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Tacent, satis laudant?

autore: G. Savi

1. L’interrogativo dell’indagine di questo secondo appuntamento della rubrica Avvocatura e famiglia s’incentra sulla questione più severa del giurista dei tempi moderni.

Il Foro è come stretto d’assedio da un modernismo che sembra incontenibile e travolgente, rispetto al tradizionale dogmatismo positivo.

Qual è la regola giuridica che oggi si impone egualmente a tutti?

La norma scritta dall’organo legislativo sovrano nella rappresentanza popolare cui unicamente spetta la mediazione sociale, o quella che il ceto giurisdizionale ritiene di poter ricavare dai valori rinvenibili nell’ordinamento giuridico in relazione alla fattispecie data?

Da tempo circola la pretesa espressa da una dottrina, invero fortemente contrastata e della quale non sfugge il connotato ideologico, fatta subito propria da una parte della giurisprudenza, che possiamo sintetizzare secondo la dizione che sembra entrata nel gergo comune del cd. “giurista dei valori”.

L’Avvocatura si è sinora presentata timidamente a questo appuntamento, più che altro guidata dalla connaturata visione strumentale, in vista dell’esito di questa o quella controversia specifica, come tipicamente ricorre per un ceto professionale e, perciò stesso, stenta a trovare un minimo comune denominatore utile al dibattito apertosi, rispetto al singolare.

Ad ogni modo, le migliori energie del ceto forense hanno colto il severo dubbio: tacendo nell’elaborazione dell’imponente questione generale in parola finisce inevitabilmente per lodare l’altrui pensiero senza assumere una posizione propria come certamente gli compete?

Vi è che questa giustizia del caso concreto, ove il reale comando legislativo emerge direttamente nelle aule delle Corti, in particolare di quella di legittimità, ha come contaminato anche l’opera del legislatore; non solo l’appropriatezza linguistica sempre più malferma, ma emerge frustrata l’esigenza sociale fondamentale di chiarezza, linearità ed inequivocità dei significati; come se la scrittura del comando che si impone con quella forza erga omnes tenda a dimenticare la funzione stessa di un testo legislativo, che necessariamente deve realizzare nel concreto l’efficace eguaglianza tra i singoli, giocoforza conseguibile solo attraverso la predeterminazione delle regole di condotta.

Perciò il legislatore sembra chinato anch’esso all’indicazione di valori e generici principi, piuttosto che procedere secondo specifici dettami, espressi appunto con significato univoco.

Due esempi dell’oggi, su tutti, sembrano mettere in evidenza, persino clamorosa, questa riflessione.



2. La riforma del processo civile, particolarmente incisiva nello specifico settore, cd. Cartabia, di cui alla l. 20 novembre 2021 n. 206, delega attuata in particolare con il d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, dispone una peculiare dinamica di correlazione ed interferenza tra l’attività giurisdizionale di accertamento e repressione dei reati, con quella deputata alla soluzione delle controversie civili che incidono sui diritti della persona e di quelli che sorgono dalle relazioni familiari, nell’ipotesi che vengano “allegati fatti di violenza domestica o di genere”.

La parola chiave è quella di “coordinamento”, come a recuperare l’unità della giurisdizione che invece il c.p.p. del 1988 (artt. 2 e 3) aveva in sostanza definitivamente abbandonato rispetto all’opposto canone che caratterizzava l’ordinamento anteriore (1930).

Addentrandoci nell’aspetto più delicato, vi è che l’art. 1, comma 23°, lett. b), dell’evocata l. delega n. 206/2021, così si esprime: “nei procedimenti di cui alla lettera a), prevedere che in presenza di allegazioni di violenza domestica o di genere siano assicurate: su richiesta, adeguate misure di salvaguardia e protezione, avvalendosi delle misure di cui all’articolo 342-bis del codice civile; le necessarie modalità di coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti; l’abbreviazione dei termini processuali nonché specifiche disposizioni processuali e sostanziali per evitare la vittimizzazione secondaria”.

Le parole sono pietre e non sfuggono almeno queste dizioni: allegazioni di violenza domestica o di genere; assicurate su richiesta; salvaguardia e protezione; coordinamento con altre autorità giudiziarie, anche inquirenti; vittimizzazione secondaria. Concentrandoci qui sulla prima di queste dizioni, si coglie subito l’estrema difficoltà di dare un significato plausibile a

questa “allegazione”.

L’espressione si deve intendere come allegazione dialettica di un fatto fisicamente o moralmente “irriguardoso” che al tempo stesso incarna valore probatorio legale? E se così deve intendersi qual è la soglia di rilevanza, stante la natura delle relazioni familiari?

Il nostro codice di rito civile, non esprime in nessuna norma la dizione “allegazione”: è solo la dottrina processual-civilistica che ha introdotto questa dizione illustrativa per esprimere convenzionalmente quello che l’art. 163, n. 4, e simmetricamente l’art. 167, c.p.c., rettamente definiscono “esposizione dei fatti…, costituenti le ragioni della domanda…”, contenuto il cui difetto è sanzionato di nullità dall’art. 164, comma 4°, c.p.c.

In ognuno dei riti civili ad oggi noti l’“allegazione” di fatti e circostanze a fondamento della domanda, non prescinde mai dalla loro positiva dimostrazione probatoria.

Ma il canone è parimenti operante nel processo penale, ove la pretesa punitiva attinge la libertà del singolo, secondo il canone di “colpevolezza” acclarata al di là di ogni ragionevole dubbio.

Il quesito che sorge in ognuno è: cosa sta accadendo? E come può conciliarsi l’apparente contraddizione sistematica? Stridente sarebbe questa contraddizione se ci limitassimo ad una valutazione formale, che può paventarsi nei seguenti termini: il/la ricorrente ha esposto un fatto di violenza e ciò tanto basta per vincolare il giudice all’immediata concessione della misura di protezione od al riconoscimento di questo o

quel diritto soggettivo in ambito familiare!

Il “disagio dell’interprete”, per restare sull’eufemistico, però appare in tutta la sua inaccettabile rozzezza giuridica: secoli di storia che ci hanno condotto all’odierno “stato di diritto” letteralmente “sepolti”.

Per di più senza contrappesi di sorta, quali sarebbero, ad esempio, l’immediata celebrazione del processo penale, stante appunto la gravità dei beni della vita messi in pericolo ed i diritti inviolabili della persona umana, anche dei singoli sostanzialmente coinvolti, quali ad esempio i figli; oppure, la previsione di particolari sanzioni per l’ipotesi che l’allegazione venga poi a risultare infondata, strumentalizzata al conseguimento di un vantaggio personale o patrimoniale, od addirittura calunniosa.

Il principio immutato è però sempre quello della reciproca autonomia cognitiva e decisoria delle due giurisdizioni: tra il civile ed il penale è questo il criterio guida che si impone nei rispettivi processi, non il contrario!

D’altronde, a ben riflettere è proprio l’estemporanea espressione che abbiamo appena sopra colto (“coordinamento”), che lo conferma chiaramente.

Cosa ne possiamo trarre allora in concreto?

Posto che le due sedi giurisdizionali, salvo l’eccezione espressa nell’art. 3 c.p.p., non sono vincolate neppure dal “giudicato”, è solo sul piano probatorio che sembra poter operare la reciproca interferenza.

Utile può risultare la storia della norma, siccome sembra assumere un peso significativo per l’interprete, in uno alle relazioni illustrative, prima della Commissione Luiso, poi dei proponenti il maxi emendamento (prima firmataria la Sen. Valente).

In parole povere: la Commissione Luiso – rettamente – non si era “avventurata” per la strada che abbiamo appena ripercorso, in quanto pur facendo cenno alla considerazione dell’ipotesi di violenza (e non poteva essere altrimenti), non aveva in alcun modo previsto che la mera allegazione potesse incidere sul piano probatorio per l’adozione dei provvedimenti, neppure di quelli aventi ad oggetto la responsabilità genitoriale.

Si era limitata a rendere compatibile l’allegazione di violenza con le cautele processuali minime, in sostanziale sintonia con l’art. 48 della Convenzione di Istanbul, ratificata in Italia con l. 27 giugno 2013 n. 77 (1. divieto di mediazione in presenza di violenza domestica o di genere; 2. dovere di lealtà delle parti che sono tenute a fornire indicazioni anche in ordine ai procedimenti penali in cui una od entrambe o il minore sia persona offesa). La rilevanza dell’allegazione di violenza perciò esattamente considerata ma al tempo stesso rimanevano salve le garanzie

processuali riservate alle parti.

Cosa proponeva invece l’emendamento Valente ed altri? Oltre alla mera allegazione, si prevedeva addirittura la rilevanza di molto altro; questo il passaggio da tener presente: “prevedere l’obbligo per tutti i soggetti istituzionali che entrano in contatto con i minorenni di garantire che i diritti di affidamento e di visita siano assicurati tenendo conto delle violenze nei confronti delle donne e la violenza domestica, rientranti nel campo di applicazione della convenzione […] di Istanbul, […] allegate, denunciate, segnalate o riferite; l’obbligo di protezione del minore da qualsiasi forma di violenza, anche assistita che il giudice civile o minorile accerta, con urgenza, incidentalmente e senza formalità, ai fini dell’emissione di ogni provvedimento che li riguardi per evitare la vittimizzazione secondaria loro e del genitore che non ha esercitato violenza; la previsione che l’accertamento incidentale della violenza non sia delegabile da parte del giudice”.

L’emendamento, dal tenore così “esasperante”, è stato bocciato dall’Assemblea, il che assume un significativo valore per la ricostruzione dell’effettiva mens legis.

Come noto, la l. 19 luglio 2019 n. 69, cd. codice rosso, aveva introdotto, dopo l’articolo 64 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, il seguente articolo:



Art. 64-bis (Trasmissione obbligatoria di provvedimenti al giudice civile).

1. Ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della potestà genitoriale, copia delle ordinanze che applicano misure cautelari personali o ne dispongono la sostituzione o la revoca, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, del provvedimento con il quale è disposta l’archiviazione e della sentenza emessi nei confronti di una delle parti in relazione ai reati previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, nonché dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale è trasmessa senza ritardo al giudice civile procedente. Omissis.

Come si vede l’ordinamento positivo già prevedeva un certo “coordinamento” tra le due giurisdizioni, ma solo ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della potestà genitoriale (oggi, da leggersi come “responsabilità genitoriale”).

L’importante innovazione ce la indica lo stesso comma 23, lettera a): “tutti i procedimenti relativi allo stato delle persone, ai minorenni e alle famiglie di competenza del tribunale ordinario, del tribunale per i minorenni e del giudice tutelare…”.

Da eccezione a regola generale, ma non basta!

Come appena visto, l’anteriore “coordinamento” era tra organi giudicanti civili e penali, ora le interferenze sono ampliate al massimo grado, comprendendo anche l’organo inquirente, che è però una “parte” del processo penale (titolare della pretesa punitiva), in posizione di parità con la difesa.

Inoltre, la previsione ineriva precipuamente gli unici atti e provvedimenti che potevano “trasmigrare” sul tavolo del giudice civile, siccome dotati di un certo spessore obiettivo nell’iter di accertamento della responsabilità dell’imputato.

La preoccupante conseguenza concreta è allora che non assumono rilevanza soltanto le ordinanze di applicazione delle misure cautelari personali – o che ne dispongono la sostituzione o la revoca –, l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, il provvedimento con il quale è disposta l’archiviazione e la sentenza emessa nei confronti di una delle parti (atti che già presentavano più profili critici, non essendo ovviamente posti sullo stesso piano quanto al sotteso livello di accertamento del vero), ma ci si spinge addirittura a dare rilevanza a tutti gli atti di indagine preliminare che, come noto, non hanno alcun valore probatorio all’interno del processo penale, se non a certi fini od a determinate condizioni eccezionali di verifica in contraddittorio, nel dibattimento (si pensi alla querela, alle annotazioni di polizia giudiziaria, alle s.i.t., ecc.).

La prudenza del giurista, prima di trarre conclusioni affrettate, deve però porsi nell’ottica di verificare se esista una plausibile lettura dell’indicazione legislativa che non ci riporti ad un ordinamento così “arcaico”.

Un approccio costruttivo suggerisce allora, che quell’espressione può tranquillamente essere intesa come non idonea a prefigurare lo “scardinamento” del sistema giurisdizionale in tutte le sue articolazioni e sedi!

Semplificando massimamente, la soluzione si rinviene nella conclusione secondo cui l’allegazione, s’intende in sé e per sé considerata, può costituire sì elemento di prudente valutazione, ma non potrà mai prescindere dalla “prova” dei fatti esposti a fondamento della domanda.

Plurime le ragioni. Intanto, nessuno dubita che l’accertamento giudiziale pieno deve essere condotto autonomamente dal giudice civile. E, come noto, qualsivoglia cognizione piena non può scindersi dalla conferma probatoria dei fatti e delle circostanze. Si tratta dell’imprescindibile ed irrinunciabile postulato sovraordinato che oggi additiamo come giusto processo, ove è garantito il diritto al contraddittorio ed alla difesa, in condizione di parità, avanti ad un giudice terzo ed imparziale.

Una riflessione matura non può trascurare di confrontarsi con i cardini del processo penale, entrando di tutta evidenza le due distinte autorità giudiziarie (ma l’espressione è incomprensibilmente inesatta, trattandosi di autorità “giurisdizionali”), in reciproca frizione o, se si vuole, in una dinamica osmotica particolarmente complessa: il che null’altro significa che dobbiamo cercare di decifrare il più probabile significato di quella stessa originale dizione, “coordinamento”. Come appena sopra fugacemente cennato, il vigente c.p.p. abbandonò definitivamente la cd. unità della giurisdizione che caratterizzava l’ordinamento anteriore; difatti, all’art. 3, disegna l’autonomia della cognizione riservata al giudice penale, riconoscendo espressamente che solo “la sentenza irrevocabile del giudice civile che ha deciso una questione sullo stato di famiglia o di cittadinanza ha efficacia nel processo penale”; mentre, l’art. 2 di contro ci dice che “la decisione del giudice penale che risolve incidentalmente una questione civile, amministrativa o penale, non ha efficacia vincolante in nessun altro processo”.

Se allora trova conferma quella reciproca autonomia cogni- tiva e decisoria delle due giurisdizioni, un conto però è la repressione dei crimini e tutt’altro conto è l’accertamento dei diritti della persona e di quelli nascenti dalle relazioni di na- tura familiare in particolare.

Poniamo perciò un attimo l’attenzione su alcuni atti tipici raccolti dal p.m. nei fascicoli delle indagini preliminari, che il legislatore – più o meno consapevolmente – pone ora al centro dell’attenzione del giudice civile, poiché gli altri atti “decisori” sono frutto di attività maturata nel tempo: la denuncia-querela; l’annotazione di polizia giudiziaria o di servizio di p.s.; le sommarie informazioni testimoniali; i verbali di soccorso pubblico di polizia, sanitario, sociale, in genere; i referti, ecc.

Ci rendiamo così subito conto e concretamente da un lato della coeva importanza “civilistica” di tali attività; dall’altro, dell’esigenza di qualificare tali atti quanto al valore probatorio che andranno ad assumere.

Difficilmente potranno riconoscersi tout court come prove dirette, seppur atipiche, qualificabili oltre il peso indiziario, nell’imperituro lavorio di accertamento del vero, per distinguerlo appunto dall’insussistenza dei fatti esposti a sostegno della domanda.

Certo, al contempo emerge anche la preziosità delle attività investigative in parola, oggi esercitabili anche dal difensore, a pari titolo e valore di quelle di p.g., siccome possono anch’esse, allo stesso modo, confluire nella sede civile (affacciandosi così ancora una volta, per l’avvocato di settore, la necessità di curare il proprio sapere in spiccata funzione interdisciplinare). Per quanto estremamente concisa, la linearità di queste argomentazioni è già evidente, e costituisce ragione sufficiente a rendere manifesta l’esigenza che l’Avvocatura faccia sentire la

propria voce su queste severe difficoltà applicative.

Vediamo ora però come il legislatore delegato ha concretizzato il solco tracciato, attraverso il d.lgs. n. 149/2022.

Nel codice di rito civile, al libro II, dopo il titolo IV, è stato inserito il titolo IV bis (Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie).

Ebbene, all’interno di questo nuovo titolo, al suo Capo III (Disposizioni speciali), Sezione I (Della violenza domestica o di genere), questi i nuovi articoli che appaiono particolarmente significativi:



Art. 473-bis.40 (Ambito di applicazione).

Le disposizioni previste dalla presente sezione si applicano nei procedimenti in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere poste in essere da una parte nei confronti dell’altra o dei figli minori.



Art. 473-bis.41 (Forma della domanda)

Il ricorso indica, oltre a quanto previsto dagli articoli 473-bis.12 e 473-bis.13, gli eventuali procedimenti, definiti o pendenti, relativi agli abusi o alle violenze.

Al ricorso è allegata copia degli accertamenti svolti e dei verbali relativi all’assunzione di sommarie informazioni e di prove testimoniali, nonché dei provvedimenti relativi alle parti e al minore emessi dall’autorità giudiziaria o da altra pubblica autorità.



Art. 473-bis.42 (Procedimento)

Il giudice può abbreviare i termini fino alla metà, e compie tutte le attività previste dalla presente sezione anche d’ufficio e senza alcun ritardo. Al fine di accertare le condotte allegate, può disporre mezzi di prova anche al di fuori dei limiti di ammissibilità previsti dal codice civile, nel rispetto del contraddittorio e del diritto alla prova contraria.

Il giudice e i suoi ausiliari tutelano la sfera personale, la dignità e la personalità della vittima e ne garantiscono la sicurezza, anche evitando, se opportuno, la contemporanea presenza delle parti.

Quando nei confronti di una delle parti è stata pronunciata sentenza di condanna o di applicazione della pena, anche non definitiva, o provvedimento cautelare civile o penale ovvero penda procedimento penale in una fase successiva ai termini di cui all’articolo 415-bis del codice di procedura penale per abusi o violenze, il decreto di fissazione dell’udienza non contiene l’invito a rivolgersi ad un mediatore familiare.

Quando la vittima degli abusi o delle violenze allegate è inserita in collocazione protetta, il giudice, ove opportuno per la sua sicurezza, dispone la secretazione dell’indirizzo ove essa dimora.

Con il decreto di fissazione dell’udienza, il giudice chiede al pub- blico ministero e alle altre autorità competenti informazioni circa l’esistenza di eventuali procedimenti relativi agli abusi e alle violenze allegate, definiti o pendenti, e la trasmissione dei relativi atti non coperti dal segreto di cui all’articolo 329 del codice di procedura penale. Il pubblico ministero e le altre autorità competenti provvedono entro quindici giorni a quanto richiesto.

Le parti non sono tenute a comparire personalmente all’udienza di cui all’articolo 473-bis.21. Se compaiono, il giudice si astiene dal procedere al tentativo di conciliazione e dall’invitarle a rivolgersi ad un mediatore familiare. Può comunque invitare le parti a rivolgersi a un mediatore o tentare la conciliazione, se nel corso del giudizio ravvisa l’insussistenza delle condotte allegate.



Art. 473-bis.44 (Attività istruttoria)

Il giudice procede all’interrogatorio libero delle parti sui fatti allegati, avvalendosi se necessario di esperti o di altri ausiliari dotati di competenze specifiche in materia. Assume inoltre sommarie informazioni da persone informate dei fatti, può disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, e acquisisce atti e documenti presso gli uffici pubblici. Può anche acquisire rapporti d’intervento e relazioni di servizio redatti dalle forze dell’ordine, se non sono relativi ad attività d’indagine coperta da segreto.

Quando nomina un consulente tecnico d’ufficio, scelto tra quelli dotati di competenza in materia di violenza domestica e di genere, ovvero dispone indagini a cura dei servizi sociali, il giudice indica nel provvedimento la presenza di allegazioni di abusi o violenze, gli accertamenti da compiere e gli accorgimenti necessari a tutelare la vittima e i minori, anche evitando la contemporanea presenza delle parti.



Art. 473-bis.46 (Provvedimenti del giudice).

Quando all’esito dell’istruzione, anche sommaria, ravvisa la fondatezza delle allegazioni, il giudice adotta i provvedimenti più idonei a tutelare la vittima e il minore, tra cui quelli previsti dall’articolo 473- bis.70, e disciplina il diritto di visita individuando modalità idonee a non compromettere la loro sicurezza.

A tutela della vittima e del minore, il giudice può altresì disporre, con provvedimento motivato, l’intervento dei servizi sociali e del servizio sanitario.

Quando la vittima è inserita in collocazione protetta, il giudice può incaricare i servizi sociali del territorio per l’elaborazione di progetti finalizzati al suo reinserimento sociale e lavorativo.



Non occorre spendere tante parole per evidenziare l’impronta spiccatamente inquisitoria che questo nuovo processo assume.

Come a dire, l’attività dell’organo requirente in sede penale viene in buona sostanza affidata anche al giudice civile, che si avvale delle acquisizioni del primo, con efficacia probatoria tutt’altro che indiziaria, e con le parti in posizione potenzialmente privata di garanzie in ordine all’assunzione delle prove. Colpisce il discrimine tra la sussistenza o l’insussistenza dei fatti allegati, quale risultante di un vaglio sì sommario, che in parte assai rilevante dei casi, con l’allegazione che si staglia sul sottilissimo confine che corre tra l’antagonismo e le aspre rigidità della coppia in crisi e l’abuso o la violenza veri e pro- pri; fatti peraltro che in genere vengono prospettati solo in

coincidenza con la controversia civilistica.

Colpisce ancor più l’indeterminatezza delle condotte rilevanti. Come noto, i fatti illeciti aventi rilevanza penale, non possono validamente prefigurarsi in senso così indeterminato, bensì solo attraverso precetti che sanzionino condotte espressamente individuate.

L’uso così straordinariamente evanescente delle dizioni “abuso”, “violenza”, per di più nell’accezione “domestica o di genere”, è una realtà che mette gli artefici delle dinamiche processuali in difficoltà estrema, con incertezze e confusioni severe.

Che dire poi dell’importante rinuncia alla repressione dei crimini contro la persona ed in ambito familiare, sotto ognuno dei profili coinvolti, nella sua sede propria?

Nel rito penale è stato invece integrato e modificato l’art. 64- bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale:



Art. 64-bis (Comunicazioni e trasmissione di atti al giudice civile). Quando procede per reati commessi in danno del coniuge, del convivente o di persona legata da una relazione affettiva, anche ove cessata, e risulta la pendenza di procedimenti relativi alla separazione personale dei coniugi, allo scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, allo scioglimento dell’unione civile o alla responsabilità genitoriale, il pubblico ministero ne dà notizia senza ritardo al giudice che procede, salvo che gli atti siano coperti dal segreto di cui all’articolo 329 del codice di procedura penale. Allo stesso modo provvede quando procede per reati commessi in danno di minori dai genitori, da altri familiari o da persone comunque con loro conviventi, nonché dalla persona legata al genitore da una relazione affettiva, anche ove cessata, ed è pendente procedimento relativo alla responsabilità genitoriale, al suo esercizio e al mantenimento del minore.

1-bis. Nei casi di cui al comma 1, il pubblico ministero trasmette al giudice civile o al tribunale per i minorenni che procede copia delle ordinanze che applicano misure cautelari personali o ne dispongono la sostituzione o la revoca, nonché copia dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari e degli atti di indagine non coperti dal segreto di cui all’articolo 329 del codice. Allo stesso giudice è altresì trasmessa copia della sentenza che definisce il processo o del decreto di archiviazione, a cura della cancelleria.



Una sorta di simmetrico disegno, ma con similare senso di smarrimento confusivo, fatto evidente da quel procedere per qualsivoglia reato in danno del coniuge, del convivente, […], ma almeno di “reato” si tratta e non ad esempio di “abuso”.

Insomma, l’approssimazione legislativa non è solo un’impressione rispondente ad un qualche eccesso critico.

L’insidia si rinviene perciò in un diffuso senso di incertezza e proprio per coloro che invece sono chiamati istituzionalmente a dare ragionevoli certezze, cioè gli avvocati prima ed i giudici poi.

Le condotte umane deprecabili non sono soltanto quelle commissive, ma anche quelle omissive, non di rado assai più gravi.

Si licet, qualche ulteriore pensiero sociale, prima che giuridico, su questo silenzio omissivo.

Uno dei moniti argomentativi consegnatici dalla storia giuridica, recita, il loro silenzio è una eloquente affermazione (CICERONE), ma sembra già come inappropriato rispetto al rude contesto sopra evidenziato.

Seppur è anche vero che il silenzio è spesso la miglior risposta, quando è inutile sprecar parole poiché non servirebbe assolutamente a nulla, il ceto forense in particolare non può tacere ulteriormente su questi segni oggettivi di decadenza della nostra civiltà giuridica, non foss’altro che per quel fondamentale dovere che ne segna la responsabilità sociale, rimanendo fedeli alla positiva prospettiva che mai tutto è perduto! Di contro sembra essersi diffuso nei medesimi artefici delle dinamiche processuali di Giustizia un senso di sconforto, ancora una volta come “azzerati” nel loro sapere consolidato, frutto di anni di studio e sacrificio, tanto da dover come tornare allo studio sistematico del diritto processuale civile e della procedura penale, con l’esigenza reale e concreta di un “anno sabbatico” di preparazione e studio, altro che accelerazione e smaltimento dei ruoli; e cosa può accadere di più sconfortante rispetto alla

devastazione della sicurezza operativa acquisita?

In realtà, tra le voci che si sono levate non si annovera l’impegno delle rappresentanze istituzionali od associative; seppur in realtà sussistono e corrono critiche severe di singoli, ma come bisbigliate, con un certo pudore comunicativo pubblico: questa strana atmosfera che attanaglia il dibattito pubblico, presenta una similitudine con quel silenzio (quando il mondo che ci circonda percepisce il pericolo prima dell’homo sapiens, si azzittisce totalmente) che precede eventi “tellurici”. Auguriamoci allora che queste riflessioni finiscano in un archivio ideale, come divagazioni preoccupate ma infondate.



3. Veniamo ora alla seconda esemplificazione selezionata per queste riflessioni.

Come noto, corre in materia di diritto della persona umana, delle relazioni familiari e delle successioni un diffuso anelito “libertario”, attraverso la privatizzazione delle vicende relative alla sfera familiare, emergendo con sempre maggior evidenza nel tessuto sociale una fluidità dei vincoli personali e delle correlate obbligazioni.

Una visione del diritto di famiglia imponente, che impegna dottrina e giurisprudenza e non da oggi.

Questo anelito presuppone una capacità operativa concreta che sia in grado di trasporre in via pattizia le situazioni giuridiche contemplate ex lege, componendo e regolando validamente le comuni aspirazioni delle parti, nella singola fattispecie, anche in previsione dell’eventuale fallimento del rapporto affettivo istituito secondo uno degli odierni modelli di natura familiare.

Questa “contaminazione” tra lo strumento del contratto, per sua natura destinato alla regolamentazione dei rapporti patrimoniali, ed il negozio giuridico che origina dagli status od incide su questi, presenta difficoltà operative di non poco momento per il ceto forense e per i giudici.

Il quesito primo è proprio quello che inerisce la sussistenza o meno di una libertà dispositiva in ordine agli status.

Le sfumature però sono particolarmente complesse oltre che molteplici.

Un esempio tra gli ultimi possibili: quando la Corte costituzionale ha affermato che i genitori, fermo ovviamente lo status filiationis, possono imporre al figlio uno solo dei cognomi di cui sono portatori, a propria discrezione, oppure possono attribuire il loro diverso cognome o diversamente comporlo tra più fratelli o sorelle, attraverso il loro “accordo”, insindacabile da chicchessia, versava in piena consapevolezza che ciò incide sul diritto inviolabile del figlio alla propria identità che dovrebbe rispondere alla duplice individuazione della discendenza?

Eppure questo è un negozio giuridico che addirittura finisce per violare una posizione di diritto, di cui non sfugge neppure la rilevanza pubblicistica, inviolabile, di un terzo soggetto – il figlio – titolare di autonome prerogative giuridiche!

Sappiamo bene che l’Avvocatura è stata chiamata a svolgere un ruolo principe nella formulazione degli accordi di separazione e di divorzio, ovvero per le relative modificazioni e revisioni, assumendo la responsabilità di assistere le parti in negoziazione, di attestarne non solo l’autografia delle sottoscrizioni ed il rispetto delle norme di legalità procedimentali, bensì la conformità dell’accordo raggiunto alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Con il d.lgs. 10 ottobre 2022 n. 149, in attuazione della delega conferita dalla l. n. 206/2021, è stato esteso l’ambito di applicazione e le facoltà pattizie, ma anche introdotte nuove disposizioni in materia di “istruttoria stragiudiziale”, con la possibilità di acquisire in negoziazione dichiarazioni di terzi, dichiarazioni confessorie delle parti, atti potenzialmente utilizzabili a seguito del fallimento della negoziazione stessa, nel giudizio che dovesse essere instaurato successivamente.

L’incrocio delle problematiche qui non ineriscono soltanto al contenuto dell’accordo, bensì si sovrappongono al potenziale giudizio contenzioso, con assunzione di prove in ambito stragiudiziale di natura negoziale, che possono successivamente incidere ai fini del decidere.

Sempre l’Avvocatura è stata chiamata e rendersi garante del contratto di convivenza di cui all’art. 1, commi 50 e 51, l. 20 maggio 2016, n. 76, con il quale i conviventi di fatto possono disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune, a pena di nullità con atto scritto, formulato anche per scrittura privata, la cui sottoscrizione può essere autenticata da un avvocato, che anche qui ne attesta la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.

Al successivo comma 53, però l’oggetto tipico di questo pattizio è estremamente limitato, lasciando tutti gli artefici di tali dinamiche nell’incertezza severa sui limiti di questa impor- tante negozialità in ambito familiare.

Di contro, la nostra Corte di legittimità, prosegue senza incrinature nel proprio orientamento secondo cui è affetta da nullità ogni pattuizione negoziale formulata in vista del divorzio, siccome confliggente con l’art. 160 c.c., ovvero che travalichi la facoltà di cui all’art. 144 c.c.

Il sistema complessivo che ne deriva appare decisamente contraddittorio e comunque confuso, incerto, in sostanza di ardua praticabilità.

Eppure il ceto forense, come le strutture giurisdizionali, stentano a levare la propria voce, non foss’altro che al fine di agevolare l’attuazione di funzioni di per sé già connaturate secondo un alto tasso di problematicità attuativa.

Sono solo esempi della straordinaria difficoltà che oggi l’Av- vocatura affronta, invero senza tregua da anni.



4. L’auspicio di Giustizia conclusivo è allora tutto racchiuso nel titolo di queste riflessioni, destinate a sollevare un preci- puo e più ampio dibattito.



Tacere, come ogni omissione, anche rispetto soltanto ad un dovere di rettitudine deontologica, comporta una responsabilità sociale.

L’equivoco di un plauso implicito, indicatoci nel monito dei padri che qui abbiamo evocato, non può più attendere e va sciolto: l’Avvocatura in primo luogo non può più mancare a questo appuntamento, non foss’altro che come segno di rispetto anche verso sé stessa.