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L’autonomia deontologica dell’avvocato tra costituzione e mercato

autore: G. Colavitti

SOMMARIO: 1. Concorrenza e professioni. - 2. La deontologia tra giudice amministrativo e giudice ordinario. - 3. Il codice deontologico come atto di natura negoziale o come vera e propria fonte del diritto. - 4. Codici deontologici e tutela della fiducia come beni giuridici necessari al mercato. - 5. Autonomia deontologica e pluralismo giuridico.



1. Concorrenza e professioni



Il rapporto tra Autorità antitrust e professioni non è mai stato semplice.

A partire dalla nota indagine europea avviata negli anni novanta dall’allora commissario Mario Monti, l’AGCM ha applicato pedissequamente alle professioni regolamentate lo strumentario concettuale, prima ancora che giuridico, elaborato per i comportamenti anticoncorrenziali delle imprese commerciali, senza considerare che si trattava e si tratta appunto di fenomeni molto diversi1.

Le professioni regolamentate occupano infatti un settore dell’ordinamento già oggetto di un alto livello di regolazione pubblica, nel quadro di ordinamenti settoriali dove convivono interessi pubblici e interessi di gruppo, nei quali appare inevitabile la necessità di operare un bilanciamento tra esigenze di eteroregolazione legislativa ed esigenze di riconoscimento di autonomia collettiva. Non a caso da tempo dottrina attenta ha segnalato l’esigenza che nel rapporto dialettico tra i principi del diritto antitrust e le specifiche regole delle professioni intellettuali protette sia osservato un approccio coerente “con le esigenze ed i valori meta-economici che l’esercizio delle professioni deve rispettare”2.

Alcuni ordini professionali si sono forse attardati in atteggiamenti diffidenti e difensivi, a volte non cogliendo appieno le opportunità offerte dal diritto della concorrenza per garantire pari opportunità concorrenziali all’interno della categoria.

Un ulteriore fattore che ha contribuito alle difficoltà di dialogo e di comprensione reciproca è stato un assetto del diritto interno divergente rispetto al quadro europeo. A fronte della pacifica assimilazione funzionalistica dei professionisti alle imprese propria della giurisprudenza della Corte di giustizia, autrice di una nozione talmente ampia di impresa da ricomprendervi qualsiasi operatore che offra sul mercato beni o servizi, esisteva ed esiste, secondo la legge italiana, una differenziazione tra professionisti e imprese che è inequivocabile e che passa innanzi tutto per il codice civile e poi per innumerevoli pronunce giurisdizionali. La Corte costituzionale ha di recente rimarcato (in una decisone che riguardava la materia fiscale) le differenze esistenti tra attività di impresa ed attività di lavoro autonomo: mentre le prime dice la Corte – sono caratterizzate dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi, “l’attività svolta dai lavoratori autonomi, al contrario, si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo. Tale marginalità assume poi differenti gradazioni a seconda della tipologia di lavoratori autonomi, sino a divenire quasi assenza nei casi in cui è più accentuata la natura intellettuale dell’attività svolta, come per le professioni liberali”3. Anche la Cassazione non ha mancato di rilevare come sia inapplicabile ai professionisti la disciplina codicistica della concorrenza sleale (artt. 2598 cc, e ss.), difettando in capo a tali soggetti la qualità di imprenditore4. A dire il vero, sembrerebbe che le diversità strutturali ed economiche che giustificano i diversi inquadramenti giuridici non siano ignote all’Autorità garante. Non sono mancate affermazioni rassicuranti in atti ufficiali dell’Autorità.

Eppure, di recente l’AGCM ha comminato pesantissime sanzioni pecuniarie nei confronti di due tra gli ordini professionali più rilevanti in Italia, quello dei medici e quello degli avvocati. Nel caso degli avvocati, l’Antitrust ha comminato una sanzione di circa un milione di euro. E nelle more del procedimento giurisdizionale volto ad accertare la legittimità della decisione, ha aperto un secondo procedimento per inottemperanza alla prima decisione, procedimento conclusosi con una seconda pesantissima sanzione superiore a 900.000 euro5.

Le sanzioni hanno inevitabilmente aperto un contenzioso di fronte all’autorità giudiziaria competente che si è concluso nel marzo del 2016, in Italia, ma per il quale pende un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Si tratta infatti di valutare se non siamo di fronte ad un ordinamento interno, quello italiano, che viola le norme convenzionali che proteggono le formazioni sociali e le autonomie collettive.



2. La deontologia tra giudice amministrativo e giudice ordinario



La prima questione problematica è però proprio quella dell’individuazione dell’autorità giudiziaria competente. Se è ovvio che le sanzioni comminate dall’Autorità sono devolute alla cognizione del giudice amministrativo, è bene ricordare fin d’ora che è la giurisdizione ordinaria ad avere l’ultima parola, in Italia, sulle norme deontologiche e sull’applicazione che ne fanno gli organi disciplinari professionali. Le decisioni disciplinari della maggior parte degli ordini professionali sono infatti impugnabili di fronte al tribunale e le decisioni disciplinari adottate dai Consigli nazionali che rivestono la qualità di giudici speciali, quali il Consiglio nazionale forense, assumono la forma di vere e proprie sentenze pronunziate in nome del popolo italiano e sono ricorribili alle sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione. È la Cassazione, insomma, ad avere l’ultima parola sulla deontologia forense. E, come vedremo, non sono mancati casi di distonia o di vero e proprio contrasto tra le conclusioni raggiunte dall’Autorità e dal suo giudice naturale (quello amministrativo), da un lato, e le conclusioni della Corte investita della funzione nomofilattica.

Ma andiamo con ordine.

Vale certamente la pena approfondire, seppur rapidamente, i fatti…

La contestazione dell’Autorità garante prende le mosse dalla presenza su una banca dati di un editore giuridico (raggiungibile tramite link dall’home page del sito del CNF) delle “vecchie” tariffe forensi, di una conferente circolare (la n. 22-C del 2006) e di un parere rilasciato nel 2012 dal CNF su richiesta di un ordine forense locale e dedicato a forme di acquisizione della clientela mediante piattaforme digitali6. In questi due atti, lontani tra loro diversi anni, l’Autorità ha ravvisato “un’intesa unica e continuata, restrittiva della concorrenza, consistente nell’adozione di due decisioni volte a limitare l’autonomia dei professionisti rispetto alla determinazione del proprio comportamento economico sul mercato, stigmatizzando quale illecito disciplinare la richiesta di compensi inferiori ai minimi tariffari, e limitando l’utilizzo di un canale promozionale e informativo attraverso il quale si veicola anche la convenienza economica della prestazione professionale”7. Si badi che la contestazione di un’intesa unica è invero alla base della misura elevatissima della sanzione pecuniaria comminata, perché contestando un unico illecito continuato, piuttosto che due fatti isolati, l’Autorità ha ritenuto integrato un illecito che si sarebbe perpetuato per molti anni8.

La prima contestazione ha dunque a che fare con quello che

può a ragione essere considerato un vero e proprio totem del diritto della concorrenza applicato alle professioni: le tariffe professionali, tanto avversate negli ultimi anni da essere prima abrogate nei minimi inderogabili nel 2006, ad opera del decreto “Bersani”, poi abrogate tout court e sostituite da uno strumento funzionalmente analogo, ma che risponde al nome evidentemente più rassicurante, per il legislatore e per i mercati, di “parametri” nel 20129. Ciò che è stato imputato al Consiglio nazionale forense è di aver mantenuto in piedi artificiosamente il sistema tariffario abbattuto dal legislatore, cercando di raggiungere questo obiettivo tramite un artificio: la permanenza, nella banca dati gestita da un editore, ma raggiungibile dal sito istituzionale dell’Ente, di una circolare dello stesso CNF, pubblicata “a guisa di premessa” insieme alle vecchie tariffe del 2004 (d.m. n. 55/2004) e ai successivi parametri del 2012 (d.m. 140/2012)10. A nulla è valso, durante il procedimento di fronte all’Autorità, ricordare che la circolare in questione venne espressamente revocata pochi mesi dopo la sua adozione11. Né ribadire che le banche dati giuridiche sono a ben vedere tenute a riportare le vecchie tariffe perché, come insegna la Cassazione, le stesse sono ancora applicabili per le prestazioni (qualificate come diritti) rese nel periodo di vigenza12. Nonostante ciò, il procedimento è stato concluso con la comminazione di una pesante sanzione pecuniaria, pari a circa un settimo del bilancio annuale dell’Ente, ed è stato dunque inevitabile attivare il controllo giurisdizionale. Con gli esiti che si vanno di seguito a riportare in sintesi. Venendo al secondo illecito contestato, si tratta come detto di un parere (il n. 48 del 2012) assunto dalla Commissione consultiva del CNF a seguito del quesito proposto dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Verbania. Un atto dunque ontologicamente non vincolante, esercizio di funzione meramente consultiva, di talché nessuna sanzione disciplinare è in effetti seguita al parere. Il contenuto materiale dell’atto consiste nell’osservare come possa in astratto integrare una violazione del divieto di accaparramento di clientela con mezzi illeciti il comportamento dell’avvocato che acquista spazi pubblicitari su piattaforme digitali. Tale asserzione non fa altro che riepilogare la giurisprudenza disciplinare formatasi in materia e composta sia da pronunzie del CNF, sia da numerose pronunzie della Corte di cassazione a sezioni unite. L’Autorità garante si è trovata dunque di fronte ad un atto ricognitivo degli esiti della funzione giurisdizionale, improduttivo di effetti giuridici diretti e concreti sui professionisti coinvolti, le cui identità, non a caso, non sono nell’atto contemplate.

La questione di fondo non è però tanto quella della natura giuridica dell’atto, quanto quella delle implicazioni problematiche che pone l’aggressione di un atto amministrativo i cui contenuti di merito corrispondono a consolidate massime giurisprudenziali.

Quando l’Autorità garante della concorrenza colpisce e sanziona un atto del genere, sta in realtà applicando il proprio giudizio di merito e di valore su di una fattispecie già oggetto di valutazione da parte di un’Autorità giudiziaria e, nel caso di specie, sta dando della fattispecie una valutazione complessiva antitetica a quella espressa dalla Corte suprema di cassazione. Con conseguenze sistemiche di non poco conto in ordine alla tenuta del principio di separazione tra i poteri dello Stato e, soprattutto, in ordine alla garanzia della indipendenza e della autonomia della giurisdizione da altri poteri dello Stato.

Non è peraltro nuova l’attenzione dell’Autorità garante anche per la giurisdizione disciplinare e le sue forme di esercizio. Qualche anno fa l’Autorità ha rivolto direttamente la sua attenzione proprio alle sentenze rese dal Consiglio nazionale forense, chiedendo un parere al Consiglio di Stato in ordine alla possibilità di qualificare come intese restrittive della concorrenza anche le sentenze del CNF, con la conseguenza di poter sanzionare il giudice speciale che ne è l’autore. Il Consiglio di Stato rispose allora in termini negativi: le sentenze del Consiglio nazionale sono decisioni assunte ritualmente da un giudice speciale nell’esercizio della funzione giurisdizionale

ed hanno un autonomo sistema di verifica e controllo affidato, appunto, non all’Autorità garante per la concorrenza, ma alle sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione13.

Tornando al giudizio di valore, rectius di disvalore, riferito dall’Autorità al parere contestato, altro profilo problematico è quello della sua qualificazione nei termini di un’intesa restrittiva della concorrenza. Tale qualificazione appare la meccanica riproduzione di un cliché consolidato, alla luce del quale tutte le decisioni di un ordine professionale, proprio perché provenienti da un ente associativo composto di avvocati, sarebbero intese restrittive della concorrenza. Non è forse un caso che la dottrina già richiamata parli al riguardo di “automatico corollario”14.

A ben vedere, in casi come questo, per aversi effettivamente un’intesa restrittiva della concorrenza, andrebbe piuttosto provato l’effetto anticoncorrenziale che la decisione avrebbe prodotto. Come di regola per le decisioni che non hanno come contenuto diretto la restrizione concorrenziale, le c.d. intese restrittive “per oggetto”, ma che possono raggiungere, in punto di fatto, effetti concretamente anticoncorrenziali e sono per questo denominate intese restrittive “per effetto”15. Senza questa prova, qualsiasi decisione assunta da un Consiglio locale o nazionale di un ordine professionale potrebbe essere in effetti considerata un’intesa restrittiva e conseguentemente sanzionata.

In altre parole, in difetto di prova degli effetti anticoncorrenziali causati sul mercato di riferimento, l’Autorità potrebbe sanzionare i Consigli dell’ordine per il solo fatto che esistono e che assumono atti giuridici.

Il che varrebbe innanzi tutto per il codice deontologico. Funzione prima svolta in via pretoria dal CNF, oggi la potestà deontologica consta più propriamente del potere/dovere previsto espressamente dalla legge di adottare il codice deontologico all’esito di un procedimento pure scandito dalla legge nelle sue fasi e nei soggetti coinvolti. E la legge prevede anche le forme di pubblicità dell’atto, prevedendone la pubblicazione in Gazzetta ufficiale (art. 3, comma 3, legge 247/2012), ma anche la diffusione a cura del CNF, in modo da favorirne la più ampia conoscenza (art. 35, lett. d, legge cit.).

Il codice deontologico fornisce per definizione indicazioni comportamentali agli avvocati italiani, indicando loro una soglia deontica più alta di quella pretesa dal diritto civile e penale e, quindi, mira ontologicamente a garantire uniformità di comportamenti “verso l’alto”, in ragione della necessità di adeguata tutela dei diritti e degli interessi degli assistiti. Senza prova degli effetti anticoncorrenziali prodotti, qualsiasi norma deontologica potrebbe essere di per sé qualificata come intesa restrittiva della concorrenza, in quanto ogni decisione del Consiglio nazionale sarebbe, come “automatico corollario” appunto, una decisione di un’associazione di imprese. Con la conseguenza per cui, evidentemente, possiamo considerare demolita l’autonomia deontologica delle categorie professionali.

Non è possibile esaminare nel dettaglio le decisioni del Giudice amministrativo che hanno sostanzialmente confermato le decisioni antitrust, e che sono oggi al vaglio della Corte europea dei diritti dell’uomo.



3. Il codice deontologico come atto di natura negoziale o come vera e propria fonte del diritto





Dal quadro ricavabile dalle vicende descritte, pare a chi scrive che sia ormai proprio la potestà deontologica in quanto tale ad essere ormai contestata in radice dall’Autorità.

La Federazione degli ordini dei medici ha subito una pesante sanzione, poi caduta per effetto di una decisione del Consiglio di Stato motivata esclusivamente su profili formali (prescrizione dell’illecito), perché il codice deontologico medico, un documento giuridico che ha radici millenarie, proibisce la pubblicità dei medici16. Il CNF ha subito, dopo la sanzione di circa un milione di euro per i fatti prima descritti, un’ulteriore sanzione di analogo importo, per inottemperanza alla precedente decisione. Nonostante la decisione fosse sub judice, perché ritualmente impugnata. L’inottemperanza consisterebbe, secondo il provvedimento di apertura del procedimento, non solo nella mancata revoca del famigerato parere “amicacard”, ma anche nell’adozione del nuovo codice deontologico, approvato il 31 gennaio 2014 ed entrato in vigore il 16 dicembre 2014, il cui art. 35 confermerebbe l’intento anticoncorrenziale e lo aggraverebbe, nella parte in cui prescrive alcuni limiti alla pubblicità informativa sul web. L’art. 35 del codice deontologico forense sarebbe stato dunque approvato dall’Ordine forense in violazione del divieto di “porre in essere in futuro comportamenti analoghi a quello oggetto dell’infrazione accertata”17. Al di là del fatto che è invero arduo cogliere nell’art. 35 del nuovo codice deontologico un atto anticoncorrenziale successivo al parere 48/2012, per il fatto che, anche prima del parere, il codice, nella disposizione corrispondente a quella poi confluita nell’art. 35 (e cioè nel vecchio art. 17), presentava esattamente la stessa formulazione testuale18, deve aggiungersi che il Consiglio nazionale, nelle more del procedimento per inottemperanza, ha in effetti modificato lo stesso art. 35, sopprimendo alcuni commi, ed in particolare proprio i commi 9 e 10 in materia di pubblicità dell’avvocato tramite siti internet19. Oltre a modificare il codice deontologico, il Consiglio nazionale forense ha cercato di ottemperare al pur non condiviso provvedimento antitrust approvando una delibera di interpretazione autentica del parere 48/2012, con la quale è stato chiarito che il parere stesso non intendeva affatto limitare la pubblicità tramite web, bensì più semplicemente ribadire l’illiceità deontologica del procacciamento di clienti tramite terzi retribuiti, siano esse persone fisiche o piattaforme telematiche, sotto le quali, ovviamente, vi sono sempre persone in carne ed ossa20. Dunque il codice deontologico è stato modificato sotto la pressione di un procedimento repressivo avviato dall’Autorità garante. Con l’aggravante che neanche questo è bastato per evitare la sanzione. È evidente dunque, che il nodo tematico fondamentale attiene ormai alla titolarità o meno della potestà

deontologica.

A ben vedere infatti, il CNF, ribadito il principio della libertà di mezzi pubblicitari, compresi quelli telematici, si è limitato a confermare la regola deontologica circa il divieto di pagare terzi procacciatori di affari e clienti e la regola legale (e non solo deontologica) che impegna la pubblicità dell’avvocato a rendere “informazioni… trasparenti, veritiere, corrette, che non devono essere comparative con altri professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive” (art. 10, comma 2, legge 247/2012), che facciano “riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale” (art. 10, comma 3, legge 247/2012). Ecco dunque la vera materia del contendere.

Proprio intorno al c.d. divieto di accaparramento di clientela si gioca probabilmente la contrapposizione più netta tra la posizione dell’ordine forense e quella dell’Autorità garante. L’intermediazione di un terzo che riceve denaro o altra utilità per veicolare clienti all’avvocato è infatti da sempre considerata una turbativa della relazione fiduciaria “avvocato-cliente” essenziale al contratto d’opera professionale, che finisce per alterare la domanda di servizi legali, con il rischio di aumentarla ingiustificatamente, perché il terzo procacciatore retribuito ha un interesse economico autonomo alla instaurazione del mandato professionale. Per questi motivi il codice deontologico forense stigmatizza in via generale ed astratta tali comportamenti, ferma restando la necessità di valutazione caso per caso della fattispecie concreta, valutazione rimessa agli organi disciplinari – oggi i consigli di disciplina – organi diversi e distinti dai consigli dell’ordine, e in ultima istanza alle Sezioni unite della Corte di cassazione, di fronte alla quale sono come noto ricorribili le sentenze del CNF. Per gli stessi motivi, anche altri ordinamenti professionali vietano di servirsi di procacciatori di clienti, e la Corte di cassazione ha confermato ancora pochi mesi or sono tale divieto per la professione di notaio, dove il divieto è posto dalla legge notarile21.

L’Autorità garante, nel negare all’Ordine degli avvocati la possibilità di mantenere il divieto di impiegare procacciatori di affari retribuiti, colpisce direttamente l’autonomia deontologica della categoria professionale, cui è rimessa la definizione degli illeciti deontologici, minando di fatto una potestà specificamente attribuita dalla legge, e con ciò probabilmente violando l’art. 3 della legge 247/2012, ed in particolare il comma 3, che prevede appunto l’attribuzione in capo al Consiglio nazionale del dovere di adottare il codice deontologico, a seguito di un procedimento tipizzato dal legislatore e scandito dalla consultazione necessaria degli ordini forensi circondariali, cioè delle comunità professionali locali. Con la conseguenza di “svuotare” l’attribuzione normativamente prevista e imputare sostanzialmente a sé stessa la potestà deontologica, cioè il potere di decidere in astratto quali siano i comportamenti deontologicamente rilevanti e quali non lo siano. Sotto il profilo materiale, l’Autorità finisce così per esercitare di fatto poteri normativi al di fuori dello schema procedimentale e dei meccanismi di cd notice and comment che dovrebbero normalmente legittimarli e renderli compatibili con il quadro costituzionale22. E finisce per sconfinare in valutazioni che la legge assegna all’ordine professionale e al controllo giurisdizionale della Corte di cassazione, che più volte ha confermato le sentenze del CNF in materia di pubblicità professionale, anche richiamando espressamente il riferimento a quel decoro professionale tanto avversato dall’Autorità e, più di recente, dal Consiglio di Stato23.

Eppure, l’accaparramento di clientela è stato definito dalla Suprema Corte di Cassazione comportamento concorrenzialmente scorretto e predatorio24. È semmai l’accaparramento di clientela ad essere intrinsecamente idoneo ad alterare l’equilibrio concorrenziale nell’articolazione dell’offerta delle prestazioni professionali, e non già la sua qualificazione come illecito deontologico; stupisce che l’Autorità che più di ogni altra dovrebbe perseguire la tutela della concorrenzialità del mercato disconosca i nessi di interdipendenza tra libertà nel mercato e condotte ispirate a fondamentali canoni di responsabilità e correttezza.

In ogni caso, la qualificazione delle norme deontologiche come intese restrittive della concorrenza riporta indietro la lancetta di molti anni nel dibattito intorno alla natura giuridica di tali norme ed alla loro qualità di fonte del diritto in rapporto con le altre fonti. Per molto tempo, infatti, dottrina e giurisprudenza hanno indugiato nelle ricostruzioni del fenomeno deontologico di tipo contrattualistico, ritenendo i codici deontologici fonti pattizie, con le conseguenze che ne derivavano (nullità delle norme deontologiche in caso di contrasto con norme imperative, ex art. 1418, co. 1, cc; applicabilità dei canoni ermeneutici propri dell’interpretazione dei contratti, ex art. 1362 e ss. cc, e non dei canoni propri dell’interpretazione delle leggi, ex art. 12 preleggi)25, ma, a partire almeno da una decisiva pronunzia del 2007, il dibattito ha avuto ormai un suo esito consolidato nel senso del riconoscimento delle norme del codice deontologico come “fonti normative integrative del precetto legislativo che attribuisce al Consiglio nazionale forense il potere disciplinare con funzione di giurisdizione speciale appartenente all’ordinamento generale dello Stato”26. Con la conseguenza che trattasi di norme giuridiche interpretabili secondo i canoni propri dell’interpretazione della legge e che la Corte di cassazione non deve arrestarsi di fronte alla loro errata applicazione, come res facti. Tale soluzione, raggiunta dal Giudice della nomofilachia nella vigenza del precedente ordinamento forense, non può che essere oggi ancor più avvalorata dalla espressa integrazione del codice deontologico tra le fonti dell’ordinamento operata dalla legge 247 del 2012, il cui art. 3 prevede appunto che l’avvocato eserciti la professione “uniformandosi ai principi contenuti nel codice deontologico emanato dal CNF ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. d) e 65, comma 5”. Se dunque da tempo è possibile cogliere nella deontologia professionale un fenomeno propriamente normativo, la novità – ignorata dall’Autorità garante – della indicata tipizzazione legale del codice deontologico come fonte che il CNF non solo può ma deve doverosamente adottare, porta a ritenere la tesi della natura negoziale sempre più insoddisfacente. E conferma di essere la ripetizione acritica di un modello ricostruttivo risalente, che dovrà prima o poi essere rivisto anche dalla Corte di giustizia, considerato che ormai numerosi sono i richiami ai codici deontologici presenti nelle fonti europee. In ogni caso, siamo di fronte ad una divaricazione evidente e assai profonda tra Autorità garante per la concorrenza e giudice amministrativo da un lato, e giurisprudenza di legittimità dall’altro. Uno strabismo dell’ordinamento che prima o poi dovrà essere risolto, a meno di non voler lasciare nell’incertezza il quadro giuridico di riferimento che presidia o dovrebbe presidiare l’intero comparto del mercato dei servizi professionali.



4. Codici deontologici e tutela della fiducia come beni giuridici necessari al mercato



A ben vedere, gli indirizzi antitrust non appaiono coerenti neanche con il principio, invero consolidato nella giurisprudenza comunitaria, per cui l’interesse pubblico alla tutela della concorrenza deve essere oggetto di adeguato e proporzionato bilanciamento rispetto ad altre finalità di interesse generale che connotano le regolazioni di settore, onde poter valutare compiutamente se gli eventuali effetti anticoncorrenziali prodotti sono tuttavia compatibili con gli artt. 101 e 102 TFUE. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha ad esempio più volte affermato la compatibilità del diritto dell’Unione con regolazioni nazionali comprensive di tariffe professionali anche vincolanti, cioè di un istituto ontologicamente limitativo della concorrenza, giacché insiste sulla formazione del prezzo del servizio, probabilmente il più rilevante tra i fattori di promozione della concorrenza. In un primo momento, infatti, la Corte di giustizia ha prima difeso la legittimità delle tariffe forensi perché adottate non dall’Ordine professionale bensì dal Ministro della giustizia, cioè da un’autorità dello Stato che garantisce il perseguimento dell’interesse pubblico, e perché verificabili dal giudice in sede di concreta applicazione27, e poi ha affermato che la legge interna può prevedere tariffe anche vincolanti, laddove sussistano interessi pubblici meritevoli di tutela quali quello della protezione dei consumatori e quello della corretta amministrazione della giustizia28.

Sul versante dell’accesso al mercato dei servizi professionali dal lato dell’offerta, la Corte ha confermato la compatibilità con i Trattati delle norme interne che prevedono la presenza di avvocati nelle commissioni d’esame per l’accesso alla professione forense, in quanto soggetti in grado di valutare i requisiti di capacità degli aspiranti avvocati, anche se, nella prospettiva del diritto della concorrenza, si tratta di operatori economici che operano in un certo mercato che giudicano sull’ingresso nello stesso mercato di potenziali concorrenti29. La decisione nella quale l’esigenza di bilanciamento è apparsa meglio articolata è probabilmente quella relativa al caso Wouters, quando la Corte ha ritenuto compatibili con il diritto dell’Unione le regole nazionali (anche laddove fissate dagli ordini professionali) relative ai divieti di costituire studi associati con altri professionisti, giustificando i vincoli alla luce delle esigenze di protezione del segreto professionale

e dell’indipendenza dell’avvocato30.

Altri interessi pubblici, quali quello alla protezione della salute, sono stati poi utilizzati con la tecnica del bilanciamento per giustificare le restrizioni alle reti di vendita dei prodotti medicinali nel celebre caso relativo alle farmacie italiane: in quel procedimento, nel ritenere legittime le scelte del legislatore italiano di riservare ai farmacisti l’esercizio delle farmacie private, la Corte ha respinto affermazioni invero curiose della Commissione europea, cioè del garante europeo della concorrenza, che aveva sostenuto la valenza di misure alternative meno restrittive ma ritenute altrettanto efficaci, quali l’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile. Immaginare che la possibilità di ottenere il risarcimento per il paziente che subisca un danno da un farmaco inappropriato possa essere una misura efficiente di protezione del diritto alla salute appare invero un segno preoccupante di come presso la burocrazia europea l’esaltazione dei meccanismi concorrenziali proceda spesso al di là di ogni ragionevolezza31.

A ben vedere questo genere di approcci al tema del rapporto tra protezione della concorrenza e protezione di altri interessi pubblici meritevoli di tutela sembra trascurare non solo le indicazioni di indirizzo politico del Parlamento europeo32, ma – ciò che più conta – proprio quei riferimenti specifici di diritto positivo europeo che pure depongono per un modello di regolazione pubblica delle professioni specifico e non replicato su modelli di regolazione propri di altri settori di mercato. Alzando lo sguardo al massimo livello delle fonti europee, si può osservare che la Carta europea dei diritti fondamentali, la quale ha lo stesso valore giuridico dei Trattati, colloca la libertà professionale, cioè la libertà di scegliere ed esercitare liberamente una professione, accanto al diritto al lavoro, nell’art. 15, in una norma diversa e assistita da ben più profondo grado di tutela di quanto non faccia per la libertà di impresa, protetta all’art. 16, che reca invece un (preoccupante e forse sottovalutato) richiamo alle prassi nazionali33.

La direttiva servizi, e cioè la fonte secondaria europea di riferimento per la liberalizzazione dei servizi, non manca di richiamare più volte l’autonomia deontologica delle categorie professionali e dispone espressamente che “Gli Stati membri provvedono affinché le comunicazioni commerciali che emanano dalle professioni regolamentate ottemperino alle regole professionali, in conformità del diritto comunitario, riguardanti, in particolare, l’indipendenza, la dignità e l’integrità della professione nonché il segreto professionale, nel rispetto della specificità di ciascuna professione”34. Anche la direttiva sul commercio elettronico configura i rapporti tra autorità comunitarie e gruppi professionali in termini di cooperazione, impegnando la Commissione a rinunziare ad iniziative unilaterali, e piuttosto a valorizzare i codici di condotta35.

Insomma, in buona sostanza, il diritto europeo sembra non solo affermare la necessità di disciplinare i servizi professionali secondo approcci che tengano conto della pluralità di interessi pubblici compresenti, e non solo e soltanto alla luce della libertà di concorrenza, ma anche precisa in modo tutt’altro che episodico il valore delle deontologie professionali e delle regole specifiche del comparto ordinistico ai fini della protezione di quegli interessi pubblici che debbono essere protetti al pari della concorrenza e, dunque, amministrati con le tecniche del bilanciamento proporzionato e ragionevole36.

Peraltro, ciò che colpisce davvero dell’atteggiamento dell’Autorità garante per la concorrenza nei confronti delle deontologie professionali non è solo il disallineamento rispetto alle fonti europee ed alla giurisprudenza della Corte di giustizia prima richiamate, ma anche la sua decontestualizzazione rispetto al dibattito ormai da tempo fiorente sulla necessità di una maggiore sensibilizzazione etica degli operatori di mercato e sulla opportunità di valorizzare e dare copertura giuridica agli sforzi di creazione di una deontologia delle imprese, anche in relazione alla tematica della responsabilità sociale delle stesse. In molti settori, e soprattutto in quelli dei mercati finanziari, la crisi cominciata nel biennio 2007 e 2008 ha dato conferma delle difficoltà – se non della vera e propria insufficienza – delle regole di hard law nel conformare i comportamenti degli operatori verso parametri comportamentali adeguati ai rischi sistemici prodotti dalle patologie proprie delle dinamiche mercatiste più accentuate, e ha dato vigore al dibattito in tema di code of ethics delle imprese37. Il legislatore italiano non ha mancato di rinviare a tali forme di elaborazione “quasi deontologica” anche in recenti interventi normativi38.

Recenti studi hanno segnalato la “spinta propulsiva” dell’Unione europea, che ha finito per rinnovare una forma antica di produzione del diritto dal basso, che ha radici molto risalenti e che costituisce una forma di elaborazione valoriale delle categorie che non è mai stata insensibile ai contesti socioeconomici di riferimento, ma che anzi ha quasi sempre saputo mediare “bilanciando gli interessi propri della professione con quelli degli attori esterni”39. Meglio del diritto statale, i codici hanno saputo accompagnare gli sviluppi dei rapporti economici e la realtà di una società e di un’economia soggette a dinamiche di trasformazione sempre più rapide e difficili da prevedere. Questi studi hanno evidenziato come anche le elaborazioni deontologiche in punto di decoro e dignità delle professioni hanno da tempo indicato il nesso funzionale – purtroppo ignorato dall’Autorità garante – che collega la reputazione di una categoria professionale alla questione del mantenimento di un certo livello di qualità dei servizi resi, come misura di garanzia di un accesso libero del cittadino a quei servizi: “il consumatore che si rivolge ad un professionista fa affidamento che la sua condotta sia improntata a quelle regole e valori contenuti nei codici deontologici”, e pertanto vi si può rivolgere con fiducia . Se così non fosse, se la categoria non si sforzasse di elevare la propria reputazione mediante l’indicazione di soglie comportamentali eticamente alte e se non esistessero sistemi legali di vigilanza e sanzione di eventuali atti deontologicamente scorretti, chi avesse bisogno di una prestazione professionale dovrebbe affidarsi ad un mercato estremamente più insidioso e foriero di pericoli. Una cittadinanza priva di fiducia nei confronti della classe forense è certamente una cittadinanza più restia e diffidente a procedere nelle forme previste dall’ordinamento per la tutela dei propri diritti ed interessi ed è, quindi, in ultima analisi, una cittadinanza più debole. In sintesi, le regole deontologiche contribuiscono a preservare un bene giuridico essenziale alle dinamiche di mercato, e cioè la fiducia. Anche sotto una prospettiva interna agli interessi del mercato e della fluidità delle relazioni economiche, le regole deontologiche si rivelano strumenti preziosi di sostegno e accompagnamento per un assetto efficiente del mercato.



5. Autonomia deontologica e pluralismo giuridico





L’autonomia deontologica delle categorie è stata peraltro segnalata da tempo come uno dei frutti più preziosi del pluralismo giuridico.

È un tema caro alla dottrina giuridica italiana, anzi, a ben vedere, è un elemento proprio dell’esperienza giuridica italiana ed europea40.

Aldo Maria Sandulli riconosceva negli ordini professionali i fenomeni giuridici dell’autarchia, dell’autonomia e dell’autocrinia. “L’autonomia […] ha forse la più squisita e gelosa espressione nella creazione spontanea e nella elaborazione dei precetti di deontologia professionale, che la partecipazione attiva dei singoli professionisti alla vita di relazione viene foggiando di giorno in giorno per l’intera categoria, e questa, a propria volta, ricerca, enuclea e proclama in occasione delle pronunce dei propri organi sui ricorsi che è chiamata a decidere, sì da dare ai precetti stessi, attraverso il formarsi della casistica, la consacrazione di vero e proprio codice deontologico”. Sicché, proseguiva Sandulli, se quello in esame “è, senza dubbio, uno dei campi in cui con maggior compiutezza e spontaneità si è realizzato il fenomeno del decentramento istituzionale”, il merito di ciò va ascritto alle risorse degli “ordinamenti democratici” così come “al vigore delle tradizioni e all’elevatezza della sensibilità sociale degli appartenenti ai gruppi professionali”41.

Sarebbe difficile trovare parole più appropriate per indicare la sicura collocazione dell’autonomia deontologica tra le prerogative di libertà di gruppo più coerenti con l’impianto plurale e democratico della forma di Stato disegnata dalla Costituzione42.

Più di recente, in uno dei suoi ultimi scritti, Francesco Galgano ha valorizzato l’elaborazione deontologica in collegamento con la migliore tradizione giuridica italiana in tema di comunità intermedie e pluralità degli ordinamenti giuridici, da preservare rispetto ad una “visione statalistica del diritto, che è un portato del positivismo giuridico, la quale non concepisce altro diritto che non sia il diritto dello Stato, e non sa immaginare altra comunità organizzata che non sia lo Stato-comunità”43. Pertanto, scriveva Galgano, “un’etica di Stato non è oggi concepibile; la legge dello Stato non può pretendere, come ha preteso il decreto Bersani, che i codici deontologici si adeguino alla volontà legislativa”44.

Anche un altro illustre giurista contemporaneo, Pietro Rescigno, ha inteso di recente “insistere sulla rivalutazione di un diritto non statuale che nasce dalle categorie professionali […]. Ci muoviamo sul piano e nell’ambito dell’esercizio dell’autonomia collettiva propria dei gruppi sociali, riaffermando il principio antico della pluralità e del concorso degli ordinamenti”45.

Tale fenomenologia giuridica è il frutto di una tradizione giuridica italiana “antica e prestigiosa”46, ma è anche una vera e propria tradizione costituzionale comune europea, radicata in tutti i Paesi, e soprattutto in quelli di tradizione continentale, per cui sono le comunità professionali, nel rispetto della legge, ad elaborare i codici di condotta, perché sono loro – e non lo Stato, o una sua autorità indipendente – ad essere depositarie dell’identità culturale e professionale delle categorie. L’autonomia deontologica è a ben vedere espressione di un principio di autogoverno delle comunità professionali.

Se fosse lo Stato a dettare le regole deontologiche risulterebbe pregiudicata la libertà professionale, che ha una dimensione individuale, riferibile al singolo iscritto nell’albo, ed una collettiva, riferibile a quella comunità ordinata secondo diritto che è appunto l’ordine professionale. L’ordinamento italiano tutela ancora questa autonomia?





























NOTE

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