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La “parità di genere” nella realtà imprenditoriale romana tra II e III secolo d.C.

autore: A. Grillone

SOMMARIO: 1. L’occasione di questo contributo. - 2. Il mutamento della condizione giuridica della donna nei primi secoli dell’Impero. - 3. Il ruolo della donna nell’alveo dell’exercitio negotiationum tra II e III secolo d.C.



1. L’occasione di questo contributo



Parvi autem refert, quis sit institor, masculus an femina, liber an servus proprius vel alienus. item quis sit qui praeposuit: nam et si mulier praeposuit, competet institoria… (Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.7.1)



Poco importa chi sia l’institore, se sia uomo o donna, libero o servo, proprio od altrui. Ed allo stesso modo chi sia colui che lo ha preposto all’esercizio di un’impresa: infatti, anche se costui sia una donna contro di lei spetterà l’azione institoria.

L’affermazione del giurista di Tiro è di stringente nettezza. Tra II e III secolo d.C., il genere femminile non è, a Roma, più in alcun modo discriminato nel ricoprire qualsivoglia ruolo imprenditoriale: una donna può essere titolare d’impresa, ovvero esserne il manager al pari d’un uomo.

M’è occorsa di recente l’occasione di tornare a riflettere sulle sopracitate parole di Ulpiano, tratte dal libro ventottesimo di commento all’editto del pretore, per l’essere stato incaricato dal Professor Aldo Petrucci di revisionare le bozze del suo ultimo contributo monografico, Organizzazione ed esercizio delle attività economiche nell’esperienza giuridica romana: i dati delle fonti e le più recenti vedute dei moderni, che sarà verosimilmente edito nelle more della pubblicazione di queste note, nell’ambito della Collana del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, per i tipi della casa editrice Giappichelli1. Qui, in un denso paragrafo del capitolo V, l’Autore riprende le fila di un discorso, a lui già ben noto2, sulla ricorrenza nelle fonti materiali e giuridiche della menzione di donne imprenditrici e manager nell’ambito del panorama imprenditoriale romano3.

In effetti, l’interesse nuovo, destatomi da queste pagine e da questa fonte, è pure correlato alla recente ricezione del fascicolo 1, 2021, di questa stessa Rivista: alla riponderazione del mio contributo per la sezione Storia, Arte e Cultura, Impresa familiare: radici storiche “occulte e note” di un articolo del Codice civile4, e alla lettura di quello che lo precede, di Luca Ingallina, Spunti di riflessione su ruoli e responsabilità della donna nel matrimonio romano5. Entrambi, infatti, ognuno per le proprie specifiche finalità di ricerca – che nulla hanno, per altro, in comune con quelle del presente contributo – ci soffermammo marginalmente sulla concezione della famiglia romana come tipo ideale di struttura patriarcale. Nel caso della riflessione di Ingallina, si trattava di introdursi a discutere del ruolo femminile nel matrimonio romano6, nel mio di rilevare la comune matrice familiare del fenomeno imprenditoriale, nell’esperienza giuridica medioevale, per lo meno nelle analizzate varianti strutturali della Compagnia e della Fraterna, così come in quella romana7. Ciò sicuramente non ha comportato di perpetuare, come è stato definito8, un “ingannevole stereotipo della famiglia romana”, ma semmai di definire una cornice sistemica entro cui approfondire, nel quadro delle fonti, e ciascuno ai propri fini, singole implicazioni, dirette e indirette, di quell’ineguagliato potere, che era, a Roma, la potestas del pater9. Non, forse, principio ordinatore del mondo10, ma, per certo tale, della famiglia e, in seguito, dei modelli di organizzazione imprenditoriale sulla stessa plasmati a decorrere dalla data simbolo del 242 a.C., da quell’epoca, che, oggi, suole definirsi: commerciale romana11.

Tuttavia, nonostante l’esito di questa auto-riponderazione retrospettiva, le parole di Ulpiano mi hanno persuaso, ora, dell’opportunità di intraprendere la composizione di queste brevi note, volte, non tanto a completare il quadro sistematico dei modelli organizzativi dell’impresa romana12, ma, piuttosto, a integrare quanto ho recentemente detto su questa Rivista13, attraverso la rilettura di un significativo novero di fonti che discutono il ruolo delle figure femminili nel contesto dell’esercizio delle attività economiche romane.

Se, del resto, è innegabile che proprio la famiglia patriarcale dei primordi agricolo-pastorali di Roma, ebbe a fornire, con il suo divenire centro economico-politico del mondo allora conosciuto, la struttura naturale su cui modellare l’organizzazione delle attività economiche tutte, orbitanti attorno ai nuovi nuclei familiari mercantili-imprenditoriali, e che il pater, in quanto vertice potestativo degli stessi, lo divenne, per portato, anche delle neonate imprese (negotiationes)14, è pur vero, altrettanto, però, che in questo passaggio, nei due secoli che seguono la prima vittoria su Cartagine, venne mutandosi pure l’essenza stessa della famiglia nucleare romana. Non fu solo l’attenuazione dello ius vitae ac necis sui figli a determinarne la trasformazione, ma, più di tutto, premette in tal senso il nuovo ruolo della donna: soprattutto tra le classi agiate, ella, con la caduta in desuetudine della manus15, mantenendosi entità economico-finanziaria autonoma rispetto al marito, venne ad ereditare consistenti porzioni del patrimonio paterno; vedendo, poi, alleviati i suoi compiti domestici, per la diffusa proliferazione delle maestranze servili in dotazione alla casa, poté godere, inoltre, d’una certa qual istruzione ed essere in grado, durante le sue fisiologiche assenze, di sostituirsi al marito, finanche nell’amministrazione del patrimonio di costui16. A ciò conseguì che, respirata seppur parcamente quest’aria nuova d’indipendenza, sempre più di frequente, abbandonò le mura, ormai divenute anguste, della casa, per partecipare attivamente alla vita sociale, politica, mercantile del marito, apprendendone i segreti, l’arte e divenendo, in molti casi, non politicamente – che gli era in assoluto precluso – ma socialmente e commercialmente autonoma.

Definito in estrema sintesi il contesto scientifico e quello

socio-economico in cui si colloca la presente indagine, nel prossimo paragrafo ci si soffermerà brevemente, prima di addentrarci a dire del contesto imprenditoriale, sulla condizione giuridica e la capacità negoziale della donna nei primi secoli di vita dell’Impero.



2. Il mutamento della condizione giuridica della donna nei primi secoli dell’Impero



È forse uno tra i passi più universalmente noti delle Istituzioni di Gaio quello in cui, aprendo uno dei non pochi excursus storici della propria trattazione manualistica17, il giurista dell’età degli Antonini, afferma: Veteres enim voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, propter animi levitatem in tutela esse (Inst. 1.144).

Vollero i più antichi giuristi che le femmine, anche se di età pubere, per la volubilità del loro animo, fossero sotto tutela18. Attestazione che, nelle sue implicazioni giuridiche, è conforme a quanto due secoli prima rammentava Cicerone nella Pro Murena, 12.27: Mulieres omnis propter infirmitatem consili maiores in tutorum potestatem esse voluerunt.

Il parere dei nostri maggiori volle che le donne, per la loro infermità di giudizio, fossero sotto la potestà di un tutore. Una constatazione che dovrebbe congiungersi, per essere pienamente compresa, con quella di poco più tarda del giurista Nerazio Prisco, 1 membr. D. 27.10.9, il quale definisce la donna non abile al compimento dell’attività negoziale a causa della propria congenita infermità “di genere” (negotio propter sexus infirmitatem non habilis19).

Le tre affermazioni – apparentemente sovrapponibili – non sono identiche per la forma con cui sono espresse. Ed è una forma gravida di sostanza.

C’è, anzitutto, prima di seguire nella discussione dell’esposizione gaiana, da rilevare un significativo iato tra la sua constatazione e le affermazioni, esse sì, terminologicamente sovrapponibili, di Cicerone e Nerazio: Gaio, infatti, impiega non a caso la locuzione levitas animi, in luogo di quella, assai più dura, d’infirmitas sexus. Con quest’ultima, del resto, come conferma pure il non habilis neraziano, risalta l’intenzione di riferirsi ad una condizione d’invalidità, di menomazione, debolezza congenita, con la prima, invece, si allude, più delicatamente, ad una tendenziale minore fermezza dell’animo

– del carattere più che della psiche – femminile20. Inoltre, come si accennava, nella trattazione di Gaio, pur non poco dettagliata, si guarda alla tutela muliebre come ad un istituto avvolto nelle nebbie del passato e del quale, sebbene formalmente ancora vigente, lo stesso giurista mette in dubbio l’urgenza pratica. A tal riguardo, infatti, possiamo leggere un altro celeberrimo passo della sua opera isagogica: Inst. 1.190: Feminas vero perfectae aetatis in tutela esse fere nulla pretiosa ratio suasisse videtur; nam quae vulgo creditur, quia levitate animi plerumque decipiuntur et aequum erat eas tutorum auctoritate regi, magis speciosa videtur quam vera; mulieres enim quae perfectae aetatis sunt, ipsae sibi negotia tractant et in quibusdam causis dicis gratia tutor interponit auctoritatem suam, saepe etiam invitus auctor fieri a praetore cogitur.

Invero – affermava Gaio – nessun valido motivo sembra aver suggerito che le femmine di età pubere debbano essere sottoposte a tutela: infatti, la comune credenza, per la quale si considerava equo che fossero guidate dall’autorità dei tutori, perché, per la loro volubilità d’animo, potevano più facilmente essere ingannate, risulta più speciosa che vera. Le donne di questa età, infatti, trattano da sole i loro affari, ed il tutore interpone pro forma la propria autorizzazione in certi casi; e spesso è costretto dal pretore a prestarla contro il suo volere. Il significativo scorcio della trattazione gaiana porta, evidentemente, i segni di una rivoluzione in atto e già per lo meno in parte consolidata nel secolo intercorso tra le pronunciazioni di Cicerone e Nerazio e il tempo dell’elaborazione delle Institutiones. Non è solo una questione di mentalità, ma, anche, di un’evoluzione normativa consistente, che, a congrua distanza di tempo, è percepita in maniera nitida da Gaio, il quale, di fatti, di seguito, con dovizia di particolari, ce ne descrive le tappe essenziali21. La prima di queste tappe, per opinione consolidata22, è rappresentata dalla possibilità per la donna d’adire il pretore ogniqualvolta il tutore si rifiuti di prestare la propria autorizzazione per il compimento di un atto per il quale è prescritta a pena d’invalidità. Spesso – ci insegna Gaio – in questi casi, il pretore costringe il tutore della donna

ad approvare l’atto contro il suo volere23.

Nello stesso arco di tempo, inoltre, invalse la prassi che l’avente potestà concedesse alla donna, nel testamento, la possibilità di scegliersi un tutore, in deroga a quello nominatogli (optio tutoris), per il compimento di alcuni atti (angusta), o per tutti gli atti (plena), potendo, in questo caso, anche variarlo per ogni singola attività negoziale, che ne avesse richiesto l’auctoritas (Inst. 1.150-153)24. Tuttavia, la vera e propria demolizione legislativa dell’istituto ebbe inizio con la normazione matrimoniale augustea, volta al fine di favorire l’incremento demografico della Civitas; in questo contesto, con la legge Giulia del 18 a.C. e, poi, con la legge Papia Poppea del 9 d.C., Gaio tramanda che fu stabilito un trattamento premiale per la donna che avesse partorito un certo numero di figli:

Inst. 1.145: … tantum emim ex lege Iulia et Papia Poppea iure liberorum tutela liberantur feminae.

Il numero di figli necessario alla donna per liberarsi dalla tutela viene precisato nel seguito da Gaio in: Inst. 1.194: Tutela autem liberantur ingenuae quidem trium liberorum iure, libertinae vero quattuor, si in patroni liberorumve eius legitima tutela sint; nam ceterae quae alterius generis tutores habent velut Atilianos aut fiduciarios, trium liberorum iure tutela liberantur.

In base alla lex Iulia et Papia, pertanto, fu consentito alle donne di esonerarsi dalla tutela, avendo partorito tre figli, se nate libere (ingenue); quattro, se schiave liberate (liberte) sottoposte all’autorità del legittimo tutore; tre, ancora, se liberte, ma sotto tutore testamentario, atiliano – cioè nominato dal pretore in assenza di quello testamentario e di quello legittimo – o fiduciario25.

Il passo ulteriore di questa evoluzione, in buona misura decisivo, si ebbe, infine, con una lex Claudia, fatta votare intorno al 40 d.C. dall’imperatore Claudio, con cui venne abolita la tutela legitima, cioè quella che sottoponeva la donna, priva di un tutore testamentario, all’auctoritas dell’agnato superstite più prossimo26. Gaio rammenta di questa legge in Inst. 1.157:



Et olim quidem, quantum ad legem XII tabularum attinet, etiam feminae agnatos habebant tutores. Sed postea lex Claudia lata est, quae quod ad feminas attinet, agnatorum tutelas sustulit; itaque masculus quidem inpubes fratrem puberem aut patruum habet tutorem, femina vero talem habere tutorem non potest.

Un tempo – racconta il giurista antoniniano – se si guarda a quanto disponevano le XII Tavole, anche le femmine avevano come tutori legittimi i loro agnati. Ma, in seguito, fu emanata una lex – Claudia appunto – che in rapporto a costoro, sottrasse la tutela agli agnati: e così il maschio non ancora pubere ha per legge come tutore il fratello o lo zio paterno, mentre la donna non può avere un simile tutore.

Smantellata la forma ex lege dell’istituto rimanevano in piedi quelle volontarie; la testamentaria, con cui l’avente potestà assegnava il tutore alla donna o ad essa ne rimetteva la scelta attraverso il veicolo dell’optio tutoris, quella dativa, poi, mediante la quale, ormai su propria istanza, ella avrebbe potuto richiedere al pretore di essere assistita dall’auctoritas di un familiare, auspicabilmente gradito.

Da lì in poi si apre la fase di più marcata decadenza dell’istituto che, già attestata da Gaio (Inst. 1.190), viene confermata dal silenzio ulpianeo in 28 ad ed. D. 14.3.7.1, dove, come abbiamo visto nell’incipit di questa trattazione, nulla si dice dell’auctoritas, si mulier praeposuit…, in un contesto come quello imprenditoriale, che fisiologicamente comporta l’assunzione di vincoli obbligatori, infine, è ribadita, per l’età Dioclezianea (Vat. fr. 32527), allorché alla donna per costituzione fu consentito di nominare un procuratore senza autorizzazione del tutore28.



3. Il ruolo della donna nell’alveo dell’exercitio negotiationum tra II e III secolo d.C.



È questo il contesto in cui devono ambientarsi le riflessioni che seguono e nel quale – lo abbiamo già osservato – Ulpiano, nel proprio commentario Ad edictum, non sente più la necessità di riferirsi alle conseguenze negoziali della, evidentemente dissolvente, limitazione di capacità d’agire del genere femminile.

Prima di addentrarci nella trattazione dell’oggetto di questo paragrafo, il lettore sarà agevolato dalla fugace sintesi di alcune acquisizioni, ormai universalmente accettate29, circa le modalità giuridiche d’esercizio delle attività economiche romane. Come si diceva, così come il vertice della familia proprio iure è, più ancora che per natura, per diritto, il pater familias, detentore di quell’amplissima potestas, che dello ius civile Romanorum era, forse, la creazione più tipica, allo stesso modo, sfruttando le implicazioni di questo potere – che egli possedeva nei confronti dei figli, maschi e femmine, oltreché degli schiavi – egli lo divenne anche dell’impresa, che su quella struttura familiare era venuta in origine modellandosi. Lo stesso antico ius civile, infatti, prevedeva che tutto quanto fosse stato acquistato da un sottoposto a potestà paterna o dominicale, si acquisisse al suo titolare, costituendo pertanto figli e servi un canale di fisiologico accrescimento del patrimonio del pater / dominus. Cosicché bastò a quest’ultimo preporli all’esercizio delle imprese di famiglia per star sicuro di godere dei loro profitti. Tra II e I secolo a.C., poi, dal lato passivo, il pretore, intervenne ad assicurare la responsabilità dell’avente potestà, delineando un articolato quadro di tutele a vantaggio dei contraenti con i sottoposti: con l’azione exercitoria, in particolare, venne chiamato a rispondere l’armatore di una nave per le obbligazioni contratte dal magister navis, suo comandante; con l’institoria, invece, l’imprenditore terrestre diveniva responsabile dei vincoli contrattuali assunti dal proprio preposto; con quella de peculio et de in rem verso, il titolare della potestà andava incontro ad una responsabilità limitata: all’ammontare del capitale che aveva concesso al servo o al figlio per l’esercizio dell’attività imprenditoriale o, alternativamente, a quanto riversato dal sottoposto nel suo proprio patrimonio; con la tributoria egli rispondeva della dolosa, non equa ripartizione tra i creditori del capitale precipuamente destinato all’esercizio di un’unica specifica sede commerciale; infine, con l’actio quod iussu poteva chiamarsi in giudizio per l’intero ammontare di un obbligo che il sottoposto aveva contratto su sua speciale autorizzazione od ordine30.

Con quanto si è detto nel paragrafo che precede e fatte queste dovute premesse, compiutamente si spiegano le parole di Ulpiano con cui si è aperta la presente trattazione: nulla ostava, infatti, a questo punto, acché, in un tempo non più prossimo del III secolo d.C., una donna, la quale si fosse giovata di una congrua disponibilità patrimoniale, potesse costituire il vertice di una simile organizzazione economica; ella, quando fosse stata libera e sui iuris, non avrebbe del resto goduto della potestas sui figli, ma, certo, avrebbe potuto esercitarla dominicalmente sui servi, impiegandoli come propri strumenti imprenditoriali; allo stesso tempo, nulla avrebbe rilevato che fosse una donna ad essere preposta, anche in questo caso, infatti, il titolare della potestà sarebbe rimasto vincolato alle obbligazioni dalla stessa contratte nel contesto dell’esercizio di quella attività economica che le fosse stata affidata. È questo il portato della seconda parte del già citato Ulp. 28 ad ed. D. 14.3.7.1: … nam et si mulier praeposuit, competet institoria exemplo exercitoriae actionis et si mulier sit praeposita, tenebitur etiam ipsa. sed et si filia familias sit vel ancilla praeposita, competit institoria actio.

Anche se a preporre fosse stata una donna, che ella fosse un’imprenditrice terrestre o un’armatrice, nulla sarebbe importato, potendo comunque essere chiamata a rispondere delle obbligazioni contratte dal preposto con l’azione institoria, sull’esempio di quanto avveniva nel contesto dell’esercizio delle imprese di trasporto navale con l’azione exercitoria. Se, poi, il preposto fosse stato una donna libera, oltre al preponente, anch’ella sarebbe stata obbligata. In ogni caso – conclude Ulpiano – seppure fosse preposta all’esercizio dell’impresa – come manager – una figlia in potestà o una schiava, anche in tal caso, i contraenti avrebbero potuto esercitare l’actio institoria avverso il titolare della negotiatio31.

Conclusa l’esegesi dell’importante attestazione ulpianea, un commento più approfondito della fonte passa attraverso i punti di contatto che essa manifesta con altri luoghi della compilazione giustinianea. Intanto, in una prima direzione, si deve rilevare la perfetta specularità32 del segmento: nam et si mulier praeposuit, competet institoria exemplo exercitoriae actionis, rispetto a quanto attesta un rescritto del 293 d.C., degli imperatori Diocleziano e Massimiano, indirizzato ad un’armatrice di nome Antigone, che conferma, con riguardo all’impresa di trasporto navale, l’assoluta parità di diritti e oneri delle imprenditrici donne rispetto ai loro “colleghi” di sesso maschile: C. 4.25.4: Et si a muliere magister navis praepositus fuerit, ex contractibus eius ea exercitoria actione ad similitudinem institoriae tenetur.

Anche se il comandante della nave fosse stato preposto da una donna, contro di lei, per i contratti da costui perfezionati, avrebbe potuto esercitarsi l’azione exercitoria a somiglianza di quella institoria. Una mulier, dunque, le due fonti sono concordi, poteva esercitare oltreché un’impresa terrestre, pure un’impresa di navigazione, tramite propri preposti, rivestendo, in questo caso, il ruolo di armatrice33. Ma la trattazione di Ulpiano a riguardo non si ferma a questa sola acquisizione; il lemma, exercitor, armatore, attesta il giurista di Tiro nello stesso libro ventottesimo All’editto, può essere così definito perimetralmente: Ulp. 28 ad ed. D. 14.1.1. § 15. Exercitorem autem eum dicimus, ad quem obventiones et reditus omnes perveniunt, sive is dominus navis sit sive a domino navem per aversionem conduxit vel ad tempus vel in perpetuum. § 16. Parvi autem refert, qui exercet masculus sit an mulier, pater familias an filius familias vel servus: pupillus autem si navem exerceat, exigemus tutoris auctoritatem.

Si definisce armatore colui al quale pervengono tutti i profitti, sia che egli sia proprietario della nave sia che l’abbia presa in locazione34; e poco importa se l’armatore sia uomo o don-na, padre di famiglia o figlio in potestà, oppure ancora servo; nondimeno, se un pupillo eserciti un’impresa di navigazione, avrà bisogno dell’autorizzazione del tutore.

Il passo è per noi fondamentale per una duplice ragione: in primo luogo, perché, differentemente dal pupillo impubere, la donna sottoposta a tutela non è menzionata tra coloro i quali necessitano della auctoritas del tutore per esercitare l’impresa di navigazione in qualità di armatori35. Dato, questo, che ci conferma la completa libertà con cui il genere femminile doveva gestire, all’epoca di Ulpiano, più ancora che in quella di Gaio, i propri affari commerciali, anche per mare. In secondo luogo, poi, è di stringente utilità per introdurci a dire del ruolo che le fonti attestano poter essere ricoperto da soggetti di sesso femminile nelle imprese di navigazione esercitate nei limiti di un peculio da armatori non sui iuris, ma figli o servi in potestà.

Nel successivo §. 20 del frammento36, infatti, Ulpiano, rifacendosi in conclusione all’opinione di Pomponio, rammentava la circostanza per cui, nel contesto dell’esercizio dell’impresa di navigazione, se qui navem exercet sit in aliena potestate, qualora avesse condotto l’impresa per volontà, comunque manifestata, del titolare della potestà, quest’ultimo sarebbe stato obbligato per l’intero da quanto da costui contratto, in maniera del tutto indipendente dalla ricorrenza di un’idonea praepositio. Una tale asserzione veniva infine integrata – ed è questo il punto che a noi qui maggiormente interessa – nel successivo §. 21, dalla constatazione per cui in potestate autem accipiemus utriusque sexus vel filios vel filias vel servos vel servas: intenderemo persone in potestà quelle di entrambi i sessi, sia figli che figlie, sia servi che serve37.

Siamo di fronte alla nitida attestazione del fatto che le donne potessero essere esercenti di un’impresa di navigazione, e quindi armatrici, sia che, libere e sui iuris, preponendo un magister alla conduzione della nave, avessero assunto una responsabilità illimitata, sia se, serve o alieni iuris, avessero gestito l’attività nei limiti di un peculio. Ma lo stesso dovrebbe dirsi pure al di fuori del contesto dell’impresa di trasporto navale, se è vero che, già alla sua epoca, Gaio, nel settore della cura dei tessuti, declinava al femminile il nome di alcuni titolari d’impresa esercenti nei limiti di un patrimonio separato.

Gai. 9 ad ed. prov. D. 15.1.27 pr.: Et ancillarum nomine et filiarum familias in peculio actio datur: maxime si qua sarcinatrix aut textrix erit aut aliquod artificium vulgare exerceat, datur propter eam actio. depositi quoque et commodati actionem dandam earum nomine Iulianus ait: sed et tributoriam actionem, si peculiari merce sciente patre dominove negotientur, dandam esse. longe magis non dubitatur, et si in rem versum est, quod iussu patris dominive contractum sit.

L’azione nei limiti del peculio – affermava il giurista antoniniano – è data anche per l’attività condotta dalle serve e dalle figlie di famiglia, particolarmente se si tratti di una sarta o di una tessitrice o se ella eserciti qualche mestiere manuale. Segue la menzione della coeva opinione di Salvio Giuliano: il compilatore dell’Editto perpetuo reputava, a tal proposito, che a nome loro si dovesse dare anche l’azione di deposito e di comodato; così, pure, che potesse darsi, contro l’avente potestà, l’azione avverso la non equa ripartizione del patrimonio commerciale (actio tributoria), se, sapendolo il padre o il padrone, la figlia o la serva avesse intrattenuto attività negoziale nei limiti di questo capitale destinato. A maggior ragione – si chiude il commento di Gaio – non si dubita che si debba dare la rispettiva azione (de in rem verso), se sia stato riversato un utile nel patrimonio dell’avente potestà e per quanto si contrattò su ordine o autorizzazione del padre o del padrone (actio quod iussu)38.

La regola enunciata dal testo in rapporto ad attività che la romanità aveva sempre inteso caratterizzanti il genere femminile39, doveva poi essere stata oggetto di progressiva generalizzazione, se Ulpiano, in 29 ad ed. D. 15.1.1.3, commentava in termini inequivocabili le parole iniziali (quod cum eo, qui in alterius potestate esset, negotium gestum erit) del triplex edictum, che introdusse le tre azioni sopra menzionate in Gaio, de peculio et de in rem verso, tributoria e quod iussu:



De eo loquitur, non de ea: sed tamen et ob eam quae est feminini sexus dabitur ex hoc edicto actio.

Si parla di colui, non di colei: tuttavia, in base a questo editto, sarà data l’azione anche per chi sia di sesso femminile40.

Dunque sembrerebbe, dalle fonti sin qui discusse, potersi giungere alla conclusione che ogni attività economica, agli albori del III secolo d.C., potesse essere organizzata ed esercitata da una donna: così come con tutto il suo patrimonio, di persona libera e sui iuris, pure nei limiti di un peculio, qualora al contrario fosse stata serva o figlia in potestà. Nondimeno, v’era – a ben cercare – una, tra le numerose negotiationes fiorite nei primi secoli dell’Impero, che le nostre fonti – o, per lo meno, l’opinione di Callistrato, tramandatasi fino alla compilazione giustinianea – escludono potesse essere esercitata da una donna41: era l’attività bancaria, che il giurista intende, per definizione, un’occupazione virile.

Call. 1 ed. mon. D. 2.13.12: Feminae remotae videntur ab officio argentarii, cum ea opera virilis sit.

E, pur tuttavia, tale rigida esclusione dall’esercizio dell’ufficio bancario, come hanno contribuito ad evidenziare recenti studi42, non è tanto il segno di una perdurante, supposta incapacità femminile nella gestione dell’attività negoziale tra privati, ma semmai della perpetua esclusione delle donne da ogni attività che potesse avere una qualche rilevanza pubblicistica, se è vero che l’unica spiegazione addotta dal giurista in D. 2.13.12 è che tale attività sia, per sua natura, propria degli uomini e che questo giudizio dovrebbe porsi in relazione con la publica utilitas sottesa alla professione di argentarius, secondo quanto, tra gli altri, risulta da Papiniano, in 9 quaest. D. 16.3.843.

A me pare, in ogni caso, che proprio l’assoluta unicità di questa eccezione nel panorama delle fonti giuridiche romane, sia, per il discorso che qui si è inteso svolgere, il dato oggettivo più significativo, forse, dell’intera indagine. E che, sebbene in tema debba rilevarsi la parziale e perfettibile conoscenza delle coeve testimonianze provenienti dal patrimonio delle fonti documentali ed epigrafiche44, le altre numerose attestazioni di segno contrario sopra discusse convergano nel rappresentare, se non un esempio sociologicamente affidabile di realtà improntata al principio di parità di genere45, almeno un vessillo eretto a guida del pensiero giuridico delle epoche successive all’apice più alto della sapienza prudenziale romana.

NOTE

1 A. PETRUCCI, Organizzazione ed esercizio delle attività economiche nell’esperienza giuridica romana: i dati delle fonti e le più recenti vedute dei moderni, Collana del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, Nuova Serie, Monografie, Vol. 32, Torino, 2021, VIII-302.

2 A. PETRUCCI, Note sui ‘marchi di produzione’ e dati delle fonti giurisprudenziali. A proposito di una recente iniziativa, in BIDR, 2017, 111, 30-36; in precedenza, ID., Spunti di riflessione sulla tutela dei contraenti con gli imprenditori nella legislazione dioclezianea, in Studi in Onore di Antonino Metro, IV, a cura di C. RUSSO RUGGERI, Milano, 2010, 540 ss., su questo specifico passo, in ID., Per una storia della protezione dei contraenti con gli imprenditori, I, Torino, 2007, 51 ss., sul quale un breve accenno è contenuto pure in ID., Manuale di diritto privato romano, Torino, 2019, 60, nt. 97. Dell’avanzamento di questo filone di ricerca, ancora più recentemente dà conto l’Autore: ID., Impresa e responsabilità a dieci anni dalla scomparsa di Feliciano Serrao, in Talamanca e Serrao. Una stagione della romanistica, a cura di L. CAPOGROSSI COLOGNESI, A. DI PORTO, Roma, 2021, 170 s.

3 A. PETRUCCI, Organizzazione, cit., 168-174 (paragrafo 4, dal titolo: Signa e donne “imprenditrici” o “manager”).

4 A. GRILLONE, Impresa familiare: radici storiche “occulte e note” di un articolo del Codice civile, in questa Rivista, V, 2021, 1, 114-121.

5 L. INGALLINA, Spunti di riflessione su ruoli e responsabilità della donna nel matrimonio romano, in questa Rivista, V, 2021, 1, 104-113.

6 L. INGALLINA, Spunti, cit., 105 s.

7 A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 119-121.

8 Cfr. R. SALLER, I rapporti di parentela e l’organizzazione familiare, in Storia di Roma, a cura di A. GIARDINA, A. SChIAVONE, Torino, 1999, 826; e, precedentemente, ID., Patria potestas and the stereotype of the Roman family, in Continuity and Chage, I, 1986, 15 ss.

9 Un potere di cui, nonostante la nitida e cosciente percezione della sua straordinaria invasività, e nonostante un percorso storico, inevitabile, teso al suo progressivo temperamento, ancora nelle parole di Gaio, nel II secolo d.C., si percepisce la fiera ostentazione: Fere nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus (Inst. 1.55). Sulla dialettica tra estensione, limitazione e moderazione del potere paterno, cfr., in ordine cronologico: J. CROOK, Patria potestas, in CQ, ns. 17, 1967, 1, 113 ss.; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, s.v. Patria potestas, in ED, XII, Milano, 1982, 242 ss.; R. SALLER, Patria potestas, cit., 7 ss.; ID., I rapporti, cit., 844 ss.; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La famiglia romana, la sua storia e la sua storiografia, in Itinera. Pagine scelte di L. Capogrossi Colognesi, Lecce, 2017, 176 ss.; V. SCARANO USSANI, Padri, Padroni, Patroni. Identità romana e diritto delle persone, della famiglia e delle successioni mortis causa fra l’epoca arcaica e l’età di Adriano, Roma, 2017, 40 ss., 101 ss. e G. RIzzELLI, La potestas paterna fra leges, mores e natura, in Anatomie della paternità. Padri e famiglia nella cultura romana, a cura di F. LAMBERTI, Lecce, 2019, 89 ss.

10 Ovvero dell’ordinamento costituzionale romano. Neppure di quello arcaico, se deve ormai considerarsi tramontata la teoria del Bonfante per cui la



familia proprio iure avrebbe rappresentato l’entità politica di base nel sistema gentilizio dei clan (P. BONFANTE, La ‘gens’ e la ‘familia’, in BIDR, 1888, 1, 236 ss., anche in Scritti giuridici, I. Famiglia e successioni, Torino, 1916, 3 ss., nel luogo della sua prima formulazione; ovvero in ID., Corso di Diritto Romano, I. Diritto di famiglia, Milano, 1963, 5 ss.; nello stesso senso, E. BETTI, Ancora in difesa della congettura del Bonfante sulla famiglia romana arcaica, in SDHI, 1952, 18, 241 ss.). Contra, per tutti, F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, I, Napoli, 1972, 30 ss., il quale riteneva che nella formazione della costituzione romana gli organismi politici di base fossero state, invece, le gentes (per un complessivo riesame del dibattito sulla possibile valenza politica delle tre originarie aggregazioni sovra-individuali: famiglia, tribù e gens, cfr., in ogni caso, F. SERRAO, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, 1. Dalla società gentilizia alle origini dell’economia schiavistica, Napoli, 2006, 30 ss.).

11 Per la definizione perimetrale dell’età commerciale romana: P. CERAMI, Introduzione allo studio del diritto commerciale romano, in P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano. Profilo storico3, Torino, 2010, 27 ss.

12 Ché neppure sarebbe utile, a fronte delle ormai numerose trattazioni sistematiche, per lo più riconducibili alla scuola serraiana: F. SERRAO, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989; P. CERAMI, A. DI PORTO, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano. Profilo storico2, Torino, 2004; P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale3, cit., 36 ss. Ma pure si vedano le trattazioni manualistiche di A. PETRUCCI, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, 135-168 e ID., Manuale, cit., 137-170. Ed oggi pure l’ultima, citata, fatica monografica dell’Autore: ID., Organizzazione, cit., 16 ss.

13 A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 117-119.

14 P. CERAMI, Introduzione, cit., 27; A. PETRUCCI, Lezioni, cit., 135; ID., Manuale, cit., 137; così, da ultimo, in senso adesivo, A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 117 s.

15 Non essendo sottoposta più loco filiae alla patria potestas del marito, non vedeva il suo patrimonio rifondersi all’interno di quello di costui: cfr., in questa Rivista, L. INGALLINA, Spunti, cit., 105, nt. 18, con ulteriore bibliografia ivi ampiamente citata.

16 R. SALLER, I rapporti, cit., 840 ss.; E. CANTARELLA, La vita delle donne, in Storia, cit., 879 s.; ID., L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Milano, 2010, 201 ss.; M. CASOLA, Armatrici e marinaie nel diritto romano, in Quaderni del Dipartimento Jonico, 2015, 1, 11 ss., nt. 20. Sottolinea come, in ogni caso, la cerchia di donne che dovevano aver ottenuto simili benefici dovesse essere ristrettissima e strettamente limitata all’élite urbana: F. CENERINI, La donna romana. Modelli e realtà, Bologna, 2002, 11 ss., nello stesso senso, F. MERCOGLIANO, La condizione giuridica della donna romana: ancora una riflessione, in TSDP, 2011, IV, 36 s.

17 Sui quali cfr. il tradizionale contributo di C.A. MASChI, Il diritto romano, I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica, Milano, 1966, 159 ss.

18 Probabilmente il passo più breve e onnicomprensivo riguardo alle prerogative del tutore, che elenca tutte le macro-categorie di atti per il cui valido compimento la donna doveva richiedere l’autorizzazione del titolare di questo officium, si trova nei Tituli ex corpore Ulpiani, 11.27: Tutoris auctoritas necessaria est mulieribus quidem in his rebus: si lege aut legitimo iudicio agant, si se obligent, si civile negotium gerant, si libertae suae permittant in contubernio alieni servi morari, si rem mancipii alienent. Da questo estratto apprendiamo che l’autorizzazione del tutore fosse necessaria alle donne, qualora volessero agire in base ad una legge o in un giudizio legittimo, per contrarre un’obbligazione, per perfezionare un negozio di diritto civile, concedere alla propria liberta di legarsi in un’unione para-matrimoniale con un servo altrui, al fine, in ultimo, di alienare una res mancipi (ancora si veda oggi il classico, P. zANNINI, Studi sulla tutela mulierum, I. Profili funzionali, Torino, 1976, 77 ss., ma pure, più recentemente, R. VAN DEN BERG, Roman Women: sometimes equal and sometimes not, in Fundamina, 2006, 12.2, 120 s., nt. 52 e O. TELLEGEN, Tutela mulierum, in Mulier. Algunas historias e instituciones de derecho romano, a cura di M.J. BRAVO BOSCh, R. RODRíGUEz LÓPEz, Madrid, 2013, 409 s., nt. 8).

19 La locuzione qui riportata è liberamente escerpita da un più lungo discorso di Nerazio riguardante la necessaria nomina di un nuovo curatore alla morte di quello in carica, non potendosi di ciò necessariamente gravare il suo erede: […] nam et tunc ex integro alius curator faciendus est neque heres prioris curatoris onerandus, cum accidere possit, ut negotio vel propter sexus vel propter aetatis infirmitatem vel propter dignitatem maiorem minoremve, quam in priore curatore spectata erat, habilis non sit, possint etiam plures heredes ei existere neque aut per omnes id negotium administrari expediat aut quicquam dici possit, cur unus aliquis ex his potissimum onerandus sit. Attesta Ner. 1 memb. D. 27.10.9 che tale onere non si potrà addossare all’erede del precedente curatore, poiché può accadere che egli non sia idoneo alla gestione dell’affare per il sesso o l’incapacità propria dell’età o per la maggiore o minore dignità che era stata selezionata riguardo al primo curatore; possono inoltre esservi più eredi del curatore e può non essere conveniente che questo affare venga amministrato da tutti, o che si possa addurre una ragione perché sia gravato preferibilmente uno solo di essi.

20 S. DIxON, ‘Infirmitas sexus’: Womanly Weakness in Roman Law, in TR, 1984, 52, 343 ss.; R. QUADRATO, ‘Infirmitas sexus’ e ‘levitas animi’: il sesso “debole” nel linguaggio dei giuristi romani, in Scientia iuris e linguaggio nel sistema giuridico romano. Atti del Convegno di Studi di Sassari 22-23 novembre 1996, a cura di F. SINI, R. ORTU, Milano, 2001, 155 ss.; R. VAN DEN BERG, Roman Women, cit., 119 s.; F. MERCOGLIANO, La condizione, cit., 19 ss. e, recentemente, P.J. DU PLESSIS, Once More on the Perpetual Guardianship of Women, in Legal Documents in Ancient Societies, VI, Ancient Guardianship. Legal Incapacities in the Ancient World, a cura di U. YIFTACh,

M. FARAGUNA, Trieste, 2017, 169 ss.

21 Gaio si fa in gran parte divulgatore di un’evoluzione già avvenuta a livello giurisprudenziale, pretorio e legislativo in quel torno di tempo; in tal senso, da ultimo, cfr. G. RIzzELLI, Luoghi comuni, stereotipi e storia giuridica delle donne, in Estudos em Memória do Professor Thomas Marky. Centenário de Nascimento (19192019), São Paulo, 2019, 159 s.

22 Nella manualistica: M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 170, spiega che già probabilmente negli ultimi anni della repubblica i tutori, per lo meno quelli ancora esistenti in epoca gaiana, testamentari o dativi (la cui nomina avveniva, di concerto tra pretore urbano e tribuni, su istanza della donna priva di un tutore indicato nel testamento dell’avente potestà, siccome di un agnato legalmente individuato come tale) avrebbero potuto essere coerciti dal praetor a prestare l’auctoritas, in base ad una valutazione contingente e attuale dell’interesse della stessa al compimento dell’atto; l’istituto risultava così già completamente snaturato nella sua funzione di difesa delle ragioni, soprattutto ereditarie, della cerchia familiare della donna, quando successivi provvedimenti imperiali incisero sul quadro vigente, indebolendone ulteriormente la portata. Nello stesso senso, A. PETRUCCI, Manuale, cit., 58 s. Questa prerogativa pretoria sarebbe invece stata acquisita successivamente alle leggi augustee, Giulia e Papia Poppea, secondo l’opinione di M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano3, Palermo, 2006, 268, che la interpreta come una compensazione a favore delle donne non dotate dello ius liberorum (su cui anche infra nel corpo del testo).

23 Cfr. P. zANNINI, Studi, I, cit., 32 ss.; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno, cit., 206; R. VIGNERON, J.-F. GERKENS, The Emancipation of Women in Ancient Rome, in RIDA, 2000, 47, 113 s.; M.M. WEThMAR-LEMMER, The Legal Position of Roman Women: a dissenting perspective, in Fundamina, 2006, 12.2, 178 s.; nello stesso volume, R. VAN DEN BERG, Roman Women, cit., 119 s. e O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 408 s.

24 In particolare, si vedano: Inst. 1.151: Ceterum aut plena optio datur aut angusta; e Inst. 1.153: Quae optiones plurium inter se differunt. Nam quae plenam optionem habet, potest semel et bis et ter et saepius tutorem optare; quae vero angustam habet optionem, si dumtaxat semel data est optio, amplius quam semel optare non potest; si dumtaxat bis, amplius quam bis optandi facultatem non habet. A tal riguardo: P. zANNINI, Studi, I, cit., 61; ID., Studi sulla tutela mulierum, II. Profili strutturali e vicende storiche dell’istituto, Milano, 1979, 80 ss.; E. CANTARELLA, La vita, cit., 878, nt. 44; O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 412 s. e, da ultimo, K. MORRELL, Tutela mulierum and the Augustan marriage laws, in EuGeStA (European Gender Studies in Antiquity), 10, 2020, 99 s.

25 È questo l’oggetto principale della citata recentissima ricerca, cui rinvio per ulteriori approfondimenti, di K. MORRELL, Tutela mulierum, cit., 89 ss., in ogni caso si vedano anche: P.J. DU PLESSIS, Once, cit., 168; V. SCARANO USSANI, Padri, cit., 125 ss.; O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 414 ss.; C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, comercio y empresa en algunas fuentes jurídicas, literarias y epigráficas, in RIDA, 2003, 50, 158 ss.; F. CENERINI, La donna, cit., 35; R. SALLER, I rapporti, cit., 834; E. CANTARELLA, La vita, cit., 880 s. e il più risalente, P. zANNINI, Studi, I, cit., 13 ss. e ID., Studi, II, cit., 79 s., nt. 25.

26 In tema, P. zANNINI, Studi, I, cit., 15 s.; ID., Studi, II, cit., 5 ss.; R. SALLER, I rapporti, cit., 834; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno, cit., 206 s.; F. CENERINI, La donna, cit., 35; O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 415 e, ancora, V. hALBWAChS, Women as Legal Actors, in The Oxford Handbook of Roman Law and Society, a cura di P.J. DU PLESSIS, C. ANDO, K. TUORI, Oxford, 2016, 448 s.

27 Divi Diocletianus et Constantius Aureliae Pantheae… mulier quidem facere procuratorem sine tutoris auctoritate non prohibetur…

28 Per una sostanziale desuetudine dell’istituto e, conseguentemente, per una progressiva perdita di rilevanza giuridica dell’auctoritas, propendono le più illustri trattazioni manualistiche, che concordemente rilevano il silenzio, dal III secolo in poi, caduto su tale forma di supporto virile alla manifestazione della volontà giuridica femminile. Esemplarmente, si vedano i tre grandi classici dei primi anni novanta: M. MARRONE, Istituzioni, cit., 268; M. TALAMANCA, Istituzioni, cit., 170 ed A. BURDESE, Manuale di Diritto privato romano4, Milano, 2010 (19931), 277.

29 Già mi sono intrattenuto a riguardo su Queste colonne in: A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 117-119, cui rinvio per ulteriore bibliografia in merito. Inoltre, ora, mi pare, il miglior supporto per la ricostruzione della bibliografia degli ultimi dieci anni in tema possa essere rappresentato dal recentissimo contributo di A. PETRUCCI, Impresa e responsabilità, cit., 149 ss.

30 Non vale qui la pena, come si diceva, di ripercorrere la sterminata bibliografia che ha discusso ciascuna di queste tutele; per gli scopi sottesi a questa disamina, basti il rinvio alla trattazione manualistica fattane recentemente da A. PETRUCCI, Manuale, cit., 137-170.

31 Sul passo, cfr. A. WACKE, Die adjektizischen Klagen im Überblick I: Von der Reederund der Betriebsleiterklage zur direkten Stellvertretung, in ZSS, 111, 1994, 319 ss.; C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 184 s.; A. PETRUCCI, Per una storia, cit., 51-53; ID., Spunti, cit., 542; ID., Note, cit., 31 ss.; N. BENKE, Gender and the Roman Law of Obligations, in Obligations in Roman Law: Past, Present and Future, a cura di T. MCGINN, Ann Arbour, 2013, 228 ss.; V. hALBWAChS, Women, cit., 451; M. CASOLA, Armatrici, cit., 10 s.; R. ORTU, Condizione giuridica e ruolo sociale delle Vestali in età imperiale, Ortacesus, 2018, 91 ss.; ID., Dominae navium: il caso della Vestale Massima Flavia Publicia, in Liber Amicorum per Sebastiano Tafaro. I. L’uomo, la persona e il diritto, a cura di A.F. URICChIO, M. CASOLA, Bari, 2019, 531 s. Poi ancora, da ultimo, A. PETRUCCI, Organizzazione, cit., 169 s. Sulla compatibilità di questa disciplina con il veto imposto dal SC Velleiano (46 d.C.) alle donne di intercedere pro aliis, cioè di obbligarsi per conto di un terzo o d’assumere obbligazioni di garanzia personale: cfr. ibidem, 172, ntt. 62-63 e, in precedenza, ID., Spunti, cit., 541; ID., Note, cit., 32, nonché A. WACKE, Die adjektizischen Klagen, cit., 320; più diffusamente, N. BENKE, Ibidem; ma cfr. ancora: V. hALBWAChS, ibidem e B. SIRKS, Law, Commerce, and Finance in the Roman Empire, in Trade, Commerce, and the State in the Roman World, a cura di A. WILSON, A.K. BOWMAN, Oxford, 2018, 89.

Che, dopotutto, la donna sottoposta a potestà potesse preporsi con i medesimi esiti giuridici ed economici di un uomo risulta, in ogni caso, già per l’epoca di Gaio, da Gai. 9 ad ed. prov. D. 14.3.8: nam et plerique pueros puellasque tabernis praeponunt (sul quale qui rinvio a G. MINAUD, Les gens de commerce et le droit à Rome. Essai d’histoire économique sur la pensée comptable commerciale et privée dans le monde antique romain, Aix-en-Provence, 2011, 216 ss.)

32 Specularità che qui implica una semplice identità di regime e non una dissensio circa l’anteriorità-posteriorità di uno dei due rimedi processuali: G. COPPOLA BISAzzA, Dallo iussum domini alla contemplatio domini: contributo allo studio della storia della rappresentanza, Milano, 2008, 335.

33 A. PETRUCCI, Spunti, cit., 540 s.; lo stesso autore ora in ID., Organizzazione, cit., 170, nt. 56; ma anche si vedano C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 184;

G. MINAUD, Les gens, cit., 217 s.; M. CASOLA, Armatrici, cit., 15; V. hALBWAChS, Women, cit., 451, nt. 42; B. SIRKS, Law, cit., 89; R. ORTU, La Vestale Massima Flavia Publicia: un’imprenditrice nell’antica Roma?, in Archivio Storico Giuridico Sardo, 2018, 23, 174 ss. e ID., Dominae navium, cit., 530; sulle possibili conferme epigrafiche di questa circostanza: L. DE SALVO, Economia privata e pubblici servizi nell’impero romano. I corpora naviculariorum, Messina, 1992, 307, 441 ss.; R. ORTU, Condizione, cit., 72 ss., 95 ss.; ID., La Vestale, cit., 169 ss. e ID., Dominae navium, cit., 532 ss., sull’imprenditoria femminile terrestre: V. CASTIGLIONE MORELLI, Sulle tracce di un’imprenditoria femminile a Pompei e nel Vesuviano, in The Material Sides of the Marriage. Women and Domestic Economies in Antiquity, a cura di R. BERG, Roma, 2016, 213 ss. e R. CIARDIELLO, Donne imprenditrici a Pompei. Eumachia e Giulia Felice, in ibidem, 223 ss.

34 Per tutti basti il rinvio alla sintetica e puntuale esposizione contenuta in

P. CERAMI, Introduzione, cit., 58 s.; in ogni caso, in argomento anche: A. WACKE,

Die adjektizischen Klagen, cit., 299 ss.; M. MICELI, Sulla struttura formulare delle

‘actiones adiecticiae qualitatis’, Torino, 2001, 211 s.; G. COPPOLA BISAzzA, Ancora una parola sull’exercitor, in IURA, 2003 (2006), 54, 130 ss.; A. PETRUCCI, Per una storia, cit., 57 s., nt. 8; P.J. DU PLESSIS, Letting and Hiring in Roman Legal Thought: 27 BCE-284 CE, Leiden-Boston, 2012, 85, nt. 112; M.A. LIGIOS, Nomen negotiationis. Profili di continuità e di autonomia della negotiatio nell’esperienza giuridica romana, Torino, 2013, 58, nt. 104 e M. CASOLA, Armatrici, cit., 8.

35 Cfr. C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 183 s.; M. CASOLA, Armatrici, cit., 8 ss.; V. hALBWAChS, Women, cit., 450 s.; N. BENKE, Gender, cit., 230, nt. 81; da ultimo, in tal senso, sostanzialmente anche A. PETRUCCI, Note, cit., 32 e ID., Organizzazione, cit., 170.

36 Sulla peculiare responsabilità patrimoniale in solidum dell’avente potestà, che abbia voluto che il sottoposto esercitasse l’impresa di navigazione attraverso il proprio peculio, nonostante qui non sia oggetto di specifica attenzione, è possibile rinviare ad un’amplissima bibliografia, che ha come suoi cardini essenziali:

A. DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo ‘manager’ in Roma antica (II secolo a.C. II secolo d.C.), Milano, 1984, 227 ss.; A. PETRUCCI, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. metà del III secolo d.C.), Napoli, 1991, 351 ss.; A. FÖLDI, La responsabilità dell’avente potestà per atti compiuti dall’exercitor suo sottoposto, in SDHI, 64, 1998, 182 ss.; M. MICELI, Sulla struttura, cit., 212 s., nt. 57; A. PETRUCCI, Particolari aspetti giuridici dell’organizzazione e delle attività delle imprese di navigazione, in P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano3, cit., 237 ss.; ID., Idee ‘vecchie’ e ‘nuove’ sulle attività imprenditoriali gestite all’interno di un peculio, in BIDR, 2012, 106, 314 ss.; A. MAzzOLENI, Profili di responsabilità nell’esercizio di un’impresa di navigazione in Roma antica. Alcune considerazioni in merito a D. 14.1.1.19-20 e D. 14.1.6 pr., in TSDP, 2019, XII, 12 ss. e, da ultimo, ancora A. PETRUCCI, Organizzazione, cit., 34 ss.

37 A. PETRUCCI, Spunti, cit., 540; ID., Note, cit., 35, nt. 43 e ID., Organizzazione, cit., 170, nt. 56.

38 Sul passo, T.J. ChIUSI, Die actio de in rem verso im römischen Recht, München, 2001, 34 s.; C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 185 s.; B.W. FRIER, T.A. MCGINN, A Casebook on Roman Family Law, Oxford, 2004, 271 (Case 128); G. MINAUD, Les gens, cit., 216 ss.; M.J. PERRY, Gender, Manumission, and the Roman Freedwoman, Cambridge, 2014, 47 s.; E. EJANKOWSKA, The legal regulation of business activity of filiae familias in the principate period, in ZESZYT, 2019, 108, 56; A. PETRUCCI, Note, cit., 35, nt. 43 e ID., Organizzazione, cit., 170, nt. 56.

39 F. CENERINI, La donna, cit., 11 ss., 22 ss.; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno, cit., 198 s.; C. ALFARO GINER, La mujer y el trabajo en la Hispania prerromana y romana. Actividades domésticas y profesionales, in El trabajo de las mujeres en España (desde la Antigüedad al siglo XX). Mélanges de la Casa de Velázquez, 2010, 40.2, 15 ss.; L. LARSSON LOVéN, Female Work and Identity in Roman Textile Production and Trade: A Methodological Discussion, in Making Textiles in Pre-Roman and Roman Times. People, Places Identities, a cura di M. GLEBA, J. PÁSzTOKAI-SzEÓKE, Oxford, 2013, 109 ss. e M.J. PERRY, Gender, cit., 47.

40 Sul passo, C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 185 s.; R. ORTU, La Vestale, cit., 176; ID., Dominae navium, cit., 532; E. EJANKOWSKA, The legal regulation, cit., 55;

A.PETRUCCI, Note, cit., 35 e ID., Organizzazione, cit., 171 s.

41 Per un quadro delle problematiche sottese al passo, più volte vi si è soffermato: A. PETRUCCI, Mensam exercere, cit., 323 ss.; ID., Note, cit., 34 e ID., Organizzazione, cit., 173. A riguardo delle implicazioni del passo sulla trattazione della generale tematica dei virilia officia: B.W. FRIER, T.A. MCGINN, A Casebook, cit., 461

s. (Case 231) e F. MERCOGLIANO, La condizione, cit., 27 ss.

42 G. MINAUD, Les gens, cit., 206 e, sostanzialmente, anche N. BENKE, Gender, cit., 226 s.

43 Seppure è vero, infatti, che, come segnala A. PETRUCCI, Profili giuridici delle attività e dell’organizzazione delle banche romane, Torino, 2002, 122 s., nt. 30;

ID., L’impresa bancaria: attività, modelli organizzativi, funzionamento e cessazione, in

P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano3, cit., 114 s. e ID., Particolari aspetti, cit., 230 s., la rispondenza ad un interesse pubblico è comune a banche e imprese di navigazione, in base alle concordi attestazioni contenute nelle nostre fonti, è pure anche ragionevole supporre, con N. BENKE, Gender, cit., 226, che, all’atto pratico, i Romani ben si fossero resi conto che una banca florida avrebbe esercitato una funzione, un controllo, una pressione sociale ben diversa dall’influenza esercitabile attraverso la conduzione di un exercitio navis. Per questo, sebbene donne potessero concludere da sole attività finanziarie di prestito marittimo, non potevano, al contrario, esercitare la professione di argentarius (cfr. ibidem, 227 s., nt. 64).

44 E, in tal senso, si legga, tra le righe, l’auspicio di A. PETRUCCI, Note, cit., 35 s.; ID., Impresa e responsabilità, cit., 171 e ID., Organizzazione, cit., 173 s., ad una più stretta collaborazione tra giuristi e studiosi delle discipline antichistiche nello studio della tematica.

45 Mi pare anche in questo campo doversi infatti tenere conto delle annotazioni di J. CROOK, Patria potestas, cit., 114: i Romani nel campo del diritto spinsero le proprie deduzioni al limite della logica in nome della più rigorosa coerenza; così come la mostruosa abnormità dei poteri del pater non deve essersi, in realtà, nella pratica, quasi mai manifestata nella sua interezza per effetto del temperamento sociale di quelle prerogative, così anche l’evoluzione della condizione della donna non può essere rigidamente ricostruita, né nei suoi picchi più bassi, né in quelli più alti, dall’analisi delle sole fonti giuridiche.