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Linguaggio e pregiudizio nel processo

autore: V. Ricchezza

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. La lingua nel processo e lo stereotipo. - 3. Lo stereotipo ed il/la giudice del lavoro: casistica. - 4. Conclusioni.



1. Premessa



In un’epoca storica in cui i temi dell’intelligenza artificiale, la

giustizia predittiva, l’informatizzazione dei sistemi giudiziari sono al centro del dibattito e sono impiegati anche nelle sedi istituzionali come viatico per la soluzione dei tanti problemi della giustizia, primo tra tutti quello della durata dei processi, interrogarsi sui temi della lingua e del pregiudizio nel processo potrebbe apparire allo spettatore superficiale un viaggio nel tempo, anacronistico, ma gli operatori del diritto più avveduti, uomini e donne, ben sanno che per rendere giustizia, per ius dicere, è necessario preservare la dimensione antropologica anche in presenza di quella algoritmica.

Il processo, scandito dalle sue regole e dai suoi tempi, per essere giusto deve essere frutto di uno sforzo collettivo di tutte le parti e studi recenti di derivazione statunitense hanno dimostrato come l’empatia giudiziaria1 (dapprima bandita perché espressione di non neutralità nella decisione, che deve essere rigorosa applicazione della sola logica) debba, viceversa, essere esercitata proprio a garanzia della imparzialità e, quindi, dell’attuazione del modello costituzionale della figura del magistrato. In questa scena lingua e ascolto occupano un ruolo centrale. La lingua di chi pone all’attenzione del giudicante i fatti, la lingua di chi interrogato quei fatti descrive e la lingua di chi, con i provvedimenti, è chiamato a dirimere la contesa.

Mi occuperò nel corso della declinazione della lingua e del pregiudizio nel processo, con l’incompetenza linguistica che caratterizza molti giuristi, esclusivamente del pregiudizio collegato al genere.

Il processo costituisce il luogo fisiologico di attuazione del diritto e della giurisdizione, del resto l’etimo di giurisdizione

– iuris dictio – è appunto fondato sulla comunicazione. Il processo è anche viatico della comunicazione giuridica attraverso i provvedimenti giudiziari resi dai magistrati e dalle magistrate: le sentenze.

Il tema della lingua nel processo può essere declinato in due dimensioni, così come recenti studi di linguistica confermano. È possibile compiere un’analisi della lingua di genere ed esaminare i testi prodotti dalle donne e chiedersi se in una società costruita, sino al superamento formale del patriarcato, sulla figura maschile i tempi siano maturi per una declinazione della lingua al femminile. Analisi quest’ultima che è opportuno affidare alle linguiste e ai linguisti2.

L’altra analisi che potrebbe essere compiuta è quella della lingua sul genere ovvero quali espressioni utilizzano magistrate e magistrati quando l’oggetto della comunicazione sono le donne o quando si parla o si scrive sulle donne, alle donne o per le donne3.

L’analisi diacronica della giurisprudenza di merito e di legittimità dei giudici e delle giudici del lavoro condotta senza pretese di esaustività deve, necessariamente, partire da una serie di considerazioni preliminari e metodologiche.

La lingua, anche quella impiegata nei provvedimenti giudiziari che astrattamente potrebbe considerarsi neutra perché applicativa di quella logica a cui innanzi facevamo riferimento, non lo è. Essa ha uno straordinario potenziale perché non descrive solo la realtà, esprimendo la visione del mondo di chi parla o scrive ma, nei luoghi istituzionali, come le aule giudiziarie, ha carattere performativo cioè crea un’azione, un modello comportamentale, produce la realtà. Del resto da tempo si registra la tendenza ad attribuire alla giustizia cosiddetta “materiale” carattere sinanche prevalente in materia di diritti fondamentali rispetto ai comandi delle leggi in senso formale. Questo dato riflette il ruolo sociale del giudice ma, al tempo stesso, impone, attraverso l’obbligo motivazionale, un controllo dello stesso.

Il giudice, mutuando le parole di Piero Calamandrei, costituisce il custode attivo della costituzione e si esprime attraverso la motivazione dei provvedimenti, obbligatoria in tutti i casi, così come impone l’articolo 111 comma sesto della Carta fondamentale. L’obbligo motivazionale è posto, quindi, a presidio della imparzialità e della indipendenza dei giudici, la motivazione deve descrivere l’iter argomentativo seguito dal giudice per poter giungere alla decisione ed il linguaggio che il giudice deve impiegare nel percorso argomentativo, proprio in attuazione di tali principi, deve quindi essere chiaro e sobrio.



2. La lingua nel processo e lo stereotipo



Il linguaggio, proprio perché espressione di una visione del mondo, è il maggiore veicolo per la diffusione degli stereotipi perché quando parliamo tendiamo a riprodurre gli automatismi presenti nella nostra mente ergo gli stereotipi, di qui la diade di questo dibattito linguaggio e pregiudizio, che costituisce il comportamento/atteggiamento derivante dal nucleo intellettuale dello stereotipo.

Il linguaggio giuridico, spesso, non si sottrae alla riproduzione degli stereotipi anzi ne determina la perpetuazione perché la motivazione per essere considerata “giusta” deve essere coerente con il contesto culturale di riferimento4.

Proprio recentemente, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo (caso J.L. contro Italia, 21 maggio 2021) che ha rilevato come la sentenza assolutoria della Corte di appello di Firenze, pronunciata a favore di un gruppo di ragazzi imputati del reato di violenza sessuale di gruppo, nel ribaltare l’esito del giudizio di primo grado, abbia fatto ricorso, nella motivazione, ad affermazioni colpevolizzanti, moralizzanti e stereotipate determinando una vittimizzazione secondaria della persona offesa con conseguente violazione dell’articolo 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo. In quell’occasione, la Corte europea ha sottolineato che i giudici hanno facoltà di esprimersi liberamente nelle proprie decisioni, la manifestazione del loro potere discrezionale e della loro indipendenza deve, tuttavia, cedere il passo al rispetto dell’immagine e della riservatezza delle parti, specie quando non ricorrano stringenti necessità relative all’accertamento dei fatti. È stato, peraltro, ricordato il parere n. 11 del 2008 del Consiglio consultivo dei giudici europei relativo alla qualità delle decisioni giudiziarie laddove stabilisce che la motivazione di una decisione giudiziaria deve essere priva di qualsiasi apprezzamento offensivo o poco lusinghiero della persona proposta a giustizia5.

Del resto la necessità della costruzione di un linguaggio giuridico che sia scevro da stereotipi di genere è stata affermata anche nella relazione sul programma di gestione per l’anno 2021 redatta dal Primo Presidente della Corte di Cassazione che, in un passaggio, dichiara apertamente di far proprio il contributo del Comitato per le pari opportunità della Corte di Cassazione ritenendo “non più procrastinabile l’approfondimento sulla costruzione del ragionamento giuridico, sulle categorie da esso utilizzate, sul linguaggio, sulla loro ‘permeabilità’ ai cambiamenti e alle nuove sensibilità maturate nella società con riferimento al tema del pregiudizio di genere e di ogni forma di discriminazione”6.

Si parla, spesso, di vittimizzazione secondaria e si pensa ad un linguaggio giudiziario espressione di formule stereotipate esclusivamente in ambito penale ovvero nel diritto di famiglia ma anche in altri settori del diritto questo tema non può e non deve essere trascurato.



3. Lo stereotipo ed il/la giudice del lavoro: casistica





Nell’ambito giuslavoristico, a fronte di una normativa che ha, a partire dagli anni ’90, recepito le sollecitazioni del legislatore comunitario, attuando un impianto di tutele contro qualsivoglia forma di discriminazione, tra cui anche quella legata al fattore genere, si registra scarsa consapevolezza da parte degli stessi operatori del diritto di tali questioni, con la conseguenza che, anche in tale settore, si riscontra l’impiego di formule stereotipate e di sessismo linguistico.

Del resto è stato il mondo del lavoro che in una dimensione sia sociologica che giuridica ha costituito, nel corso di questi decenni, un campo importante per l’affermazione della parità di genere.

Considerando, infatti, la dimensione sociologica, non può disconoscersi il dato secondo cui in una società androcentrica, dove il lavoro costituisce la roccaforte maschile mentre la casa quella femminile, l’affermazione dell’emancipazione femminile attraverso il lavoro e l’indipendenza economica, ha costituito un grimaldello per il raggiungimento della parità di genere, sicuramente piena attualmente dal punto di vista formale7.

Dall’altro va registrata, proprio nell’ambito della disciplina giuslavoristica, sia comunitaria che interna, la progressiva affermazione del diritto antidiscriminatorio (dove tra i fattori di discriminazione vi è, appunto, il genere) con forme di tutela rafforzate per la “vittima” attraverso azioni sia individuali che non, agevolazioni del riparto degli oneri probatori e riti dedicati.

L’evoluzione normativa avutasi su questi temi parte da una matrice che, sia pure sinteticamente ed atecnicamente, deve essere investigata onde poter stabilire se, effettivamente, l’interprete ne sia o ne possa essere condizionato. La categoria cui mi riferisco è lo stereotipo.

Lo stereotipo termine che deriva dal greco “stereos” = solido e “tipos” = modello è una rappresentazione mentale che collega determinate categorie sociali a specifici attributi, tramite associazioni di tipo probabilistico; più che rappresentazioni sono delle gabbie mentali perché attraverso la schematizzazione di come dovrebbero agire uomini e donne fungono da “trappole”.

L’impiego degli stereotipi permette infatti all’attore sociale di risparmiare risorse cognitive nella classificazione degli altri individui e gruppi, riservandole così ad altri compiti. Appresi durante i primi anni di vita e usati poi continuamente nell’interazione sociale, si trasformano in associazioni automatiche che diventano implicite, e influenzano percezioni e comportamenti senza che le persone ne siano consapevoli.

Gli stereotipi possono essere descrittivi e prescrittivi. I primi sono usati per prevedere il comportamento di uomini e donne, creando una serie di aspettative che funzionano come scorciatoie cognitive. I secondi, invece, servono a giustificare credenze e comportamenti degli attori sociali, rafforzando lo status quo dal momento che le prescrizioni condizionano gli individui perché si conformino ai ruoli sociali: in questo senso gli stereotipi assicurano la continuazione della gerarchia di genere, aiutando a mantenere una struttura sociale basata sulla diseguaglianza e sulla asimmetria di potere, giustificando come naturali, desiderabili e moralmente corretti i ruoli maschili e femminili8.

Questa ricostruzione di carattere latamente sociologico sembrerebbe “prima facie” estranea al ruolo dell’interprete.

L’imparzialità, come innanzi indicato, imporrebbe al giudice un’azione di decodificazione, denaturalizzazione del fatto che va ad interpretare, descrivendolo attraverso il canone ermeneutico imposto dalla norma cui è soggetto, “spogliato” di tutti gli stereotipi. Il giudice o la giudice per essere veramente imparziale ed attraversare lo stereotipo deve sottoporlo a pensiero critico perché, se decidesse secondo la “gabbia mentale”, utilizzerebbe lo stereotipo per far apparire giusta la decisione: i nomi devono essere conseguenza dei fatti e non viceversa.

Ma veniamo ad alcuni esempi.

Nel rapporto di lavoro, in una società dove il lavoro è stato egemonia del sesso più forte, la condotta datoriale o del collega di lavoro censurata dal lavoratore o dalla lavoratrice, per ragioni di genere, è espressione di una discriminazione, di una molestia o di una molestia sessuale che, spesso, radica nello stereotipo la sua matrice.

Stereotipo che nelle aule giudiziarie viene accertato ovvero negato ovvero riprodotto.

Le prime sentenze di legittimità sul punto ricostruiscono e circoscrivono le questioni nel tentativo di neutralizzare lo stereotipo stesso. In tal senso significativa è la sentenza della Suprema Corte di Cassazione del 22 aprile 1993 n. 47479 che, estendendo il divieto di licenziamento della madre lavoratrice durante il periodo di prova, costituisce un “manifesto” della caratterizzazione in senso maschilista dell’ordinamento giuridico e depreca, attraverso una ricostruzione storico-giuridica analitica, la concezione sessista del nostro ordinamento che relegava ad un ruolo di subalternità la donna distinguendola dalla figura della madre, protetta perché genitrice del figlio, proiezione dell’uomo. La sentenza ha il pregio, in chiave ricostruttiva, di costituire una pagina illuminata dell’evoluzione giuridica del superamento dello stereotipo sia pure in un’epoca storica risalente, se consideriamo che la legislazione in materia di tutela delle differenze di genere ha prodotto i suoi risultati più significativi solo in tempi recenti, e segnatamente a partire dagli anni ’90, e costituisce un esempio virtuoso di imparzialità del ragionamento giuridico perché attraversa lo stereotipo.

Altro esempio virtuoso di impiego del linguaggio giuridico nella ricostruzione della fattispecie, che potrebbe enucleare il germe dello stereotipo, è offerto dalla sentenza del 19 dicembre 1998 n. 12717 con la quale la Suprema Corte conferma la sentenza di merito che aveva dichiarato illegittimo il licenziamento di una lavoratrice la quale, essendo stata oggetto di molestie sessuali e di atteggiamento vessatorio nell’esercizio del potere gerarchico da parte del suo capo reparto, aveva reagito con un comportamento aggressivo verso quest’ultimo fuori dall’orario e dal luogo di lavoro. La sentenza ha il pregio di descrivere le molestie in maniera oggettiva, quale narrazione di un fatto, ed il collegio, composto da soli uomini, stigmatizza la condotta del capo reparto e colloca nella sfera della condotta extralavorativa, irrilevante per il vincolo fiduciario, la condotta della lavoratrice, astenendosi da qualsivoglia valutazione etica e ricomprendendo le frasi pronunziate dal capo reparto, proprio perché lesive della dignità della persona, nell’alveo della molestia sessuale10.

Questa è una pronuncia sobria direbbe la Corte Edu proprio perché enuclea asserzioni non stereotipate.

Non sono tutte così le pagine della giurisprudenza in materia di lavoro e, in particolare, in tema di molestie.

Dobbiamo sia pure sinteticamente fare alcune premesse su questo tema dove si registrano profili di continuità con la materia penale.

Molto frequentemente la casistica testimonia come sia lo stereotipo di genere la fonte delle molestie sessuali anche se, in quest’ambito, i dati ufficiali sono davvero irrisori perché esigua la percentuale delle violenze denunciate alle autorità o comunque segnalate in ambito aziendale. Ed anche tale profilo è significativo perché testimonia come la molestia sia stata per decenni silenziosamente accettata dalle donne.

Il dato è emerso, inequivocabilmente, da un rapporto dell’Istat, condotto su un campione di donne della stessa età, risalente al 2016 ma pubblicato nel febbraio del 2018 anche sulla stampa nazionale, secondo cui il 43,6% delle donne tra i 14 e 65 anni nel corso della loro vita hanno subito una qualche forma di molestia sessuale e il 7,5% è stata vittima di ricatti sessuali sul luogo di lavoro ai fini dell’assunzione, ai fini del mantenimento del posto di lavoro, per progressioni di carriera. La quota maggiore delle vittime lavorava o cercava lavoro nel settore delle attività professionali scientifiche e tecniche (20%) e in quello del lavoro domestico (18,2%). La grande maggioranza delle vittime circa il 70% ritiene molto o abbastanza grave il ricatto subito ma nell’89% dei casi le vittime non ne hanno parlato con nessuno sul posto di lavoro e quasi nessuna ha denunciato quanto accaduto alle forze dell’ordine. Le ragioni della mancata denuncia sono state, secondo l’intervista condotta, svariate talune hanno segnalato il timore di perdere il lavoro, altre il timore della impossibilità di dimostrare le molestie, altre ancora il pudore o la vergogna e soprattutto la scarsa consapevolezza dei confini del lecito e dei propri diritti11.

Le molestie possono avere, infatti, la forma della coercizione sessuale che si verifica quando un profilo inerente al rapporto di lavoro quale l’assunzione, un risultato, un successo dipendono dall’acquiescenza alle richieste sessuali; possono assumere la forma delle attenzioni sessuali sgradite che sono molto più comuni nell’ambito della prassi e che si configurano quando una persona, generalmente una donna, viene trattata come oggetto sessuale. Al riguardo va precisato che è stato condotto uno studio il quale ha registrato che la presenza di immagini sessualizzate di donne, desumibili da calendari, foto, rende molto più diffusa l’idea della donna come oggetto sessuale e quindi facilita le condotte scorrette12.

Altra forma di molestia sessuale sono poi le molestie vere e proprie che possono essere identificate in immagini sessiste, scherzi, barzellette. Va precisato che le molestie sessuali sono diffuse generalmente in ambienti caratterizzati da una prevalenza maschile o comunque dove sono molto diffusi gli stereotipi maschilisti. Sicuramente l’asimmetria tra le parti con la presenza di una posizione gerarchica prevalente degli appartenenti al sesso maschile non agevola.

Devono, tuttavia, essere distinti i casi in cui le molestie nascono da motivazioni di avvicinamento da quelle in cui viceversa rappresentano la conseguenza del rifiuto da parte della lavoratrice e quindi sono comportamenti posti in essere dall’uomo al fine di emarginare la figura femminile e dunque isolarla nell’ambito del gruppo lavorativo.

Il dato statistico desunto dallo studio condotto dall’Istat13 sopraenunciato, sia pure non del tutto recente, è comunque significativo di come nell’ambito del comune sentire il fenomeno delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro sia stato in passato “comunemente accettato”.

Del resto l’interesse da parte della dottrina giuslavoristica per il fenomeno delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro perpetrate perlopiù ai danni di donne è relativamente recente. A partire dagli anni ’70 in ambito comunitario è emersa l’esigenza di sensibilizzare le legislazioni nazionali attribuendo al tema delle molestie sessuali centralità al fine di garantire politiche di promozione della parità tra i sessi nel mondo del lavoro.

La scarsa attenzione riservata da parte degli operatori del diritto al fenomeno sicuramente può essere ricondotto a questo retaggio culturale di matrice patriarcale; del resto è ancora attuale l’osservazione di Daniela Izzi secondo la quale nel nostro paese il tema delle molestie sessuali sembra riscuotere più successo fra gli addetti alla comunicazione di massa che presso gli operatori del diritto14.

Le ragioni del fenomeno sono profonde e radicano il loro fondamento nella coscienza collettiva. Se ogni comunicazione è sessuata nulla esclude che nell’ambito della coscienza sociale espressioni fisiche o verbali che vanno da complimenti a sfondo sessuale, allusioni sino a vere e proprie forme di violenza siano naturalmente collegate alle relazioni comunicative uomo-donna. In altri termini se nella coscienza sociale queste relazioni sono concepite come “normali” nulla esclude che le stesse possano essere replicate allorquando non sfocino in vere e proprie aggressioni di carattere fisico anche nello spazio di un ufficio15.

La sede elettiva per l’affermazione dei principi di parità di trattamento e non discriminazione è stata quella comunitaria16. Non è questa la sede per ricostruire la normativa presente ma alcuni cenni sono fondamentali onde comprendere come la tutela delle donne nel mercato del lavoro sia stata una conquista progressiva. Tanto è stato fatto ma ancora tanto deve essere fatto per poter superare, cercando di arginare, gli stereotipi.

Con riferimento all’ordinamento interno il testo che ha rappresentato una reductio ad unum delle normative che si sono succedute è sicuramente il codice delle pari opportunità – decreto legislativo n. 198 del 2006 e successive modificazioni - esso, armonizzando la normativa precedente attuativa delle direttive comunitarie definisce le molestie agli articoli 25 e 2617.

Sempre in un’ottica di tutela rafforzata del fenomeno, deve leggersi la legge di bilancio per il 2018, segnatamente la legge numero 205 del 2017 che al comma 218 dell’articolo 1 ha previsto la novella l’articolo 26 del decreto legislativo 198/2006 prevedendo l’inserimento, dopo il comma 3, del comma 3-bis e ter, recependo, così, molte sollecitazioni emerse in ambito giudiziario e cercando di rendere maggiormente effettiva ed efficiente la tutela18, anche in chiave prevenzionistica.

La legge di bilancio per il 2018 ha il pregio di aver inserito il comma 3-ter nell’art. 26 positivizzando così la clausola prevenzionistica di cui all’art. 2087 c.c. La tutela contro le molestie, se a 360° deve muoversi dapprima in una dimensione prevenzionistica e poi riparatoria se il fatto si verifica19.

Dobbiamo, pertanto, operare un distinguo nell’analisi giurisprudenziale tra i casi in cui il fattore di genere è fonte della discriminazione sia essa diretta che indiretta, dai casi in cui fonda la molestia sia sessuale che non e come il magistrato o la magistrata procedano nella gestione del processo e, quindi, della decisione.

Ebbene eterogenee sono le sentenze sul punto.

Una recente ordinanza del tribunale di Tivoli del 14 settembre 2020 ha qualificato legittimo il licenziamento intimato ad un lavoratore che ha molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro, a nulla rilevando che l’ipotesi non sia prevista e punita con la sanzione espulsiva dal codice disciplinare atteso che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema, il datore di lavoro ha l’obbligo di tutelare l’integrità fisica e morale del lavoratore (principio peraltro già espresso dalla Corte di Cassazione con sentenza del 18 settembre 2009 n. 2027220). Tale provvedimento costituisce un esempio virtuoso di applicazione della normativa in tema di molestia sessuale legata al genere, privo di caratterizzazioni stereotipate e previ pregiudizi, dove si valorizza il racconto della vittima, le dichiarazioni delle colleghe e si dequota qualsivoglia elemento inidoneo alla ricostruzione del fatto giuridicamente rilevante (la lesione alla dignità della persona quale potrebbe essere l’azione molesta sia verbale che fisica) come ad esempio l’aver denunciato il fatto alle competenti autorità, l’aver reagito immediatamente, consapevole che in tali relazioni lavorative spesso la vittima è in una condizione di metus che la neutralizza (il giudicante si sofferma, infatti, sulla circostanza che le vittime fossero più giovani) e l’irrilevanza dell’elemento soggettivo dell’autore del fatto.

Descrittiva della ricorrenza dello stereotipo di genere nei luoghi di lavoro ed in linea di continuità argomentativa rispetto alla pronuncia innanzi indicata è una sentenza più risalente del tribunale di Torino, segnatamente la sentenza n. 3270 del 19 dicembre 2011, con la quale è stata dichiarata la natura discriminatoria del licenziamento della lavoratrice che aveva, ripetutamente, richiesto di rimuovere un calendario dal contenuto pornografico. Il Tribunale, e successivamente la Corte di appello, hanno confermato la natura discriminatoria del licenziamento ritenendo che la condotta di aver scattato le foto non sia idonea a fondare la giusta causa di licenziamento che, nella specie, è discriminatorio per ragioni di genere, avendo l’istante subito delle pressioni da parte del suo superiore dopo aver rifiutato le sue avances ed anzi, la mancata rimozione del calendario a seguito delle ripetute richieste della lavoratrice costituisce una circostanza idonea a ledere la sua dignità21.

Agli antipodi e riflesso del pregiudizio che stiamo indagando è la sentenza del tribunale di Bologna del 21 febbraio 2018

n. 150 che, revocando l’ordinanza di prime cure, asserisce che il licenziamento del lavoratore sia illegittimo e, pertanto, il predetto debba essere revocato in quanto la molestia contestata è consistita in mere volgarità rispetto alle quali non sussiste alcun dolo dell’agente. Questa sintesi è divergente rispetto al dato normativo che conferisce irrilevanza al profilo psicologico ai fini della costruzione della molestia sessuale e riproduce, nel percorso argomentativo, gli stereotipi innanzi indicati perché l’ascolto della presunta vittima (par. 3 ss.) viene condotto, da quanto emerge nella motivazione, attraverso la sottoposizione di domande che esprimono una scala di valori inconferente rispetto ai fatti anzi, lesivi della dignità della persona e del suo pudore: si imputa alla lavoratrice il senso di colpa ovvero di autocritica verso quanto accaduto, pretermettendo l’irrilevanza del profilo soggettivo si giunge ad affermare che il lavoratore fosse in cerca di confidenza ed amicizia ovvero di una storia sentimentale o di un rapporto di sesso, senza maleducazione e senza perpetrare alcuna molestia. Il ritratto della donna in quest’ambito è doppiamente descritto secondo un lessico stereotipato: da un lato ella appare debole, fragile, confusionaria e dall’altro manipolatrice22.

Culmina la descrizione secondo questi canoni interpretativi (ovvero intrisa di stereotipi) l’affermazione secondo la quale la molestia più grave sarebbe stata una mano sul sedere (laddove le molestie sessuali sono anche verbali) ed il depotenziamento dei sentimenti della donna (qualificandoli poco credibili); giungendo infine, tautologicamente, ad affermare che la volgarità del lavoratore ha prodotto scarse conseguenze mentre la superficialità della presunta vittima gravi conseguenze (colpevolizzando così la lavoratrice).

Altro caso di applicazione dello stereotipo nel linguaggio che viene importato nel processo decisionale e, quindi, motivazionale, riflettendo una condizione oggettivata della donna è una sentenza del tribunale di Palermo del 21 giugno 2019, riformata dalla Corte di Appello di Palermo con sentenza del 9 gennaio 2020. Nella specie il licenziamento era stato comminato al lavoratore, capo dell’ufficio del personale, per aver dato una pacca sul sedere ad una dipendente ed aver affermato, successivamente, in presenza di altro dipendente, “le ho dato una sculacciata le potrei venire nonno” e commentando, altresì, “mi sono fatto male! Ce l’ha duro”. Nel percorso motivazionale la giudice, agita dallo stereotipo, esclude che il fatto possa essere qualificato giuridicamente molestia sessuale e, superando il dato normativo giuslavoristico, e riportando quello del codice etico aziendale presume che nella specie non vi fosse stata lesione della dignità della persona sia per l’assenza di intenzionalità della condotta dell’autore del fatto sia per altri indici quali la mancata denuncia all’autorità penale del fatto e, al tempo stesso, la dichiarazione resa al datore di lavoro ovvero “il non volere che l’accaduto si ripetesse”.

Questa sentenza potrebbe costituire un esempio della riproduzione dello stereotipo di genere dell’oggettivizzazione della donna e del suo ruolo che, per questa subalternità, diventa destinataria silente di atti oggettivamente lesivi della dignità della persona.

La ricostruzione compiuta in primo grado viene sovvertita in secondo grado dove la Corte, con sentenza del 9 gennaio 2020, rimarca che una mano sul sedere ovvero l’invito a mostrare il “sedere giovanile” non possono che considerarsi irrispettosi della dignità della persona e della professionalità delle lavoratrici anzi, evidenza il collegio dell’appello, la formalità dell’ambiente lavorativo e la qualità dei ruoli soggettivi esclude in nuce qualsivoglia attenuante dello spirito “cameratesco e scherzoso” evidenziato dal giudice di prime cure.

Del resto la peculiarità della disciplina giuslavoristica in tema di molestia, segno di particolare attenzione del legislatore e consapevolezza del rapporto di forza doppiamente sbilanciato in questo tipo di relazioni, è rappresentato proprio dalla irrilevanza del profilo soggettivo della condotta del molestatore o della molestatrice e la centralità della percezione che di tali atti ha la vittima della molestia, in coerenza con la nozione oggettiva di “comportamento indesiderato”.

I casi innanzi riportati non riflettono quest’impostazione non solo perché enfatizzano il profilo psicologico dell’autore del fatto ma anche perché, incentrandosi sulla condotta della vittima, esprimono un giudizio valoriale che esula dall’accertamento in senso stretto dei fatti, giungendo attraverso la verifica dell’attendibilità delle dichiarazioni rese, ad una valutazione controfattuale, in aperto contrasto anche con il tenore della disciplina sostanziale23.

Altro capitolo della tutela giuslavoristica in cui potrebbero essere rinvenuti esempi di applicazione di formule stereotipate è quello relativo alla materia della tutela della genitorialità e della maternità. Si registrano nella disamina delle disposizioni contenute nel d.lgs. 151/2001 significative aperture verso l’effettiva equiparazione del ruolo genitoriale paterno a quello materno.

Partendo dallo stereotipo, forse mai sufficientemente esaminato nelle nostre aule di giustizia, posto dall’art. 37 co. 2 cost secondo cui “le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, e quindi della fissità del ruolo di cura femminile, che integra ancora oggi una delle maggiori cause del gender gap.

Aperture rispetto a tale dato si registrano a partire dalle pronunce della Suprema Corte, in particolare la sentenza del 18 novembre 2014 n. 24471, che ha cassato con rinvio la sentenza della Corte di appello di Venezia in cui i giudici avevano negato il risarcimento del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico richiesto dal marito a seguito di incidente per non potersi occupare più delle vicende domestiche e richiesto, al tempo stesso, dalla moglie la cui cura domestica era ridotta dalla prestazione assistenziale al marito. Ebbene la Suprema Corte afferma, con una ricostruzione scevra da stereotipi, a partire dal punto 3.4.2 della motivazione, che non è madre natura a ripartire le incombenze domestiche ma lo sono i costumi sociali e le scelte soggettive e, stante la parità giuridica tra i coniugi, è ragionevole presumere che essi conformino la propria vita familiare ai precetti normativi piuttosto che il contrario.

Su questa scia si colloca anche la sentenza della Corte di Appello di Milano del 17 marzo 2021 n. 453, espressione della intersezione tra diritto di famiglia e diritto del lavoro, che qualifica discriminatorio il diniego del datore di lavoro dei congedi parentali in favore della madre intenzionale24.

Esempi virtuosi di impiego della lingua e di liberazione dallo stereotipo sono le pagine della giurisprudenza di legittimità che tutela la condizione della gestante lavoratrice25 ovvero della donna lavoratrice che si assenta dal lavoro se madre con maggiore frequenza o che matura una minore anzianità se pa- rametrata al full time26.



4. Conclusioni



Questa rapida ed incompleta trattazione è sintomatica della necessità oggi avvertita di porre l’accento sul linguaggio e sulla necessità di indagare a fondo anche i fenomeni sosio-culturali del passato quale garanzia effettiva di terzietà ed imparzialità perché la lingua, anche giudiziaria, non è mera ed esclusiva applicazione della disposizione.

Il linguista Tullio De Mauro, in un recente libro L’educazione linguistica democratica afferma: “La scuola tradizionale ha insegnato come si deve dire una cosa. La scuola democratica insegnerà come si può dire una cosa, in quale fantastico infinito universo di modi distinto di comunicare noi siamo proiettati nel momenento in cui abbiamo da risolvere il problema di dire una cosa”.

È bene, quindi, che gli operatori del diritto ed in particolare i magistrati e le magistrate, mutuando l’espressione di Lacan, secondo cui la lingua “prima di significare qualcosa significa per qualcuno”, non dimenticando mai la centralità della di- mensione antropologica nel processo, selezionino nella scelta lessicale le espressioni da impiegare e si liberino dallo stereo- tipo, attraversandolo.









































NOTE

1 Per un’approfondita disamina del tema sia consentito rinviare a V.A. CALLE- GARI, Problemi fondamentali dell’empatia ed esperienza costituzionale americana, in Questione Giustizia, 14 novembre 2017.

2 Si rinvia per approfondimenti a C. ROBUSTELLI, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Firenze, 2012.

3 M.V. dELL’ANNA, Lingua, genere, diritto. Il ruolo della donna nella comunicazione giuridica, in Donne magistrato: comunicazione, linguaggio giuridico e ascolto. Non solo diritto. Atti degli incontri di studio Roma 22.10.2018-20.06.2019-24.09.2020, a cura di M. CERVAdORO, Milano, 2022, 45 ss.

4 P. dI NICOLA TRAVAGLINI, La Corte EDE alla ricerca dell’imparzialità dei giudici davanti alla vittima imperfetta, in Questione e Giustizia, 20 luglio 2021.

5 Tra i commenti alla sentenza si segnalano R. SANLORENzO, La vittima ed il suo Giudice, in Questione e Giustizia, 2 giugno 2021; L. d’ANCONA, Vittimizzazione secondaria: la pronuncia della Cedu, in Questione e giustizia, 17 giugno 2021.

6 M. dELL’UTRI, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico, in Giustizia insieme, 16 giugno 2021.

7 C. VOLPATO, Psicosociologia del maschilismo, Bari, 2013, 98 ss.

8 Gli stereotipi sono particolarmente resistenti al cambiamento anche perché

si perpetuano attraverso l’autostereotipizzazione, confermata dalla ricchissima letteratura sulle differenze di genere nelle discipline scientifiche e nella ricerca dello status: le donne sembrano avere meno interesse degli uomini per le occupazioni che promettono ricompense economiche e sociali di alto livello; sembrano meno interessate a diventare politiche, banchiere, manager e più interessate a diventare insegnanti e a lavorare nel sociale, tanto che si è parlato a questo proposito di un’autoselezione che le esclude dalle professioni più prestigiose. Nel lavoro gli uomini cercano principalmente di ottenere alti stipendi, prestigio e posti di comando; le donne buone relazioni interpersonali e la possibilità di occuparsi degli altri, come confermato da molteplici studi.

9 Corte di Cassazione sentenza del 22 aprile 1993 n. 4747, così massimata “La disposizione dell’art. 1 del d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026 – recante il regolamento di esecuzione della legge 30 dicembre 1971, n. 1204, sulla tutela delle lavora- trici madri –, secondo cui le norme che vietano il licenziamento di queste ultime non escludono il recesso per esito negativo della prova, è illegittima e, pertanto, quale atto amministrativo, va disapplicato dal giudice ordinario, ai sensi dell’art. 4 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo, stante il suo contrasto con le finalità della tutela suddetta, perseguite dalla legge della cui esecuzione si tratta, interpretata secondo i lavori preparatori, l’evoluzione dell’ordinamento giuridico in tema di disciplina della condizione femminile ed i principi costituzionali sulla protezione della prole e, di conseguenza, anche del lavoro delle donne”.

10 Per un commento della sentenza F. BANO, Quando l’aggressione ai danni del superiore gerarchico non è insubordinazione, in Riv. dir. lav., parte 2, 1999, 4.

11 I dati sono contenuti nell’articolo edito sul quotidiano Repubblicaonline del 13 febbraio 2018 e riportano uno studio ISTAT con campione 2015-2016.

12 C. VOLPATO, op. cit.

13 hhtp://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/violenza-sul-luo- go-di-lavoro.

14 D. IzzI, Molestie sessuali e luoghi di lavoro, in Lav. Dir., 1995, 285 ss.

15 A. ROSIELLO, Molestie sessuali nei luoghi di lavoro: prevenzione e tutela, in Igiene e sicurezza sul lavoro, 2020, 2.

16 La prima direttiva ad occuparsi di tali temi è la direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976. Con essa trova attuazione il principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto concerne l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro. Sulla stessa scia si colloca la normativa successiva ed infatti vanno menzionate, sempre due risoluzioni la prima quella del Parlamento europeo dell’11 giugno 1986 sulla violenza contro le donne e la seconda quella del Consiglio del 29 maggio 1990 sulla tutela della dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro; seguita poi dalla raccomandazione 92/131/CEE della Commissione del 27 novembre 1991 sulla tutela della dignità delle donne e degli uomini sul lavoro a questa raccomandazione è stato allegato una codice di condotta sui provvedimenti da adottare nella lotta contro le molestie sessuali e il pregio di questo codice è proprio quello di avere individuato per la prima volta una definizione esaustiva, precisa ed articolata di molestie sessuali. Sempre sulla stessa scia volta garantire strumenti per l’impresa al fine di prevenire tali fenomeni si colloca la risoluzione A3-0437/94 del Parlamento europeo dell’11 Febbraio 1994 che, per la prima volta, ha imposto la designazione di un consigliere nelle imprese. Sono degli anni 2000 le direttive che rendono effettivo il principio di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La direttiva 43/2000 del Consiglio europeo all’articolo 2 dopo aver definito il concetto di discriminazione diretta ed indiretta prende in considerazione le molestie che sono considerate una forma di discriminazione e la direttiva segnatamente 73/2002 del Parlamento europeo che modificando la direttiva 76/207 CEE del Consiglio che, sostituendo l’articolo 2 statuisce che accanto alle nozioni di discriminazione diretta ed indiretta sia contenuta anche quella di molestia e di molestia sessuale: in sostanza le molestie e le molestie sessuali sono considerate come discriminazioni fondate sul sesso e pertanto vietate in quanto contrarie al principio di parità di trattamento. Con la direttiva 2006/54/CE l’azione compiuta dall’Unione è quella di armonizzare la disciplina contenuta all’interno delle precedenti direttive dedicate alla parità di trattamento uomo donna nell’accesso al lavoro, formazione, promozione professionale, trattamento retributivo nonché disciplina relativa all’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso al fine di armonizzare la normativa per renderla efficace.

17 In particolare l’art. 25 contiene le nozioni di discriminazione diretta co. 1 secondo cui “costituisce discriminazione diretta, ai sensi del presente titolo, qualsiasi disposizione, criterio, prassi, atto, patto o comportamento, nonché l’ordine di porre in essere un atto o un comportamento, che produca un effetto pregiudizievole discriminando le candidate e i candidati, in fase di selezione del personale, le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso e, comunque, il trattamento meno favorevole rispetto a quello di un’altra lavoratrice o di un altro lavoratore in situazione analoga”. Il comma 2 contiene la nozione di discriminazione indiretta statuendo che “Si ha discriminazione indiretta, ai sensi del presente titolo, quando una disposizione un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento, compresi quelli di natura organizzativa o incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutri mettono

o possono mettere i candidati in fase di selezione e i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto a lavoratori dell’altro sesso, salvo che riguardino requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l'obiettivo sia legittimo e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari”. Il comma 2-bis introdotto nel 2021 statuisce che “Costituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni:

a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera”. L’articolo 26 definisce al comma 1 a molestia di tipo morale “costituisce molestia di tipo morale quel comportamento indesiderato connesso al sesso avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Il comma 2 sempre dell’articolo 26 precisa la nozione di molestia sessuale identificandola “in quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale e non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio ostile, degradante, umiliante o offensivo”. La peculiarità tanto della nozione di molestia morale quanto quella di molestia sessuale sta nella portata oggettiva nel senso che ciò che rileva per l’ordinamento giuridico e la realizzazione di un comportamento che sia oggettivamente indesiderato non è rilevante quindi il profilo psicologico dell’autore della condotta ma lo scopo ultimo della stessa: ledere la dignità della persona che in quanto valore costituzionalmente tutelato deve essere appunto garantito. Balza sicuramente agli occhi dell’interprete come queste previsioni, che sono attuazione di principi di carattere costituzionale di cui agli articoli due, 3,37, abbiano trovato una regolamentazione ad hoc con riferimento a questa legislazione speciale solo dopo moltissimi anni dall’entrata in vigore della costituzione. Tale dato si ricollega a quanto innanzi detto e cioè come il fenomeno della tutela delle molestie sessuali in ambito giuslavoristico sia del tutto recente e sebbene nell’arco di un trentennio sono stati compiuti tanti passi in avanti, come vedremo di qui a breve. Tuttavia è ancora molto lunga la strada da percorrere. Interessante è la portata del comma 2-bis dell’articolo 26 che sostanzialmente equipara comunque alle discriminazioni quei trattamenti meno favorevoli che sono subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi uno e due dell’articolo 26 innanzi indicati o di esservi si sottomessi: in altri termini è discriminatoria la condotta perpetrata ai danni del lavoratore che si rifiuta di subire molestie ovvero che subisce delle molestie. Non è di poco conto la circostanza secondo la quale le molestie sessuali sono state equiparate alle discriminazioni perché come in seguito preciseremo ciò ha delle conseguenze dirompenti sia in ordine a regime giuridico dell’onere della prova sia con riferimento alle tutele anche di carattere processuale che sono riservate a chi intenda agire in giudizio per l’accertamento della discriminazione. Sicuramente i principi innanzi declinati trovano attuazione sia con riferimento al settore pubblico che con riferimento a quello privato esistono delle previsioni con riferimento al settore pubblico che regolamentano in maniera specifica la parità di trattamento uomo donna, significativo al riguardo è l’articolo 57 del decreto legislativo 165/2001, ad esempio in tema di pari opportunità tra uomo e donna.

18 Il comma 3-bis stabilisce che “la lavoratrice o il lavoratore che agisce in giudizio per la dichiarazione delle discriminazioni per molestia o molestia sessuale poste in essere in violazione di divieti di cui al presente capo non può essere sanzionato, demansionato, licenziato trasferito o sottoposto ad altra misura organizzativa aventi effetti negativi diretti o indiretti sulle condizioni di lavoro determinati dalla denuncia stessa appunto il licenziamento ritorsivo o discriminatorio del soggetto denunciante è nullo. Sono altresì nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, nonché qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del denunciante. Le tutele di cui al presente comma non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del denunciante per i reati di calunnia

o diffamazione ovvero l’infondatezza della denuncia”. Il comma 3-ter prevede che “I datori di lavoro sono tenuti, ai sensi dell’articolo 2087 del codice civile, ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su principi di eguaglianza e di reciproca correttezza”.

19 La disposizione, quale norma aperta e di chiusura del sistema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure a tutela non solo dell’integrità fisica dei lavoratori ma anche della personalità morale. Del resto recentemente la Corte di Cassazione con sentenza del 18 febbraio 2016 n. 3212 ha ritenuto che “l’estensione dell’obbligo dell’imprenditore di tutela dell’integrità fisiopsichica dei dipendenti all’adozione e al mantenimento, non solo di misure di tipo igienicosanitario o antinfortunistico, ma anche di misure atte, secondo le comuni tecniche di sicurezza, a preservare i lavoratori dalla lesione di detta integrità nell’ambiente od in costanza di lavoro in relazione ad attività anche non collegate direttamente allo stesso come le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi, non essendo detti eventi coperti dalla tutela antinfortunistica prevista dal d.P.R. 1124/1965 e giustificandosi l’interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.), cui deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro (Cass. 22 marzo 2002, n. 4129)”. Se il datore di lavoro, giusta la previsione dell’art. 2087 c.c., deve tutelare anche l’integrità morale del dipendente e prevenire “tutti i rischi” che possono configurarsi è indubbio che nella valutazione preventiva compito datoriale sia anche quello di prevedere, e quindi, prevenire i rischi connessi alle molestie sessuali perpetrate nei luoghi di lavoro. Compito del datore è quello di adottare misure organizzative idonee ad assicurare la tutela dei dipendenti e tali misure devono essere effettive e, soprattutto, involgere tutti i dipendenti. Sul punto la S.C. ha recentemente affermato, in termini, con sentenza del 22 marzo 2018 n. 7097 che “Nel rapporto di impiego pubblico contrattualizzato, qualora un dipendente ponga in essere sul luogo di lavoro una condotta lesiva (nella specie molestia sessuale) nei confronti di un altro dipendente, il datore di lavoro, rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo e chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2087 c.c. nei confronti del lavoratore oggetto della lesione, ha diritto a rivalersi a titolo contrattuale nei confronti del dipendente, per la percentuale attribuibile alla responsabilità del medesimo, ciò in quanto il dipendente, nel porre in essere la suddetta condotta lesiva, è venuto meno ai doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro, quali sono gli obblighi di diligenza e di fedeltà prescritti dagli artt. 2104 e 2105 c.c., e ai principi generali di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., letti anche in riferimento al principio di buon andamento della P.A. di cui all’art. 97 Cost., che devono conformare non solo lo svolgimento dell’attività lavorativa, ma anche i rapporti tra i dipendenti pubblici sul luogo di lavo- ro”. L’art. 2087 c.c. si salda con il T.U. in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro nell’ottica prevenzionistica. L’art. 28 del d.lgs. 81/2008 prevede, espressamente, che in sede di redazione del DVR il datore di lavoro debba valutare “tutti i rischi” cioè tutti i rischi potenzialmente presenti che possono trovare nell’attività lavorativa un’occasione anche se l’attività non sia svolta nei locali tradizionali. Nell’ottica di contrasto al fenomeno, sia pure secondo uno spirito prevenzionistico, come innanzi evidenziato, si colloca la legge finanziaria e, segnatamente, l’art. 1 comma 218 della legge finanziari per il 2018 secondo cui “i datori di lavoro sono tenuti ai sensi dell’art. 2087 c.c. ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica, morale e la dignità dei lavoratori, concordando anche con le organizzazioni sindacali dei lavoratori le iniziative informative e formative più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro, i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate sui principi di eguaglianza e di reciproca correttezza”. La formazione è fondamentale per poter, efficacemente, reprimere il fenomeno ed assicurare un’ottimale organizzazione lavorativa: i pregiudizi fisici sulla persona conseguenti alle molestie sessuali sono una delle principali cause di stress e di emarginazione professionale. La vittima si assenta dal lavoro, è meno produttiva e tende a marginalizzare la propria figura. In questa direzione si muoveva, in passato l’Accordo Quadro del 2004 secondo cui “la sopraffazione e la violenza sul lavoro sono fattori stressogeni potenziali”.

20 Per un commento alla sentenza della Suprema Corte si veda D. COMANdè,

Prima di tutto l’ambiente di lavoro: giusta causa di licenziamento per i “molestatori”, in Riv. it. dir. lav., 2010, 2, 2, 349.

21 Il provvedimento si segnala anche per una effettiva e corretta applicazione del regime di ripartizione degli oneri probatori di cui all’art. 40 del Codice delle pari opportunità Come è noto l’art. 40 del Codice pari opportunità, in attuazione delle previsioni comunitarie, ha previsto che sia il convenuto a dover fornire la prova dell’inesistenza della discriminazione mentre il ricorrente dovrà limitarsi a fornire elementi indiziari e presuntivi relativi alla discriminazione L’onere probatorio per il lavoratore è “alleggerito” dalla previsione di una prova presuntiva dove le presunzioni richieste devono essere precise e concordanti ma non già

gravi. Con riferimento alle molestie sessuali la casistica ha indotto l’interprete a qualificare come presuntivi delle molestie sessuali: la conoscenza di episodi precedenti commessi dallo stesso soggetto, l’uscita dall’ufficio con vestiti scomposti, le confidenze ad una collega, la crisi di pianto dopo l’accaduto. Nel diritto discriminatorio, quindi, a fronte di un’allegazione specifica del prestatore di lavoro che deve offrire anche il tertium comparationis la prova negativa grava in capo al datore di lavoro. In ambito europeo con la sentenza 17 luglio 2008, C-303/06, Coleman, la Corte di Giustizia statuisce che, poiché le molestie (in generale) sono una forma di discriminazione già ai sensi dell’art. 2, n. 1, della Direttiva 2000/78/CE, ad esse sono applicabili le stesse disposizioni in tema di onere della prova, nel senso che, ove risultino fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del divieto di discriminazione, fatto salvo il diritto degli Stati membri di prevedere disposizioni in materia di prova più favorevoli alle parti attrici. È pur vero che la cit. sentenza Coleman riguardava una discriminazione a causa di disabilità. Tuttavia appare chiaro quale sia l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia in un’altra ipotesi (molestie ai danni di disabile) di tertium comparationis integrato da un trattamento differenziale meramente negativo (mancanza di analoghe molestie ai danni dei non disabili).

22 Tale caratterizzazione si desume dal fatto che la stessa ha sporto querela. Ad avviso di chi scrive tale precisazione è abbastanza irrilevante stante il contenuto intrinseco delle dichiarazioni non propriamente offensive.

23 Nel quadro normativo tra le ultime novità si registra sicuramente la legge

n. 4 del 15 gennaio 2021 con cui è stata ratificata ed eseguita la Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro numero 190 sull’eliminazione della violenza delle molestie sul luogo di lavoro adottata a Ginevra il 21 giugno 2019 nel corso della 100 ottava sessione dell’OIL. Scopo della convenzione è quella di proteggere i lavoratori indipendentemente dal loro status contrattuale (includendo così anche le persone che compiono percorsi di formazione come ad esempio i tirocinanti e coloro che sono alla ricerca di un lavoro). Altro elemento significativo della legge di ratifica è che la tutela è riservata a quelle forme di violenza che si perpetuano nel posto di lavoro sia a causa del rapporto di lavoro che in occasione del rapporto di lavoro. Si assiste, infatti, ad una dilatazione non solo soggettiva ma anche geografica della tutela accordata come emerge dalla lettura dell’art. 3 secondo cui “la presente Convenzione si applica alla violenza e alle molestie nel mondo del lavoro che si verifichino in occasione di lavoro, in connessione con il lavoro o che scaturiscano dal lavoro: a) nel posto di lavoro, ivi compresi spazi pubblici e privati laddove questi siano un luogo di lavoro; b)

in luoghi in cui il lavoratore riceve la retribuzione, in luoghi destinati alla pausa o alla pausa pranzo, oppure nei luoghi di utilizzo di servizi igienicosanitari o negli spogliatoi; c) durante spostamenti o viaggi di lavoro, formazione, eventi o attività sociali correlate con il lavoro; d) a seguito di comunicazioni di lavoro, incluse quelle rese possibili dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione; e) all’interno di alloggi messi a disposizione dai datori di lavoro; f) durante gli spostamenti per recarsi al lavoro e per il rientro dal lavoro. La Convenzione lancia dei moniti sia in chiave prevenzionistica che protezionistica (art. 6) non solo per gli Stati membri ma anche per gli altri attori istituzionali e per le parti sociali. Sicuramente l’ampliamento della sfera soggettiva dei destinatari ha riflessi in ordine alle tutele prima limitate secondo una prospettiva maggiormente universalistica. Last but non least anche le misure contenute nella legge finanziaria per il 2022 che ha previsto una serie di misure promozionali per le imprese che garantiscano la parità di genere, oggi certificata dopo la legge 162 del 2021.

24 L. CALAFÀ, Sui congedi di cura della madre intenzionale, in Riv. dir. lav., 2021, 4, 644 ss.

25 Si menzionano tra le tante Corte di Cassazione sentenza del 26 febbraio 2021 n. 5476 che qualifica discriminazione diretta il mancato rinnovo di un contratto a termine ai danni di una lavoratrice gravida. Per un approfondimento si rinvii a C. MAzzANTI, Discriminazione fondata sulla gravidanza e mancato rinnovo del contratto a termine, in Giur. it., 2021, 10, 2173. Altro esempio significativo è quello riportato dalla sentenza della Corte di Cassazione del 15 giugno 2020 n. 11530 che qualifica discriminatoria la mancata stabilizzazione di una lavoratrice con contratto di apprendistato professionalizzate al termine del periodo formativo per la sola appartenenza ad un determinato genere.

26 Corte di Cassazione sentenza del 29 luglio 2021 n. 21801. Per un’analisi della questione si rinvia a M. TONETTI, L’incerta discriminazione delle lavoratrici part-time, in Diritto e Giustizia, 2021, 151, 3.