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Una questione controversa: il senso della consulenza tecnica nelle contese familiari

autore: F. Villa

SOMMARIO: 1. L’incontro contagia. - 2. Perché una consulenza in materia di diritto di famiglia? - 3. Il protocollo di Milano: consulenza valutativa o trasformativa? - 4. Rispondere al quesito.



Negli anni ’40 del secolo scorso nasceva l’esigenza di venire incontro ai sempre più frequenti conflitti di coppia all’interno dei “focolari distrutti” dalle traversie della guerra e dai rapidi mutamenti sociali.

Le patologie del legame di coppia hanno così iniziato a destare l’interesse della psicologia e ad assumere una specificità nel campo delle psicoterapie. Il disagio psichico nella relazione di coppia può manifestarsi in molti modi, non ultimo una separazione legale che coinvolge irrimediabilmente anche i figli. Dal 1970 in Italia il Diritto entra nelle controversie familiari con l’introduzione della legge sullo “scioglimento del matrimonio” e sempre più di frequente il magistrato chiede ausilio al consulente tecnico per orientare le sue decisioni.

Fortunatamente non tutte le coppie che decidono di separarsi confliggono a tal punto da dover giungere, nel percorso giudiziario, ad una consulenza tecnica d’ufficio. Ma quando si giunge a quel punto il livello di gravità è già alto. Gli aspetti psicologici e relazionali conflittuali rendono difficile il compito del magistrato di giudicare e di disporre nell’interesse dei minori.

A volte lo inducono a coinvolgere un consulente tecnico con lo scopo ultimo di essere aiutato e guidato nelle sue decisioni. Il processo civile nelle controversie familiari corre così il rischio di diventare, involontariamente, il collettore delle patologie individuali, di coppia e dell’intero gruppo-famiglia. Tra le pieghe di un procedimento giudiziario si possono allora annidare gli aspetti psicopatologici della coppia e della famiglia che dovrebbero essere “curati” e non solo “valutati”. Così se le patologie individuali e quelle dei legami familiari si mimetizzano e si annidano tra le pieghe di un procedimento giudiziario c’è bisogno, per uscire dalla confusione, che qualcuno lo espliciti: la famiglia è “malata” e, quindi, più che “giudicata” deve essere “curata”, possibilmente al di fuori del contesto giudiziario. In questi casi il Tribunale corre il rischio di perdere la specificità del suo compito istituzionale di amministrare la Giustizia e diventa il palcoscenico dove si rappresentano le disfunzioni relazionali familiari. Sotto le mentite spoglie del supremo interesse del minore nelle aule dei Tribunali i coniugi intraprendono battaglie di potere dove, sullo sfondo di interessi patrimoniali ed economici, si muovono nuovi attacchi ai legami familiari già danneggiati ed usurati dagli eventi della vita. Le più gravi degenerazioni della qualità delle relazioni familiari si ritrovano in quei casi dove un figlio non vuole più incontrare un genitore o aleggia il sospetto di un abuso e/o di gravi maltrattamenti.

Il numero dei procedimenti aperti nelle controversie familiari tra due genitori in fase di separazione nei vari Tribunali è spesso indice predittivo della gravità del caso.

In alcune occasioni, purtroppo sempre più frequenti, le coppie che giungono ad una consulenza hanno procedimenti aperti contemporaneamente in tre tribunali: dinanzi al tribunale ordinario per una separazione giudiziale dei coniugi, dinanzi al tribunale penale per la denuncia di uno dei due nei confronti dell’altro per sospetti maltrattamenti e/o sospetti abusi sessuali, dinanzi al tribunale per i minorenni per la richiesta di decadenza dalla responsabilità genitoriale di uno dei due nei confronti dell’altro. A volte sono in corso, addirittura anche contemporaneamente, più consulenze disposte dai diversi tribunali per cui si arriva al paradosso di avere valutazioni difformi l’una dall’altra. Quando si arriva a scenari del genere è ovvio che ci troviamo di fronte a gravi e complesse psicopatologie relazionali che dovrebbero essere più chiaramente esplicitate perché possano essere adeguatamente affrontate.



1. L’incontro contagia



Le neuroscienze ci hanno insegnato che siamo sensibili agli stati d’animo provati da chi ci sta intorno. Se incontriamo un amico agitato ci agitiamo, se è depresso trasferisce su di noi una patina della sua depressione, rattristandoci.

Pertanto, come una cartina al tornasole, cogliamo e siamo condizionati dalle atmosfere che avvolgono le famiglie che giungono alla nostra osservazione, sia come terapeuti che come consulenti. Le nostre emozioni vengono amplificate dalla contingenza del nuovo incontro con una coppia in crisi e sono condizionate dalle esperienze di vita in cui veniamo immersi. Le loro emozioni sono trasmesse e proiettate su di noi e si intersecano con nostre personali esperienze.

Jonathan Safran Foer, nel suo bellissimo romanzo “Ogni cosa è illuminata” descrive poeticamente la trasmissibilità delle emozioni in una coppia: “nel caso Brod si sentisse depressa – era sempre depressa – l’uomo di Kolki si sedeva accanto a lei e stava lì fin quando la convinceva che tutto andava bene. Tutto bene. Davvero. E quando lei riusciva ad inoltrarsi nella giornata lui rimaneva indietro, paralizzato da un dolore a cui non sapeva dar nome, e che non era il suo. Quando Brod si ammalava era l’uomo di Kolki che, in capo alla settimana, finiva a letto… Quando Brod si svegliava in pianto da uno dei suoi incubi l’uomo di Kolki le stava vicino, […] e ancor di più: quando i suoi occhi si erano chiusi e lei si era riaddormentata, restava lui a fare i conti con l’insonnia. C’era un trasferimento completo, come quando una palla di biliardo ne urta una ferma”1.

Gli stati d’animo della coppia in consulenza possono quindi contagiare gli altri “personaggi” coinvolti (consulenti, avvocati, curatore speciale, operatori dei servizi) e condizionare le loro decisioni. Così, senza che nessuno se ne accorga, chiunque entri in contatto professionale con la coppia, non ultimo il consulente, può essere indotto ad adeguarsi alle stesse dinamiche intrapsichiche e interpersonali. Si corre così il rischio di agire, inconsapevolmente, le aspettative degli altri senza avere il tempo di pensare e di riflettere.



2. Perché una consulenza in materia di diritto di famiglia?



Con queste premesse si può ben comprendere che per il consulente diventa molto difficile rispondere ai quesiti del magistrato e gestire i partecipanti al “gruppo-consulenza” che si va a formare.

Una corrente di pensiero della psicologia giuridica lamenta un eccesso di delega al ctu ed una mancanza di oggettività e ritiene opportuno risolvere il problema della complessità insita nel lavoro di consulenza sostenendo che il tecnico si deve limitare a descrivere ciò che vede, senza dare un nome, paradossalmente, a ciò che ha osservato ma soprattutto non deve esprimere pareri e non può provare a modificare i malfunzionamenti che ha osservato.

In questo modo si corre il rischio di ridurre la specificità professionale del consulente relegandolo a “illustratore di scenari relazionali” raggiungendo così un duplice obiettivo: da un lato evitare che il consulente abbia eccessiva influenza nella decisione del magistrato, dall’altro di ridurre al minimo i danni prodotti da eventuali consulenti inesperti o facilmente suggestionabili dalla “seduzione” delle parti o dei loro consulenti. Per comprendere meglio il senso di questo paradigma restrittivo e limitante che oggi si tenta di applicare anche ai procedimenti civili bisogna andare indietro nel tempo quando le stesse problematiche iniziarono ad emergere nell’ambito dell’istruzione dei primi procedimenti penali per sospetti abusi sessuali sui minori nel nostro Paese dove il parere del consulente correva il rischio di essere determinante.

Con la legge n. 66 del 1996, ma già dai primi anni ’90, in Italia si iniziano ad istruire delicatissimi processi in campo di abusi sessuali e di violenza sui minori sempre più spesso nell’ambito di famiglie separate: sono i tempi in cui alcuni Pubblici Ministeri a Milano iniziarono a delineare procedure investigative, da alcuni apprezzate, da altri aspramente criticate. La consulenza tecnica restava un cardine così importante tanto da rischiare che la sentenza “fosse scritta”, in un certo senso, dal consulente del PM e non dal Collegio.

Sulla scorta dell’esperienza dei colleghi di altri Paesi, iniziarono a formarsi anche in Italia gruppi di psicologi-neuropsichiatri-psichiatri che coniugavano le loro personali esperienze cliniche con quelle giuridiche nello specifico campo delle consulenze con lo scopo di affinare le tecniche e le metodologie.

In quegli anni, terminato ormai da tempo il mio training formativo in psicoterapia psicoanalitica infantile in stretta relazione con la Tavistock Clinic di Londra, mi trovai quasi per caso ad essere nominato Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Napoli lavorando per più di dieci anni fianco a fianco con i magistrati per la tutela dei minori maltrattati, abbandonati, abusati; in una parola traumatizzati. Questo ruolo istituzionale mi ha spinto poi a formarmi sempre più nel settore del trauma: dal suo “rilevamento” (le psicodiagnosi), alle sue conseguenze (il vasto campo del post-traumatico) fino alla psicoterapia come strumento per alleviarne le sofferenze. Tutto ciò mi ha portato nel tempo prima ad essere, ormai innumerevoli volte, consulente dei PM in varie Procure italiane e poi docente di corsi di formazione e master per giovani colleghi che volevano approfondire lo studio, ma soprattutto la pratica della psicologia forense nel campo delle consulenze in ambito civile e penale.

Sono ora trascorsi più di trent’anni, le tecniche si sono per-fezionate, gli interventi si sono modulati, si è lavorato per poter essere il più obiettivi ed accurati possibili senza però svilire il ruolo ed il compito affidato al consulente tecnico.

Intorno all’istruzione dei processi penali per sospetti abusi si sono coagulati, nel corso degli anni, gruppi di professionisti che per le proprie competenze professionali, indoli personali e teorie scientifiche di riferimento si sono diversificati sostanzialmente in due gruppi: chi prevalentemente lavorava come consulente dell’accusa, chi invece prevalentemente della difesa. La polarizzazione nel tempo è diventata purtroppo sempre più netta fino a connotare gruppi impropriamente riconosciuti e stigmatizzati come “innocentisti” o “colpevolisti” aumentando le distanze tra di loro. Ad esempio si è arrivati addirittura a pubblicare su internet liste di professionisti pro o contro la Sindrome di Alienazione Genitoriale per indirizzare la scelta del consulente di parte o per mettere in guardia le parti sulla paventata ideologia del consulente tecnico d’ufficio. Tutto ciò non ha giovato, e tuttora non giova, alla serenità del professionista nello svolgere il compito e all’obbiettività scientifica che inevitabilmente deve reggere l’urto della suggestione e del condizionamento Per tentare di uniformare la metodologia da utilizzare e di ridurre al minimo la soggettività del consulente ed il suo potere discrezionale nel corso del tempo si sono moltiplicate “carte, protocolli e linee guida” con l’encomiabile intento di uscire dalla confusione e tracciare una griglia operativa che garantisca un minimo di univocità degli interventi in una materia così complessa e delicata. Ma nel diritto di famiglia il consulente non è chiamato a valutare la stabilità di un ponte o il livello di inquinamento di un corso d’acqua bensì la qualità delle relazioni interpersonali che governano i rapporti tra i membri di una famiglia separata e in grave difficoltà.

Può accadere che la griglia valutativa suggerita degeneri in una rete ingabbiante di procedure da seguire pedissequamente. Cosi alcune idee cliniche e “raccomandazioni, riportate nelle linee guida di diverse associazioni vengono poi utilizzate come modello rigido per leggere ed interpretare la realtà. Inevitabilmente, nel momento in cui un certo modello interpretativo è stato assolutizzato e considerato il solo “metodo giusto” per leggere i dati clinici sono nate questioni così “controverse” da degenerare in ideologie. Così è accaduto per i cosiddetti indicatori post-traumatici nei casi di sospetti abusi e/o maltrattamenti, da alcuni enfatizzati da altri del tutto negati; così è accaduto per la valutazione dell’idoneità di un minore a rendere testimonianza; così per “l’alienazione genitoriale” che, ormai bandita come termine dalle aule dei tribunali, non certo è scomparsa come costellazione clinica di un evidente fenomeno relazionale che si può riscontrare in alcune famiglie, non necessariamente separate.



3. Il protocollo di Milano: consulenza valutativa o trasformativa?





Tra i numerosi protocolli stilati in ambito civile e penale recentemente ha visto la luce, nell’ottobre del 2021, quello del Tribunale Ordinario di Milano. Anche questo, come altri in precedenza, se da lato traccia un indispensabile corrimano metodologico e procedurale dall’altro corre il rischio di definire una parcellizzante “territorialità” dei distretti giudiziari: in ogni distretto si prevedono modelli operativi diversi dagli altri con il rischio che una consulenza a Milano o a Palermo siano condotte secondo canoni e principi diversi. Quello che si guadagna in chiarezza nel singolo tribunale poi rischia di creare confusione a livello nazionale. Infatti se si ha la pazienza di leggerne un certo numero si nota che al di là di posizioni generiche da tutti condivise in ognuno si rintracciano alcune specificità che riguardano questioni controverse in ambito nazionale.

Al suo “punto 5” il protocollo di Milano sostiene la “Funzione Valutativa e non trasformativa della CTU” riaprendo il confronto, se non la disputa, tra diverse scuole di pensiero.

Consulenza Valutativa o Trasformativa? Personalmente penso che una consulenza in materia di diritto di famiglia non dovrebbe essere né solamente valutativa ma neanche soltanto trasformativa: la consulenza dovrebbe comportare la “valutazione di una trasformazione”. La consulenza, nel corso del suo svolgimento, dovrebbe sondare la capacità trasformativa della coppia di fronte ad una nuova esperienza rappresentata, nel caso specifico, dalla consulenza stessa. La coppia affronta questa nuova esperienza con le stesse modalità con cui ha affrontato le altre, non ultima la separazione. Anche se ognuno dei due tenterà di offrire al ctu il migliore profilo di sé farà comunque ricorso ai meccanismi di difesa che abitualmente usa e si riproporranno i modelli di funzionamento mentale della coppia e dei figli. Come l’assetto mentale della famiglia riesce a trasformarsi nel corso della consulenza? Il consulente dovrebbe, nel rispondere ai quesiti, cogliere anche la qualità e l’intensità delle trasformazioni del funzionamento familiare contemplando anche l’ipotesi che nessuna trasformazione sia avvenuta: in questi casi il sistema del funzionamento mentale della famiglia è così rigido da non poter subire anche una minima trasformazione.

Bisognerebbe quindi privilegiare gli aspetti relazionali della coppia a quelli finemente psicodiagnostici per rafforzare in entrambi l’idea di essere “soggetti” responsabili di un processo trasformativo piuttosto che “oggetti” passivi di un giudizio valutativo fine a se stesso.

Quando un magistrato dispone una ctu di fatto dà vita ad un gruppo di lavoro costituito dal consulente d’ufficio (e eventualmente dal suo Ausiliario), dai consulenti di parte, dagli avvocati, dai componenti della famiglia (genitori e figli) e, sempre più spesso, anche dal curatore speciale.

Sin dalle prime battute nell’udienza per il conferimento dell’incarico si inizia a creare un clima, un’atmosfera che è caratteristica di ogni singola consulenza e che dà informazioni sulla qualità delle relazioni tra i membri della famiglia e tra quelli del gruppo di lavoro che si sta venendo a formare. È molto interessante notare come può cambiare il clima del gruppo quando per esempio c’è una sostituzione di uno dei partecipanti: un consulente di parte o un avvocato viene sostituito, un ctu viene ricusato, un consulente, di parte o d’ufficio, rinuncia al mandato. Se si modificano i partecipanti del gruppo-consulenza anche le risposte ai quesiti possono subire l’influenza del cambiamento: un iniziale scontro frontale tra le parti può trovare uno spiraglio mediativo o, viceversa, quanto si era costruito per una ricomposizione del conflitto può invece essere acuito fino all’esasperazione.

La consulenza può essere così considerata un percorso dinamico in cui avvengono trasformazioni che possono essere evolutive o involutive. A volte si può anche riscontrare l’assenza di trasformazioni indice che il sotto-sistema famiglia è stato impermeabile alle sollecitazioni dirette o indirette, volontarie o involontarie, degli altri membri che partecipano gruppo-ctu. Considero trasformazioni involutive quelle che determinano un peggioramento del clima familiare ed un irrigidimento delle posizioni e delle difese con una complessiva regressione a modelli di funzionamento più arcaici. Quanto le dinamiche distruttive e la tendenza ad attaccare i legami, nella famiglia come nel gruppo-ctu lasciano spazio alla collaborazione e alla cooperazione costruttiva?

Il gruppo di lavoro-ctu deve anche resistere agli attacchi al compito mossi dai singoli membri, nel tentativo di impedire che sia fatta una valutazione realistica ed obbiettiva: richieste di ricusazione (del ctu o del magistrato), cavilli procedurali, sottili intimidazioni, boicottaggio delle operazioni peritali rappresentano i più frequenti attacchi al compito che il gruppo di una ctu può subire ad opera dei suoi stessi membri. Del resto è inevitabile che il gruppo di ctu risenta di una importante motivazione che spinge le persone a rivolgersi al Tribunale per risolvere le proprie controversie: non tanto per veder riconosciuti i propri diritti quanto per essere riconosciuti “vincitori”. Non è un caso che si è soliti dire che una causa sia stata vinta o persa. Se il fine ultimo per la parte, per il suo legale e per il suo consulente è vincere e non, come dovrebbe essere, tutelare i minori, allora la consulenza ed il lavoro svolto sarà boicottato, svilito e contrastato ben al di là del diritto al contraddittorio.

Sarà proprio il funzionamento del gruppo di lavoro che si è venuto a costituire che fornirà al ctu alcuni degli elementi essenziali per poter rispondere al quesito. Il ctu diventa allora, in un certo senso, il porta-parola del gruppo e di ciò che si è trasformato, se si è trasformato, nel corso della consulenza. Tali valutazioni, anche se esulano strettamente dal mandato assumono anche un importante valore prognostico in merito alla possibilità di suggerire eventuali percorsi di sostegno alla genitorialità per la coppia.

È ovvio che una patologia del gruppo famiglia non può essere “curata” in Tribunale ma può però essere evidenziata nel percorso giudiziario e posta all’attenzione del magistrato per poter aiutare la famiglia in difficoltà nelle sedi della “cura” e non in quelle del “diritto”.

La ctu, mezzo istruttorio e non di prova, può essere considerata una sorta di “esperimento in vitro” in quanto saggia e verifica, fino a valutarla, la possibilità e la capacità trasformativa dell’assetto relazionale del gruppo famiglia in presenza di una sollecitazione esterna rappresentata dalla ctu stessa.

Se due genitori chiedono al tribunale di disporre su ciò che loro non sono stati in grado di decidere insieme (domiciliazione, frequentazione e modalità di affidamento) la consulenza tecnica dovrà valutare di quanto ed in che modo i due possono eventualmente modificare i loro processi decisionali nell’interesse dei figli. Ecco che la consulenza diviene una valutazione della capacità trasformativa del nucleo famiglia, mezzo istruttorio che può aiutare il giudice nelle sue decisioni.



4. Rispondere al quesito



Il paragrafo 6 del Protocollo di Milano affronta un’altra questione controversa: il quesito e le sue declinazioni. Il protocollo di Milano propende per un quesito estremamente dettagliato e articolato porgendo così il fianco alle critiche di quella corrente di psicologia giuridica che è convinta di evitare i danni di una mal pratica professionale limitando la portata delle valutazioni del ctu.

Ma limitare la portata dei quesiti favorisce quel progetto complessivo di mettere in atto uno “smontaggio del senso” dei dati acquisiti. Se infatti il ctu dovesse limitarsi soltanto a descrivere ciò che osserva evitando accuratamente di dare un senso a ciò che ha descritto, verrebbe espropriato della funzione specifica di dare un senso a ciò che la concatenazione e la connessione dei dati può offrire. Limitare la portata dei quesiti persegue l’intento di prospettare una ctu che offra solo i tasselli di un puzzle. Lasciare ad altri il compito di metterli insieme ed interpretarli impedisce al ctu di ricomporli in base alla sua esperienza professionale e alle sue conoscenze tecniche. Limitare la portata dei quesiti consentirà ad ognuno di forzare a piacimento i vari tasselli nelle posizioni più confacenti al proprio ruolo e ai propri interessi di parte. Così il lavoro del ctu che dovrebbe limitarsi a raccogliere i tasselli senza poterli mettere insieme non solo è svilito ma anche del tutto neutralizzato e vanificato. Ancora una volta, purtroppo, il pensiero giuridico rischia di prendere il sopravvento su quello psicologico perdendo di vista quell’indispensabile e auspicabile equilibrio tra i due nell’ambito del diritto di famiglia dove si decide su “persone” e non di “cose”.

Personalmente sono convinto che limitare le funzioni dell’esperto e circoscrivere le sue competenze riducendo al minimo anche il quesito non è certo la soluzione più idonea. Sarebbe come dare ad un bambino inesperto delle forbici con le punte smussate, con lame in plastica che tagliano solo la carta. Per evitare che il bambino si faccia del male o ferisca qualcuno gli si mette a disposizione un utensile sicuramente inoffensivo ma anche molto limitato nel suo utilizzo. Nel tentativo di contenere l’eccessiva arbitrarietà e discrezionalità interpretativa del ctu si rischia di vanificare il suo lavoro e di diluire, se non addirittura annullare, il valore ed il senso della ctu. Se il compito ultimo della ctu è tutelare i minori allora il lavoro non può prescindere dalla conoscenza della “psicologia” dei genitori. La psicologia dello sviluppo e le teorie dell’attaccamento sottolineano la fondamentale importanza dei caregiver nello sviluppo della personalità di ogni bambino. Come si possono descrivere le competenze genitoriali prescindendo dalla personalità dei genitori? Lo studio della personalità dei genitori e della loro propensione alle trasformazioni non ha lo scopo di verificare la presenza di eventuali psicopatologie ma quello di conoscere il funzionamento mentale complessivo e le risorse psichiche della coppia.

La soluzione al problema, personalmente, non sta quindi nel limitare le funzioni dell’esperto ma nel richiedere al consulente una formazione adeguata e specifica per svolgere un compito così “specialistico” come una consulenza tecnica per ridurre il più possibile quel “rumore” di sottofondo, descritto da Daniel Kahneman2 nel suo ultimo volume. Ciò che Kahneman chiama “rumore” può essere considerato quel livello di disaccordo tra professionisti che si occupano degli stessi casi o delle stesse problematiche che può portare poi ad un errore di giudizio. Così due medici possono formulare diagnosi diverse o due giudici due sentenze dissimili. Il rumore anche se inevitabile può essere però controllato e ridotto. Non si può eliminare il gracchiare di una radio che disturba l’ascolto abbassando il volume o spegnendola, bisogna migliorare la sintonizzazione per “pulire” il suono. Non si può ridurre il “rumore” nelle risposte ai quesiti di una consulenza riducendoli o semplificandoli, si dovrebbe invece affinare le competenze. Purtroppo non si richiede ancora una competenza specifica in psicologia giuridica a chi decide di intraprendere il difficile e delicato compito di consulente tecnico del Tribunale. All’inizio, soprattutto i giovani colleghi, intraprendono questa difficile e delicata attività alla ricerca di un eventuale sbocco lavorativo alternativo a quello specifico della loro formazione professionale e, loro malgrado, si trovano a dover gestire un compito che li trova alcune volte impreparati. Bisognerebbe puntare, a mio parere, su un investimento a lungo termine prevedendo una formazione specifica che valorizzi e non svilisca il ruolo del consulente tecnico. Come ricorda il vecchio proverbio cinese, pare erroneamente attribuito a Confucio, “Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno; insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita”.





NOTE

1 J.S. FOER, Ogni cosa è illuminata, Parma, 2004.

2 D. KAhNEMAN, O. sIBONy, C.R. sUNsTEIN, Rumore: un difetto del ragionamento umano, Torino, 2021.