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Il linguaggio nei provvedimenti civili

autore: C. M. Lendaro

SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. Gesti, parole e segni di discriminazione, linguaggio, ma cosa ci chiede l’Europa? - 2.1. Europa, riequilibrio di ge- nere e linguaggio. - 2.2. Linee Guida Europee 2018 e Italia. - 3. Il linguaggio nei provvedimenti civili in Italia: gesti, parole e discriminazioni. - 4. Gesti, parole e segni di discriminazione, linguaggio nell’attività dell’ADMI Associazione Donne Magistrato Italiane. - 5. Gesti, parole e segni di discriminazione, linguaggio: poche riflessioni ulteriori e conclusioni.



1. Introduzione





Dibattere di “linguaggio” aiuta a riconoscere gli stereotipi ed a vedere le discriminazioni ancora presenti nel nostro Paese in questo secondo decennio del duemila, retaggio di una società patriarcale dura da infrangere, radicata.

Una società caratterizzata tuttora dall’egemonia del genere maschile e da linguaggio antropocentrico. Averne consapevolezza permette di iniziare a porvi rimedio ed a mutare.

La “crescita culturale” va costruita e sedimentata ed è possibile solo disvelando la situazione in atto e ricercandone le cause. Occorre per farlo parlarne e parlarne ancora, con ogni mezzo ed ovunque: negli uffici, nelle scuole e università, nella “società civile” attraverso la stampa o la televisione, ma anche nei “social”, nelle scuole ed università, cercando ogni via, soprattutto cercando di raggiungere i più giovani, il nostro futuro.

Le parole pesano, fanno la differenza, bisogna usarle congruamente.

Occorre per dare una piena attuazione alla nostra Carta Costituzionale e ad una democrazia paritaria, di donne e di uomini.



2. Gesti, parole e segni di discriminazione, linguaggio, ma cosa ci chiede l’Europa?



2.1. Europa, riequilibrio di genere e linguaggio

L’argomento che mi è stato affidato riguarda “Il linguaggio nei provvedimenti civili” ma, prima di affrontare questo tema, vorrei allargare un po’ la prospettiva per gli stimoli che provengono dallo stesso titolo di questo incontro: “Gesti, Parole e segni di discriminazione. Un anno dopo la sentenza CEDU J.LC. c-ITALIA”, dunque da quell’Europa che, da tempo, manda agli Stati suoi membri raccomandazioni per l’attuazione di fattive azioni “positive” di riequilibrio di genere, cui pone molta attenzione. Un obiettivo che mira a perseguire per vie diverse e che è una delle condizioni, assunte dal nostro Governo nella primavera 2021, per ottenere il Recovery Plan.

Da anni, almeno un ventennio, l’Europa chiede concrete misure di riequilibrio in ogni ambito e, di recente, lo ha fatto anche in tema di “linguaggio” nel 2018 con le raccomandazioni approvate dal Parlamento Europeo delle “Linee Guida Europee” per gli atti legislativi e non.

Il principio della “parità tra uomini e donne” e della lotta alla “discriminazione fondata sul sesso” è, in generale, radicato nei trattati e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Nel Trattato dell’Unione Europea l’obiettivo della “uguaglianza tra i generi” è posto tra quelli da perseguire da parte degli Stati-Membri (art. 157 TFUE e nell’art. 23 della Carta Diritti Fondamentali) e da attuare con l’adozione di ogni strumento. A tale fine il Parlamento Europeo1 nel 2000 con la risoluzione B5-0180 ha sollecitato tutti gli Stati-Membri ad adoperarsi attivamente per conseguire una più equa presenza “di donne e uomini” in ogni istituzione indicando quale “minimale” misura da attuare quella di “almeno un terzo di donne” negli organismi istituzionali, precisando che la sottorappresentanza femminile nei settorichiave poteva anche essere riequilibrata con lo strumento delle “quote”, misure transitoria che era reputata utile allo scopo.

I risultati che sono stati raggiunti nei quindici anni successivi nei diversi Stati sono contenuti nel Rapporto CEE “Gender Equality 2017” della Commissione Consiglio di Europa, alla cui lettura vi rimando per il forte interesse dei dati raccolti (ne indico solo in nota taluni in tema di “giustizia”2), la loro disamina infatti amplierebbe troppo questo intervento, ben oltre gli scarni tempi assegnati.

Il parlamento Europeo è volutamente intervenuto nel 2018 sul “linguaggio” negli atti comunitari parlamentari con le “Linee guida a livello internazionale e nazionale” del 18 maggio 2018, che contengono indicazioni per un uso di un linguaggio “non sessista e discriminatorio” da utilizzarsi nell’intera Europa in tutte le lingue parlate chiedendo che il linguaggio sia “equo e inclusivo”. Ha osservato, all’evidenza pragmaticamente, che vi sarebbero state maggiori probabilità di sua accettazione da parte degli utilizzatori qualora fosse stato “semplice e discreto” ed avesse ricercato espressioni alternative “neutre” in base al “multilinguismo” in atto ed alle norme che già in loco lo disciplinavano, fortemente sottolineando la necessità di: “Un linguaggio ‘neutro sotto il profilo del genere’ indica, in termini generali, l’uso di un linguaggio non sessista, inclusivo e rispettoso del genere. La finalità di un linguaggio neutro dal punto di vista del genere è quella di evitare formulazioni che possano essere interpretate come di parte, discriminatorie o degradanti, perché basate sul presupposto implicito che maschi e femmine siano destinati a ruoli sociali diversi. L’uso di un linguaggio equo e inclusivo in termini di genere, inoltre, aiuta a combattere gli stereotipi di genere, promuove il cambiamento sociale e contribuisce al raggiungimento dell’uguaglianza tra donne e uomini”.

Un primo risultato è stato raggiunto in pochi anni, oggi tali raccomandazioni sono state adottate, non solo in ambito comunitario, ma da Istituzioni internazionali, quali le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale della sanità, l’Organizzazione internazionale del lavoro, oltre che da associazioni professionali, università.

È stato così anche in Italia? Cosa le Linee Guida Europee ci raccomandano?



2.2. Linee Guida Europee 2018 e Italia



Le Linee Guida Europee 2018 contengono “orientamenti per un uso non sessista del linguaggio” che raccomandano di usare in documenti e comunicazioni in tutte le lingue ufficiali, in adesione ai principi di non discriminazione, di riconoscimento e di uguaglianza. Il Parlamento Europeo ha rilevato che il “principio della sensibilità di genere” nel linguaggio dipende da plurimi e variegati fattori e precisato che la soluzione da adottare deve essere adeguata al tipo di atto e future finalità del documento e che, in ogni caso, deve garantire sufficiente visibilità a “tutti” i generi contemplati3.

A tal fine nelle raccomandazioni sono state ricercate delle “regole comuni” valide per tutti gli Stati Membri e tali da garantire la preminente ricercata “Neutralità di Genere nel Linguaggio”4, che è intanto da attuarsi contemperando velocità dei discorsi/scelte dell’oratore/specifiche caratteristiche del discorso orale o della comunicazione scritta/contesto di multilinguismo europeo/regole linguistiche/strategie locali dal punto di vista grammaticale5.

Nel testo, con trasparenza e concretezza, è anche osservato che un linguaggio “neutro o inclusivo” va oltre il concetto del “politicamente corretto” ed è strumento che “influenza gli atteggiamenti, i comportamenti e le percezioni”, assicurando parità di trattamento e che tutti i Paesi europei sono invitati a porre attenzione, onde evitare che di fatto “nessun genere fosse privilegiato o fossero perpetuati pregiudizi nei confronti di uno o dell’altro genere” od anche ambiguità sugli obblighi, comunque incertezze, come ad es. quelle scaturenti dallo “uso alternato della forma maschile e femminile per il pronome generico” o da un “uso esclusivo della forma femminile di un termine in alcuni documenti e della forma maschile in altri” od ancora, per quanto possibile, dall’uso di un linguaggio “non inclusivo” in termini di genere, come il “maschile neutro”6.

Per la “lingua italiana” vi sono plurimi suggerimenti alla cui lettura e valutazione vi rimando, limitandomi in questo scritto a menzionarne taluni, quali:

a) sull’uso del termine “uomo”, che è stato rilevato essere di frequente in uso nei nostri testi di legge e affermato che, seppure (in generale) la nostra lingua non ha “necessariamente una connotazione sessista” e può dunque “nella accezione idiomatica…” essere utilizzato quale sinonimo di “persona nel suo complesso di diritti e doveri”, oppure di “essere vivente”, di “essere umano” o di “genere umano”, nondimeno non va utilizzato solo come “sostantivo generico”, descrittivo di una categoria” in quanto come tale è: “il riflesso di una società in cui la presenza femminile era assente in determinate categorie…” e del pari che sono da evitare le espressioni: “uomini politici” a cui è preferibile “politici”; “uomini di legge” in luogo di “giuristi” o, se il contesto lo consente, “la dottrina”; “uomini di scienza” invece di “scienziati” o “persone impegnate nella ricerca” e comunque suggerire di “sostituire il termine ‘uomo’ con equivalenti che includano ‘persone dei due generi’” e preferire all’espressione “l’uomo della strada” quella di: “la gente comune”;

b) sull’uso simmetrico del “genere, ovvero esplicitazioni della forma maschile e femminile”: da usarsi solo in testi brevi rispondendo al criterio di “visibilità” del genere, in quanto di norma appesantiscono la frase, dovendosi preferire le strategie improntate allo “oscuramento del genere” di cui ai successivi punti c), d) ed e) (cfr. sotto);

c) sull’uso di “Termini Collettivi”; raccomandandosi di usare in luogo di: “i magistrati, i docenti, gli insegnanti, i dipendenti, i lavoratori, il direttore, il presidente…” invece: “la magistratura, il personale docente, il corpo insegnante, il personale, la direzione, la presidenza”;

d) sull’uso “di pronomi relativi e indefiniti”: raccomandandosi in luogo di: “i possessori di…”, l’uso invece di: “chi/chiunque possieda…”;

e) sull’uso “dell’impersonale e del passivo”: raccomandandosi di evitare di declinare “al maschile” ad es.: “i candidati invieranno il curriculum”, e di utilizzare invece “si invierà il curriculum” e, in ogni caso, di evitate:

– l’uso delle barre trasversali: “egli/ella; essi/esse; lui/lei; il/la; gli/le; il/la cittadino/cittadina”;

– l’uso dell’esplicitazione maschile e femminile in forma contratta: “un/a traduttore/trice di lingua italiana”;

– l’uso di soluzioni “di fantasia” come le parentesi: “il(la) proprietario(a) deve convocare tutti(e) gli(le) inquilini(e) interessati(e)”, utili solo nei moduli da compilare (ove la necessità di assicurare visibilità a entrambi i generi è più importante della gradevolezza stilistica del testo);

f) sull’uso di “sostantivi epiceni” (ossia declinabili come tali sia al maschile sia al femminile): raccomandandosi di individuarli, in caso di uso, sempre con chiarezza mediante l’uso dell’articolo, ad es.: “il presidente, i referenti, il giudice, il preside, il sindacalista, il manager” o “la presidente, le referenti, la giudice, la preside, la sindacalista, la manager”, osservandosi che, seppure l’uso della sola forma maschile non era in sé “discriminatorio” in quanto il genere maschile in italiano (così come in altre lingue romanze) è un “genere non marcato”, andava usato solo: “per espressioni astratte e per indicare la specie in opposizione all’individuo” e, quanto all’insidioso tema della distinzione tra funzione di “categoria generale” (di competenze/poteri/facoltà collegate) e di “persona fisica” (che esercita la funzione) e che:

– per “funzioni generali” era ammissibile l’uso del “maschile” con valenza neutra declinato al singolare quando ci si riferiva ad una funzione “in astratto”, a prescindere dal genere della persona che la ricopre, come: “All’amministratore non possono essere conferite deleghe per la partecipazione a qualunque assemblea” ovvero come all’interno del Regolamento Parlamento Europeo o dei Trattati dell’Unione europea, di “valenza generica e universale”, che non fanno riferimento a persone fisiche ed a funzioni in astratto, ad esempio “Il Presidente dirige, in conformità del presente regolamento, l’insieme dei lavori del Parlamento e dei suoi organi” o “L’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e la Commissione sono incaricati dell’attuazione del presente articolo” o per i nomi di funzioni declinate al plurale per i nomi “codificati” di organismi, quali: “i Questori; i Commissari Commissione Europea”;

– per funzioni inerenti una “persona fisica”, cioè che esercita la funzione e di cui invece era noto il “genere”, andava utilizzato il genere grammaticale corrispondente, ad es.: “il deputato Mario Rossi/la deputata Maria Rossi; oppure il relatore Mario Rossi/la relatrice Maria Rossi; il Commissario Mario Rossi/la Commissaria Maria Rossi; il Mediatore Mario Rossi/la Mediatrice Maria Rossi; il Questore Mario Rossi/la Questrice Maria Rossi; il Segretario generale Mario Rossi/la Segretaria generale Maria Rossi”;

– per i “sostantivi di genere ‘epiceno’” (cioè riferibili indistintamente a una donna o a un uomo), l’articolo e l’eventuale aggettivo od aggettivi andavano declinati al femminile se ci si riferiva ad una donna; ad es-.: “la presidente Maria Rossi; l’alta rappresentante Maria Rossi”;

– per la “formazione dei termini femminili” che, secondo le usuali regole grammaticali:

1) le parole che terminano in “-o” diventano “-a”: “avvocata generale, sindaca, ministra”;

2) le parole che terminano in “aio”, “ario” diventano: “aia”, “aria” diventano: “notaia, primaria”;

3) le parole che terminano in “iere” diventano “iera”: “infermiera, consigliera”;

4) le parole che terminano in “sore” diventano “sora”: “revisora, assessora”;

5) le parole che terminano in “tore” diventano “trice”: “direttrice, redattrice”

– il suffisso “essa” andava evitato, avendo “connotazione ironica o spregiativa”, addirittura venendo usato per designare “la moglie del titolare della carica” (ad es. “presidentessa” quale la moglie del presidente) ed essendo opportuno solo mantenere le forme già entrate nel lessico italiano, ad es: “studentessa, professoressa, dottoressa, poetessa, sacerdotessa”;

– ed ancora “da evitare”, in quanto prassi “dissimmetriche e rivelatrici di un diverso trattamento linguistico di donne e uomini”, l’uso dell’articolo determinativo “la” precedente il cognome per designare una donna ma non per designare l’uomo, ad es.: “la Merkel (o: la signora Merkel) e Juncker” e che, per assicurare simmetria, era preferibile.: “Merkel e Juncker; la signora Merkel e il signor Juncker; Angela Merkel e Jean-Claude Juncker”.

Il Parlamento europeo7 rammenta nelle conclusioni le significative parole di Alma Sabatini: “Pur rendendoci conto che la lingua non può essere cambiata con un puro atto di volontà, ma pienamente consapevoli che i mutamenti sociali stanno premendo sulla nostra lingua influenzandola in modo confuso e contraddittorio, riteniamo nostro dovere intervenire in questo particolare momento per dare indicazioni affinché i cambiamenti linguistici possibili registrino correttamente i mutamenti sociali e si orientino di fatto a favore della donna… Se si vuole quindi avere e dare un’immagine delle donne come persone a tutto tondo, come individui con potenziale non stereotipicamente delimitato, si dovrà scegliere e saggiare parole e immagini, ascoltarne le risonanze e coglierne le associazioni e, soprattutto – riprendendo il consiglio di Orwell – scegliere ‘le parole per il significato e non il significato per le parole’, senza mai ‘arrendersi’ alle parole stesse”8.



3. Il linguaggio nei provvedimenti civili in Italia: gesti, parole e discriminazioni





Il termine “linguaggio” ha molti significati spazia, infatti, da quello di strumento di comunicazione scritta o verbale o visiva, a quello di narrazione o di rappresentazione o di raffigurazione od ancora di riproduzione od ascolto involgendo ambiti diversi, talora lontani.

Nella parte introduttiva si è visto quanta attenzione sia stata posta giustamente in Europa per l’uso di un linguaggio neutro ed inclusivo, non sessista.

Un obiettivo necessario e da conseguire ovunque da parte di tutti gli Stati membri, anche dall’Italia.

Quanto all’ambito giudiziario italiano certo è più agevole parlare di linguaggio nei provvedimenti con riguardo a quelli “penali” e tra essi, in particolare, a quelli relativi a reati di violenza di genere, domestica od assistita da minori, od ai femminicidi, per i quali è forte l’attenzione mediatica ed immediatamente si pone all’attenzione un suo uso improprio ed ancora un suo uso ambiguo o palesemente sessista suscita comunque delle pronte e vivaci reazioni.

Nei “provvedimenti civili” (tema assegnatomi) è meno facile rilevarlo e occorre talora disvelarlo dalla cortina di apparente neutralità o di pretesa indifferenza linguistica, dietro cui si cela Cominciamo con il riflettere che il nostro codice civile risale al 1942 ed a quale era allora la situazione della società italiana e poi a quanto radicali siano stati i mutamenti in questi ottanta anni intervenuti quanto al ruolo della donna.

All’epoca della promulgazione del codice nessuno può porre in dubbio che il legislatore non si ponesse obiettivi di riequilibrio di genere.

Anzi.

A quel tempo alle donne era riservato un ruolo essenzialmente domestico, tipico delle società patriarcali.

Durante il regime fascista in poche studiavano e di fatto, per scoraggiare le donne agli studi superiori, le tasse universitarie per le studentesse erano più elevate (dal 1929 del 50% in più). Le donne avevano perso il diritto “all’insegnamento” di filosofia, storia e letteratura italiana nelle scuole superiori (salvo che negli istituti “magistrali”…) ed erano escluse dalla vita culturale in quanto considerate scientificamente “meno adatte”, salvo che per lo scrivere sulla cura di figli e della casa.

In poche lavoravano e quante avevano iniziato a farlo durante la prima guerra mondiale erano poi state indotte a rinunciarvi al ritorno dal fronte dei reduci e quelle che continuavano, spesso di ceto non elevato, svolgevano solitamente lavori di bassa valenza e dietro salario più basso di quello degli uomini (di un terzo e più). Nella pubblica amministrazione rivestivano sempre ruoli inferiori a quelli degli uomini che, dal 1933, venivano assunti in posizioni superiori rispetto alle colleghe, le quali dal 1938 non potevano comunque superare il 10% di coloro che vi lavoravano.

La vita pubblica e sociale delle donne era cadenzata dall’obbligo di partecipare ad adunanze/riunioni/raduni di gruppi femminili fascisti di appartenenza (Giovani Italiane, Fasci Femminili o Massaie Rurali) e, se possibile, svolgere attività caritatevoli ed il loro compito primario era la “maternità”, il loro personale contributo alla “causa nazionale” politica e sociale.

Un compito osannato.

Un vero “culto”, tanto che dal 1927, quando il Duce aveva dato vita alla “campagna per l’aumento delle nascite”, le più prolifiche erano premiate con il conferimento della tessera “d’onore” del Partito nazionale fascista ma nondimeno entro le mura di casa ed in famiglia non godevano di diritti e anch’esse non avevano alcun riconoscimento, essendo totalmente soggette alla potestà del marito, che poteva su di esse esercitare anche lo “ius corrigendi”.

Il codice civile del 1942 è lo specchio di quella società patriarcale.

Nel suo stesso testo, nelle parole usate, nei contenuti, palesa quel mondo e con esso il ruolo sociale che era riconosciuto alle donne.

Un mondo ove la voce delle donne era assente. Dal dopoguerra la situazione è mutata.

La donna ora vota, studia, lavora, insegna.

Dalla seconda metà degli anni ’60 può anche giudicare, compito che sino ad allora le era stato precluso in quanto “naturalmente” reputata inadatta.

È grande dunque la strada percorsa da quando era “l’angelo del focolare” e la serva silenziosa ed obbediente, senza diritti” nella società patriarcale di cui il codice civile del ’42 era l’espressione.

Oggi il linguaggio9 ed anche il linguaggio codicistico dovrebbe pertanto riflettere tali significativi mutamenti della società italiana.

Il linguaggio, anche in ambito giudiziario, dovrebbe essere equo ed inclusivo in termini di genere (come raccomandatoci dalle Linee Guida Europee) per effettivamente promuovere il cambiamento sociale e il reale conseguimento dell’uguaglianza tra donne e uomini: ma è così?

Il tema è complesso.

Nei provvedimenti “civili” il linguaggio necessariamente riflette e fa applicazione di quel codice civile tuttora vigente, che

– seppure parzialmente innovato dagli anni ’70 con la riforma del diritto di famiglia e successive leggi (che hanno posto fine alla “famiglia patriarcale” e all’indissolubilità del matrimonio ed ancora alle disuguaglianze tra i figli nati entro e fuori dello stesso) – nella restante parte è tuttora androcentrico.

Al suo centro è “l’uomo” e non la “persona”, così come lo era all’atto della sua promulgazione durante lo Stato “autoritario” del ventennio fascista, dei cui valori era espressione.

Il codice civile, negli altri suoi libri, non è stato rivisto in oltre settanta anni dopo la nascita della Repubblica e la Carta Costituzionale.

Non sono state modificate le espressioni utilizzate o mutati i termini androcentrici.

Non se ne è sentita l’esigenza.

Eppure con riguardo a questo testo normativo non può certo parlarsi dell’avvenuto utilizzo nella stesura di voluto e consapevole “maschile inclusivo”, di linguaggio “non sessista”, pensiero questo che era estraneo all’allora legislatore all’atto dell’avvenuta promulgazione del codice.

Le parole sono pietre.

Nel loro uso non sono mai neutre.

L’uso delle parole determina la nostra visione del mondo e, attraverso il mantenimento delle stesse nei testi di legge, si perpetua dunque una visione della società oramai superata.

L’androcentrismo del linguaggio nei provvedimenti giudiziari comporta l’ingiustificabile reiterarsi di una visione normativa che è codificata “al maschile”, con essa di una visione patriarcale che resiste e che ingloba il genere femminile in quello maschile, ove scompare.

Un mondo ove le donne sono invisibili. Ciò che non è nominato, non esiste.

Parole, comunicazione e linguaggio, operano nella mente di chi legge o scrive, di chi parla o ascolta.

L’assenza di visibilità delle donne, il loro non venire nominate ma anzi ignorate e sussunte nell’opposto genere, ha l’ulteriore effetto che gli interessi delle donne spesso, troppo spesso, non vengano valorizzati, talvolta neppure considerati. Occorre cambiare ed imporsi di cambiare nel nostro linguaggio, verbale o scritto che sia.

Il cambiamento culturale auspicato interviene solo con l’effettiva e profonda sua innovazione, con l’attento uso delle parole ovunque, anche in ambito giuridico.

Tanto sarà frequente l’uso di un linguaggio realmente “neutrale ed inclusivo” atto a valorizzare entrambi i generi, tanto il mutamento culturale si sarà effettivamente radicato.

Occorre insistere dunque nell’uso di un linguaggio rispettoso dei generi per diffonderne la “cultura”, un problema vanamente già sevidenziato in Italia da tempo, da quasi cinquanta anni.

A livello istituzionale negli anni ’80 la Presidenza del Consiglio dei Ministri diede incarico per approfondire la questione ad Alma Sabatini. Fece seguito la stesura del libro Il sessismo nella lingua italiana10 ed altresì la pubblicazione delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, studi che smascherarono il “sessismo” nascosto nelle pieghe della lingua italiana stimolando l’uso del femminile in ogni ambito rilevando che “il maschile non marcato”, per la sua ambivalenza, andava evitato e che era necessario ricercare delle altre alternative, compatibili con il sistema della lingua italiana, per: “dare visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile”, evitando l’uso delle parole “uomo” e “uomini” in senso universale.

Sono oramai passati tanti anni da allora ma… poco è cambiato.

Nel nostro Paese si continua ad utilizzare il sostantivo “uomo” nei testi legislativi e nei provvedimenti giudiziari “per ricomprendere anche la donna” a differenza di quanto avviene in altri Paesi ove, in suo luogo, è usata l’espressione “essere umano” (GB, USA, Russia, Cina, Messico, Francia) o il termine più generale di “persona” (Germania, Canada, Portogallo, Finlandia), entrambi usi lessicali che si riverberano positivamente nel linguaggio.

Nella nostra Italia, il codice civile del 1942 all’art. 978 c.c. tuttora parla, quanto alla costituzione dell’usufrutto, di una “volontà dell’uomo” ed all’art. 1073 c.c., quanto all’estinzione della servitù, di: “il fatto dell’uomo” ed ancora prevede all’art. 1031 c.c. che le servitù possano essere costituite: “per destinazione del padre di famiglia”.

Il codice civile quando indica i ruoli e compiti dei i soggetti di cui si occupa, usa sempre e solo il maschile, ad es.; l’imprenditore, l’institore, il testatore ecc.

Potrei ancora continuare a lungo con altri esempi ma mi sembra più utile dare rilievo al fatto che, anche cambiando l’ambito normativo, il quadro non muti.

Con la legge di ratifica del 1954 della “The Convention for the Protection of Human Rights an Fundamental Freedom”, il nostro legislatore ha intitolato la convenzione quale: “Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali”.

Gli artt. 46-48 d.l. 30 aprile 1992 n. 285 “Codice della Strada”, quanto alla nozione di “veicolo”, dispongono che lo sono: “tutte le macchine di qualsiasi specie, che circolano sulle strade guidate dall’uomo…” e quanto ai “veicoli a braccia” che lo sono: “quelli: a) spinti o trainati dall’uomo a piedi”, seppure la specificazione e l’uso del termine “uomo” fosse del tutto superflua.

Ma vi è di più.

Di recente il legislatore, forse volendo adeguare il linguaggio dei testi di legge a prossime modalità di riproduzione della specie, nel 2013 all’art. 61, comma 11-quinquies c.p. ha previsto tra le aggravanti penali: “… l’avere… commesso il fatto in presenza o in danno… di persona in stato di gravidanza” e nel 2021 all’art. 4, secondo comma, sub a) della legge 5 novembre 2021, n. 162 (di modifica al d.lgs. 11 aprile 2006

n. 198 c.d. Codice delle Pari Opportunità) circa “il numero dei lavoratori di sesso femminile… in stato di gravidanza”. Sicuramente disposizioni normative dal linguaggio alquanto innovativo.

Amalia Signorelli, antropologa ed accademica recentemente scomparsa, nel 2017 ha lavorato alla proposta di legge n.4643 del 15 novembre 2017, presentata alla Camera dei Deputati dalla on. Titti di Salvo, per la correzione nei codici e nelle leggi italiane del termine “uomo” con quello di “persona”, proposta ora ferma in Parlamento dopo la fine della scorsa legislatura.

Negli atti giudiziari persiste comunemente l’uso del maschile “non marcato” e l’indicazione conseguente: “il giudice, il pm, il consigliere, l’avvocato, il cancelliere” e solo raramente sono utilizzati: “la giudice, la pm, la consigliera, l’avvocata e la cancelliera”, rarissima la menzione poi senza l’anteposizione dell’articolo determinativo “in adesione ad un linguaggio neutro”.

Se una modifica di tale diffuso uso può essere forse frutto di comprensibili resistenze maschili, per quanto antistoriche e sostanzialmente obsolete, appare discutibile quella delle donne motivata da una pretesa “bruttezza” della denominazione del titolo al femminile e talora da una reputata propria conseguente svalorizzazione: quasi che l’uso corretto del linguaggio di genere ne limitasse il ruolo rivestito e senza comprendere – come osservato dalla saggista Liliana Lanzarini – che: “…se un titolo maschile può apparentemente dare prestigio alla loro carica ‘esso toglie però sicuramente dignità alla loro persona, svelando l’insicurezza che le spinge a ricercare un’improbabile mimetizzazione. Né vedono quanto diventi difficile accettare e rispettare davvero una persona, che mostra di avere così poco rispetto per se stessa da essere pronta perfino a rinnegare la propria identità umana’. Tutte tali resistenze all’uso del genere grammaticale femminile nei titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne in ogni caso celano in ragioni di tipo culturale e mostrano la necessità di una diffusa crescita culturale nel nostro Paese”.



4. Gesti, parole e segni di discriminazione, linguag- gio: l’attività dell’ADMI Associazione Donne Magi- strato Italiane





L’ADMI Associazione Donne Magistrato Italiane11 che ho avuto l’onore di rappresentare dal 2014 al 2021 per i due mandati statutariamente previsti, si occupa da tempo di linguaggio e nell’ultimo quinquennio lo ha fatto intensamente con incontri decentrati sul territorio nazionale ed anche, assieme all’ANM, in Corte di Cassazione in tre incontri tematici susseguitisi a cadenza annuale, cui hanno partecipato una trentina di auto- revoli relatrici e relatori tra il 2018 ed il 2020.

Gli atti di tali tre incontri di studio sono stati pubblicati lo scorso dicembre 2021 nel volume intitolato: Donne Magistrato: comunicazione, linguaggio giuridico e ascolto. Non solo diritto (Milano, 2021)12.

L’ideazione degli incontri è nata da una lunga chiacchierata con l’allora presidente della CPO-Cassazione, socia ADMI, e l’iniziale nostro intento era quello di verificare nella giurisprudenza di legittimità e non, se nel linguaggio e nelle decisioni assunte vi fossero state innovazioni giurisprudenziali “frutto dell’apporto del lavoro delle giudici” dopo l’avvenuto loro tardivo ingresso in Magistratura nella seconda metà degli anni ’60.

Il compito che ci eravamo proposte è risultato troppo difficoltoso per le scarne forze della nostra associazione e nel consiglio direttivo abbiamo dovuto prendere atto della complessità della stessa ideazione, in chiave scientifica, di “griglie” di raccolta dati o dell’individuazione di criteri di selezione oggettiva dei campioni di legittimità e di merito.

A livello europeo, solo in Portogallo al momento è in atto un analogo studio da parte dell’omologa associazione delle magistrate portoghesi, con l’aiuto peraltro del mondo accademia, una ricerca che sarà di grande interesse scientifico.

Come ADMI si è, dunque, preferito approfondire le variegate forme del linguaggio: dalla comunicazione al linguaggio giuridico o all’ascolto.

Il volume, che raccoglie gli atti, non formula conclusioni lasciando volutamente ad ogni lettrice o lettore di trarle dalla lettura delle plurime voci maschili o femminili che racchiude. Sono riflessioni che arricchiscono e il cui contenuto emerge scorrendo lo stesso indice del libro e che consente di esplorare l’ampiezza del “linguaggio” affrontando tematiche quali: lingua/genere/diritto; ruolo od intreccio tra “femminile e maschile” (ad esempio nella psiche); comunicazione giudiziaria “orale” e non; ascolto in ambito giudiziario e sia nel processo civile che in quello penale che nella prospettiva dei giudici e avvocati; linguaggio delle “donne della Costituente” (le 21 grandi nostre indomite Madri Costituenti a fronte di 555 Padri Costituenti); comunicazione dell’attività della Corte Costituzionale; body shaming; cyberbullismo; bullismo; revenge porn: l’odio on-line;

intelligenza artificiale e rispetto diritti fondamentali13.

Una raccolta di preziose schegge frutto di una appassionata riflessione corale.

Un cammino che continuerà e che gli stimoli dell’incontro odierno implementerà.



5. Gesti, parole e segni di discriminazione, linguaggio: poche riflessioni ulteriori e conclusioni





Nel concludere mi sembra ancora necessaria una riflessione sui pregiudizi e stereotipi che inconsciamente o comunque del tutto inavvertitamente possono interferire sulla decisione giudiziale e sull’iter di sua formazione.

Riconoscerli e disvelarli non è sempre agevole.

Tra i casi più recenti all’attenzione della magistratura, dell’avvocatura e della società civile desidero conclusivamen- te citarne due di opposto esito giudiziale.

Il primo caso è quello tragico della “prof veneta trans-gender”, all’anagrafe registrata con nome maschile, un’insegnante veneta di una scuola secondaria superiore, che un giorno fece ingresso in classe in abiti femminili e, con pubblico “outing”, chiese agli studenti di essere da allora nominata al femminile. Le venne inflitta, a seguito della segnalazione di un genitore alla assessora regionale del Veneto all’Istruzione, la sospensione di tre giorni e – per quanto noto da notizie di stampa14

– da tal momento la “prof” venne privata in forma definitiva da incarichi di insegnamento ed assegnata a lavori in segreteria dell’Istituto scolastico. Ricorse vanamente al giudice del lavoro che (si legge ancora sulla stampa), pur senza volere criticare una sua “legittima scelta identitaria” avuta dall’infanzia, ritenne la legittimità della sospensione e che la stessa “era stata giusta” in assenza di una preparazione della classe e che l’outing non era stato “responsabile e corretto”. Dopo il suicidio della “prof” la politica15, per voce del competente ministro D’Incà, ha affermato che si era trattato di: “Una storia terribile che impegna ognuno di noi a non voltarsi dall’altra parte e a lavorare per costruire un Paese realmente inclusivo e senza pregiudizi… Una storia di sofferenza, emarginazione, diritti negati e solitudine che nessuno è stato in grado né di capire, né di risolvere attraverso il sostegno e la comprensione di cui (omissis) aveva chiaramente bisogno” e che è auspicabile che: “ognuno si senta libero di esprimere la propria sessualità e la propria affettività pienamente e senza alcuno stigma”.

È di recente la vicenda stata oggetto di dibattito in parte della magistratura (Magistratura Democratica) che – come riporta l’ANSA16 – ha affermato: “Non ci lascia indifferenti non solo come cittadini e cittadine, ma prima come magistrati di questa Repubblica cui spetta di rimuovere di fatto gli ostacoli che impediscono una vera uguaglianza. Perché la professoressa… aveva chiesto nel processo che fosse riconosciuto il suo diritto a essere quella che sentiva di essere, aveva chiesto di dichiarare che quello che lei era (una donna, non un uomo vestito da donna) non rappresentava alcuna violazione degli obblighi del suo lavoro di insegnante. Nel processo ha avuto torto. È stata una decisione sbagliata, non moralmente o eticamente non condivisibile, ma giuridicamente sbagliata. Perché i divieti di discriminazione proteggevano la diversità della professoressa… e quindi impedivano che quella diversità potesse essere qualificata inadempimento disciplinarmente sanzionabile. L’amministrazione scolastica, i genitori, gli allievi non avevano quindi diritto di pretendere un coming out ‘corretto’ o ‘responsabile’, avevano invece l’obbligo giuridico di rispettare l’identità della professoressa… Il fatto che non sia successo è anche responsabilità del sistema giudiziario, una responsabilità che sentiamo come nostra, di ciascuno di noi” andando data applicazione alle regole del diritto ed al sistema valoriale che le sostiene.

Altra parte della magistratura (Magistratura Indipendente)17 ha contestato tali assunti che: “Non è in discussione il diritto di critica dei provvedimenti giudiziari, se esercitato nei limiti della continenza e con serietà di argomentazioni, ma la vicenda di personale sofferenza della professoressa…, culminata in un tragico gesto sulle cui intime e profonde ragioni potremmo a lungo, ma forse inutilmente, interrogarci, avrebbe meritato anzitutto un rispettoso silenzio…” e che il dibatterne pubblicamente era “potenzialmente in grado di sovraesporre e anche mettere a rischio l’incolumità dei colleghi estensori di difficili provvedimenti, su temi fortemente discussi e contrastati anche nella società civile…” mentre sarebbe stato necessario: “interrogarci tutti, nelle sedi opportune e con umiltà, se vi sia o meno un problema diffuso di adesione inconsapevole al pregiudizio di genere nell’attività giudiziaria, e mettere a tema questi interrogativi…”.

Il pregiudizio inconsapevole va disvelato.

Per farlo occorre essere molto vigili, agendo esso inconsciamente anche tra e negli operatori del diritto.

Il secondo caso è stato oggetto di recente pronuncia della

C.A. Trieste, sentenza ora in giudicato.

La decisione riguarda un unico “oggetto”, che era residuato all’esito di un precedente riconoscimento “giudiziale” di paternità, quello della posizione del patronimico e del matronimico nel cognome della minore di sette anni ed in particolare del se o meno anteporre al cognome materno quello paterno. Secondo un Tribunale di questo distretto giudiziario “l’identità del minore” al momento della decisione di primo grado era ancora in corso di formazione, non essendo intervenuto l’ingresso della bambina “nella scuola dell’obbligo”, dalla cui sola frequentazione – secondo il giudice di primo grado – traevano origine le interrelazioni sociali e personali del minore, inoltre l’aggiunta del cognome paterno posposto a quello materno avrebbe portato la minore “a vivere situazioni di disagio con i compagni” di scuola, venendo esposta alla naturale curiosità dei compagni per la posizione del suo doppio cognome (quello materno anteposto al paterno) “con possibile turbamento della serenità”, infine non rilevando la circostanza che “dalla nascita” la bambina fosse conosciuta e si identificasse con il solo cognome materno, fatto reputato “secondario” in contrapposizione “all’uso abituale del patronimico” in Italia18. La Corte d’Appello nel riformare la decisione ha rilevato l’apoditticità del giudizio espresso dal Tribunale, che non teneva conto che l’identità personale si acquisisce alla nascita quale diritto fondamentale, giudizio inoltre non supportato da verifiche o riscontri quanto al fatto che l’uso matronimico “come primo cognome” potesse, in futuro, creare disagi alla bimba con i suoi compagni di scuola, valutazione frutto di un pensiero adulto, retaggio di un mondo ancestrale, arcaico e patriarcale non rispettoso della piena parità fra i generi riconosciuta dalla Costituzione e di persistenza nel giudicante di vecchi stereotipi e pregiudizi culturali non ben superati, che andavano disvelati e non potevano fondare la scelta giudiziale.

In questi giorni, non posso non ricordarlo, il 22 aprile 2022 la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla norma che non consente ai genitori, di comune accordo, di attribuire al figlio

il solo cognome della madre e su quella che, in mancanza di accordo, impone il solo cognome del padre, anziché quello di “entrambi” i genitori, dichiarando l’illegittimità costituzionale delle norme per contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. La Corte Costituzionale, come si legge nel comunicato dell’Ufficio Stampa della Consulta, ha ritenuto: “discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre. Nel solco del principio di eguaglianza e nell’interesse del figlio, entrambi i genitori devono poter condividere la scelta sul suo cognome, che costituisce elemento fondamentale dell’identità personale. Pertanto, la regola diventa che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine dai medesimi concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due. In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto

dispone l’ordinamento giuridico”19.

Tutti i casi ricordati portano alla memoria le profonde parole della magistrata, studiosa di questioni di genere, Teresa Massa che, ancora venti anni fa, aveva osservato come nelle società “evolute” il vero rischio di discriminazioni era proprio: “nella difficoltà di liberare noi stessi dai pregiudizi mentali e culturali, attinenti alla differenza di genere, che condizionano inconsapevolmente il nostro modo di essere, di pensare e di percepire la realtà (è ciò che gli psicologi cognitivisti chiamano, con termine inglese, ‘gender bias’)…”, soggiungendo “Coltiviamo quotidianamente l’illusione di conoscere e di giudicare attraverso un’attività razionale ed invece siamo costantemente orientati, ingannati, appesantiti dal fardello di ‘moduli mentali’ che ci fanno percepire la realtà secondo automatismi prestabiliti, conformi alla cultura ed ai costumi del tempo. Quando conosciamo, e dunque giudichiamo, fatti che abbiano una qualche attinenza con la differenza di genere, utilizziamo, in modo del tutto inconscio, gli stereotipi dell’uomo e della donna che sono dentro di noi, le idee preconcette sul ruolo maschile e femminile nel ‘sociale’ e nella vita familiare, la convinzione che alcuni caratteri siano propri del genere maschile ed altri di quello femminile. Così, nel mondo giudiziario, pur di fronte al riconoscimento formale della piena uguaglianza tra uomini e donne, il sistema non riesce nell’intento di assicurare di fatto la parità di tutela e di condizioni tra i sessi, e l’ostacolo è rappresentato esclusivamente dai nostri limiti di cognizione, dai pregiudizi, dalla pigrizia mentale che si manifesta nell’attività di giudizio, propria del giudice, e nel modo di atteggiarsi dell’ambiente giudiziario…” e che “Una delle forme di resistenza più comuni all’informazione del ‘gender bias’, da parte dei magistrati, è quella di negare nella sostanza il fenomeno…”, rammentando che negli USA la soluzione era stata trovata con l’istituzione di un programma di formazione, il National Judicial Education program to Promote Equality for Women and Men in the Courts20, che era stato affidato a studiosi di scienze sociali ed a magistrati.

Una soluzione interdisciplinare certamente percorribile, che parte della Magistratura italiana auspica e che credo sia condivisa da quanti sono presenti.

Proviamoci allora a farlo, in sede locale e nazionale, lavorandovi congiuntamente per contribuire “assieme”, per quanto possiamo, a quel balzo culturale di cui il Paese ha bisogno e che insistentemente l’Europa da tempo chiede.

Non continuiamo a negare il fenomeno od il suo significato e il rilievo.

Lo si è già fatto troppo a lungo.

È ora giunto il tempo di cambiare.































NOTE

* Relazione tenuta all’Università degli Studi di Trieste il giorno 27 maggio 2022 “gesti, parole e segni di discriminazione. un anno dopo la sentenza cedu j. lc. c-Italia”. Testo pubblicato anche dalla rivista dell’A.N.M. “La Magistratura” (https://lamagistratura.it/diritto-e-societa/il-linguaggio-nei-provvedimenti- civili/?amp=1)

1 https://www.europarl.europa.eu/factsheets/it/sheet/59/parita-tra-uomini- e-donne.

2 Nel Rapporto CEE “Gender Equality 2017” per la Magistratura Europea è risultato che solo in pochi Stati è stato raggiunto lo “standard minimo” che era stato ipotizzato. La ‘media’ europea dei Paesi-Membri si è attestata su livelli più bassi, nella specie: quello del 33% nelle Corti Supreme, del 28% negli organi di Autogoverno e del 51% negli uffici di primo grado. In Italia i dati sono molto “al di sotto” ulteriormente dell’obiettivo perseguito in ambito europeo (ad es.allora ben lontano il 30% negli incarichi apicali direttivi o nell’organo di Au- togoverno, ove nel 2017 neppure 30 erano state le consigliere togate a fronte di quasi 500 componenti uomini togati a fare data dalla nascita del CSM). Un risultato oggettivo e che parla da solo, che fa riflettere, come altresì fanno riflet- tere l’intervenuta condanna del giugno 2020 dell’Italia da parte del Consiglio di Europa o la sentenza Corte eur. dir. uomo, Sez. I, 27 maggio 2021, J.L. c. Italia,

n. 5671/16 (https://www.sistemapenale.it/it/scheda/corte-edue-condanna-ita- lia-pregiudizi-donne-sentenza).

3 Ad esempio, è stato reputato appropriato rivolgersi a un pubblico con la formula “Signore e Signori” o aprire uno scambio di corrispondenza con “Gentile Signora, Egregio Signore” ma reputato invece per la redazione di un documento legislativo necessario l’uso di vincoli formali più rigidi pur tuttavia “chiari, semplici, precisi e coerenti”, atteso che la maggior parte delle occupazioni è tuttora connotata dal genere grammaticale “maschile” tranne poche eccezioni (ad esempio: “levatrice”) e considerato che il senso di discriminazione è in essi più forte, inoltre che avevano già iniziato a prendere piede in Europa gli equivalenti femminili di quasi tutte quelle funzioni per le quali, in origine, esisteva solamente il genere maschile, ad es: Kanzlerin (Cancelliera), presidente (presidente donna), senatrice (senatrice), assessora (assessore) ed altresì che era sempre più accettata in molte lingue europee in ogni caso la “prassi” di sostituire la forma generica maschile “con l’esplicitazione della forma maschile e di quella femminile”, ad es.: “tutti i consiglieri e tutte le consigliere” cosicché l’uso della forma generica maschile non è più oramai una prassi prevalente persino negli atti legislativi, in tal senso ad es.: nella versione tedesca del trattato di Lisbona il termine generico “cittadino (dell’Unione europea)” è nella duplice forma: Unionsbürgerinnen und Unionsbürger (cittadini/cittadine (dell’Unione).

4 https://www.europarl.europa.eu/cmsdata/187102/GNL_Guidelines_IT-original.pdf.

5 Rilevano le Linee Guida Europee la presenza in Europa di: 1) Lingue caratterizzate dal genere naturale (come ad esempio il danese, l’inglese e lo svedese): in queste lingue i nomi riferiti a persone sono prevalentemente neutri, mentre i pronomi personali sono specifici per genere. La tendenza generale in queste lingue consiste nel ridurre il più possibile l’uso di termini connotati in termini di genere. La strategia linguistica usata più frequentemente è la neutralizzazione potendosi. per evitare riferimenti al “genere”, termini privi di ogni connotazione e che rimandano al concetto di “persona” in generale, senza riferimento a donne o uomini, ad es.: in inglese, chairman (presidente uomo) è sostituito da chair (presidenza) o da chairperson (persona che detiene la presidenza); policeman e policewoman (rispettivamente, poliziotto uomo e donna) da police officer (agente di polizia); spokesman (portavoce uomo) da spokesperson (portavoce); stewardess (hostess di volo) da flight attendant (assistente di volo); headmaster e headmistress (rispettivamente, direttore e direttrice di scuola) da director (direttore, neutro) o da principal (preside, neutro). 2) Lingue caratterizzate dal genere grammaticale (come ad esempio il tedesco, le lingue romanze e le lingue slave): in queste lingue ogni sostantivo ha un genere grammaticale e il genere dei pronomi personali concorda con quello del nome cui si riferiscono per cui è quasi impossibile, da un punto di vista lessicale, creare forme “neutre sotto il profilo del genere” che siano ampiamente accettate, venendo quindi raccomandati approcci “alternativi” attraverso la loto femminilizzazione ovvero l’uso delle forme femminili corrispondenti ai nomi maschili o l’uso di entrambe le forme, approccio ivi sempre più diffuso in ambito professionale, ad esempio per i nomi di funzioni e mestieri riferiti a donne. 3) Lingue prive di genere (come ad esempio l’estone, il finlandese e l’ungherese); queste lingue sono prive di genere grammaticale, anche per quanto riguarda i pronomi. Non servono quindi particolari strategie per adottare un linguaggio inclusivo sotto il profilo del genere, tranne in alcuni casi molto specifici, che sono appunto trattati nelle linee guida specifiche per le lingue in questione.

6 È stata richiamata l’attenzione per evitare un linguaggio sessista sul fatto, ad esempio, che: 1) Uso del genere maschile con valenza neutra o inclusiva, tradizionalmente in vigore nella maggior parte delle lingue, vi era la convenzione grammaticale di utilizzare la “forma maschile” come genere “inclusivo” o “neutro” per i sostantivi al plurale riferiti a gruppi di persone o cose appartenenti a entrambi i generi, riservando la forma femminile a un uso “esclusivo” e cioè riferito a persone o cose esclusivamente di genere femminile ed evidenziandosi che in molte lingue, inoltre, l’uso del termine “uomo” in una vasta gamma di espressioni idiomatiche è riferito sia a uomini che a donne, come ad esempio nei termini inglesi manpower (manodopera), layman (uomo della strada), man-made (causato dall’uomo), statesmen (statisti), committee of wise men (comitato di saggi). 2) Nomi di funzione e professione era preferita nei testi esaminati la “forma neutra” nelle lingue caratterizzate dal genere naturale e in quelle prive di genere e che inoltre la forma maschile, in via eccezionale, era usata nelle lingue che hanno il genere grammaticale e l’essere sempre doveroso rispettare la volontà della persona titolare di una determinata carica che abbia espresso una preferenza riguardo al modo in cui desidera essere designata. 3) Uso dei titoli di cortesia. In alcune lingue, come ad esempio il francese e il tedesco, titoli come Madame o Frau (signora) e Mademoiselle o Fräulein (signorina) in origine servivano a indicare lo stato civile di una donna, cui la prassi amministrativa si adeguava pur se il titolo Mademoiselle era in via oramai di eliminazione dai moduli amministrativi nei paesi francofoni, ove rimaneva ora solo la scelta tra Madame (signora) e Monsieur (signore).

7 http://www.funzionepubblica.gov.it/sites/funzionepubblica.gov.it/files/do- cumenti/Normativa%20e%20Documentazione/Dossier%20Pari%20opportuni- t%C3%A0/linguaggio_non_sessista.pdf.

8 Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, estratto da

A. SABATINI, Il sessismo nella lingua italiana, Roma, 1987.

9 dIOTIMA, Il pensiero della differenza sessuale, Milano, 1987; L. IRIGARAy, Il sesso del discorso, in Inchiesta, 1987, 78, e Parlare non è mai neutro, Roma, 1991; C. ROBUSTELLI, Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, Accade- mia della Crusca, 2012 e Donne Grammatica e Media; S. CAVAGNOLI, Linguaggio giuridico e linguaggio di genere: una simbiosi possibile, Alessandria, 2012.

10 A. SABATINI, “Il sessismo nella lingua italiana”, Roma, 1987. Le proposte di Alma Sabatini sono nel Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle am- ministrazioni pubbliche pubblicato presso il Dipartimento per la Funzione Pub- blica della Presidenza del Consiglio dei Ministri (1993) e nel Manuale di Stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche. Proposta e materiali di studio, a cura di A. FIORITTO (1997).

11 ADMI è un’associazione di donne magistrato, costituita nel 1990, indi- pendente da ogni altra organizzazione e che rifiuta ‘ogni connotazione politica’. Una associazione ‘trasversale’ rispetto alle correnti associative della magistratura e che ha tra i suoi obiettivi quello di “approfondire problemi giuridici, etici e sociali riguardanti la condizione della donna nella società” oltre che di “promuovere la professionalità della donna giudice a garanzia dei cittadini e per il miglior funzionamento della giustizia”. Una associazione il cui lavoro ha portato, tra le altre cose, all’isti- tuzione del CPO presso il CSM e poi dei CPO distrettuali.

12 Gli incontri sono stati dedicati ad indimenticate colleghe magistrate (ora scomparse) per l’appassionato loro impegno per una “giustizia aperta alla società civile” e ad esse, dopo gli accadimenti dell’estate 2021, è stata aggiunta una ma- gistrata afgana. I proventi sono stati devoluti a scopi benefici in favore di (due) piccole associazioni di volontariato.

13 Il libro è arricchito dalla possibilità di visione del filmato “Immagini Fem- minili” dell’Istituto Luce sul cammino nel tempo della donna, grazie alle interlo- cuzioni intercorse per le finalità culturali degli incontri (visibile inquadrando un “Qcode” che è nel libro con cellulare o tablet).

14 https://www.veneziatoday.it/cronaca/cloe-prof-trans-perde-ricorso.html. https://www.repubblica.it/cronaca/2022/06/14/news/la_solitudine_di_cloe_ bianco_la_prof_transgender_che_si_e_uccisa_dando_fuoco_al_suo_cam- per-353846808/.

15 https://www.lastampa.it/cronaca/2022/06/14/news/la_storia_di_cloe_ bianco_la_prof_transgender_che_si_e_data_fuoco_nel_suo_camper_ora_ sono_libera_la_scuola_la_sospese_do-5405846/.

16 https://www.ansa.it/veneto/notizie/2022/06/19/prof-trans-md-processo- le-ha-dato-torto-un-errore_795351dc-fd91-43c5-87c3-82180035fa65.html.

17 https://www.ildubbio.news/2022/06/23/il-caso-cloe-spacca-le-corren- ti-delle-toghe-mi-contro-md-da-voi-parole-pericolose/.

18 https://www.dirittoantidiscriminatorio.it/la-prevalenza-del-patronimi- co-e-una-discriminazione-istituzionale/?fbclid=IwAR1fjcXFmjOq9Xzj2SwKL- brkDK1-q09gLRfpCM.

19 https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_ CS_20220427135449.pdf.

20 T. MASSA, Un tema nuovo per il nostro ordinamento: il Gender Bias, in Giudi- ce-Donna, 2004, 1, 2, https://www.questionegiustizia.it/tag/teresa-massa.