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Riflessioni in tema di responsabilità sociale dell’avvocato

autore: G. Savi

1. Come noto, nello spazio giuridico dell’Unione Europea, al quale il nostro Paese appartiene sin dall’origine, operano straordinari strumenti tesi allo sviluppo di un ambizioso progetto politico in materia di diritti fondamentali.

L’Unione difende i diritti della persona in tre concorrenti prospettive: a) con la difesa dei diritti umani, sulla base della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; b) sulla base dei principi costituzionali condivisi dalle Costituzioni nazionali; c) sulla base dei diritti fondamentali, riconosciuti come tali dalla Carta proclamata a Nizza nel dicembre del 2000, e riaffermati dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre del 2009.

La difesa dei diritti dei singoli costituisce invero patrimonio di civiltà universale.

I Popoli d’Europa “hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni”, riconoscendo “i diritti, le libertà e i principi”, a tutela dei “valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà”; “al centro dell’azione” dell’Unione è posta “la persona”.

Questa estrema sintesi, con le stesse parole testuali della fonte solenne della Carta appena sopra evocata, porta da tempo gli avvocati europei, collettività stimata in circa un milione di professionisti, a riflettere attentamente sul proprio ruolo sociale, per una responsabile consapevolezza in continua evoluzione.

L’evoluzione normativa, difatti, univocamente emergente in tutti i Paesi, segnala crescenti esigenze di maggiori tutele, realmente efficaci e tempestive.

Negli ultimi decenni, infatti, la cultura giuridica dei diritti fondamentali ha fatto passi da gigante nell’elaborazione dei diritti individuali e collettivi, nell’affermazione del principio di eguaglianza, nella costruzione di un moderno concetto di libertà, traducendo in termini giuridici anche i predicati della filosofia politica più avanzata; il diritto vivente ha assorbito gli imponenti stimoli provenienti dalla comunità scientifica e dalla giurisprudenza, sia della Corte di Giustizia europea, della CEDU, come delle Supreme Corti dei singoli Stati membri. Uno dei maggiori temi indagati ha visto il periscopio incentrato sulla funzione esercitata da coloro che sono chiamati a dare attuazione concreta ai diritti ed agli interessi dei singoli, non solo e non più nella dimensione tipicamente processuale, ma anche ai limiti segnati dalle responsabilità che ciò inevitabilmente comporta verso la comunità sociale più ampia.

Ecco allora che tutte le dinamiche delle sedi di intervento incidenti sulle posizioni soggettive dei singoli, hanno finito per porre in straordinaria evidenza il sapere degli “esperti giuridici”, con l’ansia di meglio comprendere quale debba essere il sapere degli avvocati, e di definirne i contorni, non solo per confermarne i tradizionali tratti, ma al tempo stesso per studiarne le contaminazioni prodottesi.



2. Con queste riflessioni di apertura della rubrica, ci si vuol soffermare proprio a fare il punto dello stato dell’arte, sull’onda delle numerose riforme succedutesi, proprio nel nostro settore di elezione, cercando di rispondere all’interrogativo: qual è oggi il sapere che l’ordinamento esige dall’avvocato dedito alla tutela della persona e dei diritti nascenti dalle relazioni di natura familiare nelle quali si sviluppa e realizza la persona umana?

Non v’è chi non veda, come un conto sono le dinamiche che vedono la tradizionale contrapposizione tra la pretesa punitiva dello Stato verso il singolo, tutt’altro conto sono le controversie che insorgono tra singoli in ordine alla violazione nascente da un dato rapporto giuridico di rilevanza economico-patrimoniale, ed ancora tutt’altro conto sono le controversie e la gestione di tratti esistenziali che affondano le radici negli umani rapporti relazionali, in quotidiano divenire, vieppiù nella crescita della persona verso la propria maturità adulta ed ogni altra condizione di vulnerabilità.

Tradizionalmente, la pratica del diritto, cioè l’effettività del riconoscimento dei diritti e la garanzia destinata alla loro custodia, si misura con il suo riconoscimento davanti al giudice e con la sua realizzazione, che si esprime nei vari modi che possiamo sommariamente riassumere, con la irrogazione della sanzione, con la soddisfazione della lesione, con la prevenzione della violazione.

È in questo variegato scenario che il ruolo dell’Avvocatura, sembra rafforzarsi giorno dopo giorno.

Spetta agli avvocati, in quella solitudine di prima linea, rilevare le manchevolezze della legge, la lesione dei diritti, l’uso dei rimedi giurisdizionali.

Certo, non a caso, la Risoluzione del 27 novembre 2004 del CCBE (l’organismo rappresentativo di oltre un milione di avvocati europei) conferma che “gli avvocati sono i custodi dei diritti umani fondamentali e delle libertà, così come dello Stato di diritto”. Ma, oggi e qui, l’interrogativo coglie una peculiare prospettiva: l’avvocato è ancora unicamente quell’“uomo che si erge a difesa di un altro uomo”, in contraddittorio con altra parte (pubblica o privata), avanti ad un giudice terzo, in logica eminentemente contrappositiva quale espressione degli inalienabili canoni del contraddittorio e del diritto di difesa? La comunità sociale esige la capacità di saper affrontare anche la concreta evoluzione dei rapporti umani che si sostanziano nelle relazioni interpersonali, addirittura di potersi surrogare autorevolmente alla funzione istituzionale di Giustizia, con

efficacia equivalente alla statuizione giudiziale? L’innalzamento delle responsabilità che già solo questo in-

terrogativo contiene emerge in re ipsa: una vasta e complessiva responsabilità sociale che chiama a raccolta il ceto forense! Ovviamente, in primo luogo tutte le sue articolazioni rappresentative, tra le quali oggi si annoverano pacificamente anche le associazioni specialistiche maggiormente rappresentative, chiamate ad “illuminare la strada”!



3. Nella storia dell’Avvocatura non costituisce certo ipotesi nuova quella di sopperire ad alcune basilari funzioni, quale sostanziale munus a beneficio della collettività di cui ogni singolo avvocato è parte integrante di primo piano.

Un esempio su tutti: l’originaria chiamata degli avvocati di indiscussa professionalità e autorevolezza acquisita nel Foro di appartenenza all’esercizio suppletivo del potere giurisdizionale, in ruolo “onorario”, per ciò stesso senza oneri per l’Erario, ne costituisce l’archetipo sociale, evocando chiari valori etici che legano la basilare funzione di Giustizia alla comunità di riferimento; seppur nel tempo il ricorso a tale risorsa è come degenerata, quale approssimativo rimedio nei fatti alle carenze di organico della magistratura, oggi in attesa di ricevere una definitiva sistemazione giuridica dopo gli sferzanti rilievi di condanna UE, davvero evidente appare la correlazione tra la comunità ed il ceto chiamato a svolgere quell’essenziale funzione statuale, appunto in termini di responsabilità.

A non diversa conclusione si giunge analizzando lo spessore sociologico sotteso all’istituzione del patrocinio dei non abbienti a spese dell’Erario, ed i doveri di difesa officiosa che il quadro normativo presentava e presenta.



4. Quel che anima queste riflessioni è però il versante inerente addirittura i confini del sapere esigibile dall’avvocato.

Non si tratta soltanto di doveroso aggiornamento della competenza professionale – che costituisce severo vincolo anche deontologicamente sanzionato –, sull’incessante espansione del dato normativo e di quello giurisprudenziale che usiamo definire “diritto vivente”, ovviamente fisiologico al ruolo ogni qual volta si introduce una riforma normativa, ovvero emerge un postulato ermeneutico raggiunto in quella costante osmosi tra la produzione legislativa e la sua applicazione.

Per il vero, è sulla spinta della c.d. globalizzazione che criteri contrastanti hanno finito per aprire varchi, persino sul piano delle fonti del diritto.

Se da un lato non sfugge il peso che ha assunto, anche nei fatti, la “forza del mercato”, con la contaminazione dell’anteriore ruolo sociale dell’Avvocatura, contaminazione risultata obiettivamente incongrua e densa di pericoli proprio per la tutela dei singoli, d’altro canto, è la rivendicazione di effettività che il mondo del diritto è stato chiamato a garantire con crescente attenzione, praticamente in tutti i Paesi.

Lo scontro culturale tutt’oggi in atto tra la visione “positivistica” e quella basata su principi e valori radicati nell’esperienza giuridica – per quel che ci riguarda a quella delle Corti di giustizia in ambito UE con la poderosa osmosi dell’esperienza delle Corti nazionali –, che legittima regole di diritto sorgenti dal basso ed in perenne edificazione adeguatrice, cui contribuiscono con rinnovato fervore, non solo la dottrina, ma anche il Foro e la Magistratura, ne costituisce prova tangibile; purtroppo, alla straordinaria importanza del contesto appena descritto, non corrisponde un adeguato studio delle autentiche conseguenze.

D’altronde, non può neppure sfuggire come questo scontro culturale non ha visto l’archiviazione dell’esperienza positivistica, affidata alla prevalenza del comando legislativo espresso capillarmente, con quella sua forza motiva tradizionale di assicurarne la stabile certezza in uno alla sua eguale applicazione. Certo è che tutte le fonti del diritto, nazionali e sovranazionali, si affermano in realtà grazie ai suoi operatori, artefici

delle concrete dinamiche di Giustizia.

Altrettanto certo che il momento storico segnala un generale “ritorno al diritto”, esigendone anche l’effettività.

Sul punto, non è poi fuori luogo osservare l’altalenarsi delle stagioni politiche, oscillanti perennemente tra conservazione e riformismo, con i giuristi che tendenzialmente e fuor di metafora, in genere propendono, quasi come connaturale alla loro forma mentis, per la rassicurante prevalenza dell’esperienza già acquisita, piuttosto che confidare nell’ipotesi migliorativa intrinsecamente sottesa ad ogni spirito riformatore, ben sapendo che non è mai scontato il risultato “migliore” della nuova prospettiva.

Il compito di elaborare il diritto, come cennato, è oggi assolto in molte sedi, e secondo visioni sociali apparentemente antitetiche: il disegno della conservazione con ripetitivo quanto tranquillizzante riferimento alla prevalenza della legge positiva certa, sempre più frequentemente è messo in crisi da un idea intorno al diritto che muove invece da principi generali, dai quali ricavare la regola del caso concreto, tanto che oramai si parla diffusamente di un sistema casistico; ma non solo; la stessa legislazione oggi sembra aver assimilato il fenomeno dell’indicazione dei principi, piuttosto che della regola minuta, introducendo sempre più frequentemente valori, criteri orientativi, input culturali e simili, piuttosto che comandi di legge precipui. I vuoti normativi emergono di conseguenza con frequenza significativa, siccome individuati da una casistica sterminata, con crescente integrazione della regola giuridica ad opera della sede giurisdizionale, sede chiamata appunto ad apprestare

l’effettiva tutela.

È all’interno di questa cornice che si fa strada l’esigenza di approfondire il severo problema del sapere che l’odierna comunità sociale esige dall’Avvocatura, anche in termini di potenziale adeguatezza.

Il quesito: qual è oggi il tributo di conoscenze e di capacità professionali che la società esige da una Avvocatura responsabile e consapevole?



5. Due esempi recenti, persino clamorosi per la forza dimostrativa che contengono, entrambi frutto dell’anelito riformatore di un sistema reputato complessivamente disfunzionale, proprio in termini di effettività, meritano di essere valutati e discussi.



5.1. Il primo è la chiamata all’impegno della risoluzione non conflittuale delle controversie civili e di quelle inerenti in particolare la regolamentazione della crisi dei rapporti familiari, che nel nostro ordinamento ha portato all’istituzione, tra altre misure di c.d. degiurisdizionalizzazione, della negoziazione assistita. Sintetizzare questo istituto, diciamo dal suo versante culturale, che ha dato luogo all’innovazione giuridica in parola, appare sì arduo, ma al tempo stesso può effettuarsi con me-

todo lineare.

Il conflitto è intrinseco alla esistenza in vita, di tutta la vita, compreso il regno animale e forse anche quello vegetale; questo innato istinto diciamo “violento” oscilla perennemente in alternativa ad una profonda aspirazione, la volontà della “ragione”, frutto dell’“intelletto”!

Il legislatore ha attribuito all’Avvocatura anche il compito di risolvere i conflitti, cioè contenere la violenza che è immanente dentro ogni essere vivente. Questo nuovo strumento di Giustizia aspira a realizzare decisamente questo scopo sociale, che merita davvero l’attenzione delle generazioni future.

Al giudice compete la soluzione autoritativa: gli effetti prescindono dal consenso delle parti! Riconosce chi ha ragione e chi torto, e detta le regole di condotta che le parti dovranno obbligatoriamente tenere a protezione di un certo bene della vita controverso: incarnano la legge generale nel caso concreto, attuandola.

Perciò, l’istituto della negoziazione assistita è uno strumento non autoritativo che produce lo stesso risultato a cui giunge il potere giurisdizionale!

L’accordo raggiunto in negoziazione risponde alle norme di diritto comune in quanto la normativa non contiene alcuna disposizione relativa all’accordo in questione.

Sino ad un momento prima, la transazione (e in qualche misura la convenzione di arbitrato) ne era l’archetipo consegnatoci dalla tradizione: oggi più di ieri siamo assolutamente consci che nulla vieta al legislatore di attribuire gli stessi effetti dell’esercizio del potere giurisdizionale autoritativo a strumenti non autoritativi; mentre è canone pacifico da sempre che la transazione e la sentenza del giudice sono equiparate quanto agli effetti sostanziali.

È opportuno inoltre ricordare come debbano tenersi ben distinte le ipotesi in cui le parti possono anche regolare da sole personalmente il rapporto giuridico controverso (e cioè la maggior parte dei casi ove il negoziatore come il mediatore è solo un facilitatore), da quelle in cui le parti non possono stipulare sic et simpliciter un accordo valido ed efficace, cioè produttivo di effetti (cfr. ad esempio, l’ipotesi ex art. art. 6 l. neg. ass.).

In sostanza, l’indicazione culturale rivolta all’Avvocatura – prima ancora che quella giuridica – è apparsa così sintetizzabile: abbracciate la sfida di far conseguire Giustizia attraverso gli stessi soggetti in conflitto, poiché questa è l’aspirazione sociale meglio rispondente alla realizzazione della persona.

Non è casuale che il disegno risulta emerso con forza proprio nel momento in cui è maturata la consapevolezza della “centralità della persona” nell’ordinamento giuridico.

Questo comporta per ogni avvocato l’enucleazione di almeno tre profili concentrici: a) la parola chiave sembra doversi rinvenire nel verbo “aspirare”, con quell’esaltante ambizione contenuta nell’individuazione del solo ceto professionale che potrà accompagnare per mano i soggetti in conflitto ad autodeterminarsi quali giudici di se stessi; come a dire, solo l’avvocato lo potrà fare e non altri, neppure il giudice; d’altronde, il verbo aspirare è denso di significati, presupponendo la ricerca del cambiamento per migliorare gli altri e realizzare se stessi; b) appropriarsi di questa aspirazione significa allora educarsi a fare a meno dell’autorità che “impugna la spada”, imponendo autoritativamente la soluzione della singola controversia; c) ma prima ancora, significa istruirsi ad un sapere più ampio, per poi regalare questo sapere assolvendo alla funzione di Giustizia.

La conclusione di questo ragionamento è nel segno della “costruzione”, come a dire: costruite questa nuova cultura, che vi vedrà padri autentici di chi vi affida il proprio conflitto e, quindi, le proprie esigenze esistenziali e patrimoniali, più e meglio che rimetterlo nelle mani di un giudice; e con ciò, rammendandoci che anche a Berlino non v’è più certezza di trovare Giustizia!

Ma in cosa si sostanzia il sapere dell’avvocato negoziatore? In cosa può qualificarsi esperto?

La risposta evoca tutto ciò che ruota intorno alle scienze umane che si occupano dello studio dell’interrelazione individuale e della comunicazione; seppur il dato che connota la singola controversia risponde parimenti alle conoscenze giuridiche, patrimonio acquisito dall’avvocato secondo abilità professionale tipica verificata dallo Stato nel momento abilitativo, del tutto evidente che qui si richiede un quid pluris di straordinario peso.

Saper facilitare e guidare il raggiungimento di un accordo tra singoli avvinti dal loro controvertere su un certo bene della vita, presuppone una capacità ed un metodo comunicativo anche non verbale, una consapevolezza dei significati psico-logici delle parole, dei gesti e dei comportamenti; qui non si “confeziona” un risultato standard rispondente ad una regola astratta di ripetitiva applicazione concreta a tutti i casi simili, tanto che l’opera deve tendere a guidare la parte assistita inducendo alla focalizzazione dei problemi piuttosto che della lite in sé e per sé considerata; le situazioni e le condizioni della persona sono difatti più complesse e articolate rispetto alla regola iuris in cui catalogare e risolvere un rapporto controverso.

Questa nuova prospettiva allora presuppone la capacità di saper gestire l’umano sentire, persino le emozioni, anche, perciò stesso, il controllo di quelle proprie; il mezzo presuppone doti di empatia, pur nell’ambito della giusta distanza del professionista; ampie capacità di dialogo, di indurre serenità, rispetto, lealtà, e con ciò stesso la capacità di saper ricercare le risorse individuali, con la finalità di stimolare le parti e, cioè, costruire l’auspicato accordo; si afferma correntemente che la tecnica di un tale sapere è incentrata sull’emersione dei bisogni di ognuno, come nella presa di consapevolezza del dato esistenziale emotivo al fondo del contrasto insorto e sull’assunzione della responsabilità del dialogo per scioglierne il peso delle conseguenze, avendo cura degli interessi autentici piuttosto che dei diritti astrattamente rivendicabili.



5.2. Il secondo esempio possiamo trarlo dalla recente riforma adottata con la l. 21 novembre 2021 n. 206.

Tra le norme di più straordinario impatto riformatore può senz’altro enumerarsi la svolta impressa alla rappresentanza processuale del figlio minore coinvolto nei giudizi che prendono origine dalla crisi del rapporto tra i propri genitori.

Il tenore dei nuovi artt. 78 e 80 del codice di rito, segna uno stacco tra il presente ed il futuro che non è semplicemente una nuova regola iuris, ma una impronta culturale che prende atto della complessità sociale odierna o, se si vuole, che sale dal basso.

La figura del curatore speciale del figlio in età minore, ancora una volta chiama l’Avvocatura ad una prova di responsabilità poderosa, nel similare segno dell’impegno sopra descritto. Ebbene, la “rivoluzione” entrata in vigore per i giudizi promossi a decorrere dal 22 giugno 2022, ci indica che la tutela giurisdizionale del figlio minore deve essere garantita e rafforzata anche attraverso la cura esterna al nucleo familiare, ove necessario persino contro i genitori stessi, dai quali di norma

il figlio minore è naturalmente e legalmente rappresentato.

Il ventaglio dell’innovazione è ancor più marcato in relazione al c.d. grand enfant, con il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione del figlio quattordicenne, all’interno delle dinamiche processuali che riverberano conseguenze sulla propria condizione.

Seppur il ruolo del curatore speciale di cui discorriamo è diverso da quello del difensore, dall’apparato normativo della riforma emerge che destinatari di questa cura speciale degli interessi e dei diritti del figlio minore saranno gli avvocati, per la ragione pratica che in tal guisa potranno costituirsi in giudizio personalmente, con sotteso il messaggio del “risparmio” di risorse.

Non è questa la sede per sottoporre al vaglio di astratta rettitudine dell’opzione posta in essere, che com’è agevole comprendere non è esente da perplessità, tanto più che probabilmente, come cennato, si tratta di uno “stratagemma” per garantire una “retribuzione” in capo allo stesso professionista curatore/avvocato, con ricorso al patrocinio a spese dell’Erario.

Quel che qui rileva è soltanto il ruolo che sarà chiamato ad esercitare questo curatore speciale.

Il curatore dovrà perseguire l’interesse del figlio minore non di altri o di altro; l’input è talmente marcato tanto da abilitare il figlio quattordicenne alla richiesta diretta, nel processo, per la revoca del proprio curatore speciale, ove insorga conflitto o comunque si manifesti una rappresentanza processuale inadeguata.

In sostanza, il legislatore pretende giustamente una rappresentanza processuale vera ed inalienabile (che può persino sommarsi a singoli poteri di rappresentanza sostanziale), tanto da precisare quello che sarebbe ovvio per ogni curatela: “Il curatore speciale del minore procede al suo ascolto” (art. 80, comma 3°, c.p.c.).

Ovviamente, qui parliamo dell’ascolto personale secondo la fondamentale previsione di cui all’art. 315-bis, comma 3°, c.c., mancando un retto ruolo genitoriale, ed essendo l’atto processuale ex art. 336-bis c.c., riservato al giudice.

Come si vede, l’avvocato nominato curatore speciale viene gravato del dovere di rapportarsi personalmente e direttamente con la persona rappresentata, seppur ancora priva della capacità di agire; l’espressione di questa previsione, mostra di voler sciogliere perentoriamente qualsivoglia “equivoco” ermeneutico, probabilmente nella consapevolezza dell’impronta “paternalistica” cui sino ad oggi rispondeva questa figura, nelle eccezionali ipotesi in cui ricorreva la sua nomina, in particolare innanzi al tribunale per i minorenni.

Traducendo la forza di questa disposizione di legge, è indubbio che ancora una volta l’Avvocatura è stata destinataria di un ruolo sociale straordinariamente importante: la cura del miglior futuro degli uomini e le donne del domani, nel percorso esistenziale più delicato di crescita ed educazione verso la loro maturità adulta, cioè del più prezioso patrimonio di una società civile degna di tale nome.

Anche qui però questa responsabilità sociale di ogni avvocato evoca un sapere più ampio.

In cosa dovrà risultare esperto allora questo curatore speciale? Certo è che anche qui al giurista è richiesto un quid pluris specifico, non foss’altro siccome segnato dall’obiettivo cui è funzionalizzato quell’ascolto; altrettanto certo che non si tratta di un “trattamento”, diciamo di natura psico-diagnostico

con attenzione alle ricadute giuridiche.

La risposta sembra potersi enucleare anche qui nelle capacità comunicative con linguaggio (soprattutto non giuridico) appropriato all’età; nell’impegno teso a conoscere il minore con il necessario tempo, immedesimandosi nel suo vissuto, alla conquista della fiducia, nella collaborazione ed il sostegno; nella capacità di individuare gli adattamenti praticabili; nelle doti gestionali; nell’indole tesa alla soluzione ragionata dei problemi; significativa poi la specifica capacità di rappresentazione informativa (particolarmente doverosa), come la capacità di cogliere ogni espressione o messaggio, anche non verbale; anche qui emerge l’importanza dell’empatia dell’ascoltatore, cioè di colui che è presente, nonché l’efficacia in vista del raggiungimento degli obiettivi anche educativi.

Quel che colpisce è il fatto che il curatore speciale/avvocato sarà tenuto ad instaurare una relazione “autentica” con il figlio minore che andrà a rappresentare in giudizio, ruolo che evoca valori e canoni etici di straordinaria levatura.

In una parola, tante doti professionali, diverse e coincidenti, com’è persino ovvio a chi tende la propria mano di comprensione e guida alla persona in obiettiva condizione vulnerabile.



6. A questo punto si possono tirare le fila del ragionamento condotto.

Nessun avvocato sarà obbligato per il sol fatto dell’esercizio professionale ad assumere gli specifici ruoli di cui alle esemplificazioni che precedono, cioè di negoziatore o di curatore speciale del figlio minore; tanto più ciò dovrà fare ove sia consapevole di non possederne le adeguate capacità ed abilità professionali, rispetto al tradizionale bagaglio dell’esperto del diritto di settore, sia sotto il profilo sostanziale che sotto quello processuale. D’altronde, nessun avvocato responsabile, con l’habitus mentale consolidato in uno o più settori civilistici, si avventurerebbe nella difesa della persona imputata in sede penale, senza avere il reale possesso di quelle doti essenziali che il settore evoca imprescindibilmente, ma è solo un esempio tra i tanti possibili.

Corre anche altra esigenza descrittiva, che non è del tutto scontata: l’input culturale segnato dal legislatore non può neppure recepirsi secondo utopica “ingenuità” od addirittura ideologicamente, poiché ad esempio esistono ed esisteranno sempre controversie non “negoziabili”, neppure secondo le forme della negoziazione assistita. Al contempo rimane assolutamente ferma la constatazione che l’elevazione di progresso di un Paese non può mai prescindere dalla sua ontologica precondizione, cioè l’esatto funzionamento del servizio Giustizia.

Quel che ai nostri fini qui rileva è la constatazione, l’ennesima, secondo cui l’Avvocatura è chiamata a svolgere funzioni di Giustizia per il cui corretto esercizio il sapere del giurista non è più sufficiente, dovendo concorrere ed integrarsi con l’acquisizione di nuovi saperi e l’accurata emersione di peculiari doti personali, frutto in ogni caso di sacrifico ed impegno costante e crescente.

La ragione di questa evoluzione è indubbiamente il logico corollario di quella centralità che la persona ha assunto nel diritto vivente, come emersa in tutto il contesto giuridico UE. È questa la nuova sfida che il ceto forense è chiamato ad assolvere generosamente; mentre il Paese esige maggiore responsabilità sociale, al contempo risulta per ciò stesso rinnovato il risalto del ruolo di Giustizia.