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Osservazioni a commento delle “indicazioni operative per la CTU su famiglia e minori” del tribunale di Milano

autore: G. B. Camerini, M. Pingitore

Il Tribunale di Milano e l’Ordine degli Avvocati di Milano, unitamente all’Ordine Provinciale dei Medici e degli Odontoiatri di Milano, al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Bicocca, all’Ordine degli Psicologi della Lombardia ed all’Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano hanno recentemente redatto le “Indicazioni operative per la CTU su Famiglie e Minori”, ovvero una sorta di buone prassi e linee guida di natura deontologica e metodologica a disposizione di CTU, CTP, ausiliari, avvocati e magistrati. Il documento in questione si aggiunge a diversi altri elaborati in altre sedi (Roma, Torino) e riflette da un lato la confusione che regna in questo settore, contraddistinto da orientamenti e procedure più o meno variegate e a volte in contrasto tra di loro, dall’altro il tentativo di porre un ordine ed un argine a quella che è stata definita l’”entropia” delle CTU, spesso senza confini sufficientemente chiari tre le responsabilità e le competenze che investono i magistrati, gli esperti nominati e gli avvocati. Nel 2019 l’AICPF, Associazione Italiana Consulenti Psicoforensi, aveva pubblicato un documento che così si pronunciava: “In nessun ambito consulenziale e/o peritale si registra attualmente una sensazione di disagio come in quello delle consulenze psicologiche e psichiatriche nelle cause di separazione ed affidamento dei figli minorenni della coppia. Tale disagio ormai esula dalla pur serrata, ma tradizionale, contestazione, nello stesso ambito processuale, delle consulenze tecniche disposte dal Giudice (CTU), e giunge ad esprimersi attraverso vere e proprie campagne nei social media, a trasmissioni televisive, ad interrogazioni parlamentari ed a contestazioni ordinistiche se non a cause per danni. Da un lato, in tale contesto, si pone la categoria dei consulenti tecnici, connotata da crescente timore nell’esprimere valutazioni cliniche, ed addirittura caratterizzata da una sempre più evidente ‘fuga’ dei professionisti più qualificati da questo rischiosissimo settore di intervento, il cui esito è spesso quello di lasciare il campo a soggetti non qualificati, i cui errori incrementano ulteriormente la frustrazione e la rabbia degli utenti. Dall’altro lato, si pone la sempre più ampia platea dei genitori che si sono rivolti al Tribunale per ottenere la soluzione di conflitti che interessano la loro identità genitoriale e quindi la loro vita e quella dei figli, e che si trovano spesso ad essere valutati da CTU del tutto sganciate da quei parametri di scientificità ed eticità che sono ormai parte fondante di ogni atto sanitario e, quindi, di ogni intervento psicologico e psichiatrico. La realtà attuale denota purtroppo una profonda crisi di questo settore di intervento, la cui portata è ancor più severa se si considera che lo stesso è interessato, sul piano dottrinale e formativo, da una quantità di contributi scientifici, etici, e metodologici, maggiore di quella di ogni forma di lavoro peritale, in ambito penale o civile. Molti consulenti tecnici stanno recependo questa realtà come una sorta di ‘attacco alla professione’, magari finalizzato ad introdurre nella stessa soggetti diversi da psicologi e medici specialisti, o ad obiettivi politici ed ideologici. Anche nel caso in cui ciò fosse vero, non si può tuttavia non prendere atto di come la crisi della disciplina sia oggettiva, con una quota di consulenze inadeguate, se non ingiuste, che prima di tutto viene colta nei singoli casi dagli stessi operatori interessati e, sempre più spesso, valica i confini dell’aula giudiziaria, per raggiungere quelli dei media, dei processi ordinistici, e delle cause per risarcimento danni. In questo contesto, paradossalmente, le diverse Società scientifiche della nostra disciplina non stanno ponendo una formale attenzione a questo sempre più grave fenomeno, che sta ponendo in dubbio le stesse fondamenta del lavoro giudiziario e peritale, peraltro interessando solamente le CTU in tema di diritto di famiglia, senza che siano minimamente investiti tutti gli altri tipi di accertamento clinico in ambito civile e penale, e pertanto delineando una crisi gravissima e del tutto specifica”.

In questa prospettiva, ben vengano documenti che aiutino ad orientare il lavoro degli esperti che operano come CTU e come CTP nel rispetto di un quadro normativo maggiormente definito.

Le “Indicazioni operative” in questione presentano indubbiamente alcuni aspetti interessanti, specie nei primi 4 paragrafi che trattano le regole inerenti i criteri di nomina del CTU e dei CTP e le loro incompatibilità, la calendarizzazione e le definizione delle procedure. Di particolare interesse risulta il punto 5, nel quale si specifica opportunamente come la consulenza tecnica d’ufficio non abbia una funzione “trasformativa/conciliativa”: tale funzione non si concilia con le norme ed i principi che regolano il consenso informato.

Molte sono, tuttavia, le perplessità e le vere e proprie preoccupazioni che sorgono alla lettura del paragrafo 6, inerente il quesito posto al CTU.

Si è più volte rilevato come si assista da tempo ad una vera e propria “elefantiasi” del quesito, ponendosi all’interno del potere decisionale del CTU questioni che dovrebbero rimanere sotto l’egida delle competenze e delle responsabilità del magistrato. Questa prassi, che da tempo rappresenta una delle maggiori criticità del rapporto tra i Tribunali per i minorenni ed i Servizi sociali, sembra oggi avere “contaminato” gli ambiti dei Tribunali Ordinai e delle CTU.

Come scrivevano Camerini e Sergio1: “Talvolta i giudici, sulla scia della prassi tradizionale maturata antecedentemente al riconoscimento dei diritti umani, delegano ai consulenti tecnici e/o ai servizi sociosanitari non solo le valutazioni ma di fatto anche la gestione del caso. Si realizza così una commistione tra l’azione di sostegno propria de servizio e quella di controllo del rispetto delle decisioni giudiziarie”.

Tali criticità saltano all’occhio alla lettura del primo punto del lunghissimo quesito proposto: “quali siano le condizioni psichiche dei genitori, formulando una diagnosi funzionale con particolare riguardo alla descrizione di risorse, punti di forza ed eventuali aree di fragilità. Solo nel caso di anamnesi positiva per disturbi psichiatrici in uno o entrambi i genitori, ovvero di evidenze emergenti relative a quadri psicopatologici significativi provveda inoltre a descriverli e precisarne l’impatto sulle capacità genitoriali”.

Diverse sono le contraddizioni interne presenti in questi assunti e le loro incoerenze con il quadro normativo.

Prima di tutto, non si comprende l’esigenza giudiziaria di prevedere una valutazione delle condizioni psichiche dei genitori, addirittura formulando una “diagnosi” funzionale. Non è prevista alcuna norma in tal senso che autorizzi il Tribunale a svolgere indagini psicologiche, di natura sanitaria, rivolte a soggetti adulti. Qualsiasi trattamento sanitario in capo a persone maggiorenni deve prevedere un consenso informato libero e non viziato ex art. 32 della Costituzione ed ex art. 1 l. 219/17. Le CTU in ambito familiare sono svolte da psicologi o da medici, entrambe figure sanitarie, ma non hanno una finalità sanitaria bensì giudiziaria: pertanto l’unica attività che il professionista può svolgere è quella di rilevare e valutare i comportamenti posti in essere dall’uno e dall’altro genitore nei confronti dei figli privilegiando il punto di vista di quest’ultimi: come percepisce il figlio i genitori, come si qualifica la loro relazione? Effettuati questi rilievi, il CTU dovrebbe restituire questa “fotografia” alle parti e al Giudice il quale sarà chiamato ad effettuare ulteriori valutazioni su tutte le questioni correlate con il procedimento civile e a prendere le opportune determinazioni giudiziali2.

Il genitore più idoneo a curare l’interesse del figlio non corrisponde infatti necessariamente al genitore ritenuto più “competente” secondo le caratteristiche di personalità, offrendo tale prospettiva un eccessivo margine di arbitrarietà e discrezionalità interpretativa. Come sappiamo, il comportamento umano viene determinato da diverse variabili: è sempre difficile, forse impossibile, senz’altro arbitrario stabilire quali siano i fattori causali psicologici alla base di una determinata scelta comportamentale. La genesi dei comportamenti umani è sempre multifattoriale. I tratti di personalità, comunque li si vogliano definire, rappresentano un elemento che può orientare i nostri comportamenti in un senso o in un altro, in una direzione o in un’altra, ma risulta erroneo ritenere comunque l’origine dei comportamenti necessariamente legata a questo o a quella caratteristica personologica di chi li agisce. L’eccessiva estensione della CTU psicologica in senso “psicodiagnostico” rischia di spogliare il giudice delle sue prerogative e di allargare indebitamente l’ambito di indagine affidato all’esperto secondo discrezionalità interpretative in un ambito che invece richiede un ancoraggio a criteri valutativi più oggettivi, rilevando se ed in quale misura sussistano incapacità tali da risultare contrarie all’interesse dei figli ed al rispetto dei loro diritti così come sono enunciati dall’art. 337-ter c.c.

Tuttavia, la stortura metodologica vigente nella gran parte dei Tribunali italiani prevede che sia il CTU ad essere delegato a compiere improprie valutazioni cliniche in capo ai genitori i quali verranno sottoposti, spesso in modo automatico, anche alla somministrazione di test psicologici in grado di “scandagliare” la loro psiche. Una volta effettuata questa valutazione, al CTU non resterà che suggerire al Tribunale improbabili interventi psicologici (con finalità sanitaria) che verranno trasformati in vere e proprie prescrizioni mascherate, talvolta, sotto forma di “cortese” invito. Il tutto in nome di un presunto “interesse” delle persone minorenni coinvolte nel procedimento. Tuttavia, gli scriventi fanno fatica a comprendere come si possa giungere all’interesse dei figli passando per una valutazione psicologica dei genitori. Infatti molte CTU, ribattezzate provocatoriamente in TSU (Trattamenti Sanitari d’Ufficio) sono eccessivamente incentrate su questi aspetti, tralasciando di fatto quelli che sono i bisogni e le reali istanze del bambino. Le conclusioni diventano così quasi tutte stereotipate: i genitori devono “curarsi”, i Servizi sociali devono “monitorare” il loro “percorso” (termine atecnico attualmente molto in voga) che, una volta portato a termine, eviterà pregiudizi per il figlio. Un circolo vizioso che privilegia un’impostazione “adultocentrica” attraverso cui si tende ad “interpretare” i comportamenti eventualmente irresponsabili dei genitori piuttosto che limitarli con provvedimenti giudiziali. Infatti, alcune CTU tendono a spiegare il presente attraverso la ricerca di elementi del passato che possano giustificarlo. Da qui i numerosi colloqui anamnestici che vengono svolti. Tuttavia, al CTU (e al Tribunale) non dovrebbe interessare chi è quel genitore (a meno che non sia portatore di patologie e disturbi significativi), ma che cosa fa, come si comporta nei confronti del figlio. Secondo la prima prospettiva, seguono invece una serie di step riprodotti sistematicamente quali l’approfondimento psicodiagnostico e il suggerimento di un sostegno psicologico o di una psicoterapia. Nella seconda, invece, il Tribunale potrà adottare tempestivamente dei provvedimenti giudiziali realmente finalizzati alla tutela dei diritti del figlio dei genitori separati.

Assistiamo però ad una delega eccessiva di poteri conferiti al CTU. L’esperto, infatti, viene chiamato non solo a svolgere indagini psicologiche (con finalità sanitaria) in capo ai genitori, ma anche a suggerire al Tribunale (punti 6 e 7 del quesito: “indichi il CTU se vi siano, analiticamente descrivendoli, elementi tali che suggeriscano l’adozione di un regime di esercizio della responsabilità genitoriale differente da quello condiviso”; “indichi il CTU gli elementi significativi per la determinazione dei tempi di permanenza dei minori con ciascun genitore”) finanche la tipologia di affidamento (se differente dal condiviso) ed i tempi di frequentazione tra figli e genitori. È pacifico che questi temi rappresentino delle questioni giudiziarie che niente hanno a che vedere con la psicologia, con la psichiatria o con la neuropsichiatria infantile. Non è compito del CTU psicologo o medico individuare, ad esempio, le condizioni per un affidamento esclusivo o ai Servizi sociali, considerato che la CTU consiste in un’attività istruttoria di un ampio procedimento giudiziario in cui devono essere risolte altre questioni quali quelle, molto importanti, relative al mantenimento.

Sono queste le criticità più importanti rilevate dagli scriventi nel documento citato che avrebbe potuto rappresentare l’ennesimo tentativo di delimitare i poteri e le mansioni del CTU e ristabilire il giusto equilibrio tra tutela giudiziaria e tutela sanitaria. La prima non può sconfinare nella seconda partendo dal presupposto che le “capacità genitoriali” rappresentano un concetto giuridico ex art. 337-ter comma 1 c.c.: il genitore o entrambi i genitori sono capaci di tutelare i diritti del loro figlio dopo la disgregazione familiare? Il CTU psicologo o medico dovrebbe essere esclusivamente chiamato in causa allorquando il Tribunale debba compiere degli accertamenti tecnici sulle dinamiche relazionali dei membri della famiglia divisa, evidenziando eventuali comportamenti contrari all’interesse delle persone minorenni. Inoltre, è bene chiarire che il CTU non valuta i fatti, ma i vissuti psicologici correlati con i fatti. Ad esempio, quando un genitore parla male dell’altro in presenza del figlio il CTU si rivolge ad accertare il vissuto del bambino che assiste a quel fatto.

Invece, attualmente il CTU ha pieni poteri non solo di indagine, ma anche di suggerire al Tribunale provvedimenti giudiziali. È come se in una perizia per stabilire le cause del crollo di un viadotto venisse delegato al perito ingegnere anche di stabilire a chi appartengono le cause del disastro. Risulta non solo discutibile ma per certi aspetti inquietante che al CTU venga chiesto, al punto 9, di fornire “indicazioni, qualora necessario, circa eventuali interventi di carattere psicosociale, educativo o trattamentale in favore del nucleo familiare, limitatamente agli ambiti rilevanti in rapporto ai prioritari interessi dei minori, avendo cura di specificare se e come tali interventi siano declinabili nel territorio di appartenenza del nucleo, tenuto conto delle risultanze della CTU e dei fattori personali e di contesto che possono influire sull’accesso alle cure e sulla compliance”. Si intende quindi progettare “interventi” con finalità trattamentali (e dunque di natura sanitaria) prescindendo dal consenso informato delle persone interessate. Tale principio è anche espresso in una sentenza della Suprema Corte di Cassazione3 allorquando si chiarisce che: “la prescrizione ai genitori di sottoporsi ad un percorso psicoterapeutico individuale e a un percorso di sostegno alla genitorialità da seguire insieme è lesiva del diritto alla libertà personale costituzionalmente garantito e alla disposizione che vieta l’imposizione, se non nei casi previsti dalla legge, di trattamenti sanitari. Tale prescrizione, pur volendo ritenere che non imponga un vero obbligo a carico delle parti, comunque le condiziona ad effettuare un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia confliggendo così con l’art. 32 della Costituzione”. Elemento a fondamento di una buona riuscita dell’intervento psicologico è la motivazione del soggetto al cambiamento di una situazione di disagio persistente, senza la quale l’intervento risulta inefficace e quindi inutile.

In conclusione, diversamente dagli orientamenti in vigore, sarebbe auspicabile pervenire ad una maggiore “asciuttezza” del quesito e, parallelamente, al ricorso all’esperto solo nei casi in cui sussistano problematiche psicologiche rilevanti il cui approfondimento si renda necessario per la determinazione delle modalità di affidamento, valutando le dinamiche relazionali dei soggetti coinvolti e i comportamenti eventualmente contrari ai diritti riconosciuti al figlio minorenne. Se è vero che la consulenza tecnica è “una terra di confine e di incontro”4 occorre sforzarsi di evitare, come purtroppo sempre più spesso avviene, che le alee e le incertezze metodologiche e l’eccesso di deleghe al CTU contribuiscano a creare un terreno di scontro più che di incontro. Il carattere “espansivo” dei quesiti come quelli proposti nelle “indicazioni operative” del Tribunale di Milano sembra in tal senso non centrare l’obiettivo di una maggiore pertinenza e chiarezza dei compiti assegnati all’esperto, perdendo l’occasione di definire più correttamente gli ambiti ed i confini tra scienze psicologiche e diritto.





NOTE

1 Servizi Sociosanitari e Giustizia, Rimini, 2013

2 Cfr. G.B. CAMERINI, U. sABATELLO, G. sERGIO, Separazione dei genitori ed affida- mento dei figli: criteri, metodi e strumenti di valutazione nelle consulenze tecniche, in G.B. CAMERINI, R. dI CORI, U. SABATELLO, G. SERGIO (a cura di), Manuale Psicoforense dell’età evolutiva, Milano, 2018, 1121-1162.

3 Cass. civ., sez. I, sent. n. 13506/2015. Analoghe considerazioni si ritrovano

in una successiva ordinanza, Cass. civ., sez. I, n. 18222/2019.

4 F. dANOVI, Tutela del minore e tecnica processuale nella c.t.u. psicodiagnostica, in Famiglia e Diritto, 2019, 819.