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Il diritto al parto in anonimato e la culla per la vita, di Michela Labriola

Labriola, il diritto al parto in anonimato Labriola, il diritto al parto in anonimato

Nel 2000, l’art. 30 del D.P.R. n. 396 (regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile), aveva previsto, in combinato disposto con l’art. 93 del d.lgs. 196/2003, (Codice della Privacy) e con l’art. 28, comma 7, della l. 184/83 (l'accesso alle informazioni sulla maternità), dopo anni di pressione sociale, che la dichiarazione di nascita dovesse rispettare l'eventuale volontà della madre di non essere nominata. Questa disciplina emancipava, tra le altre cose, dal senso di colpa con cui ciascuno doveva fare i conti quando la cronaca rimandava l’immagine di bambini finiti nei cassonetti dell’immondizia.

In passato si diceva, parlando di chi si presentava col nome di famiglia Esposito, che quell’infelice aveva, alle proprie origini, un abbandono alla nascita, perché discendente di un infante esposto davanti ad un convento.

Questo si raccontava, negli anni ’60, ai bambini favoriti dalla sorte di una genitorialità certa, quando il sentimento di misericordia verso i più sfortunati era l’afflato che impregnava di buone intenzioni l’educazione al pietismo che imponeva, alla società dell’immediato secondo dopoguerra, l’immagine di un neonato sventurato perché nato da una donna che aveva abdicato ai compiti materni.

Sentimento corroborato da uno stigma sull’inadeguatezza delle madri che compivano azioni “innaturali” ed in contrasto con la loro peculiare funzione: i figli sono delle madri.


continua

autore: Fossati Cesare