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La costruzione del legame nel processo adottivo: la crisi, il fallimento

autore: P. Meneghelli

SOMMARIO: 1. Introduzione. - 2. Prima dell’adozione. - 3. L’indagine psico-sociale su incarico del Tribunale per i Minorenni. - 4. L’attesa del figlio e l’abbinamento con un bambino reale. - 5. Crisi reversibili e irreversibili. - 6. Ridefinire l’identità spezzata. - 7. Conclusioni.



1. Premessa



La possibilità di costruire una famiglia caratterizzata da legami affettivi importanti e reciprocamente riparativi si pone come obiettivo fondamentale per la scelta adottiva.

Ci sembra dunque importante definire il contesto in cui ci muoviamo: stiamo discutendo di quelle relazioni adottive che evolvono in modo negativo nel corso del processo di integrazione del minore nella nuova famiglia e nel nuovo contesto sociale, e che talvolta esitano nella uscita del figlio dal nucleo anche attraverso l’intervento della autorità giudiziaria, per ridefinirne lo status.

Definiremo la “crisi” come un continuum che vede da un lato situazioni che presentano difficoltà di vario grado da parte della famiglia nel costruire un legame affettivo col figlio e nel superare la realtà della sua sostanziale “alterità”, fino a situazioni in cui si arriva al reciproco non riconoscimento del legame pur senza arrivare alla rottura definitiva. Nei casi estremi si assiste alla rottura irreversibile anche dei rapporti, che comporta molto spesso l’uscita del figlio dalla famiglia, talvolta anche prima del raggiungimento della maggiore età, con il coinvolgimento di servizi di tutela e l’intervento della autorità giudiziaria. Questi ultimi sono quelli a cui spesso ci si riferisce quando si parla di “fallimento”, anche se l’area della crisi adottiva, come già detto, è molto più ampia e variegata.

Vedremo come gli attori, protagonisti e comprimari, si muovono su diversi livelli tra privato e istituzionale, e interagiscono, più o meno integrandosi, per favorire la costruzione della nuova famiglia, per evitare l’esplosione delle crisi e per trovare modalità utili a diminuire la sofferenza ed il danno in caso di crisi irreversibili.

Parleremo quindi di coppie, di bambini, di Servizi sanitari, di Enti Autorizzati per l’adozione internazionale e di Tribunali per i minorenni, in Italia ed all’estero, cercando di mostrare come la pluralità degli attori necessiti di un’interazione non sempre semplice e scontata, e che ogni “crisi” nasce da una molteplicità di fattori e dal dipanarsi di storie personali e sociali che il fenomeno della adozione di un minore contiene in sè fin dall’inizio. Partiremo quindi dal presupposto che l’origine delle crisi adottive, e delle loro evoluzioni negative, possa essere individuata a partire dai momenti salienti e caratterizzanti del percorso adottivo fin dal suo inizio, e cercheremo di ripercorrere insieme alcuni di questi momenti per provare a riflettere sulle possibili cause delle crisi e su come riconoscerle, sin dal loro esordio, in quanto portatrici di rischi per l’evoluzione positiva della adozione.



2. Prima dell’adozione



È noto come le coppie che giungono ai Consultori Familiari, (dove hanno sede i servizi per l’adozione della nostra organizzazione sanitaria), portano nella grande maggioranza dei casi, una problematica di sterilità.

Molte coppie hanno alle spalle anni di tentativi di procreazione medicalmente assistita non andati a buon fine e giungono alla richiesta di adozione stanchi e delusi.

Più spesso si tratta della ricerca del primo figlio, qualche volta del secondo. Rari sono in casi in cui la motivazione nasce da un desiderio di genitorialità sociale in famiglie con più figli, che invece, più spesso si rivolgono all’affido familiare.

Si tratta dunque di coppie che vedono nella adozione l’unica possibilità per diventare genitori, e che giungono a questa decisione spesso senza una reale consapevolezza della scelta, sulla base di riflessioni tratte dal buon senso comune o dagli stereotipi legati ai bambini in stato di abbandono: “ce ne sono tanti negli istituti, senza famiglia, […] meglio una famiglia che un istituto in ogni caso”, “neri o bianchi, grandi o piccoli sono sempre bambini”, “Le difficoltà si superano con l’amore… e noi ne abbiamo tanto da dare”.

Molte di queste affermazioni sono parzialmente vere, altre sono false.

La formazione e l’informazione delle coppie che avviano un percorso adottivo costituiscono un primo momento importante che non dovrebbe mai essere trascurato o sottovalutato. I Centri Adozione delle Aulss e gli Enti Autorizzati per l’adozione internazionale sono i primi ad entrare in campo nella fase iniziale del percorso, attraverso colloqui iniziali e corsi di

informazione.

Il percorso in gruppo di “Informazione e Sensibilizzazione all’adozione” (che nella Regione Veneto si svolge in due parti, presso i servizi adozione e presso gli enti autorizzati), ha come obiettivo fondamentale quello di favorire e aumentare nelle coppie la consapevolezza della realtà della adozione, del tipo di impegno e di risorse che essa richiede.

Si approfondiscono temi quali la realtà del bambino in stato di abbandono, il lungo e accidentato percorso di cui tutta la famiglia avrà bisogno per la ricostruzione della storia del figlio e per la sua integrazione nella nuova realtà, e che si pone come indispensabile nella costruzione della sua identità.

Questioni e temi che li accompagneranno per tutto il loro cammino di genitori adottivi, e che caratterizzano la genitorialità adottiva, differenziandola da quella biologica.

Questo percorso iniziale dovrebbe consentire alle coppie una prima analisi delle proprie risorse e motivazioni ad accogliere un bambino in stato di abbandono, e a comprendere che questo bambino è sempre in qualche modo danneggiato perché sempre sradicato dalla sua storia ed origine.

La ricerca dei genitori delle origini, i motivi dell’abbandono, il recupero dei ricordi e la ricostruzione spesso dolorosa della sua storia, sono impegni che il bambino dovrà assolvere, insieme ai nuovi genitori, che insieme a lui dovranno farsene carico.

Il gruppo di informazione è un percorso per divenire più consapevoli che crescere un bambino che viene da lontano, e non solo geograficamente, significa fare i conti per sempre con la sua estraneità e con la sua difficoltà di trovare una identità certa nel difficile compromesso tra le origini e la realtà quotidiana: “straniero in patria per sempre”.

Questo primo momento di incontro con la realtà dell’adozione è fondamentale anche come momento prognostico per gli operatori per iniziare a conoscere le coppie e la loro disponibilità ad approfondire ed esplorare le loro iniziali fantasie: i bambini non sono senza famiglia, vengono da una famiglia che li ha generati e questa famiglia la portano dentro, non presente nella realtà, ma spesso potentissima nella loro mente e nel loro cuore. I bambini sono tutti diversi, per storia, per origini, per caratteristiche personali, i bambini abbandonati sono bambini certo, ma già provati dalla vita e non sempre capaci di avere fiducia negli adulti.

L’amore non basta, le difficoltà si superano facendosi aiutare e modellando le proprie risorse e aspettative sui bisogni del bambino. Di fronte a queste prime e nuove immagini della adozione le coppie possono reagire in molti modi: entrando in crisi e ponendo dubbi e domande, negando gli input ricevuti perché li fanno sentire inadatti o impauriti, dichiarando di essere molto motivati e perciò capaci di superare ogni difficoltà, incapaci di accogliere le loro paure perseverando in una immagine idealizzata della adozione.

Un primo fattore di rischio, per il futuro processo adottivo, è costituito dalla possibile presenza della negazione della realtà della adozione che spesso si manifesta con l’emergere di difese caratterizzate da un pensiero magico ed onnipotente circa le proprie capacità.

Gli operatori e le loro riflessioni attivano in alcune coppie un pensiero persecutorio, con il vissuto di venire attaccati nel proprio desiderio di genitorialità. Questo tipo di difese, che ha lo scopo di proteggere e di non mettere in crisi il progetto adottivo della coppia, mostra però nello stesso momento l’incapacità di entrare in dialogo con le proprie insicurezze e fragilità, ponendosi come primo fattore di rischio.



3. L’indagine psico-sociale su incarico del Tribunale per i Minorenni



In seguito alla “Dichiarazione di disponibilità alla adozione”, nazionale, internazionale o entrambe, che la coppia presenta al Tribunale per i minorenni, viene inviata ai servizi, dal Tribunale stesso, una richiesta di indagini di carattere

psico-sociale che ha lo scopo di giungere ad una valutazione complessiva delle risorse e dei limiti della coppia, e quindi della sua attitudine a crescere come figlio legittimo un bambino nato da altri.

La valutazione della coppia, nel cosiddetto “studio di coppia”, si conclude con la compilazione di una relazione nella quale gli operatori rispondono ai quesiti posti dal Tribunale, e che sarà utilizzata dal giudice per decidere sulla idoneità o meno della coppia ad adottare un bambino. Nella relazione gli operatori si esprimono anche in merito ad alcune caratteristiche del bambino stesso che potrebbero essere utili per un buon abbinamento con la coppia in oggetto. Età, provenienza, adozione di fratelli, stato di salute, sono infatti caratteristiche che possono venire indicate o precluse nelle diverse situazioni. Il processo della valutazione psico-sociale costituisce indubbiamente un momento critico per l’evoluzione del successivo percorso adottivo: si ipotizza infatti, con la richiesta del TM, che gli operatori abbiano la capacità di prevedere il funzionamento della coppia rispetto ad un bambino di cui non si

conosce nulla.

D’altro canto gli operatori si trovano a dovere valutare persone che si aspettano di essere in grado di adottare e che temono che un giudizio negativo li porterà al fallimento del loro progetto di famiglia.

Il momento della valutazione è così molto spesso vissuto dalle coppie come una situazione altamente ansiogena, di intrusione nella loro sfera personale da parte dei servizi. In particolare la presenza dello psicologo fa temere che vi sarà una lettura di tipo diagnostico o la tendenza a ricercare eventuali patologie.

Lo psicologo viene inoltre spesso vissuto come un giudice: colui che ha il potere di permettere la realizzazione del desiderio o di negarlo.

Si comprende quindi la difficoltà e l’importanza, nel corso dello studio di coppia, di riuscire a creare un clima sufficientemente sereno tale da permettere il fluire dello scambio tra la coppia e gli operatori.

Gli incontri di questa prima fase del percorso adottivo, pur con le oggettive difficoltà legate al contesto valutativo, dovrebbero avere l’obiettivo di costruzione, con la coppia, di un progetto adottivo realistico e fattibile, che possa mettere in luce sia gli aspetti di rischio che le risorse presenti, alla ricerca di un equilibrio sostenibile tra i desideri della coppia e la realtà dell’impegno che ogni adozione richiede.

La capacità degli operatori e la possibilità della coppia di realizzare un “buon incontro”, cioè di produrre una valutazione sufficientemente rispondente, non solo al funzionamento della coppia ma anche alla realizzabilità del suo progetto adottivo si pone come primo elemento di contrasto al possibile, futuro, fallimento.

Rimane tuttavia sempre presente, anche nelle situazioni più favorevoli un elemento di imprevedibilità, dato dalla impossibilità di conoscere la realtà del bambino che arriverà, e che costituisce una limitatezza intrinseca del lavoro con le coppie, divenendo quindi un fattore di rischio ineliminabile, almeno in questa prima fase.

Quando invece nel corso della valutazione si creano difficoltà, esse possono essere attribuite a vari fattori tra i molti che entrano in gioco nella complessa situazione del lavoro di valutazione.

Gli operatori, nella gestione del rapporto con le coppie, spesso trovano difficoltà nel proporre una visione realistica della genitorialità adottiva, soprattutto in relazione alle aspettative della coppia, che molto spesso si situano nell’area della idealizzazione del loro progetto, e nella speranza che con l’adozione saneranno quella dolorosa ferita derivante dal primo fallimento sul percorso per diventare genitori.

Quando il progetto adottivo non esce da questa area ideale, per divenire l’incontro con la realtà del bambino in stato di abbandono, ci troviamo davanti ad un primo serio rischio di futuro fallimento: il bambino infatti non potrà mai essere in grado di gratificare tutte le aspettative dei genitori e di normalizzare la famiglia sanando il lutto della genitorialità mancata, la sua diversità difficilmente sarà capita e accolta, e gli verrà invece chiesto di diventare il sostituto del figlio non nato.

Il rischio che si profila in queste situazioni è che alle prime avvisaglie della diversità del figlio i genitori si dimostrino in difficoltà a comprendere e ad accogliere il bambino nella sua realtà, che sentono come una delusione rispetto alle loro aspettative.

Quando la distanza della realtà del bambino dalle aspettative dei genitori è troppo grande, ovvero quando le aspettative dei genitori sul bambino sono troppo irrealistiche, la crisi metterà in luce la difficoltà dei genitori nel riconoscere “l’estraneo” come figlio e la simmetrica impossibilità del figlio di accoglierli come genitori.

Nel lavoro di valutazione delle coppie la capacità dei genitori di comprendere ed accettare questo tipo di difficoltà prevede un attento lavoro di approfondimento da parte degli operatori, che ha per requisito la loro capacità clinica e prognostica, oltre alla consapevolezza della condizione di fragilità delle coppie in questa situazione.

L’obiettivo infatti è di comprendere se la coppia abbia la struttura e le risorse per affrontare questo impegno, ma anche la possibilità di aiutarla a valutare fino in fondo il senso della scelta adottiva, ed eventualmente sostenerla nell’affrontare una eventuale delusione.

L’estremo critico di queste situazioni, laddove le risorse della coppia vengono valutate come non sufficienti, sono quei casi in cui la relazione dei servizi porta il Tribunale ad emettere un giudizio di “non idoneità”, rispetto al quale la coppia può ricorrere in appello o chiedere una rivalutazione presso altra Equipe. Nella nostra esperienza questi casi, in cui le coppie non sono state capaci di interrogarsi sul pur pesante giudizio,

molto spesso esitano in crisi e fallimenti.

Questo ricorso ai propri diritti di legge, giustificabile e rispettabile, ci dice tuttavia che la coppia preferisce pensare di essere stata mal giudicata piuttosto che cercare di comprendere il senso di tale valutazione: questo succede molto spesso anche in situazioni di seconde adozioni e di richiesta di poter adottare fratrie di due o più fratelli, dove spesso la valutazione si basa sulle risorse necessarie a costruire famiglie così complesse, valutazione poco compresa dalle coppie.



4. L’attesa del figlio e l’abbinamento con un bambino reale



Quando tutto va bene e la coppia ottiene la possibilità ad adottare inizia un periodo, spesso lungo, nel quale attende dal Tribunale Italiano o da quello del paese straniero la possibilità di essere chiamata per dare la disponibilità concreta ad un “bambino che c’è”, quindi reale, e che ha bisogno di una famiglia.

È il momento atteso da tutte le coppie: la realizzazione del sogno tanto faticosamente conquistato.

Tuttavia questo momento in genere arriva dopo 2/4 anni dalla idoneità… un tempo lungo per le coppie, un tempo che non passa mai e che le espone a dubbi, paure, momenti di depressione e che spesso le costringe a modificare le proprie aspettative di partenza sulle caratteristiche del bambino.

Basti dire che in media solo tre o quattro coppie su dieci realizzano l’adozione, la lunghezza del percorso infatti non è, come spesso si pensa, dovuta solo alla lentezza dei servizi Sanitari ma anche alle difficoltà di abbinamento sia presso i Tribunali Italiani che all’estero.

Questa attesa può essere utilizzata dalle coppie per prepararsi, attraverso corsi di formazione, letture o altro, ma il più delle volte è spesa in momenti burocratici e in un susseguirsi di illusioni e delusioni che rendono le coppie più fragili ma anche, paradossalmente, più disponibili ad accogliere bambini più grandi, più in difficoltà, insomma diversi dalle iniziali aspettative, pur di portare a termine la adozione.

Quando questo avviene succede che la coppia si trova, dopo un percorso di tre o quattro anni e partito dalla fantasia e dal desiderio del bambino “immaginario”, alle prese con un bambino reale… grande, fragile, oppure difficile, comunque estraneo e molto diverso da quello immaginato o sognato.

Quando questo accade, le risorse dei nuovi genitori per inserire il bambino in famiglia possono venire messe duramente alla prova dalle difficoltà nel ricongiungere il bambino fantasticato e quello reale, rendendo molto complicato il percorso di integrazione e di costruzione del legame.

Talvolta nel corso del periodo di attesa, su richiesta del tribunale italiano o del paese straniero, vengono ampliate le disponibilità fino anche a tre fratelli, viene aumentata l’età del bambino rispetto alle risorse della famiglia, vengono proposti bambini con problemi di salute più gravi rispetto alla disponibilità data dalla coppia.

Quasi sempre le coppie vengono a compromessi con le proprie aspettative e si adattano ad accettare il bambino che viene proposto, tacendo, anche a sé stessi dubbi e perplessità circa la loro reale disponibilità verso “quel bambino”.

Nel momento dell’abbinamento, in Italia o all’estero, le coppie sono sole e fragili di fronte alla scelta forse più importante della loro vita: accogliere un figlio pur con molti dubbi o rinunciare, forse per sempre, ad essere genitori. E le coppie scelgono. L’elemento di rischio per le future crisi qui emerge con evidenza: una scelta fatta sulla debolezza e una proposta di abbinamento che non tiene conto delle reali risorse delle coppie si presentano come criticità iniziali dalle quali sarà difficile

uscire senza un percorso lungo ed impegnativo.

Gli abbinamenti, nazionali o internazionali, spesso non tengono sufficientemente conto delle caratteristiche del bambino, oltre che delle reali risorse dei futuri genitori: i bambini provengono da realtà spesso estremamente deprivanti e da storie caratterizzate da maltrattamenti, abusi, carenze gravi.

Alcuni sono bambini psicologicamente non in grado di costruire legami di dipendenza e fiducia nei confronti degli adulti, spesso inoltre non ricevono alcuna preparazione all’adozione, in alcuni casi non sanno neppure cosa li aspetta…

L’abbinamento tra la coppia e il bambino è un incontro tra due storie, tra due mancanze e tra due attese, ed è probabilmente l’anello più fragile del percorso, poiché è l’inizio della relazione dei nuovi genitori col bambino reale ancora prima di incontrarlo: attraverso la sua storia o la sua fotografia il bambino entra nella mente e nel mondo emotivo dei genitori Abbinamenti superficiali, poco attenti o anche azzardati sono uno dei maggiori e più importanti fattori di rischio nella adozione di un bambino. Ogni bambino abbandonato ha diritto di trovare un luogo sicuro in cui riparare le sue ferite, dove ci siano risorse adeguate per permettergli di riprendere il cammino di crescita interrotto dalla perdita dei suoi legami primari, e anche le coppie hanno il diritto a non essere messe in situazioni per cui non dispongono di risorse sufficienti.



4. Dopo l’adozione



Il primo periodo dopo l’arrivo del bambino in famiglia è un altro momento molto delicato ed importante in quanto si modificano gli equilibri all’interno della coppia, modificandone dinamiche spesso consolidate da anni.

Anche per il bambino cambia tutto: le relazioni con il suo ambiente di nascita dove ha avuto i primi adulti di riferimento, compagni di vita e abitudini culturali e sociali compresa la vita scolastica. Per i bambini che vengono dall’estero il tutto è reso più complesso dal problema linguistico: spesso viene chiesto loro un adattamento “magico” e rapido alla nuova lingua, necessaria anche per l’inserimento scolastico, con l’aspettativa che apprendano velocemente.

Può sembrare strano, ma anche un ambiente povero e deprivante, rimane per un bambino nel ricordo e, nel ricordo, divenire migliore di quanto non sia stato nella realtà. I bambini infatti portano con sé sia i ricordi traumatici sia quelli nostalgici, che li accompagneranno nel loro nuovo mondo e chiederanno di condividerli con i nuovi genitori… di portare insieme ad essi il loro fardello.

Le criticità di questo primo momento di inserimento sono legate alla capacità della famiglia di accogliere l’eredità del bambino e di attivare fattori di protezione rispetto alle trasformazioni in atto, di non richiudersi in una prospettiva di autonomia e di normalizzazione, negando la complessità di questa fase.

Un elemento importante di rischio deriva infatti dalla tendenza di alcune famiglie a considerare l’adozione come “finita” dal momento in cui il bambino è entrato a far parte del nucleo. Il loro desiderio di iniziare una nuova vita, di essere una famiglia come tutte le altre ricade anche sul bambino che ha il compito di “normalizzarsi”, di non essere troppo diverso, di salvaguardare cioè il narcisismo familiare rispettando le tappe

previste per tutti i bambini normali.

Inserimento scolastico, sociale, attività sportiva, amicizie, relazione con le famiglie estese… sono tutte richieste che possono gravare sul bambino e che vengono spesso attese e interpretate come la riprova del benessere del figlio e della famiglia, mentre in realtà tutelano in primis il bisogno dei genitori rispetto alla loro funzione e al loro equilibrio. Al bambino viene chiesto di portare benessere e completezza alla famiglia, mentre in realtà la sua integrazione spesso porta un impegno faticoso se non addirittura denso di ansie e preoccupazioni… In questo periodo un grosso ruolo di sostegno e di accompagnamento spetta a due grandi istituzioni: i servizi per l’adozione e la scuola, che devono poter offrire occasioni di supporto e di ascolto della famiglia attraverso strumenti che servano a contrastare l’isolamento e l’invisibilità delle fami-

glie, in particolare di quelle in difficoltà.

Abbiamo potuto vedere negli anni come il rischio di crisi e di fallimento aumentano in proporzione alla perdita di contatto con i servizi: le famiglie che non chiedono aiuto, che non accolgono il sostegno, che pensano di essere capaci di fare da sole, sono quelle che poi spesso esplodono nelle crisi del periodo della adolescenza.

Ma se il contatto con i servizi non è obbligatorio, quello con la scuola invece si, ed è qui che in genere esplodono i primi segni di difficoltà, di crisi, di fallimento.

Il ruolo della scuola nella integrazione del bambino nella nuova realtà è stato descritto sia come importante momento di nascita delle relazioni sociali, sia come elemento di crisi e di disadattamento a causa della poca preparazione dei docenti e dell’ambiente scolastico nel suo complesso: un fattore di rischio e di prevenzione allo stesso tempo, quindi un elemento molto importante per l’evoluzione dell’inserimento del bambino nella nuova realtà.

Molte sono le variabili che entrano in gioco nel produrre integrazione o disadattamento, ed approfondirli ci porterebbe ad una disamina molto complessa.

Basti dire, in linea con quanto già espresso, che l’inserimento del bambino nella scuola dovrebbe essere curato e graduale, posticipato nel tempo rispetto al suo arrivo in famiglia, per permettergli di consolidare il legame familiare prima di avviare quello sociale e che il desiderio di normalità dei genitori non deve penalizzare il bambino causandogli uno stress eccessivo rispetto alle sue possibilità del momento.

Qui troviamo un altro dei momenti che possono favorire l’esordio di una crisi, poiché l’inserimento scolastico è certamente un indicatore di benessere o di malessere, qualora si presentino problemi, sia per la crescita del bambino sia per la dinamica familiare.

Una elevata percentuale di minori adottati presenta seri problemi scolastici, a causa di fattori non sempre legati alla adozione, ma piuttosto alla situazione di grave deprivazione sensoriale e cognitiva dei primi anni di vita, e che non sempre è recuperabile del tutto, ma il peso delle aspettative della famiglia e della scuola non è un elemento di sostegno per questi bambini che fanno i conti con un senso di inadeguatezza e di espulsione dalla comunità dei pari che diviene un importante fattore di crisi.

Non dimentichiamo che gli insuccessi scolastici e la mancata integrazione con i coetanei sono due fattori reciprocamente connessi, e che hanno una grande importanza nella crescita e nello sviluppo del bambino e della sua fiducia in sé.



5. Crisi reversibili e irreversibili



Come già descritto nelle pagine precedenti le crisi dell’adozione sono molto spesso avvertite come la conseguenza di un errore avvenuto anni prima: nelle fasi di preparazione, di valutazione, di abbinamento e nella prima fase dell’inserimento del bambino quando si gettano le basi per la costruzione dei legami.

I fattori di rischio che andranno in seguito a far esplodere la crisi quindi sono disseminati lungo tutto il percorso che si svolge per la realizzazione della filiazione adottiva, e sono rintracciabili trasversalmente in tutti gli interventi messi in atto dalle componenti, pubbliche e private, che concorrono al processo.

Abbiamo qui più sopra descritto alcune tappe del percorso adottivo che con evidenza mettono in luce elementi nascenti e prodromici di rischio, e potremmo dire, con Tolstoj, che ogni “famiglia infelice è infelice a modo suo”, purtuttavia nelle crisi adottive possiamo rintracciare alcuni elementi comuni che, pur nella diversità delle situazioni, ci aiutano a comprendere i temi della costruzione, o del fallimento del legame adottivo. Questi elementi, riconducibili alla complessità della filiazione adottiva e rintracciabili nel percorso, si manifestano, come già descritto, nelle varie fasi dell’iter e sono attribuibili di volta in volta ai vari attori che vi entrano in gioco finendo poi per dar luogo ad una sorta “effetto valanga”, che sfocia una emersione improvvisa dei problemi collegata spesso a mo-menti critici della vita familiare come l’adolescenza dei figli.

L’evento critico, che appare così improvviso e inaspettato, in realtà ha spesso origini più lontane in comportamenti e scelte che non hanno sortito gli effetti desiderati, seppur compiute in buona fede e con motivazioni sostenute dalla assunzione consapevole del proprio ruolo, come operatori sanitari e giuridici o come aspiranti genitori.

Le coppie, come abbiamo visto, nonostante la forte motivazione alla adozione, non sempre sono capaci di comprendere appieno che tra il desiderio e la fantasia del figlio ed il bambino reale vi sono spesso grandi differenze.

Quando questo accade i genitori sentono che per loro diviene molto difficile, se non impossibile, la gestione del bambino: le difficoltà possono essere di tipo affettivo, relazionale oppure legate ad un modello educativo che non tiene conto delle esigenze del bambino.

Sentono che il bambino non si lega a loro come avrebbero desiderato, non si sentono riconosciuti come veri genitori, inoltre appaiono difficoltà scolastiche, di integrazione sociale, disturbi del comportamento.

Spesso i genitori non comprendono il motivo per cui, nonostante tutti i loro sforzi il figlio non risponda, perché sia così difficile la comprensione da parte sua delle normali regole della vita familiare.

Quando le cose vanno male molte coppie chiedono aiuto ai servizi, pubblici o privati.

Anche l’intervento delle istituzioni può facilmente entrare in difficoltà di fronte all’emergere di crisi acute.

Diversa infatti è la richiesta di aiuto che vede la coppia in crisi nella propria funzione genitoriale, con la ricerca di comprendere meglio le proprie difficoltà, da quella di chi ritiene che il bambino sia in qualche modo la causa stessa della crisi: quando il bambino viene indicato dai genitori come “il problema” significa che stiamo andando verso un rifiuto e non verso la accettazione dei suoi problemi e della sua diversità rispetto alle aspettative familiari.

Questa difficoltà di riconoscere e accogliere la diversità del figlio, di ascoltarne le istanze e di cercare una modalità di incontro, che è un elemento centrale e fisiologico nella costruzione del legame adottivo, spesso appare, laddove non riconosciuto ed affrontato, come un fattore di involuzione della relazione tra genitori e figli e da elemento di crescita diviene fonte di sofferenze e di incomprensioni.

Anche il ruolo dei servizi è molto diverso in base alla richiesta dei genitori, infatti solo quando la motivazione alla consultazione è mossa da legittimi dubbi sulle proprie modalità genitoriali i servizi possono offrire sostegno al fine di comprendere ed affrontare i motivi della crisi.

Vi sono situazioni invece in cui si presenta da parte dei genitori una difficoltà non riconosciuta, legata alla incapacità di accogliere la diversità del bambino e modificare le proprie aspettative o addirittura la richiesta di essere supportati nel loro tentativo di normalizzazione del figlio. In questi casi gli operatori possono al massimo offrire una posizione di ascolto della delusione e della sofferenza della coppia, ma risulta molto difficile avviare un sostegno utile alla trasformazione del momento di crisi in un’occasione di ripresa positiva del legame.

Le crisi adottive possono emergere in molti momenti della vita familiare ma sono le manifestazioni dell’adolescenza che mostrano in modo eclatante i casi in cui un legame di integrazione reciproca tra genitori e figli mai veramente costruito sfocia in una vera e propria crisi.

Quando le aspettative dei genitori sono tali da porre sé stessi in primo piano e non i figli le crisi sfociano molto spesso in situazioni di rottura irreversibile.

In queste situazioni i servizi coinvolti, pubblici o privati, possono intervenire al fine di far rientrare la crisi solo a condizione che la richiesta coinvolga tutta la famiglia, che sia posta in tempo utile ad evitare l’espulsione e che il legame tra genitori e figli che si è creato sia sufficientemente solido.

Può capitare infatti che il figlio sia giunto in famiglia già grandicello, o che sia presente una fratria complessa, come pure che si siano manifestate dopo l’abbinamento situazioni di ritardo cognitivo o psico-affettivo dei quali i genitori non erano stati messi al corrente. Questi casi si presentano come situazioni molto complesse, che prevedono interventi multi-professionali e una buona alleanza terapeutica da parte della famiglia.

Anche altre istituzioni vengono spesso coinvolte nelle crisi e nella loro cura, in primis la scuola che spesso per prima fa rilevare la presenza di un problema che si presenta sotto forma di difficoltà di apprendimento, comportamento e/o inserimento sociale.

Le famiglie sono molto sensibili alle difficoltà scolastiche dei ragazzi, ritenendo che il buon andamento scolastico sia l’indicatore più importante del benessere del figlio.

I servizi di tutela dei comuni ed il Tribunale per i minorenni vengono coinvolti solo in caso di interventi riguardanti minori e per i quali necessitano provvedimenti di protezione: si tratta di situazioni in cui la crisi appare irreversibile ed il legame familiare si spezza, con la necessità quindi di tutelare il minore con misure sostitutive della responsabilità genitoriale. Sono i casi più gravi, dove la irreversibilità della crisi determina spesso anche il fallimento della adozione e l’allontana-mento del figlio dalla casa dei genitori.

Quando l’emersione della crisi arriva le sue manifestazioni possono essere cruente, quindi dolorose e vissute come irreversibili per la sofferenza ed il senso di impotenza che generano: gestire una rottura dei legami familiari è sempre un evento drammatico, per i genitori e per i ragazzi, anche quando appare come inevitabile e viene richiesto dagli uni o dagli altri.



6. Ridefinire l’identità spezzata



Quando la crisi sfocia in una rottura irreversibile delle relazioni familiari ci troviamo di fronte ad un insuccesso esistenziale che comporta delusioni e rancori, e la sensazione reciproca di essere stati traditi, non solo dentro la famiglia ma anche dalle istituzioni, che spesso vengono incolpate per i loro errori.

Rammendare la trama di queste lacerazioni non sempre è possibile, molto dipende dal momento in cui esplode la crisi, dall’età del figlio e dalla capacità di entrambi di comprendere ciò che sta accadendo.

Questi fallimenti nella costruzione del legame genitori-figli modificano lo status sociale e individuale del figlio, che entra in una zona identitaria mal definita e nella necessità di trovare una nuova definizione di sé, con le evidenti sofferenze e difficoltà della nuova perdita, ed una ricaduta negativa in termini di rappresentazione di sé.

Vi sono poi, nei casi di espulsione o allontanamento del figlio dal nucleo che presentano caratteristiche di irreversibilità, le implicazioni giuridiche riguardanti la tutela sia nel caso che il figlio sia ancora minore, sia nel caso in cui, pur maggiorenne sia comunque ancora nello status di figlio naturale, non in grado di provvedere a sé stesso.

La ridefinizione dello status del minore implica un complesso lavoro che si compone di interventi di tutela, di provvedimenti da parte del Tribunale per i minori e di interventi di sostegno psicologico per la intera famiglia, genitori e figli.

Nel caso di crisi precoci, dove l’espulsione del bambino avviene nel primo periodo dopo il suo inserimento in famiglia, si può ipotizzare la possibilità di un nuovo inserimento attraverso una nuova “adottabilità”. Si tratta tuttavia sempre di situazioni dolorose e delicate da affrontare attraverso una grande sinergia tra famiglie, servizi e tribunale.

La nuova collocazione del minore è infatti un evento potenzialmente traumatico per tutti e necessita quindi di molte cautele nell’accompagnamento del bambino e della nuova famiglia di accoglienza: non si può sbagliare due volte!

Nella grande maggioranza dei casi, in realtà, le crisi espulsive avvengono negli anni della adolescenza, spesso a breve distanza dal compimento della maggiore età.

In questi casi prevalgono le richieste di allontanamento dalla casa familiare a causa di problemi di comportamento caratterizzati anche da condotte che mettono a rischio sia il ragazzo che l’ambiente. Il collocamento in comunità può avere una valenza protettiva e terapeutica per tutti, e può comportare un periodo di affidamento del minore da parte del Tribunale ai servizi di tutela come aiuto ai genitori nello svolgimento delle loro funzioni e allo stesso tempo come protezione del progetto. Questi interventi frequentemente suscitano sentimenti ambivalenti da parte dei genitori e difficoltà di comprensione da parte dei ragazzi.

Quando invece il progetto di tutela viene compreso dalla famiglia si instaura una buona alleanza terapeutica e i dispositivi di sostegno e protezione, come la terapia familiare, o anche la comunità di accoglienza possono avere un ruolo di aiuto nel difficile compito di diventare famiglia nei momenti di crisi, e, nei casi migliori, può favorire il ripristino dei legami.

Questi ed altri provvedimenti di sostegno al minore ed ai genitori devono essere messi in campo per prevenire l’espulsione definitiva e la perdita delle figure di riferimento del figlio, essi tuttavia possono essere inutili, o tardivi.

Se questo accade potremmo trovarci di fronte alla situazione di un giovane maggiorenne senza supporti genitoriali e senza risorse, fragile preda di occasioni di disadattamento sociale grave o di incursioni nel mondo della dipendenza da sostanze o nella marginalità sociale.

I provvedimenti della magistratura spesso richiesti dai genitori in questi casi, tramite i loro legali, riguardano l’interruzione del legame filiale decretato con l’adozione.

Nel caso di figli maggiorenni, dove la responsabilità genitoriale è comunque presente in situazioni di non autosufficienza dei figli, e comporta il dovere di mantenimento almeno fino al compimento del trentesimo anno di età o al raggiungimento della indipendenza economica, alla coppia potrebbe venire riconosciuta la possibilità di non essere più coinvolta in vicende economiche o legali rispetto al figlio.

In sostanza può accadere che il rifiuto del figlio venga sentito dalle coppie come protettivo sia sul piano relazionale che su quello patrimoniale, e sancito attraverso la richiesta della interruzione anche giuridica del legame.

In queste situazioni è come se l’adozione finisse, mentre in realtà, almeno sul piano affettivo non si è mai realizzata, e la cosiddetta “restituzione” del figlio si configura come una possibilità che viene vissuta dalla coppia a causa di un bambino che non è mai divenuto figlio, mentre la verità è che essi non sono mai divenuti genitori.

Altre situazioni virano verso un allontanamento “de facto”, mai sancito dall’autorità giuridica, a volte mai giunto nemmeno all’attenzione dei servizi di tutela: spesso già maggiorenni i ragazzi escono dal nucleo e cercano una nuova ridefinizione di sé attraverso l’appartenenza a gruppi divergenti, oppure attraverso la costituzione precoce di un nuovo nucleo familiare. Le gravidanze in adolescenza, la formazione di giovani coppie che si pongono come satellitari rispetto al nucleo familiare di provenienza, sono tentativi maldestri di emancipazione che molto spesso riportano ai servizi di tutela il nucleo, ora formato dalle tre generazioni ma con problematiche relazionali antiche e irrisolte che perpetuano le questioni della carenza di cure e della genitorialità fragile, con la necessità di mettere in atto interventi psico-sociali e giuridici complessi.

Una sorta di ripetizione nel transgenerazionale che riporta indietro l’orologio della storia della famiglia e degli individui in modo ancora più complesso.



7. Conclusioni



Adottare un bambino significa “prendere come proprio il figlio di altri”: dove altri non sono solo i suoi genitori biologici, ma i luoghi, la cultura, il patrimonio genetico, la stirpe.

Questo significa che essere genitori adottivi comporta il saper fare i conti con l’alterità, che può diventare estraneità. Estraneo è chi viene da fuori, straniero, rispetto al nostro dentro.

Ed è proprio questo che accade, il bambino non viene dall’interno ma da fuori.

Il processo di integrazione è lungo e mai del tutto completo: le radici di quel bambino non apparterranno mai alla famiglia adottiva, nel migliore dei casi si potranno innestare, ma l’innesto prevede che entrambe le parti “concrescano” insieme al fine di formare un nuovo individuo più pregiato e più produttivo, diverso da entrambi.

Se ciò non avviene, se le due parti non si riconoscono come a formare un’unica nuova pianta, la parte innestata muore e la pianta originaria è ferita inutilmente e non produrrà frutti nuovi. Al di là della metafora, abbiamo visto come molte sono le componenti che entrano in questa complessa operazione: le coppie, i bambini, i servizi, i tribunali e le giurisdizioni, na-zionali e non.

Gli elementi di pericolo nella impegnativa costruzione della nuova famiglia sono disseminati nelle diverse fasi del percorso, ognuna caratterizzata da protagonisti diversi che con le loro fantasie, desideri, professioni e leggi concorrono alla realizzazione dell’obiettivo. La possibilità di riconoscerli e di agire in modo preventivo si pone come obbiettivo primario contro i rischi della crisi e del fallimento per tutti i protagonisti del processo.

La peculiarità di ognuno di questi attori in gioco e le dinamiche che tra essi si creano rendono ben conto della complessità del percorso e di come dietro ad ogni angolo e dentro ad ogni incrocio si annidino le difficoltà, che se non riconosciute e colte, portano a quelle che abbiamo chiamato crisi.

Una osservazione mi sembra di dover sottolineare nel concludere questo breve scritto: le crisi nella costruzione del legame adottivo non rappresentano la patologia della adozione, al contrario ne mostrano la fisiologia: l’innesto non è naturale, è opera dell’uomo che cerca qualcosa di nuovo e migliore dalla natura.

La patologia delle relazioni avviene quando non ci si cura dei bisogni di queste relazioni, quando si pensa che tutto avverrà magicamente solo perché lo si desidera.

La relazione adottiva ha bisogno di attenzione, cura e capacità di riconoscere il buono nel nuovo, anche quando dall’innesto nasce qualcosa che non ci si aspettava…

Il fallimento e la crisi hanno in comune quasi sempre proprio questo: la difficoltà, talvolta l’incapacità che diviene rifiuto per un nuovo che non si riesce a riconoscere come proprio, per una estraneità che non diventa mai familiare.



“Io mi vedo come una persona che ha voluto accompagnare un’altra persona in un percorso di vita. Questo mi fa sentire più aperto”.

(dal lavoro in un gruppo di genitori)







NOTE

Bibiliografia



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