inserisci una o più parole da cercare nel sito
ricerca avanzata - azzera

Assegno divorzile e nuova convivenza tra le piroette della Corte di Cassazione e la richiesta di intervento del legislatore (nota a Cass. Civ., Sez. Un., sent. 5 novembre 2021, n. 32198)

autore: L. Galletta

SOMMARIO: 1. Il caso. - 2. La natura compensativa dell’assegno divorzile nella giurisprudenza della Suprema Corte. - 3. La decisione. - 4. Problemi interpretativi. - 5. Considerazioni finali.



1. Il caso



Il Tribunale civile di Venezia, nel pronunciare la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da M.T. e G.A. poneva a carico del marito, G.A. un assegno divorzile pari ad Euro 850,00 mensili, pur riducendo l’importo rispetto a quanto consensualmente stabilito dai coniugi in sede separativa.

La Corte d’Appello di Venezia, adita da G.A., riformava la sentenza di primo grado ed in accoglimento parziale dell’appello proposto, respingeva la domanda di riconoscimento dell’assegno divorzile, in ragione dell’accertata convivenza della M.T. con altro uomo, dal quale peraltro, nel frattempo aveva avuto una figlia. Nell’escludere il diritto dell’ex coniuge all’assegno divorzile, la corte veneziana richiamava il principio di diritto affermato da una sentenza innovativa pronunciata dalla Suprema Corte nel 20151, in forza del quale l’instaurazione da parte del coniuge divorziato di una nuova famiglia, ancorché di fatto, elidendo ogni legame con il tenore ed il modello di vita qualificanti la convivenza matrimoniale, fa venire definitivamente meno ogni presupposto per la riconoscibilità dell’assegno divorzile a carico dell’altro coniuge.

Proponeva ricorso per Cassazione G.A., fondandolo su quattro motivi, dei quali il secondo volto a denunciare la violazione e falsa applicazione dell’art. 5, co. 10 della l. 1 dicembre 1970 n. 898 per avere il Giudice di secondo grado statuito che “la semplice convivenza more uxorio con altra persona provochi, senza alcuna valutazione discrezionale del giudice, l’immediata soppressione dell’assegno divorzile”.

Investita del ricorso, la sezione prima della Suprema Corte, con ordinanza int. del 17 dicembre 2020, n. 289952, ritenuto che la questione rientrasse tra quelle di particolare importanza, a norma dell’art. 374 c.p.c., 2 co., rimetteva la decisione al primo presidente, affinché valutasse l’opportunità di assegnazione dell’esame alle Sezioni Unite. Tra le valutazioni sottese a tale scelta, si evidenziava in particolare, la necessità di rimodulare l’indirizzo formatosi in sede di legittimità nelle decisioni più recenti3, e non condiviso dalla sezione prima stessa, teso a riconoscere alla famiglia di fatto, in quanto stabile e duratura, piena dignità di formazione sociale in cui si esplica il principio dell’auto-responsabilità dell’individuo. Da tale inquadramento, ne discenderebbe, aderendo a questi arresti più recenti, che il soggetto che decide di avviare una convivenza, con la consapevolezza della sua possibile futura interruzione, si assume il rischio del venire meno dell’assegno divorzile e di ogni altra forma residua di sostengo post matrimoniale.

Le Sezioni Unite, con una corposa sentenza ricognitiva degli ultimi interventi in tema di assegno dovuto all’ex coniuge, accoglieva il secondo motivo del ricorso e cassava con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, statuendo che qualora sia giudizialmente accertata la stabile convivenza tra un terzo ed il coniuge beneficiario dell’assegno, questi possa mantenere il diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio, in ragione della funzione compensativa, riconosciuta all’assegno stesso.



2. La natura compensativa dell’assegno divorzile nella giurisprudenza della Suprema Corte



Vale la pena di partire proprio dal principio sancito dalla Sezioni Unite nelle considerazioni finali della sentenza in commento, là dove viene posto l’accento sulla natura compensativa del contributo dovuto all’ex coniuge, per ripercorrere, seppur sommariamente, gli orientamenti che si sono succeduti negli anni, in tema di assegno divorzile e comprendere a partire da quando ha assunto rilievo il contenuto compensativo dell’assegno, citato dalla Suprema Corte.

È bene premettere che il Legislatore dell’originario art. 5, co. 4 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, dunque ben prima della riforma introdotta dalla legge 6 marzo 1987 n. 74, aveva espressamente previsto nel secondo capoverso della norma citata, che nella determinazione dell’assegno, il giudice dovesse dar contezza del contributo fornito da ciascuno dei due divorziandi alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio comune.

La granitica giurisprudenza degli anni settanta, in effetti, senza dubbio di sorta, riferiva nei propri pronunciamenti della pacifica esistenza della funzione compensativa dell’assegno, affiancandola a quella altrettanto certa di tipo risarcitorio ed assistenziale in senso lato.

In tale contesto si giunse sino alla fine degli ottanta, quando si volle intervenire sulla norma regolatrice dell’assegno di divorzio, con il dichiarato intento di rompere con il passato e soprattutto con i vecchi principi, considerati oramai scollati dalla realtà sociale, troppo fluida ed in continua evoluzione4. Già all’epoca, venivano sentite come non più trascurabili le modificazioni stringenti della realtà socio-familiare che si riteneva il Legislatore non potesse più trascurare.

La modifica apportata nel 1987 e di cui all’attuale impianto normativo, introduceva quale condizione prodromica al riconoscimento dell’assegno, la mancanza di mezzi adeguati, relegando la funzione compensativa, alla strega di mero criterio guida, tra tutti gli elencati nella nuova norma, per la quantificazione del contributo. Nulla veniva aggiunto, per suggerire all’interprete quale fosse il parametro in virtù del quale valutare il concetto di adeguatezza dei mezzi.

E proprio sul solco di tale macroscopica incertezza che vennero consolidandosi i due opposti orientamenti5della Suprema Corte alla fine degli anni ottanta: l’uno volto a garantire al coniuge beneficiario dell’assegno divorzile un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, l’altro teso a negare tale funzione e a sostenere la necessità di una valutazione giudiziale che faccia leva, esclusivamente, sulla eventuale non autonomia economica del richiedente.

Le decisioni delle Sezioni Unite del 19906 posero fine alla querelle.

Con la sentenza del 29 novembre 1990 venne dato assoluto conforto al primo convincimento, e posto l’accento sulla natura assistenziale dell’assegno, per il quale, a differenza di quello di separazione, è necessario dare giusto rilievo agli indici di quantificazione contenuti nell’art. 5 della l. div., per cui, lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio rappresenta soltanto il punto di partenza.

Sulla base di tale decisione, i criteri elencanti nella norma citata rappresentano dei parametri modulatori della funzione eminentemente perequativa del contributo, in grado addirittura di azzerarlo, e ciò anche nell’ipotesi in cui l’iniziale valutazione sull’an debeatur si sia conclusa positivamente. Venne con essa affermandosi il criterio della valutazione bifasica, sulla cui scorta l’art. 5 contiene due insieme di criteri, quelli attributivi, che portano al riconoscimento dell’an e quelli determinativi, che consentono l’individuazione del quantum. Questi ultimi sono enucleati nella disposizione in commento, dopo l’espressione “tenuto conto”. Tutti i suddetti criteri devono essere valutati con riferimento ad entrambi i coniugi e dovranno essere contemperati in modo tale da non costituire un ingiustificato privilegio per l’uno dei coniugi ed un eccessivo aggravio per l’altro.

Tale panorama interpretativo perdurò per decenni, avallato anche da un intervento della Corte Costituzionale7 nel 2015, la quale pose l’accento sulla necessità di considerare “il tenore di vita matrimoniale soltanto per determinare in astratto il tetto massimo della prestazione assistenziale. Da determinarsi poi in concreto, caso per caso, con gli altri criteri di diminuzione indicati nell’art. 5 della legge sul divorzio (condizione e reddito dei coniugi, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla formazione del patrimonio comune, durata del matrimonio, ragioni della decisione)”. Con un inaspettato intervento, nel seppur succintamente descritto scenario perdurato con marginali aspetti correttivi per circa un trentennio, nel luglio del 2017, la sezione prima della Suprema Corte mutò indirizzo8. Ad osservare bene ed a leggere tra le righe di quella motivazione, nella realtà non vi risulta affermato nulla di nuovo. In essa, altro non avviene che la ripresa del paradigma espresso dalla sentenza della Cass. civ., Sez. I, 2 marzo 1990 n. 1652: poiché con la fine del matrimonio ed il successivo divorzio, il rapporto coniugale si estingue, e gli ex coniugi devono considerarsi da tale momento in poi persone singole, con conseguente elisione di qualsivoglia strascico di contribuzione patrimoniale che tragga origine da quel rapporto e da quel legame, l’assegno andrà corrisposto solo qualora il coniuge non abbia redditi propri o si trovi nell’impossibilità di procurarseli, ma con valutazione che dovrà prescindere dal pregresso rapporto. L’intervento di sostegno a favore del coniuge più debole, in fase di successiva quantificazione dell’assegno, dovrà poi rispettare “i criteri guida” suggeriti dalla norma disciplinatrice di cui all’art. 5 l. div. e volti a modellare il principio generale allo specifico caso concreto. Tale orientamento venne seguito da altre decisioni9, a tal punto che in alcune di esse si giunse persino ad un ulteriore estremizzazione, di fatto elusiva dello stesso dato normativo, tesa ad affermare che l’importo da corrispondere dovesse essere tale da consentire all’ex coniuge il mero raggiungimento dell’indipendenza economica: l’assegno divorzile non poteva e non doveva superare la ritenuta autosufficienza economica10.

Numerose sono state le critiche a tale decisione e proprio con riferimento all’aspetto compensativo dell’assegno; si è evidenziato l’assoluto torto che il principio (ri)affermato avrebbe riservato ai casi in cui a seguito, per esempio, di una lunga convivenza coniugale, il coniuge debole si fosse dedicato all’accudimento dei figli, sacrificando la propria posizione lavorativa personale, consentendo viceversa l’accrescimento lavorativo-professionale del partner. Negare l’assegno in tali circostanze, secondo parte della dottrina11 voleva dire non valorizzare un accordo di vita coniugale, con le conseguenze irreversibili cui in talune circostanze tale scelta conduce (ad esempio ove il coniuge economicamente meno robusto non sia neppure più nelle condizioni di affacciarsi o ri-affacciarsi nel mondo del lavoro).

Non passò tuttavia molto tempo che l’orientamento interpretativo offerto dalla prima sezione nel 2017, venne sconfessato dalle Sezioni Unite, investite della questione dal difensore di una parte ex art. 376, commi secondo e terzo c.p.c. Con la decisione del 201812 venne preliminarmente eliminata la natura bi-fasica del giudizio volto all’attribuzione dell’assegno di divorzio. Secondo tale decisione non esiste una preliminare valutazione attributiva del contributo, seguita eventualmente da quella quantificativa, ma tutti i criteri suggeriti dalla norma devono considerarsi equi-ordinati. L’assegno ha una funzione assistenziale, ma accanto a questa ha anche una funzione compensativa ed una risarcitoria. Ove tra le due condizioni redditual-patrimoniali vi sia una rilevante differenza, i criteri guida della norma danno rilievo delle ragioni di tale distanza, fornendo evidenza delle modalità con le quali è stata condotta la relazione matrimoniale.

Il risultato che se ne ricava, e lo stesso apprezzamento espresso in quella decisione per il testo originario dell’art. 5, ha indotto parte della dottrina a ritenere che nella realtà quella sentenza rappresenti di fatto un ritorno alla corretta interpretazione che della norma (originaria) ne aveva fatto, come in parte anticipato, la giurisprudenza degli anni settanta.

Il contributo personale dato alla conduzione matrimoniale ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune è il criterio al quale le Sezioni Unite della Corte danno prioritaria importanza. Con esso non si vuole far rivivere un legame giuridico che non esiste più, ma unicamente dare dignitoso rilievo alle scelte comuni, per comprendere se le stesse siano state la causa generatrice del rilevato squilibrio, tenuto conto e soprattutto, della durata del matrimonio e dell’età del coniuge richiedente.

Ed a tale criterio, quello perequativo-compensativo, sono dedicate, con dovizia di approfondite riflessioni, le oltre quaranta pagine della decisione in commento, tese a giustificare le ragioni per le quali l’avvio di una nuova convivenza da parte del coniuge beneficiario, non può condurre in automatico alla perdita del sostegno economico proveniente dall’ex coniuge.

Con tale intervento, la Corte Suprema, più che soffermarsi sulla non equiparabilità giuridica della condizione di coniuge a quello di mero convivente, questione che viene risolta in senso negativo, in termini di stretto diritto, valorizza l’assoluta necessità di un processo di armonizzazione tra la decisione delle sezioni unite del 2018, e la sopravvivenza dell’assegno in caso di nuova convivenza.

Ove l’assegno divorzile sia stato riconosciuto al coniuge più debole per compensare i sacrifici professionali generati da una scelta effettuata di comune accordo durante il matrimonio, con conseguente rilevante disparità reddituale, non è possibile sostenere che l’eventuale nuova convivenza elida tale contributo, perché esso prescinde da una funzione meramente assistenziale, nel cui differente caso, invece, diviene difficilmente giustificabile, la permanente necessità di tutela del coniuge più debole.



3. La decisione





La relazione scritta del Procuratore Generale, convintamente tesa a sostenere il rigetto del ricorso, muove dalla necessaria premessa che con l’instaurarsi di un nuovo modello familiare da parte del coniuge beneficiario viene ad essere rescisso ogni legame con la pregressa vita coniugale e ciò soprattutto in ragione della nuova normativa sulle unioni civili. Un tanto non già per una sorta di interpretazione analogica dell’art. 5 l. div. comma 10, quanto piuttosto per la eadem ratio delle due situazioni. Se la natura compensativa dell’assegno recede di fronte alle nuove nozze del beneficiario, per identità di condizione, dovrà considerarsi avente lo stesso effetto anche il seppur diverso istituto della convivenza, i cui eventuali caratteri di stabilità e solidità della relazione, dovranno venir accertati dal giudice, non realizzandosi ovviamente, in tal caso, alcun effetto automatico.

Le argomentazioni della Corte muovono preliminarmente dalla disamina degli orientamenti pregressi in tema di assegno di divorzio e nuova stabile convivenza. Nel panorama decisionale, osserva la Corte, si possono individuare tre orientamenti, tutti successivi alla nuova normativa. Quello più risalente tende a riservare alla decisione discrezionale del giudice, la necessità di confermare anche riducendolo o azzerando l’assegno, ma imponendogli di valutare l’apporto migliorativo fornito dalle risorse della nuova convivenza13, bilanciato altresì, dalla precarietà della nuova aggregazione.

Un secondo orientamento14 è quello che, viceversa, valuta come più aderente alla nozione di adeguatezza dei redditi, la necessità di una sospensione dell’assegno per tutta la durata della nuova convivenza, fatta salva la perdurante rilevanza del solo stato di bisogno, in quanto non attenuato all’interno della convivenza stessa.

Ed infine, un terzo indirizzo più recente, espressamente citato dalla sezione rimettente, come quello da rimodulare alla luce della sentenza delle Sezioni Unite del 2018, incline ad una affermazione piena ed assoluta del concetto di autoresponsabilità dei coniugi, discendente della scelta libera dell’avvio della nuova convivenza, accompagnata dalla consapevolezza della eventuale precarietà della nuova formazione familiare, con definitiva ed irreversibile elisione della solidarietà post coniugale15. In essa viene dato espresso rilievo anche all’affidamento del coniuge obbligato, il quale è portato e ritenersi esonerato dal contributo proprio, in ragione della scelta familiare compiuta dall’ex coniuge.

Le Sezioni Unite della Cassazione, preso atto del panorama giurisprudenziale modulatosi negli anni in tema di assegno di divorzio e stabile convivenza, interpretazioni fortemente ancorate al contenuto interpretativo fornito all’art. 5 l. div., partono proprio dal ragionamento dispiegato dalla Procura Generale, per individuare alcune criticità, facilmente rinvenibili nella progressione logica delle riferite argomentazioni.

Si può subito osservare che gli appunti mossi dalla Suprema Corte alle richieste della Procura, muovono da due ordini di ragioni: le une di natura squisitamente normativa, le altre di tipo più prettamente dogmatico.

In ordine al quadro normativo vigente, si osserva che il testo dell’art. 5 l. div. non ha subito, dalla recente legge sulle unioni civili, alcuna modifica, cosa che avrebbe dovuto verificarsi, ove l’intento del Legislatore fosse stato quello di riconoscere alla convivenza l’effetto caducante, proprio delle nuove nozze16. Il recente progetto di legge sul divorzio, ancora in fase di approvazione parlamentare17, espressamente prevede un tal intervento, e ciò a conferma del fatto che diversamente, non è possibile giungere a tale conclusione. Inoltre, stando agli insegnamenti della Corte Costituzionale, quando si è trattato di sostenere una possibile automaticità dell’effetto giuridico conseguente alla accertata coabitazione more uxorio, la Corte di legittimità ha sempre escluso tale conclusione, sottolineando viceversa la necessità della rigorosa disamina del caso concreto da parte dell’organo giudicate18.

Alla stessa conclusione, secondo la Corte, deve comunque giungersi ove si passi dall’esegesi di diritto positivo, ad una valutazione giurisprudenzialmente orientata sulla funzione propria all’assegno divorzile.

È oramai indubitabile, alla luce della recente sentenza a sezioni unite del 2018, che l’assegno divorzile abbai una natura composita, in cui la funzione compensativo-perequativa, discende direttamente dal principio costituzionale di solidarietà. Se tuttavia una nuova stabile convivenza, intesa quale formazione sociale dalla quale discendono, oggi, precisi obblighi reciproci di assistenza morale e materiale, fa venir meno, proprio in virtù della scelta consapevole di creare un nuovo assetto economico con il nuovo partner, l’assegno divorzile nella sua dimensione assistenziale, lo stesso non può affermarsi con riferimento a quella più volte affermata natura compensativa dello stesso.

Secondo la Corte, infatti, l’uno, quello assistenziale, ha un riflesso futuro, modificabile con il tempo, l’altro, quello compensativo ha una dimensione esclusivamente storica, in quanto volto a controbilanciare gli effetti di scelte, che non possono più essere modificate.

Un tanto giustifica la diversa sorte che viceversa subisce l’assegno di mantenimento del coniuge semplicemente separato, in caso di nuovo rapporto di stabile convivenza: la natura assistenziale ed il parametro del pregresso tenore di vita, cui il contributo va parametrato, escludono che l’assegno possa sopravvivere.

La Cassazione muovendo da tali premesse, ritiene che competa al giudice un rigoroso dovere d’accertamento, innanzitutto sulla stabilità della nuova relazione, accertamento che può spingersi sino al punto di stabilire anche la data a partire dalla quale, attraverso registrazioni di residenza anagrafica o l’apertura di conti corrente comuni, possa dirsi avviata una relazione sentimentale e di coabitazione dalle caratteristiche di stabilità e di relativa certezza. Da tale momento, evidentemente, la componente assistenziale dell’assegno, come in parte anticipato, perderebbe la propria ragione giustificatrice. Ove invece venga accertato, attraverso l’onere probatorio, che ricade sul richiedente, che la disparità economica sia il risultato di sacrifici dell’uno in favore dell’altro, sacrifici non altrimenti compensati durante la vita matrimoniale da attribuzioni o anche dal regime patrimoniale prescelto dai coniugi, il dovere compensativo a carico del coniuge tenuto al sostengo economico post matrimoniale, dovrà essere accertato e riconosciuto. Corrisponde ai principi di equità e di uguaglianza la circostanza che le scelte sentimentali del coniuge economicamente più debole, non comportino l’automatica elisione della distinta regolamentazione economica susseguente alla fine di un pregresso rapporto matrimoniale, nella sua componente

compensativa.

Se tale scelta introduce, com’è ovvio che sia, delle modificazioni sul piano economico, sarà necessario trovare il giusto punto di equilibrio tra il principio di autoresponsabilità e la tutela della riaffermata solidarietà post-coniugale, non essendo in alcun modo giustificabile il fatto che la solidarietà che comunque è insita al nuovo rapporto di convivenza, possa sostituire la componente compensativa dell’assegno divorzile. La sentenza, poi, nella parte conclusiva, evidentemente nella piena consapevolezza dei limiti e delle numerose obiezioni cui la modalità di somministrazione periodica dell’assegno necessariamente con sé conduce, si sofferma sull’opportunità di ripensare all’assegno di divorzio, mutuando le esperienze di altri paesi. È chiaro infatti, che così immaginato, l’aspetto compensativo ha un ruolo dirimente nella discrepanza delle condizioni redditual patrimoniali, in quanto possa essere corrisposto per un certo lasso di tempo, mentre risulta di assoluta evidenza come la periodicità della somministrazione renda di fatto indeterminato ed indeterminabile ab origine il

quantum della funzione ri-equilibratrice.

È chiaro che alla luce del nuovo (ri)-pensamento sulla natura composita dell’assegno, sarebbe preferibile che i coniugi stabilissero da subito un importo avente tale funzione, seppur liquidato nel tempo.

Alla luce della circostanza che la liquidazione una tantum è rimessa all’accordo delle parti, la Corte riconosce che sarebbe auspicabile, anche forse per attribuire maggiore vigore alla più che corretta previsione della natura compensativa dell’assegno, introdurre nel nostro ordinamento come pare prevedere il progetto di legge in corso, misure diverse della composizione economica post divorzile, che non si limitino ad una somministrazione periodica di un importo, quali ad esempio l’assegno temporaneo, o la costituzione di una rendita, mediante trasferimento di immobili o anche l’attribuzione di un capitale anche rateizzabile,



4. Problemi interpretativi



Valutando con attenzione le lunghe riflessioni giuridiche contenute nell’articolata sentenza in commento, sorgono da subito alcune perplessità, che forse hanno lo stesso sapore di incertezza, che alcuni passaggi della sentenza a Sezioni Unite del 2018 hanno suscitato nella dottrina e nella giurisprudenza più attente.

Appare indubitabile la circostanza che la Suprema Corte, nel decidere la questione sottesa al suo esame, abbia fatto buon uso dei principi interpretativi di cui all’arresto del 2018, riaffermando rilevanza decisiva alla funzione compensati-vo-perequativa, nel giudizio di riconoscimento dell’assegno divorzile.

La necessità che il contributo post matrimoniale sia principalmente volto a compensare l’investimento compiuto nel progetto matrimoniale quando ne ricorrano i presupposti e che tale aspetto resista ad un’eventuale nuova convivenza, altro non è che un’estensione pratica e diretta della anzidetta funzione, valutata alla stregua di una derivazione del principio costituzionale di pari dignità sociale tra i coniugi.

Prova ne sia, che nei vari passaggi che si susseguono nella parte motiva della decisione, la Corte espressamente ammette che ove l’assegno divorzile sia stato attribuito al coniuge più debole per motivi di spirito puramente assistenziale, la stabile e solida costituzione di un nuovo nucleo da parte del beneficiario, comporta di per sé l’automatica perdita dell’assegno. È indubitabile che il condividere un progetto di vita familiare con un nuovo partner apporti, a tutti gli effetti, un miglioramento economico dell’ex coniuge, che accettando per scelta libera e consapevole la nuova relazione, accetta anche di elidere per sempre la solidarietà post coniugale, se il soste-

gno accordatogli era appunto di natura assistenziale.

Ma al di là di questo importante inciso, contenuto tra le righe, di cui si dirà in prosieguo per una riflessione di ordine diverso, le appassionate considerazioni del giudice di legittimità colpiscono l’interprete, ma lasciano un’incertezza assoluta sul piano pratico.

È difficilmente contestabile la circostanza che la conclusione della corte è sicuramente avvalorata dal dato normativo, che limita la perdita dell’assegno al solo caso di passaggio a nuove nozze del coniuge. Sul punto l’obiezione mossa dalla corte alla tesi sostenuta dalla Procura Generale e volta a parificare le due situazioni, colpisce senz’altro nel segno: se il Legislatore sulle unioni civili avesse voluto riconoscere un affetto di caducazione automatica dell’assegno, lo avrebbe affermato espressamente.

Più traballante si fa, invece, il vaglio di approvazione incondizionata della decisione assunta, quando dal piano del riscontro di diritto positivo si passi all’analisi delle ragioni che promanano dalla funzione compensativa dell’assegno attribuito all’ex coniuge, nella sua dimensione pratica. Ed un tale osservazione non nasce tanto dalla indubitabile coerenza lineare delle motivazioni a commento, con la decisione a sezioni unite del 2018, quanto piuttosto dallo scollamento che pare nuovamente riaffermarsi tra l’orientamento della Suprema Corte e la quotidiana applicazione dei principi che essa stessa ribadisce.

Non bisogna difatti dimenticare che il compito istituzionale della Suprema Corte ai sensi dell’art. 65 l. ord. giud. sia quello di garantire l’esatta osservanza e l’uniforme applicazione della legge. Ove vi siano incertezza interpretative, tale funzione non può dirsi pienamente realizzata.

Un primo aspetto che suscita perplessità, è sicuramente riconducibile, all’attività istruttoria incombente sulla parte che si oppone ad un’eventuale richiesta di caducazione o anche solo di riduzione dell’assegno divorzile, per la sua accertata nuova convivenza. La Corte si concentra per lo più, sull’eventualità in cui in quel medesimo giudizio si discuta e debba ancora essere decisa la somministrazione dell’assegno, In tale evenienza, l’istruttoria volta ad accertare la funzione compensativo-perequarativa si svolgerà in quel contesto, contempo-raneamente alla decisione sulla ultrattività del contributo post matrimoniale, non generando alcuna criticità.

Ma che dire dei casi in cui un assegno sia già stato valutato e determinato e la sentenza (o anco più l’accordo di negoziazione assistita), come spesso accade, nulla chiarisca in termine di valutazione giudiziale sottesa alla decisione?

È infatti immaginabile che le istanze di riduzione o di revoca dell’assegno per avviata convivenza vengano trattate per lo più nei procedimenti camerali di modifica delle condizioni di divorzio, in un giudizio dunque che, quantomeno in termini di compiuta attività istruttoria sul contributo compensativo da riconoscere al coniuge più debole, si sia già svolto e concluso.

E tale criticità, tanto più incombe, ove il divorzio ed il conseguente contributo, sia stato deciso, sotto la vigenza dei precedenti orientamenti giurisprudenziali, volti a giustificare l’assegno in termini squisitamente assistenziali. Potrà inoltre accadere che ci si trovi dinanzi ad una composizione articolata dell’importo, rispetto al quale al giudice della revisione, sarà negata ogni nuova valutazione. Cosa potrà fare il giudice investito della decisione di revoca dell’assegno, ove la sentenza sul divorzio non contenga, poi, un chiaro ed espresso riferimento alla componente compensativa dell’assegno?

A ragionare sempre in termini di poca chiarezza, a quanto sopra si aggiunga la circostanza che la nuova decisione nulla aggiunge – nuovamente – in termini di criteri di quantificazione, che possano fungere da guida per il giudice di merito, nella valutazione in termini economici del sostegno familiare fornito dall’ex coniuge richiedente.

Infatti una delle questioni che si era posta all’alba del deposito delle motivazioni della sentenza del 2018 e che sicuramente non appare definita neppure dalla decisione del luglio 2021, nonostante le più accorate istante di intervento, sia proprio quella relativa all’individuazione di un parametro volto a chiarire come il contributo domestico del coniuge più debole o il suo sacrificio professionale irreversibile, possa andar quantificato.

Se ai fini della liquidazione del contributo fornito con il lavoro endo-familiare, forse sarebbe possibile fare ricorso al costo orario della medesima attività, svolta a pagamento sul mercato, più difficile, senza ombra di dubbio, appare la liquidazione della definitiva e non recuperabile perdita di chances lavorative, cui le scelte comuni ai coniugi hanno costretto il coniuge richiedente.

Ma la decisione della corte risulta sibillina anche sotto altri aspetti.

Come detto in precedenza, in un passaggio della sentenza è espressamente riconosciuta ed affermata la caducazione automatica dell’assegno divorzile, ove la stabile e duratura convivenza si scontri con un assegno divorzile di natura prettamente assistenziale: “L’affermazione del venir meno del diritto alla componente assistenziale dell’assegno, qualora si intraprenda una nuova convivenza stabile, si coerenzia e si bilancia con la previsione normativa, di una per quanto limitata, copertura di tutela per l’ex coniuge nel caso in cui anche il nuovo progetto di vita non vada a buon fine in capo al nuovo convivente: l’art. 1, comma 65, della legge n. 76 del 2016, prevede il diritto di ricevere un assegno alimentare dall’ex convivente qualora questi versi in stato di bisogno”.

Con tale asserzione, la Corte, seppur soltanto per inciso, pare riconoscere la possibilità, molto discussa in dottrina ed in giurisprudenza19, che dopo l’intervento del 2018, esista e si possa ancora riconoscere un assegno avente funzione esclusivamente assistenziale, nell’eventualità in cui, pur emergendo una differenza di reddito, si accerti che questa non dipenda dalle scelte della conduzione familiare, perché ad esempio trattasi di divario preesistente al matrimonio e con esso rimasta immutato. Funzione che porterà all’elisione dell’assegno in caso di convivenza, o anche solo, dovrà indurre il giudice a non riconoscerlo, ove si accerti, che il richiedente abbia la possibilità concreta di procurarsi un reddito e provvedere a sé stesso

Anche sul punto, considerata l’eterogeneità de decisioni assunte dalla corti meritorie, e la richiesta di un intervento volto a lumeggiare questo snodo fondamentale, sarebbe stato meglio che la Corte si esprimesse in termini più chiari ed assertivi.

Anche in punto attività istruttoria non pare che il nuovo arresto fornisca indici chiari, seppur la parte motiva contenga tra gli incisi riservati alla disamina dell’onere probatorio, la circostanza che il coniuge richiedente l’assegno, o resistente alla domanda di revoca, per accertata stabile convivenza, non si debba limitare a provare che lo squilibrio dipenda dalle scelte adottate durante il matrimonio, ma debba rigorosamente provare qualcosa di più, e cioè che tali scelte siano state oggetto di condivisione. Nulla invece viene aggiunto, in ordine all’attività che sul piano istruttorio debba compiere il coniuge richiesto: più che limitarsi alla prova contraria, qualche autorevole autore20, ritiene più prudente offrire la prova diretta del fatto estintivo del diritto, anche soltanto per contrapporsi alle presunzioni che espressamente sul punto tale sentenza ammette.



5. Considerazioni finali



Anche tale sentenza, come quella del 2018, si presenta nella stesura piuttosto complessa, e per certi versi ridondante, sebbene sia indubbio che in termini di stretto diritto essa manifesti, con logica linearità, un legame imprescindibile con i principi solennemente enunciati nella prima.

Ma le difficoltà stringenti che in sé conduce la decisione di tre anni or sono sull’assegno divorzile, vengono percepite anche in tale decisione, soprattutto là dove molto spazio viene riservato alle auspicabili soluzioni alternative, rispetto alla oramai inadeguata somministrazione periodica dell’assegno. Proprio le riflessioni dedicate ai possibili strumenti tradizionali di corresponsione dell’assegno mensile di divorzio, hanno il sapore di una anticipata presa di coscienza delle difficoltà pratiche, legate alla valorizzazione, per quanto assolutamente rispettabile, della funzione compensativa dell’assegno. La mancata previsione legislativa del riconoscimento di un assegno di divorzio temporaneo, la limitata estensione normativa dell’assegno un tantum, l’assenza di strumenti alternativi che consentano al giudice di adattare i rispettabilissimi concetti teorici al caso pratico, manifestano, con sempre maggior vigore e nelle stesse accorate richieste di intervento del giudice estensore, la necessità di una urgente rivisitazione legislativa dell’assegno.







NOTE

1 A. PETRUCCI, Organizzazione ed esercizio delle attività economiche nell’esperienza giuridica romana: i dati delle fonti e le più recenti vedute dei moderni, Collana del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa, Nuova Serie, Monografie, Vol. 32, Torino, 2021, VIII-302.

2 A. PETRUCCI, Note sui ‘marchi di produzione’ e dati delle fonti giurisprudenziali. A proposito di una recente iniziativa, in BIDR, 2017, 111, 30-36; in precedenza, ID., Spunti di riflessione sulla tutela dei contraenti con gli imprenditori nella legislazione dioclezianea, in Studi in Onore di Antonino Metro, IV, a cura di C. RUSSO RUGGERI, Milano, 2010, 540 ss., su questo specifico passo, in ID., Per una storia della protezione dei contraenti con gli imprenditori, I, Torino, 2007, 51 ss., sul quale un breve accenno è contenuto pure in ID., Manuale di diritto privato romano, Torino, 2019, 60, nt. 97. Dell’avanzamento di questo filone di ricerca, ancora più recentemente dà conto l’Autore: ID., Impresa e responsabilità a dieci anni dalla scomparsa di Feliciano Serrao, in Talamanca e Serrao. Una stagione della romanistica, a cura di L. CAPOGROSSI COLOGNESI, A. DI PORTO, Roma, 2021, 170 s.

3 A. PETRUCCI, Organizzazione, cit., 168-174 (paragrafo 4, dal titolo: Signa e donne “imprenditrici” o “manager”).

4 A. GRILLONE, Impresa familiare: radici storiche “occulte e note” di un articolo del Codice civile, in questa Rivista, V, 2021, 1, 114-121.

5 L. INGALLINA, Spunti di riflessione su ruoli e responsabilità della donna nel matrimonio romano, in questa Rivista, V, 2021, 1, 104-113.

6 L. INGALLINA, Spunti, cit., 105 s.

7 A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 119-121.

8 Cfr. R. SALLER, I rapporti di parentela e l’organizzazione familiare, in Storia di Roma, a cura di A. GIARDINA, A. SChIAVONE, Torino, 1999, 826; e, precedentemente, ID., Patria potestas and the stereotype of the Roman family, in Continuity and Chage, I, 1986, 15 ss.

9 Un potere di cui, nonostante la nitida e cosciente percezione della sua straordinaria invasività, e nonostante un percorso storico, inevitabile, teso al suo progressivo temperamento, ancora nelle parole di Gaio, nel II secolo d.C., si percepisce la fiera ostentazione: Fere nulli alii sunt homines qui talem in filios suos habent potestatem qualem nos habemus (Inst. 1.55). Sulla dialettica tra estensione, limitazione e moderazione del potere paterno, cfr., in ordine cronologico: J. CROOK, Patria potestas, in CQ, ns. 17, 1967, 1, 113 ss.; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, s.v. Patria potestas, in ED, XII, Milano, 1982, 242 ss.; R. SALLER, Patria potestas, cit., 7 ss.; ID., I rapporti, cit., 844 ss.; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La famiglia romana, la sua storia e la sua storiografia, in Itinera. Pagine scelte di L. Capogrossi Colognesi, Lecce, 2017, 176 ss.; V. SCARANO USSANI, Padri, Padroni, Patroni. Identità romana e diritto delle persone, della famiglia e delle successioni mortis causa fra l’epoca arcaica e l’età di Adriano, Roma, 2017, 40 ss., 101 ss. e G. RIzzELLI, La potestas paterna fra leges, mores e natura, in Anatomie della paternità. Padri e famiglia nella cultura romana, a cura di F. LAMBERTI, Lecce, 2019, 89 ss.

10 Ovvero dell’ordinamento costituzionale romano. Neppure di quello arcaico, se deve ormai considerarsi tramontata la teoria del Bonfante per cui la



familia proprio iure avrebbe rappresentato l’entità politica di base nel sistema gentilizio dei clan (P. BONFANTE, La ‘gens’ e la ‘familia’, in BIDR, 1888, 1, 236 ss., anche in Scritti giuridici, I. Famiglia e successioni, Torino, 1916, 3 ss., nel luogo della sua prima formulazione; ovvero in ID., Corso di Diritto Romano, I. Diritto di famiglia, Milano, 1963, 5 ss.; nello stesso senso, E. BETTI, Ancora in difesa della congettura del Bonfante sulla famiglia romana arcaica, in SDHI, 1952, 18, 241 ss.). Contra, per tutti, F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, I, Napoli, 1972, 30 ss., il quale riteneva che nella formazione della costituzione romana gli organismi politici di base fossero state, invece, le gentes (per un complessivo riesame del dibattito sulla possibile valenza politica delle tre originarie aggregazioni sovra-individuali: famiglia, tribù e gens, cfr., in ogni caso, F. SERRAO, Diritto privato economia e società nella storia di Roma, 1. Dalla società gentilizia alle origini dell’economia schiavistica, Napoli, 2006, 30 ss.).

11 Per la definizione perimetrale dell’età commerciale romana: P. CERAMI, Introduzione allo studio del diritto commerciale romano, in P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano. Profilo storico3, Torino, 2010, 27 ss.

12 Ché neppure sarebbe utile, a fronte delle ormai numerose trattazioni sistematiche, per lo più riconducibili alla scuola serraiana: F. SERRAO, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989; P. CERAMI, A. DI PORTO, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano. Profilo storico2, Torino, 2004; P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale3, cit., 36 ss. Ma pure si vedano le trattazioni manualistiche di A. PETRUCCI, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, 135-168 e ID., Manuale, cit., 137-170. Ed oggi pure l’ultima, citata, fatica monografica dell’Autore: ID., Organizzazione, cit., 16 ss.

13 A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 117-119.

14 P. CERAMI, Introduzione, cit., 27; A. PETRUCCI, Lezioni, cit., 135; ID., Manuale, cit., 137; così, da ultimo, in senso adesivo, A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 117 s.

15 Non essendo sottoposta più loco filiae alla patria potestas del marito, non vedeva il suo patrimonio rifondersi all’interno di quello di costui: cfr., in questa Rivista, L. INGALLINA, Spunti, cit., 105, nt. 18, con ulteriore bibliografia ivi ampiamente citata.

16 R. SALLER, I rapporti, cit., 840 ss.; E. CANTARELLA, La vita delle donne, in Storia, cit., 879 s.; ID., L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Milano, 2010, 201 ss.; M. CASOLA, Armatrici e marinaie nel diritto romano, in Quaderni del Dipartimento Jonico, 2015, 1, 11 ss., nt. 20. Sottolinea come, in ogni caso, la cerchia di donne che dovevano aver ottenuto simili benefici dovesse essere ristrettissima e strettamente limitata all’élite urbana: F. CENERINI, La donna romana. Modelli e realtà, Bologna, 2002, 11 ss., nello stesso senso, F. MERCOGLIANO, La condizione giuridica della donna romana: ancora una riflessione, in TSDP, 2011, IV, 36 s.

17 Sui quali cfr. il tradizionale contributo di C.A. MASChI, Il diritto romano, I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica, Milano, 1966, 159 ss.

18 Probabilmente il passo più breve e onnicomprensivo riguardo alle prerogative del tutore, che elenca tutte le macro-categorie di atti per il cui valido compimento la donna doveva richiedere l’autorizzazione del titolare di questo officium, si trova nei Tituli ex corpore Ulpiani, 11.27: Tutoris auctoritas necessaria est mulieribus quidem in his rebus: si lege aut legitimo iudicio agant, si se obligent, si civile negotium gerant, si libertae suae permittant in contubernio alieni servi morari, si rem mancipii alienent. Da questo estratto apprendiamo che l’autorizzazione del tutore fosse necessaria alle donne, qualora volessero agire in base ad una legge o in un giudizio legittimo, per contrarre un’obbligazione, per perfezionare un negozio di diritto civile, concedere alla propria liberta di legarsi in un’unione para-matrimoniale con un servo altrui, al fine, in ultimo, di alienare una res mancipi (ancora si veda oggi il classico, P. zANNINI, Studi sulla tutela mulierum, I. Profili funzionali, Torino, 1976, 77 ss., ma pure, più recentemente, R. VAN DEN BERG, Roman Women: sometimes equal and sometimes not, in Fundamina, 2006, 12.2, 120 s., nt. 52 e O. TELLEGEN, Tutela mulierum, in Mulier. Algunas historias e instituciones de derecho romano, a cura di M.J. BRAVO BOSCh, R. RODRíGUEz LÓPEz, Madrid, 2013, 409 s., nt. 8).

19 La locuzione qui riportata è liberamente escerpita da un più lungo discorso di Nerazio riguardante la necessaria nomina di un nuovo curatore alla morte di quello in carica, non potendosi di ciò necessariamente gravare il suo erede: […] nam et tunc ex integro alius curator faciendus est neque heres prioris curatoris onerandus, cum accidere possit, ut negotio vel propter sexus vel propter aetatis infirmitatem vel propter dignitatem maiorem minoremve, quam in priore curatore spectata erat, habilis non sit, possint etiam plures heredes ei existere neque aut per omnes id negotium administrari expediat aut quicquam dici possit, cur unus aliquis ex his potissimum onerandus sit. Attesta Ner. 1 memb. D. 27.10.9 che tale onere non si potrà addossare all’erede del precedente curatore, poiché può accadere che egli non sia idoneo alla gestione dell’affare per il sesso o l’incapacità propria dell’età o per la maggiore o minore dignità che era stata selezionata riguardo al primo curatore; possono inoltre esservi più eredi del curatore e può non essere conveniente che questo affare venga amministrato da tutti, o che si possa addurre una ragione perché sia gravato preferibilmente uno solo di essi.

20 S. DIxON, ‘Infirmitas sexus’: Womanly Weakness in Roman Law, in TR, 1984, 52, 343 ss.; R. QUADRATO, ‘Infirmitas sexus’ e ‘levitas animi’: il sesso “debole” nel linguaggio dei giuristi romani, in Scientia iuris e linguaggio nel sistema giuridico romano. Atti del Convegno di Studi di Sassari 22-23 novembre 1996, a cura di F. SINI, R. ORTU, Milano, 2001, 155 ss.; R. VAN DEN BERG, Roman Women, cit., 119 s.; F. MERCOGLIANO, La condizione, cit., 19 ss. e, recentemente, P.J. DU PLESSIS, Once More on the Perpetual Guardianship of Women, in Legal Documents in Ancient Societies, VI, Ancient Guardianship. Legal Incapacities in the Ancient World, a cura di U. YIFTACh,

M. FARAGUNA, Trieste, 2017, 169 ss.

21 Gaio si fa in gran parte divulgatore di un’evoluzione già avvenuta a livello giurisprudenziale, pretorio e legislativo in quel torno di tempo; in tal senso, da ultimo, cfr. G. RIzzELLI, Luoghi comuni, stereotipi e storia giuridica delle donne, in Estudos em Memória do Professor Thomas Marky. Centenário de Nascimento (19192019), São Paulo, 2019, 159 s.

22 Nella manualistica: M. TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 170, spiega che già probabilmente negli ultimi anni della repubblica i tutori, per lo meno quelli ancora esistenti in epoca gaiana, testamentari o dativi (la cui nomina avveniva, di concerto tra pretore urbano e tribuni, su istanza della donna priva di un tutore indicato nel testamento dell’avente potestà, siccome di un agnato legalmente individuato come tale) avrebbero potuto essere coerciti dal praetor a prestare l’auctoritas, in base ad una valutazione contingente e attuale dell’interesse della stessa al compimento dell’atto; l’istituto risultava così già completamente snaturato nella sua funzione di difesa delle ragioni, soprattutto ereditarie, della cerchia familiare della donna, quando successivi provvedimenti imperiali incisero sul quadro vigente, indebolendone ulteriormente la portata. Nello stesso senso, A. PETRUCCI, Manuale, cit., 58 s. Questa prerogativa pretoria sarebbe invece stata acquisita successivamente alle leggi augustee, Giulia e Papia Poppea, secondo l’opinione di M. MARRONE, Istituzioni di diritto romano3, Palermo, 2006, 268, che la interpreta come una compensazione a favore delle donne non dotate dello ius liberorum (su cui anche infra nel corpo del testo).

23 Cfr. P. zANNINI, Studi, I, cit., 32 ss.; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno, cit., 206; R. VIGNERON, J.-F. GERKENS, The Emancipation of Women in Ancient Rome, in RIDA, 2000, 47, 113 s.; M.M. WEThMAR-LEMMER, The Legal Position of Roman Women: a dissenting perspective, in Fundamina, 2006, 12.2, 178 s.; nello stesso volume, R. VAN DEN BERG, Roman Women, cit., 119 s. e O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 408 s.

24 In particolare, si vedano: Inst. 1.151: Ceterum aut plena optio datur aut angusta; e Inst. 1.153: Quae optiones plurium inter se differunt. Nam quae plenam optionem habet, potest semel et bis et ter et saepius tutorem optare; quae vero angustam habet optionem, si dumtaxat semel data est optio, amplius quam semel optare non potest; si dumtaxat bis, amplius quam bis optandi facultatem non habet. A tal riguardo: P. zANNINI, Studi, I, cit., 61; ID., Studi sulla tutela mulierum, II. Profili strutturali e vicende storiche dell’istituto, Milano, 1979, 80 ss.; E. CANTARELLA, La vita, cit., 878, nt. 44; O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 412 s. e, da ultimo, K. MORRELL, Tutela mulierum and the Augustan marriage laws, in EuGeStA (European Gender Studies in Antiquity), 10, 2020, 99 s.

25 È questo l’oggetto principale della citata recentissima ricerca, cui rinvio per ulteriori approfondimenti, di K. MORRELL, Tutela mulierum, cit., 89 ss., in ogni caso si vedano anche: P.J. DU PLESSIS, Once, cit., 168; V. SCARANO USSANI, Padri, cit., 125 ss.; O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 414 ss.; C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, comercio y empresa en algunas fuentes jurídicas, literarias y epigráficas, in RIDA, 2003, 50, 158 ss.; F. CENERINI, La donna, cit., 35; R. SALLER, I rapporti, cit., 834; E. CANTARELLA, La vita, cit., 880 s. e il più risalente, P. zANNINI, Studi, I, cit., 13 ss. e ID., Studi, II, cit., 79 s., nt. 25.

26 In tema, P. zANNINI, Studi, I, cit., 15 s.; ID., Studi, II, cit., 5 ss.; R. SALLER, I rapporti, cit., 834; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno, cit., 206 s.; F. CENERINI, La donna, cit., 35; O. TELLEGEN, Tutela mulierum, cit., 415 e, ancora, V. hALBWAChS, Women as Legal Actors, in The Oxford Handbook of Roman Law and Society, a cura di P.J. DU PLESSIS, C. ANDO, K. TUORI, Oxford, 2016, 448 s.

27 Divi Diocletianus et Constantius Aureliae Pantheae… mulier quidem facere procuratorem sine tutoris auctoritate non prohibetur…

28 Per una sostanziale desuetudine dell’istituto e, conseguentemente, per una progressiva perdita di rilevanza giuridica dell’auctoritas, propendono le più illustri trattazioni manualistiche, che concordemente rilevano il silenzio, dal III secolo in poi, caduto su tale forma di supporto virile alla manifestazione della volontà giuridica femminile. Esemplarmente, si vedano i tre grandi classici dei primi anni novanta: M. MARRONE, Istituzioni, cit., 268; M. TALAMANCA, Istituzioni, cit., 170 ed A. BURDESE, Manuale di Diritto privato romano4, Milano, 2010 (19931), 277.

29 Già mi sono intrattenuto a riguardo su Queste colonne in: A. GRILLONE, Impresa familiare, cit., 117-119, cui rinvio per ulteriore bibliografia in merito. Inoltre, ora, mi pare, il miglior supporto per la ricostruzione della bibliografia degli ultimi dieci anni in tema possa essere rappresentato dal recentissimo contributo di A. PETRUCCI, Impresa e responsabilità, cit., 149 ss.

30 Non vale qui la pena, come si diceva, di ripercorrere la sterminata bibliografia che ha discusso ciascuna di queste tutele; per gli scopi sottesi a questa disamina, basti il rinvio alla trattazione manualistica fattane recentemente da A. PETRUCCI, Manuale, cit., 137-170.

31 Sul passo, cfr. A. WACKE, Die adjektizischen Klagen im Überblick I: Von der Reederund der Betriebsleiterklage zur direkten Stellvertretung, in ZSS, 111, 1994, 319 ss.; C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 184 s.; A. PETRUCCI, Per una storia, cit., 51-53; ID., Spunti, cit., 542; ID., Note, cit., 31 ss.; N. BENKE, Gender and the Roman Law of Obligations, in Obligations in Roman Law: Past, Present and Future, a cura di T. MCGINN, Ann Arbour, 2013, 228 ss.; V. hALBWAChS, Women, cit., 451; M. CASOLA, Armatrici, cit., 10 s.; R. ORTU, Condizione giuridica e ruolo sociale delle Vestali in età imperiale, Ortacesus, 2018, 91 ss.; ID., Dominae navium: il caso della Vestale Massima Flavia Publicia, in Liber Amicorum per Sebastiano Tafaro. I. L’uomo, la persona e il diritto, a cura di A.F. URICChIO, M. CASOLA, Bari, 2019, 531 s. Poi ancora, da ultimo, A. PETRUCCI, Organizzazione, cit., 169 s. Sulla compatibilità di questa disciplina con il veto imposto dal SC Velleiano (46 d.C.) alle donne di intercedere pro aliis, cioè di obbligarsi per conto di un terzo o d’assumere obbligazioni di garanzia personale: cfr. ibidem, 172, ntt. 62-63 e, in precedenza, ID., Spunti, cit., 541; ID., Note, cit., 32, nonché A. WACKE, Die adjektizischen Klagen, cit., 320; più diffusamente, N. BENKE, Ibidem; ma cfr. ancora: V. hALBWAChS, ibidem e B. SIRKS, Law, Commerce, and Finance in the Roman Empire, in Trade, Commerce, and the State in the Roman World, a cura di A. WILSON, A.K. BOWMAN, Oxford, 2018, 89.

Che, dopotutto, la donna sottoposta a potestà potesse preporsi con i medesimi esiti giuridici ed economici di un uomo risulta, in ogni caso, già per l’epoca di Gaio, da Gai. 9 ad ed. prov. D. 14.3.8: nam et plerique pueros puellasque tabernis praeponunt (sul quale qui rinvio a G. MINAUD, Les gens de commerce et le droit à Rome. Essai d’histoire économique sur la pensée comptable commerciale et privée dans le monde antique romain, Aix-en-Provence, 2011, 216 ss.)

32 Specularità che qui implica una semplice identità di regime e non una dissensio circa l’anteriorità-posteriorità di uno dei due rimedi processuali: G. COPPOLA BISAzzA, Dallo iussum domini alla contemplatio domini: contributo allo studio della storia della rappresentanza, Milano, 2008, 335.

33 A. PETRUCCI, Spunti, cit., 540 s.; lo stesso autore ora in ID., Organizzazione, cit., 170, nt. 56; ma anche si vedano C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 184;

G. MINAUD, Les gens, cit., 217 s.; M. CASOLA, Armatrici, cit., 15; V. hALBWAChS, Women, cit., 451, nt. 42; B. SIRKS, Law, cit., 89; R. ORTU, La Vestale Massima Flavia Publicia: un’imprenditrice nell’antica Roma?, in Archivio Storico Giuridico Sardo, 2018, 23, 174 ss. e ID., Dominae navium, cit., 530; sulle possibili conferme epigrafiche di questa circostanza: L. DE SALVO, Economia privata e pubblici servizi nell’impero romano. I corpora naviculariorum, Messina, 1992, 307, 441 ss.; R. ORTU, Condizione, cit., 72 ss., 95 ss.; ID., La Vestale, cit., 169 ss. e ID., Dominae navium, cit., 532 ss., sull’imprenditoria femminile terrestre: V. CASTIGLIONE MORELLI, Sulle tracce di un’imprenditoria femminile a Pompei e nel Vesuviano, in The Material Sides of the Marriage. Women and Domestic Economies in Antiquity, a cura di R. BERG, Roma, 2016, 213 ss. e R. CIARDIELLO, Donne imprenditrici a Pompei. Eumachia e Giulia Felice, in ibidem, 223 ss.

34 Per tutti basti il rinvio alla sintetica e puntuale esposizione contenuta in

P. CERAMI, Introduzione, cit., 58 s.; in ogni caso, in argomento anche: A. WACKE,

Die adjektizischen Klagen, cit., 299 ss.; M. MICELI, Sulla struttura formulare delle

‘actiones adiecticiae qualitatis’, Torino, 2001, 211 s.; G. COPPOLA BISAzzA, Ancora una parola sull’exercitor, in IURA, 2003 (2006), 54, 130 ss.; A. PETRUCCI, Per una storia, cit., 57 s., nt. 8; P.J. DU PLESSIS, Letting and Hiring in Roman Legal Thought: 27 BCE-284 CE, Leiden-Boston, 2012, 85, nt. 112; M.A. LIGIOS, Nomen negotiationis. Profili di continuità e di autonomia della negotiatio nell’esperienza giuridica romana, Torino, 2013, 58, nt. 104 e M. CASOLA, Armatrici, cit., 8.

35 Cfr. C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 183 s.; M. CASOLA, Armatrici, cit., 8 ss.; V. hALBWAChS, Women, cit., 450 s.; N. BENKE, Gender, cit., 230, nt. 81; da ultimo, in tal senso, sostanzialmente anche A. PETRUCCI, Note, cit., 32 e ID., Organizzazione, cit., 170.

36 Sulla peculiare responsabilità patrimoniale in solidum dell’avente potestà, che abbia voluto che il sottoposto esercitasse l’impresa di navigazione attraverso il proprio peculio, nonostante qui non sia oggetto di specifica attenzione, è possibile rinviare ad un’amplissima bibliografia, che ha come suoi cardini essenziali:

A. DI PORTO, Impresa collettiva e schiavo ‘manager’ in Roma antica (II secolo a.C. II secolo d.C.), Milano, 1984, 227 ss.; A. PETRUCCI, Mensam exercere. Studi sull’impresa finanziaria romana (II secolo a.C. metà del III secolo d.C.), Napoli, 1991, 351 ss.; A. FÖLDI, La responsabilità dell’avente potestà per atti compiuti dall’exercitor suo sottoposto, in SDHI, 64, 1998, 182 ss.; M. MICELI, Sulla struttura, cit., 212 s., nt. 57; A. PETRUCCI, Particolari aspetti giuridici dell’organizzazione e delle attività delle imprese di navigazione, in P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano3, cit., 237 ss.; ID., Idee ‘vecchie’ e ‘nuove’ sulle attività imprenditoriali gestite all’interno di un peculio, in BIDR, 2012, 106, 314 ss.; A. MAzzOLENI, Profili di responsabilità nell’esercizio di un’impresa di navigazione in Roma antica. Alcune considerazioni in merito a D. 14.1.1.19-20 e D. 14.1.6 pr., in TSDP, 2019, XII, 12 ss. e, da ultimo, ancora A. PETRUCCI, Organizzazione, cit., 34 ss.

37 A. PETRUCCI, Spunti, cit., 540; ID., Note, cit., 35, nt. 43 e ID., Organizzazione, cit., 170, nt. 56.

38 Sul passo, T.J. ChIUSI, Die actio de in rem verso im römischen Recht, München, 2001, 34 s.; C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 185 s.; B.W. FRIER, T.A. MCGINN, A Casebook on Roman Family Law, Oxford, 2004, 271 (Case 128); G. MINAUD, Les gens, cit., 216 ss.; M.J. PERRY, Gender, Manumission, and the Roman Freedwoman, Cambridge, 2014, 47 s.; E. EJANKOWSKA, The legal regulation of business activity of filiae familias in the principate period, in ZESZYT, 2019, 108, 56; A. PETRUCCI, Note, cit., 35, nt. 43 e ID., Organizzazione, cit., 170, nt. 56.

39 F. CENERINI, La donna, cit., 11 ss., 22 ss.; E. CANTARELLA, L’ambiguo malanno, cit., 198 s.; C. ALFARO GINER, La mujer y el trabajo en la Hispania prerromana y romana. Actividades domésticas y profesionales, in El trabajo de las mujeres en España (desde la Antigüedad al siglo XX). Mélanges de la Casa de Velázquez, 2010, 40.2, 15 ss.; L. LARSSON LOVéN, Female Work and Identity in Roman Textile Production and Trade: A Methodological Discussion, in Making Textiles in Pre-Roman and Roman Times. People, Places Identities, a cura di M. GLEBA, J. PÁSzTOKAI-SzEÓKE, Oxford, 2013, 109 ss. e M.J. PERRY, Gender, cit., 47.

40 Sul passo, C. LÁzARO GUILLAMÓN, Mujer, cit., 185 s.; R. ORTU, La Vestale, cit., 176; ID., Dominae navium, cit., 532; E. EJANKOWSKA, The legal regulation, cit., 55;

A.PETRUCCI, Note, cit., 35 e ID., Organizzazione, cit., 171 s.

41 Per un quadro delle problematiche sottese al passo, più volte vi si è soffermato: A. PETRUCCI, Mensam exercere, cit., 323 ss.; ID., Note, cit., 34 e ID., Organizzazione, cit., 173. A riguardo delle implicazioni del passo sulla trattazione della generale tematica dei virilia officia: B.W. FRIER, T.A. MCGINN, A Casebook, cit., 461

s. (Case 231) e F. MERCOGLIANO, La condizione, cit., 27 ss.

42 G. MINAUD, Les gens, cit., 206 e, sostanzialmente, anche N. BENKE, Gender, cit., 226 s.

43 Seppure è vero, infatti, che, come segnala A. PETRUCCI, Profili giuridici delle attività e dell’organizzazione delle banche romane, Torino, 2002, 122 s., nt. 30;

ID., L’impresa bancaria: attività, modelli organizzativi, funzionamento e cessazione, in

P. CERAMI, A. PETRUCCI, Diritto commerciale romano3, cit., 114 s. e ID., Particolari aspetti, cit., 230 s., la rispondenza ad un interesse pubblico è comune a banche e imprese di navigazione, in base alle concordi attestazioni contenute nelle nostre fonti, è pure anche ragionevole supporre, con N. BENKE, Gender, cit., 226, che, all’atto pratico, i Romani ben si fossero resi conto che una banca florida avrebbe esercitato una funzione, un controllo, una pressione sociale ben diversa dall’influenza esercitabile attraverso la conduzione di un exercitio navis. Per questo, sebbene donne potessero concludere da sole attività finanziarie di prestito marittimo, non potevano, al contrario, esercitare la professione di argentarius (cfr. ibidem, 227 s., nt. 64).

44 E, in tal senso, si legga, tra le righe, l’auspicio di A. PETRUCCI, Note, cit., 35 s.; ID., Impresa e responsabilità, cit., 171 e ID., Organizzazione, cit., 173 s., ad una più stretta collaborazione tra giuristi e studiosi delle discipline antichistiche nello studio della tematica.

45 Mi pare anche in questo campo doversi infatti tenere conto delle annotazioni di J. CROOK, Patria potestas, cit., 114: i Romani nel campo del diritto spinsero le proprie deduzioni al limite della logica in nome della più rigorosa coerenza; così come la mostruosa abnormità dei poteri del pater non deve essersi, in realtà, nella pratica, quasi mai manifestata nella sua interezza per effetto del temperamento sociale di quelle prerogative, così anche l’evoluzione della condizione della donna non può essere rigidamente ricostruita, né nei suoi picchi più bassi, né in quelli più alti, dall’analisi delle sole fonti giuridiche.