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Ambito di indagine della CTU e violenza domestica

autore: R. Ruggeri

SOMMARIO: 1. Il nuovo protocollo CTU del Tribunale di Milano a confronto con il precedente. - 2. L’emersione del fenomeno della violenza familiare nella legislazione nazionale dell’ultimo decennio. Cenni. - 3. La percezione – e rilevanza – della violenza domestica nei procedimenti familiari. - 4. Violenza familiare e ambito di indagine della CTU. - 5. La c.d. “alienazione parentale”, rectius il rifiuto del minore di incontrare uno o entrambi i genitori. - 6. La sopravvalutazione e fraintesa centralità del c.d. principio di bigenitorialità. Gli arresti della giurisprudenza di legittimità (requisi- toria del PG 21 marzo 2021 e ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022). - 7. Conclusioni.



1. Il nuovo protocollo CTU del Tribunale di Milano a confronto con il precedente





Il nuovo protocollo milanese sulla CTU1, oggetto o meglio occasione delle riflessioni degli esperti ospitate dal presente dossier, sostituisce dopo quasi 10 anni quello formato presso la medesima sede giudiziaria2, a conclusione di un convegno organizzato dalla Fondazione Guglielmo Gulotta nel marzo 2012. Se si parla di Fondazione Guglielmo Gulotta, vengono certo alla mente le molte battaglie condotte per neutralizzare le facili suggestioni indotte da altrettanto facili pregiudizi in sede giudiziaria, ma nell’ambito del diritto di famiglia quel centro studi ha spiegato molte energie affinché presso gli operatori della giustizia e delle strutture preposte al benessere dei minori prendesse vigore e consistenza il costrutto dell’alienazione parentale (e del preteso valore costituzionale del c.d. principio dell’accesso alla bigenitorialità), al quale, negli anni a venire, i magistrati di merito e gli assistenti sociali hanno finito per esclusivamente parametrare gran parte delle decisioni e degli interventi, giungendo a sottovalutare agiti anche gravemente lesivi dell’integrità e della sicurezza dei soggetti coinvolti nella crisi familiari, in primis minori.

Il precedente protocollo milanese non faceva, coerentemente a queste premesse, alcuna menzione della possibile violenza spiegata all’interno delle relazioni familiari: tale violenza, ove fosse allegata da una delle parti, veniva (e spesso ancora viene) letta tout court come sintomo di alienazione parentale, ovvero tentativo di escludere il genitore allegatamente violento dal rapporto con i propri figli: così che si negava il fenomeno all’origine, cancellandolo.

Una delle novità più rilevanti del protocollo Milano sulle CTU dell’ottobre 2021 è quindi proprio l’espressa considerazione della violenza domestica come elemento suscettibile di determinare le decisioni sulla responsabilità genitoriale. L’art. 16 del Protocollo detta le modalità operative con le quali deve farsi luogo ai colloqui tra le parti ove constino denunce o allegazioni che a tale fattispecie facciano riferimento, dando considerazione alla volontà del genitore o del minore “vittima di violenza anche assistita”3; e specifica espressamente che “nelle risposte al quesito in ordine alle competenze genitoriali e ai tempi di permanenza dei minori con i genitori, nel rispetto dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul, il CTU deve prendere in considerazione gli episodi di violenza verificatisi e/o gli esiti del processo penale, attentamente valutando soluzioni che non compromettano i diritti o la sicurezza delle vittime e dei bambini”.



2. L’emersione del fenomeno della familiare nella legislazione nazionale dell’ultimo decennio. Cenni





Molta parte delle novità legislative sul punto è dovuta all’adozione, a livello internazionale, della Convenzione di Istanbul, pietra miliare nella lotta alla violenza di genere e domestica aperta alla firma degli Stati nel maggio 2011 e ratificata dall’Italia nel giugno 2013. In quel documento -– che ha valenza di norma sovranazionale per gli indirizzi cui il paese ratificante si impegna a conformare il proprio ordinamento – molti sono i principi enunciati in modo puntuale, talmente puntuale da poter essere considerati criteri di interpretazione della legge in sede giurisdizionale. Chiaro esempio ne è l’art. 31, che vieta il ricorso a procedure di mediazione nella composizione delle vertenze che discendono dalla denuncia di violenze di genere, anche (e soprattutto, per quel che qui concerne) endofamiliari. Nel luglio del 2019 ha visto la luce il cosiddetto Codice Rosso4, testo normativo che ha l’ambizione di trasporre più organicamente nell’ordinamento nazionale i principi dettati dall’anzidetta convenzione. Tra le disposizioni più interessanti per l’argomento che qui si tratta è sicuramente quella dell’art. 14, 1° comma, che dispone l’inserimento di un nuovo articolo (l’art. 64-bis) nelle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale5.

Questa norma dice espressamente della rilevanza della violenza possibilmente agita all’interno delle mura domestiche nelle determinazioni giudiziali civili che statuiscono in riguardo ai rapporti familiari. È altrettanto evidente che il legislatore ritiene necessario che il giudice civile venga a conoscenza dei procedimenti penali che abbiano ad oggetto violenze endofamiliari anche solo allegate (è prevista infatti la comunicazione del provvedimento che dispone l’archiviazione): anche la stessa allegazione di violenza fa emergere la disfunzionalità dei rapporti sottoposti allo scrutinio del giudice della famiglia, e può rilevare ai fini delle decisioni che riguardano la responsabilità (ivi ancora “potestà”) genitoriale e il suo esercizio6.

Altra disposizione del Codice Rosso che implica la diversa e maggiore attenzione che al fenomeno della violenza domestica il giudice della famiglia deve riservare è quella prevista dall’art. 9, 2° comma, lett. b) e c): la violenza assistita è considerata specifica aggravante del reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. e il minore che a tali maltrattamenti assiste è qualificato come persona offesa. Se il minore del cui affidamento si discute può costituirsi parte civile nei confronti di uno dei genitori, tale circostanza non può non avere rilevanza (o, se si decida che non ne abbia, deve fornirsene adeguata motivazione) nell’articolazione giudiziale dei rapporti personali e delle modalità di visita tra i due.



3. La percezione – e rilevanza – della violenza domestica nei procedimenti familiari





Tornando al nuovo protocollo Milano sulle CTU, è evidente che esso – in netta discontinuità con il precedente – ha fatto propria l’attenzione deputata dall’ordinamento alla violenza familiare, vuoi, come si diceva in esordio, dettando espressamente le modalità con le quali condurre le sedute (art. 16), vuoi aprendo il quesito a profili ulteriori rispetto alla mera fotografia dell’esistente7, ciò che viene censurato come illegittimo, fuorviante, addirittura inutile.

Ma le notazioni in ordine alla necessità di circoscrivere l’osservazione del CTU solo a quanto avviene nell’ambito dei lavori peritali, volutamente ignorando il resto (argomentando che tali ulteriori indagini “inquinerebbero” il setting e lo stesso esito delle considerazioni peritali), è frutto di una impostazione aprioristica8 che mostra ormai la corda, per essere venuto normativamente in rilievo il dato ineludibile di una violenza domestica che certo non arriva ad essere pervasiva, ma si riscontra (e, a monte, percepisce9) assai più diffusamente di quanto non avvenisse qualche anno fa. La violenza endofamiliare – che può manifestarsi anche in forme sottili e disconosciute: es. la violenza psicologica, la violenza economica – è oggi individuata molto più frequentemente di quanto non avvenisse in precedenza, sia perché più numerose sono le denunce, sia perché, come abbiamo cercato di illustrare supra, il legislatore ha recepito l’evoluzione culturale in atto, sempre meno disposta a ritenere legittime modalità anche indirettamente prevaricatrici degli individui inseriti nel contesto familiare, la cui matrice non è più vista nella prevalenza di una disciplina propria di una formazione gerarchica, ma nella solidarietà e nelle occasioni di sviluppo che, come formazione sociale, essa deve garantire ai suoi componenti, in linea con il dettato dell’art. 2 della Costituzione. La famiglia è anche formazione sociale sulla quale la repubblica e la democrazia riposano: in quanto tale non può che conformarsi al rispetto dei soggetti e delle individualità che la compongono. E da questa diversa prospettiva10 si ritiene necessario fare emergere la violenza in tutte le sue forme, anche sottili, solo così potendosene tutelare giudizialmente i soggetti che ne siano e ne siano stati vittime nel corso dei rapporti familiari.



4. Violenza familiare e ambito di indagine della CTU





La ricaduta di queste due prospettive sull’ambito delle indagini che il CTU familiare deve condurre sul nucleo è potente. Ove si acceda al primo paradigma11, il CTU non potrà e non

dovrà indagare circa le modalità relazionali di quella famiglia nella pregressa convivenza; saranno superflue, ed anzi fuorvianti le indagini, le anamnesi, le biografie dei soggetti coinvolti, addirittura le allegazioni delle parti nel procedimento civile e negli eventuali procedimenti penali, ove non sia intervenuta condanna definitiva sulle condotte violente dedotte. Il contrario accade nel caso in cui si aderisca alla tesi per la quale la violenza domestica è un fenomeno di cui sottovalutiamo le proporzioni endemiche12, alla luce del quale è necessario che il giudice della crisi familiare vagli in ogni caso la fattispecie concreta, per potere al meglio espletare la sua funzione senza far proseguire la c.d. catena della violenza. In questo caso andranno valutati, senza superficialità o preconcetti, tutti gli elementi a disposizione del giudice, che, delegando al CTU una indagine circa le modalità relazionali della famiglia, non potrà trascurare quanto accertato o anche solo allegato dalle parti in sede penale, o anche solo civile – soprattutto se corroborato da quanto viene osservato dal CTU in punto modalità relazionali rilevate, sempre rigorosamente motivando il perché di eventuali presunzioni (che nell’ambito del diritto civile hanno efficacia probatoria, se fondate su fatti “gravi, precisi e concordanti”) in un senso o nell’altro.



5. La c.d. “alienazione parentale”, rectius il rifiuto del minore di incontrare uno o entrambi i genitori





Uno dei corollari più dirompenti di queste due costruzioni (entrambe comunque ideologiche, nel senso di condizionate da idee preconcette, da pregiudizi attraverso i quali si rischia di filtrare la realtà senza coglierla) si manifesta quando sia necessario analizzare e risolvere i casi in cui i figli minori rifiutino di rapportarsi con uno dei genitori.

Chi ritenga che la violenza domestica sia evenienza eccezionale, o intenda non darle rilievo ai fini della decisione su affidamento e collocamento dei minori, riterrà presuntivamente strumentali – e quindi false – le denunce o allegazioni in tal senso, ascrivendo automaticamente quel rifiuto alla malevola manipolazione, da parte di un genitore, del figlio contro il genitore che questi rifiuti di vedere: in altre parole affermando che esiste una in sé censurabile violazione del diritto alla bigenitorialità del minore, su cui prioritariamente intervenire, a nulla rilevando le ragioni di fatto che quel rifiuto ingenerano. Ecco costruita l’“alienazione genitoriale”, che – come ormai costantemente rilevato dalla giurisprudenza di legittimità – non aiuta a comprendere né ad accertare le dinamiche sulle quali la famiglia scrutinata si fonda ma, ponendo come bene primario e quasi esclusivo alla luce del quale valutare i genitori quello dell’accesso all’altro che ciascun genitore consente ai figli, sposta l’asse dell’indagine facendo sparire dal suo campo le ragioni (es., appunto, la violenza, anche psicologica, esercitata nel contesto familiare dal genitore c.d. “alienato”, ovvero cui i figli si rifiutano di rapportarsi) che fondano l’avversione del figlio minorenne: così rovesciando la situazione, finendo per definire genitore meno rispondente al miglior interesse del minore non quello che ha agito e agisce violenza verso l’altro genitore e verso i figli, ma quello che tenta di preservare questi ultimi dagli agiti violenti o inadeguati dell’altro, chiedendo l’affidamento esclusivo, gli incontri protetti, comunque la rarefazione dei contatti dei figli con il genitore appunto violento. Chi invece riterrà che in ambito familiare i ruoli così come definiti dalla società e dalla cultura esistenti implichino comunque, o nella stragrande maggioranza dei casi, la prevaricazione (fisica, psicologica, economica…) della figura maschile su quella femminile (prevaricazione in cui si inscrive l’incapacità di considerare le donne come soggetti autonomi e non necessariamente destinati a sacrificarsi totalmente per un malinteso benessere familiare, o del partner, a scapito di sé stesse), ovvero statisticamente sottovalutati i dati relativi agli abusi – anche sessuali13 – endofamiliari ai danni dei minori (abusi anch’essi – in tesi – endemici alla famiglia c.d. patriarcale), riterrà che le denunce e le allegazioni di violenza domestica, o di abusi in danno dei figli, siano sempre fondate, perché traduzione reale della struttura “patriarcale” della società e appunto della famiglia come ci è trasmessa dalla tradizione. Di conseguenza, quando i figli manifestino un rifiuto nei confronti dell’altro genitore (spesso il padre), si darà per scontato che quell’avversione si fondi su violenze pregresse o abusi subiti, ma anche timori e condizionamenti, che non potranno non essere tenuti in considerazione anche ove supportati da mere allegazioni di parte: il che non può darsi, come qualsiasi operatore di giustizia ben comprende, senza sacrificare ingiu-

stamente diritti fondamentali del genitore rifiutato.

Due visioni contrapposte ma, si diceva, entrambe ideologiche, perché fondate su preconcetti opposti ma accomunati dalla incapacità di cogliere il dato reale, la fattispecie concreta, sui quali sempre dovrebbe fondarsi la soluzione del caso giuridico. Da anni si discetta sul se l’alienazione genitoriale esista o no14; con sagacia e rigore giuridico, la lezione della

c.d. riforma Cartabia ci viene in aiuto, riportandoci al fatto. L’art. 1, 23° comma, lett. b) recita infatti: “qualora un figlio minore rifiuti di incontrare uno o entrambi i genitori, prevedere che il giudice, personalmente, sentito il minore e assunta ogni informazione ritenuta necessaria, accetta con urgenza le cause del rifiuto ed assume i provvedimenti nel superiore interesse del minore, considerando ai fini della determinazione dell’affidamento dei figli e degli incontri con i figli eventuali episodi di violenza”. Il testo di questa norma ci aiuta a sgombrare il campo dal dubbio: l’alienazione genitoriale non è un fenomeno osservabile: è uno schema all’interno del quale si intende dare spiegazione al rifiuto del figlio minore di incontrare uno o entrambi i genitori. Questo rifiuto può risultare dall’avversione o dal timore che un genitore prova verso l’altro; fondarsi su vissuti autonomi del minore; essere frutto di poca considerazione dell’un genitore verso l’altro; originare da metodico e volontario indottrinamento dei figli da parte dell’un genitore in riguardo dell’altro. Il fenomeno da analizzare e sul quale decidere non è l’alienazione genitoriale, ma il rifiuto del minore a incontrare uno o entrambi i genitori. L’indagine andrà condotta sulle cause del rifiuto, che ben possono (lo dice la stessa norma, benché – o forse in modo più potente proprio perché – di delega) riposare su “eventuali episodi di violenza”: segno che essa indagine dovrà effettuata ad ampio raggio, senza potersi indurre, dalla mera evidenza del fatto che l’un genitore non agevoli l’accesso dei figli all’altro, l’inadeguatezza del primo.



6. La sopravvalutazione e fraintesa centralità del

c.d. principio di bigenitorialità. Gli arresti della giurisprudenza di legittimità (requisitoria del PG 21 marzo 2021 e ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022)





Indurre aprioristicamente, dal fatto che il minore rifiuti di stare con uno dei genitori, la responsabilità dell’altro nella causazione di quel rifiuto è una distorsione (anche delle regole del giudizio; soprattutto delle regole del giudizio) tanto evidente quanto inaccettabile, che fa leva su un altro e altrettanto fondamentale equivoco: quello secondo il quale il c.d. diritto alla bigenitorialità sarebbe il cardine, la stella polare, l’imprescindibile di ogni relazione familiare, comunque essa si sia articolata e anche ove essa sia stata caratterizzata da violenze indubitabili, addirittura accertate, dell’un genitore nei confronti dell’altro o dei figli.

La recentissima pronuncia della Corte di Cassazione15 ridimensiona fortemente la valenza di questo principio; ed è stata coerentemente preannunciata dalle argomentazioni che da tempo spende la Procura generale, ben evidenziate in una requisitoria assurta a fama mediatica per la lucidità e completezza del ragionamento giuridico ivi condotto16.

Le conclusioni articolate dalla Procura Generale nel marzo 2021 riguardano un procedimento occasionato dall’impugnazione di un provvedimento della Corte d’appello di Roma con il quale, in nome di questo sopravvalutato principio di bigenitorialità, il figlio minore – che pur aveva riferito violenza agita nei suoi confronti dal padre – era stato allontanato dalla madre e collocato in casa famiglia. Gli argomenti organicamente spesi dalla procura generale fanno chiara luce sugli inaccettabili automatismi che spesso presiedono alle decisioni di molti giudici di merito in questa materia. Più e più volte la Cassazione, cassando quelle decisioni17, ha ribadito che le cause di quel rifiuto vanno indagate e provate, senza poterne imputare la causa al mero atteggio dell’altro genitore – che, è bene sottolinearlo, a volte in quelle sentenze non si indaga neppure se intenzionale o inconsapevole. Fondare il giudizio su indimostrate allegazioni dei periti, che si concentrano su altrettanto indimostrate caratteristiche del rapporto genitoriale figlio-genitore non rifiutato, renderlo impermeabile alle considerazioni degli altri fatti, desumibili anche per tabulas, significa orientare in senso irrimediabilmente erroneo gli esiti della decisione.

Se constino agiti di violenza che il figlio riporta a carico di un genitore, sono quelli a dover essere per primi indagati ed apprezzati, non la presunta violazione del principio della bigenitorialità o, il che è lo stesso, dell’accesso all’altro genitore. Questo secondo ambito di indagine esclude dal suo campo la possibile violenza e così facendo fa luogo (ponendo una presunzione “psicogiuridica”) a un cortocircuito logico: il genitore che chieda di ridursi i contatti tra l’altro genitore e il figlio allegando la violenza agita dal primo, o manifesti timore o avversione per l’ex partner violento, per ciò stesso violerebbe sempre e comunque il principio di bigenitorialità, rimanendo così inesorabilmente esposto alle più drammatiche conseguenze in punto affidamento e collocamento dei figli.

Nella requisitoria citata, la Procura Generale presso la Corte di Cassazione osserva invece che “il principio di bigenitorialità, che non ha dignità costituzionale, essendo al centro dell’art. 30 cost (unitamente agli artt. 2, 3 e 29 cost.) il minore e il suo ‘best interest’, cede a fronte del diritto fondamentale del bambino alla integrità fisica e alla sicurezza”. Su questo fondamentale aspetto, a tutela del minore medesimo, devono quindi condurre i loro accertamenti i giudici del merito (e di conseguenza i CTU): e la integrità fisica del minore, la sua sicurezza non sono certo demandabili, o posponibili, alla definitività di una sentenza penale. Ragione per la quale è importante che, nell’ambito della CTU, vengano esaminati gli schemi relazionali attraverso i quali nella storia familiare si siano dipanati i rapporti tra i soggetti coinvolti nell’esame demandato ai tecnici, per comprendere se emergano elementi in fatto e segnali che confortino indizi, allegazioni, altri elementi di prova (sì, anche i messaggi whatsapp e il loro tenore18) che fanno ragionevolmente presumere che il comportamento di uno dei genitori sia fonte, per il minore ma anche per l’altro genitore, di danno, o timore per la propria o altrui integrità e sicurezza. Senza dire del danno, anche il mero timore può da solo fondare decisioni volte a limitare l’incidenza di quei comportamenti nelle sfere soggettive dei figli (es. visite protette, o affido esclusivo all’altro genitore) senza che sia necessaria la previa condanna penale di chi quei comportamenti agisce. Di contro, ove quelle indagini portino a concludere che esistono comportamenti ingiustificatamente condizionanti (perché di violenza subita non è traccia; o perché non è dato ritenere che esistano altri fattori giustificanti la volontà di allontanare, o il timore di far avvicinare, il figlio all’altro genitore) il giudice potrà assumere provvedimenti volti a disinnescare o contenere lo schema relazionale disfunzionale, sempre avendo come principio cardine non tanto la bigenitorialità, ma il best interest del minore, alla luce del quale dovranno essere vagliate le possibili alternative volte a scardinare lo schema relazionale pregiudizievole19.

Il diritto alla bigenitorialità non è, in altre parole, un fine, ma solo un mezzo attraverso il quale il best interest del minore deve essere perseguito. E quindi, ove quel diritto sia o possa essere pregiudicato dalle attuali e concrete modalità con le quali il genitore declina il suo rapporto con il figlio – o anche solo con l’altro genitore – esso deve cedere il passo al ben più importante – e quello sì costituzionalmente protetto – diritto del minore alla propria integrità psico-fisica e alla propria sicurezza.



7. Conclusioni





Il Protocollo del Tribunale di Milano, mostrando specifica considerazione per gli episodi di violenza domestica che possano avere avuto luogo nel contesto familiare sottoposto a scrutinio, si allinea alle disposizioni normative che, nel corso dell’ultimo decennio, hanno concorso a fare emergere il fenomeno della violenza di genere nel contesto familiare.

Ciò non significa che al CTU il giudice possa delegare un’istruttoria delicatissima come quella volta a sancire l’illiceità dei comportamenti delle parti in ambito familiare, ma che il CTU può e anzi deve rilevare, nel corso dei lavori peritali, elementi ed episodi che indichino modalità violente nell’estrinsecazione delle relazioni sottoposte al suo scrutinio, senza aprioristicamente ignorarle o, peggio, bollarne l’allegazione come strumentale. Lo sforzo degli operatori di giustizia deve diventare quello di individuare la violenza endofamiliare anche ove si manifesti attraverso forme più sottili di quelle che si è adusi considerare (violenza psicologica, violenza economica…); e di finalmente ritenere la sua rilevanza in sede civile (specificamente, ma non esclusivamente, in riguardo all’esercizio della responsabilità genitoriale e alle modalità di affido dei figli) anche ove non constino provvedimenti che la sanciscano in sede penale. La statuizione civile ben può fondarsi su elementi di prova che si formano secondo le regole del processo civile, meno rigide di quelle deputate alla formazione di quelli penali20 perché diversa ne è la finalità. È ormai anacronistico ancorare la decisione del giudice della famiglia agli esiti penali (del tutto eventuali) della vicenda dedotta in causa, quando la violenza domestica, declinata nelle sue diverse forme, vi assume autonoma rilevanza in ragione di norme sempre più penetranti, volte a sradicare questa piaga dal contesto familiare e non.

E quindi, ben venga una consulenza psicologica in ambito familiare che aiuti ad inquadrare gli (ma non prendere il posto degli) elementi di prova offerti dalle parti al giudice della crisi familiare, permettendo di ritenerli coerenti o non coerenti alle indagini specialistiche sulle caratteristiche personologiche dei soggetti coinvolti, alle loro modalità relazionali, ai punti di forza e criticità delle loro genitorialità.

In questo modo la CTU sarà uno strumento a servizio del giudice, che dovrà autonomamente articolare un giudizio sui fatti, ma potrà desumere elementi preziosi dall’ausilio di un sapere specialistico che orienterà la sua decisione, anche dal punto di vista prognostico21, nel senso di privilegiare sempre e innanzitutto l’interesse del minore, anche nel pronosticabile futuro: e, primariamente, non un suo malinteso diritto alla bigenitorialità, ma la sua sicurezza e integrità psicofisica.

NOTE

1 Reperibile in www.osservatoriofamiglia.it (consultato in data 31 marzo 2022).

2 Reperibile in www.osservatoriofamiglia.it (consultato in data 31 marzo 2022).

3 Facendo onere al CTU di chiedere istruzioni al giudice circa le modalità di svolgimento delle operazioni peritali anche in difetto di provvedimenti emessi in sede penale ovvero ex art. 342-bis c.c. 4 L. n. 69 del 19 luglio 2019: vedansi. articoli in questa Rivista, anno 2019, n. 2, 50 ss. e 73 ss.

5 “Art. 64-bis (Trasmissione obbligatoria di provvedimenti al giudice civile).

-1. Ai fini della decisione dei procedimenti di separazione personale dei coniugi o delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della potestà genitoriale, copia delle ordinanze che applicano misure cautelari personali o ne dispongono la sostituzione o la revoca, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, del provvedimento con il quale è disposta l’archiviazione e della sentenza emessi nei confronti di una delle parti in relazione ai reati previsti dagli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies, 612-bis e 612-ter del codice penale, nonché dagli articoli 582 e 583-quinquies del codice penale nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale è trasmessa senza ritardo al giudice civile procedente”.

6 In un senso o nell’altro: può essere che l’illecito denunciato, pur non assurgendo nella valutazione del magistrato penale procedente a fatto di reato, comunque esista e possa avere conseguenze sul piano civile, che ha presupposti probatori meno stringenti, oppure può risultare verificata l’infondatezza della denuncia, l’avere presentato la quale è però anch’esso sintomo di gravi disfunzioni, che la decisione civile non può ignorare

7 “…condizioni psichiche e competenze genitoriali delle parti… condizioni psichiche dei minori… caratteristiche del legame del minore con ciascuno dei genitori, con particolare riguardo alle funzioni di cura, protezione ed educazione, funzione riflessiva

– capacità di mentalizzazione – empatica/affettiva e organizzativa… elementi che comportino ostacoli alla relazione dei minori con uno dei genitori… elementi che suggeriscano l’adozione di un regime di esercizio di responsabilità genitoriale diverso da quello condiviso… elementi utili a valutare le più probabili traiettorie della situazione familiare in rapporto alle prospettate conclusioni nel caso di evoluzioni sfavorevoli”.

8 Quella che considera le evenienze di violenza endofamiliare come eccezionali e quelle solo allegate o denunciate tout court strumentali ad ottenere indebiti vantaggi nel contesto giudiziale, cosicché avrebbe senso ritenere che esse possano spiegare effetti in sede civile solo nel caso in cui siano rigorosamente provate all’esito definitivo di un procedimento penale.

9 Anche e soprattutto in ragione e per l’effetto dello strenuo sforzo di sensibilizzazione delle attiviste e attivisti contro la violenza di genere messo in campo negli ultimi anni, che hanno portato a rilevare e individuare, in coerenza con i principi di cui alla Convenzione di Istanbul (cfr. in particolare art. 3 per le definizioni; e l’art. 12 per le azioni di prevenzione) violenze meno evidenti di quella agita fisicamente, in precedenza nemmeno considerate tali (es. violenza psicologica; violenza economica; violenza assistita, vittimizzazione secondaria)

10 Per la quale si assume che la violenza endofamiliare sia una modalità ancora poco percepita del modo in cui, in molti più casi di quelli che la communis opinio ritiene, le relazioni familiari (dis-)funzionano, per venire frequentemente al pettine al momento della crisi separativa

11 Si veda sul punto il “Memorandum di 130 intellettuali, accademici e professionisti esperti in materia psicoforense”, in https://www.filodiritto.com/memorandum-di-130-intellettuali-accademici-e-professionisti-esperti-materia-psicoforense (consultato il 31 marzo 2022), dell’11 settembre 2020 (promosso dall’Avv. Prof. Guglielmo Gulotta) documento indirizzato alla Commissione contro il femminicidio istituita presso il Senato, che ha unito molti studiosi e operatori in un grido contro il ritenuto sovradimensionamento della violenza di genere nell’ambito della crisi separativa (per tale intendendosi quella agita in danno alle donne, è bene ricordarlo chiarendo che tale accezione è quella considerata dalla Convenzione di Istanbul e da tutti i protocolli internazionali in materia, per buona pace di chi si ritiene in dovere di atteggiarsi equanimemente in riguardo ad entrambi i generi, dimenticando o volutamente falsando il dato statistico e storico – cfr. art. 4, 4° comma della Convenzione di Istanbul: “Le misure specifiche necessarie per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere non saranno considerate discriminatorie ai sensi della presente Convenzione”).

12 Cfr. il c.d. “Protocollo Napoli”, in https://www.ordinepsicologier.it/public/ genpags/bigs/7294protocollonapoli.pdfhttps:// (consultato il 31 marzo 2022), documento recepito dal Consiglio dell’Ordine degli psicologi della Campania nella seduta del 12 settembre 2019 e approvato anche dall’ordine nazionale, che vuole fornire indicazioni sulla consulenza psicologica in caso di violenza nella cornice della Convenzione di Istanbul (Linee guida per la consulenza tecnica il materia di affidamento dei figli a seguito di separazione dei genitori), e al quale il Memorandum di cui alla precedente nota ha inteso “reagire”, nell’ambito di un dibattito tuttora in atto.

13 Su cui si veda ad esempio il c.d. caso Duhamel in Francia: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/la-francia-di-fronte-allincesto-processo-alle-lites-del-68

(consultato il 31 marzo 2022).

14 Se la sindrome di alienazione genitoriale, c.d. PAS, non ha più albergo scientifico, non per questo si è rinunciato a delineare l’esistenza di un altrettanto preconcetta fattispecie, l’alienazione genitoriale, che con la prima ha in comune la rigidità con la quale intende interpretare situazioni che possono invece scaturire da cause completamente diverse, e la intrinseca capacità di spostare l’attenzione su un costrutto – insuscettibile, come ogni preconcetto, di prova – e non su fatti, passibili invece di dimostrazione rigorosa.

15 Cass. civ., sez. I, ord. n. 9691 del 24 marzo 2022, pubblicata su www. osservatoriofamiglia.it.

16 Si tratta delle conclusioni rassegnate dalla Procuratrice generale presso la Corte di Cassazione Dott.ssa Francesca Ceroni nel ricorso R.G. n. 36260/2019, requisitoria pubblicata su www.osservatoriofamiglia.it.

17 La cui puntuale enumerazione si trova nella requisitoria di cui alla precedente nota.

18 Cfr. nota a Cass. civ., Sez. I, ord. 17 luglio 2019, n. 19155, in questa Rivista, anno 2019, 79-82.

19 E ricordando, da oggi in poi, che “l’esecuzione coattiva del decreto consistente nell’uso di una certa forza fisica diretta a sottrarre il minore dal luogo ove risiede con la madre, per collocarlo in una casa-famiglia… non appare misura conforme ai principi dello Stato di diritto in quanto prescinde del tutto dall’età del minore, ormai dodicenne, non ascoltato e dalle sue capacità di discernimento, e potrebbe cagionare rilevanti e imprevedibili traumi per le modalità autoritative che il minore non può non introiettare, ponendo seri problemi, non sufficientemente approfonditi, anche in ordine alla sua compatibilità con la tutela della dignità della persona, sebbene ispirata per la finalità di cura dello stesso minore”: cfr. ancora Cass. civ., sez. I, ord. n. 9691 del 24 marzo 2022, cit.

20 Nel processo penale il fatto si ritiene provato se viene escluso il ragionevole dubbio in ordine al suo accadimento; nel processo civile vale invece la regola secondo la quale, in presenza di due ipotesi opposte, il giudice deve scegliere quella che, in base alle prove disponibili, ha un grado di conferma logica o probabilistica superiore all’altra: anche in ragione dell’utilizzo delle presunzioni, istituto che può differenziare radicalmente, insieme al principio dell’onere della prova, l’esito del ragionamento giuridico che venga articolato in sede civile rispetto al risultato atteso in sede penale.

21 Su cui vedasi l’articolazione n. 9 del punto 6 del nuovo Protocollo di Milano: “fornisca il CTU, ove possibile, elementi utili a valutare quali siano le più probabili traiettorie della situazione familiare in rapporto alle prospettate conclusioni e, nel caso di evoluzione sfavorevoli, quale potrebbero essere allo stato percorsi o soluzioni alternative realisticamente prospettabili”; nonché la già citata ord. Cass. civ., sez. I, n. 9691 del 24 marzo 2022: “ogni decisione che si ponga il problema se privilegiare l’interesse del minore in prospettiva futura, al prezzo di produrre una sofferenza immediata, deve compiere un difficilissimo bilanciamento: la scelta della prospettiva futura può essere ragionevolmente privilegiata solo se è altamente probabile che dia esito positivo nel lungo periodo e al tempo stesso dalla scelta opposta deriverebbe un danno elevato”.