

Nella perdurante contumacia di S., si sono costituiti anche appello, ed in entrambe le cause, tutti i danneggiati, replicando partitamente ai motivi d'impugnazione avversari e proponendo appello incidentale (condizionato ad un qualsiasi accoglimento degli appelli principali) quanto all'esiguità del risarcimento in favore della madre, ma anche in favore di ogni altro danneggiato, e quanto alla liquidazione delle prime spese di lite.

2. Riunite le cause. La Corte di Appello di Milano, con la sentenza oggetto delle presenti impugnazioni, depositata il 4 febbraio 2006, riformava parzialmente la sentenza di primo grado;

2.1. riduceva il risarcimento spettante in favore del coniuge separato della vittima in Euro 25.212,00, affermando che largamente eccessiva era quello liquidato in favore del coniuge separato della vittima; se certo non poteva sostenersi, con le appellanti, che la morte di un coniuge separato non recasse alcun dolore all'altro, (tanto più quando vi era un figlio in comune), pur tuttavia la quantificazione del primo Giudice doveva essere ridotta, tenendo conto del dato obiettivo della separazione e, cioè concretamente, del fatto della già cessata convivenza, e della conseguente valutazione secondo cui la perdita del coniuge risulta indubbiamente meno sconvolgente rispetto al conseguito assetto di vita;

2.2. osservava che la domanda risarcitoria era sempre stata proposta come cumulativa, tanto evincendosi anche dal tenore delle conclusioni che stabilivano una solidarietà attiva tra i creditori;

2.3. riteneva di dover detrarre dal risarcimento cumulativamente conseguibile da tutti i danneggiati - come richiesto dalle appellanti, ma in buona sostanza anche riconosciuto dagli appellati nella domanda introduttiva nella presente causa - quanto dai danneggiati già ricevuto a titolo di ristoro da altra fonte: non venivano in rilievo i principi della solidarietà e delle quote di responsabilità, ma il divieto generale di duplicazione risarcitoria, non essendo concepibile che i danneggiati avessero percepito più del risarcimento loro complessivamente spettante, neppure quando abbiano "a disposizione" più debitori solidali (la solidarietà passiva non incrementa di certo l'ammontare del danno). Dalla somma da ultimo indicata - che era univocamente calcolata alla data dell'incidente (come si comprende sia dal calcolo degli accessori operato dal primo Giudice, sia dal riferimento "tabellare" da lui evocato) - andavano dunque detratti Euro 240.580,42 cioè l'equivalente, devalutato alla data del fatto della somma di L. 550.000.000 (Euro 281.210,53) ricevuta dai danneggiati il 7.11.96. L'ammontare della condanna risarcitoria complessiva andava dunque determinato, in somma capitale alla data del fatto, in Euro 148.589,10. Su tale somma decorrevano rivalutazione monetaria ed interessi di legge: il criterio indicato dal Tribunale di uno specifico tasso medio compensativo si sottraeva alle generiche censure delle appellanti, poichè per un verso l'ammontare risarcitorio era stato (già dal primo giudice) calcolato alla data del fatto (e non della sentenza), per altro verso il tasso concretamente applicato non generava nessuna impropria duplicazione e teneva conto dei limiti imposti dalle S.U. di questa Corte alla sovrapposizione tra rivalutazione e interessi.

3. I prossimi congiunti della vittima propongono ricorso per cassazione sulla base di sette motivi; la Rhone resiste con controricorso, illustrato con memoria, e propone contestualmente ricorso incidentale basato su unico motivo. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva. I ricorsi vanno riuniti, essendo stati proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).

4. Nel ricorso principale vengono formulati i seguenti motivi:

4.1. Violazione e falsa applicazione degli artt. 2909. 1321, 1322 c.c. e artt. 101, 102 c.p.c., sulla normativa afferente l'efficacia del giudicato tra le parti ed i limiti del giudizio derivanti dal principio del contraddittorio e dal principio di autonomia contrattuale, perchè la Corte territoriale, detraendo dal risarcimento accordato ai danneggiati quanto ad essi corrisposto dalla ITAS in ordine al danno causato dalla corresponsabile M., avrebbe esteso il giudicato penale d'appello, che stabiliva solo la quota di responsabilità di S. (60%), e quello civile di primo grado, nella parte in cui determinava esclusivamente tra le parti in causa un ammontare globale del danno derivante dalla morte di R.O., alla frazione di responsabilità relativa alla già stralciata posizione M.. Per effetto di tale meccanismo, veniva determinata ben dieci anni dopo l'uscita di scena della M. - con sacrificio della transazione 7.11.96 e degli artt. 1321- 1322 c.c. - la liquidazione del risarcimento per la responsabilità della stessa. La sottrazione operata dal Giudice d'Appello riduceva a sfavore dei danneggiati t'importo dell'accordo a stralcio della posizione M. e Itas per la loro quota di responsabilità, attribuendo un'ingente somma del pagamento ricevuto in ragione della transazione, (documentata separatamente ed empiricamente) alla quota di obbligazione del S.. Il Tribunale adito per la sola liquidazione della responsabilità nella causazione del sinistro del convenuto S., già determinata e passata in giudicato per la quota del 60%, aveva stabilito in ragione e solo a valere su tale liquidazione un ipotetico "risarcimento globale" che per effetto degli artt. 101 e 102 c.p.c. non poteva essere esteso oltre le parti e l'oggetto del suddetto processo. La transazione intervenuta con ITAS il 7.11.996 aveva convenzionalmente stabilito l'entità di un'obbligazione parziale senza ammettere responsabilità in capo alla M. e senza intervenire ne lasciare spazio ad una determinazione globale sul danno. La valutazione globale del danno, svolta dal Tribunale di Milano in primo grado, poteva in ogni caso determinare solo il quantum sul risarcimento del convenuto S. e non avrebbe potuto essere estesa all'obbligazione originaria per la responsabilità della M. nella causazione della morte della R..

4.2. Violazione e falsa applicazione del combinato disposto dagli artt. 1965 e 1300 c.c. in ordine all'art. 2055 c.c. Disconoscendo il disposto dell'art. 1300 c.c., comma 2 la sentenza impugnata, avrebbe utilizzato l'esito della novazione, e dunque l'obbligazione derivata del primo per decurtare la parte di obbligazione dei secondi:

S., Ass. Generali Spa e Rhone M. In diritto, i convenuti potevano essere liberati dall'obbligazione in solido relativa alla quota di responsabilità della M., ovvero per il disposto degli artt. 1965 c.c. e 1300 c.c., poichè la transazione riguardava specificamente l'obbligazione originaria della M., la somma pattuita nell'obbligazione derivata non poteva in ogni caso assorbire la quota di obbligazione non transatta.

4.3. Omessa e insufficiente motivazione circa il valore della transazione del 1996 tra la ITAS e i danneggiati, che costituisce un cardine logico giuridico della decisione, con conseguente erronea e falsa applicazione degli artt. 101, 102 c.p.c., art. 1294 c.c. e segg. e conseguentemente art. 2055 c.c.. La sentenza impugnata sul punto (riportata al precedente punto 2) non recherebbe traccia del titolo effettivo, tra la M. - Itas e gli odierni ricorrenti, denunciato e sottolineato già in citazione di primo grado, per quanto ricevuto ad estinzione di parte dell'obbligazione risarcitoria: la transazione 7.11.96 nella sentenza di appello sarebbe inesistente.

4.4. Violazione e falsa applicazione della normativa ex artt. 2054, 2055, 2059 e 1905 e 1910 c.c. quanto all'applicazione del principio indennitario all'evento morte di una persona. In ordine alla motivazione addotta per la riduzione del risarcimento a tutti i danneggiati, la sentenza impugnata richiama il divieto di duplicazione risarcitoria, principio sancito espressamente dagli artt. 1905 - 1910 c.c. in tema di assicurazione contro i danni e viene normalmente esteso dalla giurisprudenza ai danni prodotti dalla circolazione dei veicoli ex artt. 2054 2055 c.c.. Secondo l'estensione generalmente applicata, l'indennizzo corrisposto dall'assicuratore deve svolgere la funzione di riparare il danno subito dal danneggiato e non può rappresentare per quest'ultimo una fonte di guadagno. Tale principio sarebbe stato erroneamente esteso dal giudice di appello ai danni risarcibili per effetto della morte della R.. I ricorrenti richiamano Cass. S. U. n. 5119 del 10.04.2002 che esclude l'applicazione del principio indennitario (proprio dell'assicurazione contro i danni) all'assicurazione infortuni quando il ristoro sia dovuto per l'evento morte, motivando inter alia che in tal caso il risarcimento viene a coprire il rischio tipico dell'assicurazione sulla vita e pertanto "deve ritenersi inapplicabile all'ipotesi di infortuni mortali la disciplina dettata dall'art. 1910". Se deve ritenersi inapplicabile all'assicurazione contro gli infortuni il principio indennitario - desunto dall'assicurazione sui danni - quando l'evento ristorato è la morte, tale principio non potrebbe essere assunto a "principio generale assoluto" ed estendersi in via generale al ristoro dei "sinistri mortali" nella circolazione dei veicoli, che sostanzialmente sono "infortuni mortali" ovvero una loro sottospecie.

4.4.1. Le prime quattro censure possono essere trattate congiuntamente, avendo tutte ad oggetto, sia pure sotto diversi profili, la medesima questione dei rapporto tra transazione intercorsa con la M. ed entità dell'obbligo degli altri corresponsabili. Le censure si rivelano infondate, La decisione impugnata è in linea con la giurisprudenza di questa Corte. Secondo tale insegnamento, dal quale non vi è ragione di discostarsi, l'art. 1304 c.c., comma 1, che disciplina gli effetti della transazione del debito solidale ad opera di uno solo dei condebitori si riferisce alla transazione (non novativa) avente ad oggetto l'intera obbligazione solidale, mentre quando è limitata alla sola quota interna del condebitore che la stipula, la transazione non interferisce sulla quota interna degli altri condebitori e, riducendo l'intero debito dell'importo corrispondente alla quota transatta, produce automaticamente lo scioglimento del vincolo solidale fra il condebitore stipulante e gli altri condebitori, i quali rimangono obbligati nei limiti della loro quota senza potersi avvalere del potere di cui all'art. 1304 c.c. (Cass. 24 gennaio 2012 n. 947; S.U. 30 dicembre 2011 n. 30174; 30 novembre 2011 n. 25553; 17 gennaio 2008 n. 868, 27 marzo 1999, n. 2931; 19 dicembre 1991 n. 13701). Il criterio per distinguere il tipo di transazione che consente ai condebitori, estranei di profittarne da quello che non concede tale facoltà viene ravvisato dalla giurisprudenza nell'oggetto della transazione (l'intera obbligazione solidale ovvero la quota interna del condebitore stipulante). In dottrina si è osservato che il criterio distintivo è più propriamente costituito dal fatto che il creditore rinunci o non ad ogni maggiore pretesa nei confronti degli altri condebitori. La ricognizione degli intenti e delle finalità perseguiti dalle parti nell'addivenire ad un accordo transattivo che ponga termine ad una lite in corso, si risolve in una quaestio voluntatis riservata al Giudice di merito.

4.4.2. La transazione, non novativa, che i danneggiati hanno concluso, a suo tempo, con ITAS ha avuto l'effetto di liberare detto condebitore e la sua assicurata dal vincolo di solidarietà.

Diversamente da quanto sostiene la società ricorrente, la Corte territoriale non ha proceduto alla liquidazione del danno gravante sulla Sig.ra M. - a suo tempo "liberata" dai danneggiati - ma ha affermato che occorre tener conto, nella determinazione del risarcimento, anche di tale pagamento per evitare un ingiusto arricchimento dei danneggiati. Del resto, la transazione intercorsa con l'ITAS non rappresenta un contratto aleatorio, non avendo l'ITAS stessa rinunciato all'azione di rivalsa ed essendosi, da parte loro, i danneggiati espressamente riservati il diritto di agire nei confronti del S.. Non è, inoltre, pertinente il richiamo all'art. 1300 c.c., comma 2, stante il carattere non novativo dell'intercorsa transazione: la norma invocata regola i rapporti tra uno dei creditori in solido ed il debitore, mentre la presente fattispecie vede la presenza di più creditori e più debitori e non vi è mai stato alcun accordo di novazione tra uno dei creditori ed un debitore. L'inquadramento giuridico di cui al ricorso principale è, dunque, errato: nel caso in esame, vi è stata transazione tra i creditori ed un condebitore solidale che ha avuto l'effetto di sciogliere la M. dal vincolo di solidarietà, ex art. 1311 c.c..

4.4.3. Senza contare che i danneggiati hanno sempre dato atto (p. 8 comparsa di risposta in appello) che la transazione in questione rappresentava una definizione parziale verso uno dei coobbligati solidali ai sensi degli artt. 1294 e 1311 c.c.; conseguentemente, ricevendo la liquidazione dall'ITAS per conto della Sig.ra M., i creditori avevano mantenuto l'azione contro l'altro corresponsabile solidale. Essi hanno sempre affermato, inoltre, nei propri atti difensivi di avere percepito dall'ITAS l'importo di L. 550.000.000 a titolo di transazione e liberazione dal vincolo di solidarietà. Si rivela, pertanto, infondato anche il terzo motivo del ricorso principale, visto che la Corte territoriale si è limitata a prendere atto delle affermazioni e delle produzioni (l'atto di quietanza in ordine a detta transazione) dei danneggiati, nella determinazione dell'effettivo ammontare del risarcimento.

4.4.5. Circa il quarto motivo, inoltre, non si rivela pertinente il riferimento al principio indennitario, in quanto esso riguarda la ben diversa ipotesi di avvenuta stipula di più contratti di assicurazione da parte del medesimo beneficiario e nulla ha a che vedere con l'ipotesi di danno imputabile a più persone, che sono perciò condebitori solidali del risarcimento del danno. Non è dubitabile che, nel caso di sinistro stradale, viene unicamente in rilievo l'ammontare dei danni che, ex art. 2043 c.c., non può mai essere superiore al pregiudizio effettivamente subito.

L'assicurazione sulla vita, invece, è un contratto intrinsecamente aleatorio ed i principi applicabili allo stesso non possono trovare applicazione analogica nel caso di assicurazione contro i danni.

Inoltre, come si è visto, gli stessi odierni ricorrenti hanno sempre riconosciuto che l'importo versalo dall'ITAS avrebbe dovuto essere comunque sottratto dalla liquidazione del danno.

4.5. Omessa insufficiente e contraddittoria motivazione sulla diminuzione liquidatoria del coniuge neo separato, con violazione dell'art. 2059 c.c. e dell'art. 589 c.p.. Non sarebbe motivata la contrazione del danno operata dalla Corte territoriale; il Primo Giudice aveva apprezzato le componenti di danno al coniuge valorizzando la contrazione del danno nella "riduzione dell'affectio coniugalis...; che tale riduzione possa di per sè significare l'assenza di una sofferenza per la perdita della moglie è da escludere, specie in un caso, quale quello in esame, in cui la separazione si era concretizzata da meno di un mese. E' pur anca vero però che, in assenza di contrari elementi di valutazione, la qualità di coniuge separato è tale da giustificare la liquidazione di più ridotto importo". La "diminuzione risarcitoria" in appello era fondamentalmente un salto logico tecnico, non motivato poichè la motivazione è la stessa di quella di primo grado.

4.5.1 Non ricorre il denunciato vizio. Infatti, la motivazione della sentenza impugnata è ispirata a corretti canoni logici e giuridici.

Il risarcimento del danno non patrimoniale sotto il profilo del pregiudizio morale può essere accordato ad un coniuge per la morte dell'altro anche se vi sia tra la parti uno stato di separazione personale, purchè si accerti che l'altrui fatto illecito (nella specie il sinistro stradale causa del decesso) abbia provocato nel coniuge superstite quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona più o meno cara. La separazione, infatti, in sè e per sè non è di ostacolo al riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale. E', tuttavia, necessario dimostrare che, nonostante la separazione, sussista ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso, con la conseguenza che l'evento morte ha determinato un pregiudizio in capo al superstite. Anche se non vi era più un progetto di vita in comune, il precedente rapporto coniugale, nonchè la permanenza di un vincolo affettivo - nella specie, congruamente individuato dalla Corte territoriale nella presenza di un figlio in comune e nel breve lasso di tempo intercorso dalla frattura della vita coniugale - legittimano la richiesta di risarcimento. Relativamente al quantum del risarcimento, trattasi di un'indagine di merito, non suscettibile di esame in questa sede di legittimità (Cass. 17/07/2002 n. 10393; 20/12/01 n. 16073, in motivazione). Pertanto, non è sindacabile in questa sede la discrezionale valutazione della Corte territoriale, la quale ha riliquidato il danno a favore del marito separato della vittima, pur prendendo in considerazione - con il motivato apprezzamento sopra richiamato - gli stessi elementi valutati dal Giudice di primo grado. Senza contare che i ricorrenti non hanno specificamente indicalo le ragioni per te quali il dedotto vizio della motivazione renderebbe questa inidonea a sorreggere la decisione.

4.6. Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 e falsa applicazione dell'art. 1294 c.c. norme connesse e coordinate, e dell'art. 2055 c.c., in relazione alle componenti separate di responsabilità, per erroneità e illegittimità del criterio conclusivo esposto dalla Corte d'appello circa la solidarietà passiva dei danneggiati, parti lese, in ordine a un assunto obbligo di restituzione. L'imputabilità del fatto dannoso a più persone, che abbiano autonomamente concorso a causarlo con attività soggettivamente distinte, darebbe origine ai sensi dell'art. 2055 c.c. ad obbligazioni solidali, cioè a distinti rapporti sostanziali e processuali tra loro scindibili, che una volta divisi danno luogo ad un autonomo accertamento dei fatti. La sentenza impugnata afferma in conclusione della motivazione "dall'operata riforma circa l'ammontare del risarcimento dovuto dalle appellanti e da S. conseguirà piuttosto la restituzione da parte degli appellati in solido di quanto ricevuto in eccesso in esecuzione della prima sentenza, con gli interessi di legge da quella ricezione al saldo; tutte le eventuali questioni in tema di suddivisione della somma tra i con-creditori e di regresso tra i condebitori solidali, secondo le rispettive quote di responsabilità, esulano invece dalla presente controversia. Tutte le liquidazioni operate sia in penale che in sede tutelare di primo grado sarebbero sempre state definite per attribuzioni di credito di danno singolarmente per ciascun danneggiato, la sentenza di primo grado non lascerebbe dubbi sul punto. L'affermazione della Corte territoriale, che individua un criterio solidaristico tra i creditori ex delicto, rappresenterebbe un assurdo tecnico-giuridico, tra l'altro non presente nemmeno nelle conclusioni di primo e secondo grado, perchè ciascuna parte aveva richiesto la liquidazione del danno proprio, e per tutti richiamavano la comparsa costitutiva di F.M., divenuto maggiorenne in corso di causa. Il motivo viene espressamente subordinato alle censure esposte in via principale.

4.6.1. Anche questo motivo non coglie nel segno. La Corte di Appello ha condannato i ricorrenti in solido alla restituzione di quanto percepito in eccedenza, in esecuzione della sentenza di primo grado, sul presupposto che "la domanda risarcitoria era stata sempre proposta come cumulativa, tanto evincendosi anche dal tenore delle conclusioni che stabilivano una solidarietà attiva tra i creditori".

Il motivo prescinde totalmente da tale espressa ratio decidendi.

Invero, per poter escludere la solidarietà passiva, ritenuta dalla Corte territoriale, i ricorrenti avrebbero dovuto specificamente censurare la ricostruzione della domanda operata nel detto senso.

Peraltro, l'orientamento di questa Corte e costante nel ritenere che la solidarietà attiva nelle obbligazioni, non si presume, nemmeno in caso di identità della res debita o della causa obligandi, ma deve risultare espressamente dalla legge o dal titolo (Cass. n. 20761/2007; 5316/1998; 5316/1983), nella specie rappresentato dalla domanda e dalle conclusioni come ricostruite dal giudice di merito e non specificamente censurate, sotto il profilo del vizio motivazionale, dagli odierni ricorrenti (v. Cass. n. 10725/2000, in motivazione, specificamente in relazione ad interpretazione di domanda risarcitoria, sia pure ricostruita in senso diverso da quella in esame).

4.7. Violazione e falsa applicazione Artt. 1218, 1224, 1882, 1905 c.c.; della L. n. 990 del 1969, artt. 21 e 25; D.L. 23 dicembre 1976, n. 857 sul problema dell'applicazione del massimale nell'ipotesi di vigenza del Fondo di Garanzia. La Corte di Appello elide il problema, risolto puntualmente dal Primo Giudice del limite del massimale dedotto dalla compagnia in L.C.A. e da Assicurazioni Generali come designata in L. 700 milioni, riferiti al gennaio 93. Secondo le tesi degli assicuratori, detto massimale resterebbe inalterato fino alla data di pagamento dalla parte delle Generali di quanto disposto dalla sentenza del Tribunale di Milano 7547/2003. Le conclusioni del primo grado, reiterate in appello in via confermativa instavano per la liquidazione dei danni, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data del sinistro al saldo effettivo. Come sarebbe stato dedotto in appello, dovrebbe rilevarsi, in via di legittimità incidentale, che l'ingiustificato ritardo dell'obbligo risarcitorio gravante sul fondo di garanzia e sul Commissario liquidatore Rhone avrebbero dato luogo al superamento del massimale.

4.7.1. Anche questa censura è priva di pregio, essendo formulata in violazione del canone di autosufficienza del ricorso per cassazione (art. 366 c.p.c., n. 4), perchè, rispetto alla questione del superamento del massimale che non ha formato oggetto della motivazione della sentenza impugnata, non ha specificato se, come, dove e quando essa sia stata sottoposta dagli odierni ricorrenti alla Corte territoriale: non è, all'uopo, sufficiente il generico riferimento a quanto avrebbe formato oggetto della sentenza di primo grado, nè la circostanza che le compagnie assicuratoci avversarie abbiano proposto detta questione in appello (con conseguente insussistenza d'interesse ad impugnare sul punto da parte degli odierni ricorrenti). La censura è, pertanto, inammissibile, per novità della questione, non essendo essa stata prospettata al giudice di appello, come si evince dalla stessa ricostruzione dell'iter processuale ora operata. Si deve ribadire, infatti, che i motivi del ricorso per Cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, non potendo prospettarsi per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuove contestazioni non trattate nella precedente fase di merito e non rilevabili d'ufficio (Cass. 23 magio 2002 n. 7543, in motivazione; Cass. 4 giugno 2001 n. 7321; Cass. 31 marzo 2000 n. 3028; Cass. 12 giugno 1999 n. 5809 19 maggio 1999 n. 4852).

5. Nel ricorso incidentale, la Rhone deduce violazione dell'art. 2909 c.c. e/o dell'art. 1362 c.c. e segg. con riferimento all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. La Corte di Appello, confermando sul punto la decisione di primo grado, ha escluso che la sentenza del 10.3.98 resa dal Giudice di Appello penale, passata in giudicato, potesse avere valenza nel giudizio civile di liquidazione del danno, in quanto le affermazioni effettuate dal Giudice penale in motivazione costituirebbero mero obiter, poichè sarebbe stata rimessa al Giudice civile l'integrale liquidazione del danno. Il Giudice della sentenza impugnata sarebbe incorso in errore, dato che l'individuazione della portata del giudicato, sia esso giudicato esterno od interno, andava effettuata con riferimento non soltanto al dispositivo della sentenza, ma anche alla motivazione, dalla quale emergeva quanto segue: "prima dell'odierna udienza la parte civile ha depositato una memoria, alla quale ha allegato una consulenza intesa a dimostrare il danno biologico subito iure proprio dalla madre e dal padre della sig. R.. A giudizio di questa Corte tale atto non è idoneo a fornire la prova della sussistenza delle predette voci di danno ed a quantificarle, sia perchè è una vai ut azione tecnica di parte, sia perchè fornisce indicazioni assai generiche in ordine alla quantificazione del danno psichico; solo una C. T. U. in sede civile può fornire una sicura prova della domanda"; "le parti civili hanno giù ottenuto dal coobbligato solidale il pagamento della somma complessiva di L. 550.000.000 il 7.11.96, come risulta dalla relativa quietanza agli atti. A giudizio di questa Corte, pur valutando la rilevanza dei danni subiti dalle parti civili (soprattutto dal figlio minore della Sig.ra R.), la somma non è inferiore ai danni fino ad ora provati che, pertanto, risultano già risarciti, anche se dal coobbligato" (...). Pertanto la Corte territoriale sarebbe incorsa in violazione delle norme in materia di efficacia ed interpretazione del giudicato esterno, costituito dalla citata sentenza, ritenendo che il Giudice Penale avesse rimesso a quello civile l'integrale liquidazione del danno; mentre lo stesso aveva dichiarato già integralmente risarciti, con il pagamento dell'ITAS, tutti i danni provati, con la sola eccezione di quelli, non adeguatamente dimostrati, relativi alla presunta sussistenza di danno biologico subito iure proprio dalla R.; la Corte sarebbe comunque incorsa in evidente e grave vizio logico di motivazione per non avere considerato che il Giudice Penale aveva inequivocabilmente affermato di non poter procedere alla liquidazione di solo una parte del danno, avendo invece implicitamente liquidato, dichiarandole integralmente soddisfatte, tutte le altre e proprio le altre voci di danno per le quali le controparti avevano invece inammissibilmente agito davanti al Giudice Civile nel presente giudizio. Il ciò a maggior ragione considerato che, avendo gli eredi R. a suo tempo trasferito l'azione civile in sede penale, tutte le statuizioni effettuate dal Giudice Penale riferite a tale azione avrebbero dovuto avere efficacia vincolante, essendo esse passate definitivamente in giudicato ed in virtù del fondamentale principio del ne bis in idem.

5.1. La censura è priva di pregio. Essa è ammissibile sotto il limitato profilo della violazione dell'art. 2909 c.c.. Infatti, in materia d'interpretazione del giudicato, le Sezioni Unite e poi le Sezioni semplici di questa Corte hanno enunciato i seguenti principi:

a) il giudice di legittimità deve accertare l'esistenza e la portata del giudicato con cognizione piena, che si estende anche al diretto riesame degli atti del processo ed alla diretta loro valutazione ed interpretazione mediante indagini ed accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dalla interpretazione data al riguardo dal giudice del merito: ciò in ragione della riconosciuta natura pubblicistica dell'interesse al rispetto del giudicato; della ritenuta indisponibilità per le parti dell'autorità di quest'ultimo; della ravvisata identità dell'operare dei due tipi di giudicato, interno ed esterno; e della inclusione delle correlative questioni nella sfera delle questioni di diritto piuttosto che in quella delle questioni di fatto; b) il giudicato non deve, infatti, essere incluso nel fatto e, pur non identificandosi nemmeno con gli elementi normativi astratti, è da assimilarsi, per la sua intrinseca natura e per gli effetti che produce, a tali elementi normativi; con la conseguenza che l'interpretazione del giudicato deve essere trattata piuttosto alla stregua dell'interpretazione delle norme che non alla stregua dell'interpretazione dei negozi e degli atti giuridici; c) costituendo, a sua volta, l'interpretazione del giudicato operata dal Giudice del merito non un apprezzamento di fatto ma, una quaestio iuris - la stessa è sindacabile, in sede di legittimità, non per il mero profilo del vizio di motivazione, ma nella più ampia ottica della violazione di legge; e gli eventuali errori di interpretazione del giudicato rilevano quali errori di diritto (Cass. n. 10537/2010, in motivazione; 21200/2009; Cass. sez. un. 24664/2007; 13916/2006; 226/2001). Ne deriva che non sono neanche prospettabili le censure relative alla violazione degli artt. 1362 ss., non essendo l'interpretazione del giudicato (più) riconducibile ai canoni ermeneutici contrattuali alla luce degli indicati principi, così come non è più prospettabile in relazione ad essa il vizio motivazionale.

Quanto all'indicata violazione dell'art. 2909 c.c., il motivo di ricorso incidentale ora in esame concerne, quindi, l'interpretazione di un giudicato esterno penale, interpretazione che può essere effettuata anche direttamente dalla Corte di Cassazione con cognizione piena, sempre però nei limiti in cui il giudicato sia riprodotto nel ricorso per cassazione, in forza del principio di specificità dei motivi (art. 366 c.p.c., n. 4): infatti, se è vero che la sentenza passata in giudicato costituisce la c.d. legge del caso concreto è anche vero che. al contrario degli atti normativi resi pubblici con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, atti che il giudice è tenuto a ricercare di ufficio (in applicazione del noto brocardo iura novit curia), il giudicato esterno deve essere prodotto dalla parte che intenda avvalersene e, qualora l'interpretazione che ne ha dato il giudice di merito sia ritenuta scorretta, il ricorso per cassazione deve riportare il testo del giudicato che assume male interpretato, motivazione e dispositivo, atteso che il solo dispositivo può non essere sufficiente alla comprensione del comando giudiziale (Cass. n. 10537/2010, in motivazione; 26627/2006). Il ricorrente incidentale - che ha riportato nel ricorso solo alcuni stralci della motivazione della sentenza penale di appello costituente l'asserito giudicato a sostegno dell'impugnativa - ha, peraltro, depositato copia autentica della cennata sentenza all'atto della iscrizione a ruolo del ricorso per cassazione, per cui questa Corte può esaminare la sentenza de qua nell'ambito degli atti processuali alla stregua dei principi sopra richiamati.

Nel procedere, pertanto, alla valutazione del giudicato esterno come dianzi richiamato dalla società controricorrente, dal diretto riesame degli atti relativi al predetto, si evince che la Corte territoriale ha affermato che all'intervenuto giudicato penale non era attribuibile anche una pronuncia definitiva di infondatezza della domanda "civile risarcitoria", perchè dalla lettura di quella sentenza emergeva che la Corte, in relazione all'impugnazione delle parti civili (contro l'omessa liquidazione in primo grado), riteneva di non poter provvedere anche sulla liquidazione dei danni, in quanto la determinazione quantitativa sarebbe stata possibile solo per alcune delle voci di danno, ma non, in particolare, sul danno biologico in tesi subito oltre proprio dai genitori della vittima, per il quale sarebbe stata necessaria una c.t.u.. Proprio in virtù di tale situazione probatoria, il giudice penale rimetteva le parti dinanzi a quello civile, per la liquidazione del danno ex art. 539 c.p.p., nè appariva possibile alla Corte penale liquidare solo le rimanenti voci di danno, in considerazione dell'unitarietà della costituzione di parte civile.

Dallo stesso tenore della sentenza penale emerge chiaramente che la domanda risarcitoria non è stata respinta, ma solo rinviata per la sua liquidazione alla sede civile. Proseguendo nell'iter argomentativo della sentenza penale, la Corte territoriale ha osservato che il rigetto della domanda risarcitoria delle parti civili, sul presupposto che la somma percepita dal coobbligato solidale non era inferiore ai danni fino ad allora provati, integrava un mero obiter dictum, inserito nello stretto contesto della statuizione relativa alla concessione o meno della provvisionale, senza alcuna possibilità di acquisire efficacia di giudicato sulla già valutata domanda risarcitoria rimessa in questa sede. Di conseguenza dalla diretta valutazione degli atti processuali l'interpretazione del giudicato costituito dalla sentenza penale di appello comporta che trova conferma l'interpretazione datane dalla Corte di appello di Milano, che nella sentenza impugnata, ha correttamente statuito che dai detto giudicato non era derivata alcuna decisione sulla liquidazione della domanda risarcitoria coltivata nel presente giudizio e che anche il silenzio del dispositivo penale di appello su tale domanda confermava questa ricostruzione.

6. Ne deriva il rigetto dei ricorsi riuniti, con compensazione delle spese del presente giudizio tra le parti costituite; nulla per le spese nei confronti degli altri intimati, che non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi riuniti. Compensa le spese.

autore: Ortolani Pietro