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Il senso della mediazione dei conflitti, a cura di Maria Martello

Verso una Giustizia fiduciaria.
Nel nostro ordinamento tutela del diritto è sinonimo di processo.
Se, come talora si ripete, il diritto è ciò che i giuristi dicono che sia, allora occorre cambiare innanzitutto la cultura dei giuristi, la loro visione di ciò che il diritto è o non è.
Siamo abituati a portare nelle aule del tribunale ogni conflitto sotto il travestimento della controversia giuridica, cioè di una vicenda che è già narrata con schemi giuridici e cerca una decisione secondo diritto.
Negli ultimi tempi, tuttavia, abbiamo visto un movimento che ha portato alla ribalta anche i fatti, dove si annidano i bisogni, le speranze, gli interessi di uomini e donne concrete.
Stefano Rodotà ha richiamato l'attenzione verso i diritti delle persone concrete in carne e ossa: “a noi spetta - diceva - la costruzione di un diritto costituzionale che ponga al centro i bisogni delle persone concrete”[1].
Quali strumenti, quali percorsi sono necessari affinché la nostra cultura giuridica possa, se non abbandonare del tutto, quantomeno problematizzare il suo codice genetico dato dal machiavellismo giuridico, cioè dall'idea che l'uomo non farà mai bene se non perchè vi è costretto?
È dalla formazione che sapremo inventare e coltivare che dipende principalmente la strada che potremo imboccare, anche perché si tratta di una formazione che dai giuristi discende direttamente sui cittadini, chiamati ad adottare una diversa mentalità fin dai primi momenti della loro formazione.
Nei settori delle scienze sociali economiche da tempo si parla di beni relazionali, mentre la scienza del diritto è sembrata meno adatta a farsi carico della centralità delle relazioni. Oggi però si discute di beni relazionali giuridici, beni comuni condivisi che nascono dalla relazione tra due o più soggetti e che non possono essere ottenuti altrimenti. Se il diritto è un fenomeno sociale, ecco che le relazioni sociali vi immettono la dimensione orizzontale che era occultata dalla visione statalistica e positivista, nella quale era valorizzata soltanto la dimensione verticistica, quella del comando dall'alto con minaccia della sanzione, la cui attuazione interrompe la relazione.
Il cambiamento più potente concerne il ruolo dell'avvocato, il quale, non più condottiero che irrompe nella battaglia giudiziaria, ricompone la sua identità sulla responsabilità sociale della sua professione.
Egli è chiamato ad assumere un ruolo poliedrico: in grado di orientare il cliente nell'individuazione del metodo migliore di risolvere il conflitto, in grado di assisterlo comunque: come consulente di parte nelle conciliazioni stragiudiziali o giudiziali e tramite la difesa del giudizio in sede contenziosa; fino a svolgere il ruolo di mediatore, un ruolo che esige una forte motivazione al cambiamento perché si tratta di adattarsi ad un contesto in cui le parti ritrovano la parola anziché delegarla, mentre la formazione forense è una formazione tipicamente agonistica, che presuppone la delega della parola da parte dei litiganti al difensore. La contesa giudiziaria, dove sembra collocarsi la massima vetta del significato sociale, è forse l'aspetto più passivo della sua attività; la sua abilità creativa dovrebbe invece essere volta a costruire un sistema di relazioni che possa funzionare tra le parti, che dia i risultati desiderati e di conseguenza non di adito a dispute. Insomma, un professionista della prevenzione che ascolta la persona, favorisce la sua autonomia, attraverso la propria autorità tecnica, capace di promuovere giustizia anche senza processo.

 

 

[1] Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 94

autore: Fossati Cesare