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Gli stereotipi ed il linguaggio di genere

autore: F. D'ambrogio

SOMMRIO: 1. Considerazioni introduttive. - 2. L’influenza degli stereotipi nelle decisioni giudiziali: la sentenza CEDU 27 maggio 2021. - 3. L’azione del diritto nella realtà sociale: la portata innovativa della sent. C.C. n. 131/2022 sull’attribuzione del cognome e dell’ordinanza del Tribunale di Roma 9 settembre 2022. - 4. L’uso del linguaggio di genere per la lotta agli stereotipi.



1. Considerazioni introduttive





L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modifi- cazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta… così si esprimeva Alma Sabatini nel suo saggio Il sessismo nella lingua italiana del 1986. Perché le parole hanno un peso e fanno le differenze.

Purtroppo, a distanza di circa quaranta anni dalle raccomandazioni tese all’utilizzo di un corretto linguaggio che tenga conto della rappresentazione di entrambi i generi, persiste ancora un divario molto marcato, che genera un buco nero nel quale si consumano le più svariate forme di violenza, in danno delle donne.

Con il presente lavoro si intende analizzare l’attitudine del linguaggio di caratterizzare la dimensione della realtà e l’incidenza discriminante delle forme stereotipate nella rappresentazione della relazione tra i generi nella società civile e nel processo.

Risulta infatti fondamentale porre l’accento sull’aspetto comunicativo, che disegna i termini entro cui si costruisce la relazionalità intersoggettiva ed influenza le decisioni, anche quelle rese in sede giudiziaria, se intriso di stereotipi e luoghi comuni.

Nel campo della relazione tra i generi, infatti, il ricorso a stereotipizzazioni e luoghi comuni è massiccio e pervasivo e l’ovvietà delle consuetudini agevola il loro perdurare e li rende difficilmente sormontabili1.

Gli stereotipi, in particolare, sono indicati quali immaginari collettivi che influenzano la percezione di ciò che vediamo cancellandone od oscurandone parti essenziali, ed è proprio negli stereotipi che si annida il seme della violenza. È dalla relazione disuguale, infatti, che scaturiscono gli stereotipi e i pregiudizi che permeano la rappresentazione sociale della violenza di genere producendo una narrazione distorta che tende ad esporre la donna, rendendola vittima tre volte: 1) della violenza subìta (vittimizzazione primaria); 2) della rappresentazione colpevole che di lei dà la stampa e non di rado l’ambito giudiziario (vittimizzazione secondaria) 3) di una giustizia che troppo spesso viene depotenziata proprio da questa narrazione distorta (vittimizzazione terziaria).

Non v’è dubbio che l’influenza degli stereotipi entro la rappresentazione dei generi sia, infatti, dirompente: espressione di una cultura manifestamente patriarcale, essi intervengono nella realtà sostenendo un ordine gerarchico che colloca le donne – pressoché in ogni tempo e spazio – in una condizione di subalternità rispetto all’uomo.

In questo contesto di supina assuefazione, il diritto riveste un ruolo fondamentale.

Le leggi, invero, sono cruciali ma da sole non bastano ad incardinare solidamente i diritti nel presente e ancor meno nel futuro. Occorre un mutamento culturale, una prassi che si faccia consuetudine, ed il diritto può contribuire a quell’adeguamento della rappresentazione linguistica all’identità, non solo dal punto di vista normativo, ma anche sensibilizzando la collettività su certi temi, e soprattutto orientandone la reinterpretazione2.

Come è stato messo in evidenza, infatti, sono moltissimi i passaggi verso l’uguaglianza e l’autodeterminazione femminile che il diritto ha sancito, sostenuto e talvolta anche anticipato, facendo scelte coraggiose tra opzioni politico-sociali conflittuali3.



2. L’influenza degli stereotipi nelle decisioni giudiziali: la sentenza CEDU 27 maggio 2021





Quanto influiscono gli stereotipi nelle decisioni giudiziali? Prendiamo ad esempio la sentenza della Corte di Appello di

Firenze del 4 marzo 2015, depositata il 3 giugno 2015 resa in un procedimento per violenza sessuale di gruppo, avvenuto nel 2008 presso la Fortezza da Basso ai danni di una giovane donna. Ebbene, la Corte di appello aveva assolto i sette imputati del procedimento per stupro, ribaltando la condanna disposta in primo grado per sei di loro. La vittima era ricorsa alla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, contestando non tanto la pronuncia di assoluzione quanto il contenuto della sentenza, ed in particolare l’ingiustificato rilievo dato dalla Corte fiorentina alle sue abitudini di vita, sminuendone con ciò la credibilità e minimizzando la violenza subita. Sta di fatto, invero, che, circostanze quali l’orientamento sessuale della giovane, la sua condizione familiare, le scelte di abbigliamento o le attività artistiche e culturali svolte, erano state analiticamente vagliate dalla Corte d’appello e ritenute determinanti ai fini dell’assoluzione. Nella specie, i giudici avevano concluso che la denuncia e il successivo procedimento penale avrebbero rappresentato la risposta della ragazza ad un discutibile momento di debolezza e di fragilità che una vita non lineare come la sua avrebbe voluto censurare e rimuovere. Non di stupro si sarebbe, dunque, trattato, ma di un mero “rapporto mal interpretato”, per cui la vicenda, per quanto incresciosa e non encomiabile per nessuno, non avrebbe assunto rilevanza penale. Su ricorso della giovane donna, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la decisione del 27 maggio 2021, nella causa

J.L. c. Italia4 ha condannato l’Italia per violazione dell’articolo 8 della Convenzione EDU che contempla il diritto alla vita privata e all’integrità personale. In particolare, la Corte europea ha rilevato che nel procedimento penale non sono stati adeguatamente tutelati i diritti della presunta vittima di violenza, esposta a vittimizzazione secondaria dalla stessa Corte d’appello di Firenze che, nel pronunciare sentenza di assoluzione, ha formulato osservazioni sulla bisessualità della presunta vittima e ricordato i rapporti sessuali affettivi e occasionali del ricorrente prima dei fatti.

La Corte di Strasburgo ha così ritenuto che il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla Corte italiana configurano pregiudizi sul ruolo delle donne esistenti nella società italiana che rischiano di ostacolare la protezione efficace dei diritti delle vittime della violenza di genere, nonostante un quadro legislativo soddisfacente. Sempre secondo la Corte Europea, procedimenti e sanzioni penali svolgono un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta a questo tipo di disuguaglianza, ed è quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle proprie decisioni, esponendo le donne ad una vittimizzazione secondaria mediante l’uso di commenti colpevoli e moralizzanti che possono scoraggiarne la fiducia nella giustizia.

La sentenza della Corte di appello di Firenze costituisce, dunque, uno degli esempi di come, senza soluzione di continuità, questa modalità disprezzante si sia propagata sino ai giorni nostri, e soprattutto nel nostro Paese, ed evidenzia come i luoghi comuni e gli stereotipi operino come vere e proprie categorie valutative capaci di produrre conseguenze rilevanti nel mondo reale delle relazioni.

Sebbene il cammino sia ancora in salita, la pronuncia della Corte Europea rappresenta un piccolo ma importante passo avanti, ribadendo la necessità di una formazione specifica degli operatori giudiziari, atta a prevenire visioni stereotipate, anacronistiche e sessiste e fenomeni di vittimizzazione secondaria.



3. L’azione del diritto nella realtà sociale: la portata innovativa della sent. C.C. n. 131/2022 sull’attribuzione del cognome e dell’ordinanza n. del Tribunale di Roma





Il diritto, come innanzi anticipato, svolge, nell’ambito della società in cui viviamo, un’azione prescrittiva5, oltre che costitutiva, trasformativa e rivelativa6in quanto il diritto racconta la nostra identità.

Prendiamo il caso della decisione assunta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 131/2022 sulla illegittimità della norma di attribuzione del cognome: una decisione definita storica, che ha avuto il pregio di allineare la legge al dettato di cui all’art. 29 Cost. che sancisce il principio di parità nei rapporti familiari, di fatto mai compiutamente realizzato.

La sentenza in oggetto si pone contro l’automatismo dell’attribuzione del cognome paterno, che, seppur in mancanza di una espressa previsione nel corpus delle leggi del nostro ordinamento, costituisce “norma implicita di sistema”, cioè desunta dal combinato disposto delle diverse disposizioni in materia, presenti nell’ordinamento, che identificano un principio conforme all’uso7 La Corte mette in evidenza che l’uso del patronimico richiama la concezione di famiglia di cui all’art. 144 del codice civile ante riforma del 1975, che ricalcava i termini dell’art. 131 del codice civile del Regno d’Italia, del 18658: una concezione definita “antistorica”9 che trova la sua ragion d’essere nel retaggio culturale di una rappresentazione patriarcale della società che affonda le proprie radici in una potestà maritale desueta e non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna10, eppure in grado di costituire una sorta di modello culturale resistente nel tempo.

È evidente, dunque, come la sentenza in oggetto abbia avuto una portata non solo innovativa ma addirittura esplosiva e coerente agli argomenti qui trattati sia in termini di affermazione della pari dignità tra uomo e donna, sia sotto il profilo identitario che sottende all’intero costrutto della sentenza. Per affermarsi, costruirsi, ogni individuo necessita infatti di indentificarsi non in “un” cognome, ma in “quel” cognome11 specifico, in grado di raccontare la propria origine, la propria appartenenza, e che viene a costituire quindi un aspetto rilevante della propria essenza. Il cognome infatti – “autonomo segno distintivo della identità personale” – collega l’individuo alla formazione sociale che lo accoglie tramite lo status filiationis sicché assumono rilievo le modalità con le quali esso viene attribuito, che non possono essere parziali nella formazione di quella identità.

Le medesime conclusioni possono essere tratte dalla recente ordinanza del Tribunale di Roma del 9 settembre 2022 con la quale il giudice era chiamato a pronunciarsi sull’esistenza (o no) di un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina (l’una per esserne anche madre naturale, l’altra per averla adottata) a vedersi identificate, nella carta d’identità della figlia, in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere, o comunque in termini neutri; e del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due “madri”, o comunque di due “genitori”.

La decisione scaturiva dalla domanda, di due donne che hanno congiuntamente richiesto agli uffici di Roma Capitale l’emissione di una carta d’identità elettronica (CIE), valida per l’espatrio, a nome della figlia minore, con l’indicazione dei proprî nominativi con la qualifica di “madre” e “madre” o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di “genitore” per entrambe. Con comunicazione in pari data, i suddetti uffici di Roma Capitale avevano evidenziato l’impossibilità di accogliere la richiesta in ragione delle specifiche tecniche del programma informatico di emissione della CIE che, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro dell’interno del 31 gennaio 2019, prevedeva esclusivamente la dicitura “padre” e “madre” per la compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.

Con l’ordinanza in oggetto, il giudice ha ritenuto, sul presupposto secondo cui nel corpus delle leggi del nostro ordinamento non vi è alcuna norma che impone l’indicazione di padre e madre sulla carta di identità, che un’indicazione con un termine che indichi un ruolo sociale e parentale incongruo rispetto all’identità sessuale e di genere di una delle due genitrici costituirebbe un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare vietata dall’art. 8 CEDU, integrando, peraltro il reato di falso ideologico. Identica violazione ha ritenuto riscontrarsi anche nei confronti della minore la quale ha un analogo diritto, ai sensi dell’art. 8 CEDU, a vedere correttamente rappresentata, sul documento di riconoscimento, la propria condizione di figlia di due madri. Secondo il giudice, l’identità familiare è infatti parte integrante dell’identità personale dell’individuo, e il riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione, in ipotesi attuato con formulazioni lessicali difformi dalla realtà dei rapporti familiari e non coerenti con l’identità sessuale e di genere dei due genitori, finirebbe col produrre il paradossale effetto di pregiudicare, anziché di tutelare, il diritto all’identità del minore nella specifica forma dell’identità relazionale intra-familiare e dell’identificazione delle sue radici12.

Il valore riconosciuto, al cognome nella sentenza c.c. n. 131/2022, ed alla esatta indicazione del ruolo rivestito dalle due mamme nell’ordinanza del Tribunale di Roma, e la rilevanza che essi occupano rispetto alla definizione e costruzione identitaria, consentono di cogliere un aspetto ulteriore, secondario rispetto all’operatività delle due decisioni, ma fondamentale invece nella prospettiva assunta in questo lavoro incentrato sul linguaggio. A margine di questi provvedimenti, è facile comprendere quale sia la capacità delle parole di disegnare lo spazio di senso in cui si realizzano le relazioni, la personalità e l’agire. Le parole disvelano rappresentazioni che possono essere inclusivi o escludenti. Non è mai attività residuale, allora, occuparsi del linguaggio, sorvegliarne le sfumature semantiche, considerarne la capacità trasformativa della realtà; l’attenzione per le parole si rivela essere, piuttosto, la via maestra per poter volgere questa stessa realtà nella direzione più conforme al diritto e alla giustizia.



4. L’uso del linguaggio di genere per la lotta agli stereotipi





Il linguaggio ha la capacità, non solo di creare relazioni e di riflettere la società, ma costituisce una delle vie primarie per la costruzione sociale della realtà, producendo una visione della realtà stessa. Esso è intriso di valori ideologici capaci di costruirci come soggetti e di identificare l’ordine delle relazioni che intratteniamo13 secondo precise gerarchie, entro le quali rientra anche la rappresentazione dei generi. Attraverso il linguaggio, insomma, si disegnano le relazioni di potere sulle quali, e tramite le quali, si sono edificate le nostre società e che marcano, ancora oggi, una netta prevalenza del genere maschile rispetto al femminile, relegato ancora ad una posizione di subalternità.

Il carattere androcentrico del linguaggio è particolarmente evidente nella persistente declinazione al maschile, attraverso cui si è tacitamente realizzata, nel tempo, la cancellazione, ovvero, il nascondimento del femminile. Le dissimmetrie linguistiche – grammaticali e semantiche – sono massicciamente presenti nel linguaggio14, tant’è che la nostra lingua e i nostri dialetti sono pieni di parole, di modi di dire e di stereotipi, che si sono saldati nel corso dei secoli15 cosicché l’uomo ha sempre rappresentato il solo soggetto possibile del discorso, l’unico soggetto possibile16.

Purtroppo, ancora oggi si tende ad escludere dalle priorità le rivendicazioni per un linguaggio non sessuato nell’ordine della realizzazione della parità fra i generi, dimenticando però che l’invisibilità linguistica, determinata dall’uso distratto e reiterato del linguaggio sessuato, diviene un potente strumento di preclusione in ogni ambito e in qualunque contesto di relazione; il linguaggio così attesta il diverso trattamento riservato alle aspettative degli uomini e delle donne17.

Ecco, allora, come il linguaggio può generare, e, di fatto, ha generato discriminazioni, attraverso la disposizione delle differenze tra i generi, esistenti ed ineliminabili, secondo una gerarchia valoriale escludente, piuttosto che riconoscere nelle peculiarità individuali elementi di ricchezza nel confronto relazionale. Ed ecco come sia importante, a parere di chi scrive, l’uso del linguaggio di genere nella lotta agli stereotipi e ai luoghi comuni, e per contribuire a rendere visibile ciò che sinora si è tentato di rendere invisibile.



















NOTE

1 M. BORRELLO, Non arrendersi all’ovvio, in Rivista telematica (https://statoe- chiese.it), 2022, 15, 22.

2 T. CASAdEI, Diritto e (dis)parità. Dalla discriminazione di genere alla democrazia paritaria, Roma, 2017.

3 A. FACChI, O. GIOLO, Libera scelta e libera condizione. Un punto di vista femmi- nista su libertà e diritto, Bologna, 2020, 85.

4 COUR EUROPèENNE dES dROITS dE L’hOMME, PREMIèRE SECTION, Affaire J.L. c. ITALIE, Requête n. 5671/16.

5 V. FROSINI, La struttura del diritto, Milano, 1962.

6 L. FERRAJOLI, Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol. I, Teoria del diritto, Roma-Bari, 2007.

7 Corte Cost n. 286/2016, secondo cui: “Non vi è ragione di dubitare dell’at- tuale vigenza e forza imperativa della norma in base alla quale il cognome del padre si estende ipso iure al figlio. Sebbene essa non abbia trovato corpo in una disposizione espressa, essa è presupposta e desumibile dalle disposizioni, regolatrici di fattispecie diverse […] e la sua perdurante immanenza nel sistema, come traduzione in regola dello Stato di un’usanza consolidata nel tempo, è stata già riconosciuta sia dalla giurisprudenza costituzionale, sia dalla giurisprudenza di legittimità”.

8 Art. 131 del codice civile del Regno d’Italia, del 1865 secondo cui: “il ma- rito è capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la residenza”.

9 Corte Cost. sent. n. 16093/2006.

10 In giurisprudenza si rintracciano diverse pronunce: la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 2014, nel caso Cusan e Fazzo vs Italia, in cui si rileva come il riconoscimento del cognome materno costituisca un aspetto rilevante per l’identità della persona e pertanto rientri nella tutela dei diritti fon- damentali (artt. 8 e 14 CEDU); e la sentenza n. 286 del 2016 della Corte costi- tuzionale, che ha dichiarato l’illegittimità della norma – desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 c.c. e degli artt. 33 e 34 del p.r. n. 396 del 2000 – nella misura in cui non consente ai coniugi, pur in comune accordo, di assegnare anche il cognome della madre.

11 M. TRIMARChI, Diritto all’identità e cognome della famiglia, in Jus Civile, 2013, I, 36.

12 Ordinanza Tribunale di Roma, 9 settembre 2022, rg. n. 39385/2021.

13 M. FOUCOULT, La volontà di sapere: storia della sessualità, Milano, 1978.

14 R. LAKOFF, Language and women’s place, in Language and Society, 1973, 2, 1, 57.

15 F. FALOPPA, Parole contro: la rappresentazione del diverso nella lingua italiana e nei dialetti, Milano, 2004

16 M. BORRELLO, Non arrendersi all’ovvio, in Rivista telematica (https://statoe- chiese.it), 2022, 15, 32.

17 R. LAKOFF, Language and women’s place, in Language and Society, 1973, 2, 1, 62.