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Il nuovo processo familiare e minorile nella legge delega sulla riforma del processo civile

autore: C. Cecchella

SOMMARIO: 1. Premessa storica alla riforma. - 2. L’ambito di applicabilità del processo unitario e il timido intervento sulle regole relative alla com- petenza. - 3. Il processo su situazioni indisponibili. - 4. L’adozione di un modello a preclusioni concentrate nelle controversie su diritti disponibili e le riaperture per esigenze di contraddittorio e per “nuovi accertamenti istruttori”. - 5. Il principio di auto-responsabilità della parte. - 6. Le misure provvisorie e la loro impugnazione. - 7. La domanda riconvenzionale di divorzio nel procedimento per separazione. - 8. Il procedimento in senso stretto, il duplice modello di sviluppo. - 9. Gli ausiliari del giudice. - 10. Il curatore speciale del minore. - 11. L’appello. - 12. L’attuazione delle misure. - 13. L’art. 403 c.c. e le misure in tema di affidamento familiare. - 14. Critica all’Emendamento 15.o.8/2: grave attentato alle garanzie processuali. - 15. Il sollievo della mancata approvazione dell’Emendamento 15.o.8/2: le soluzioni nel testo della legge delega.



1. Premessa storica alla riforma



Mentre era in discussione innanzi alla Commissione giustizia il disegno di legge S1662, di iniziativa governativa, sotto impulso del Ministro della giustizia del primo Governo Conte, che ha avviato la legislatura in corso, per iniziativa della nuova Ministra Cartabia, Guardasigilli nella compagine del Governo Draghi, all’esito del conferimento di un incarico ad una Commissione ministeriale, composta da docenti universitari e magistrati, presieduta dal Prof. Francesco P. Luiso, è stato presentato al Senato un Emendamento governativo al disegno di legge, che lo modifica sensibilmente. L’Emendamento contiene, tra l’altro, un insieme di principi direttivi che avviano un’importante riforma delle controversie sulle relazioni familiari e sui minori.

Si tratta degli emendamenti 23 e 24.

Il testo è stato poi oggetto di dibattito in Commissione giustizia del Senato, che ha apportato significative modifiche nel testo poi approvato il 21 settembre 2021 in Aula e confermato in data 24 novembre 2021 dalla Camera che ha approvato definitivamente la legge delega.

I principi direttivi riguardavano, nel testo governativo, esclusivamente il rito che si celebra innanzi al tribunale ordinario e al tribunale per i minorenni, unificando la pluralità di regole, spesso non coordinate tra loro e comunque prive di un disegno unitario e razionale, che caratterizzano l’attuale disciplina.

Il futuro legislatore osa, dunque, dove il legislatore repubblicano non aveva mai osato, se non attraverso interventi sporadici e settoriali nel tempo.

L’ordinamento processuale offre, infatti, alle controversie familiari e minorili un assetto normativo che complessivamente risale al ventennio, solo che si pensi, sotto il profilo dell’ordinamento giudiziario e del rito applicabile, che la disciplina sul tribunale per i minorenni risale al 1934 e che i procedimenti di separazione e divorzio sono ispirati ad un modello che risale al procedimento di separazione per colpa introdotto nel codice civile del 1942 e regolato, sul piano strettamente processuale, nel codice di procedura civile del 1940.

Dal ventennio non era seguito alcun intervento legislativo di ampio respiro, che sistemasse unitariamente e razionalmente, sia le regole ordinamentali, che affidano la materia a due organi differenti, sia le regole processuali, che affidano, in alcuni casi, le controversie al rito camerale, in altri casi al rito ordinario, in altri ancora al rito ordinario nella fase di merito, preceduta da una fase sommaria necessaria innanzi al Presidente del tribunale, con, infine, la necessità, rispetto ad alcune fattispecie (rapporti di lavoro tra coniuge o conviventi), di svolgere la domanda processuale nelle forme del rito del lavoro.

Tutto ciò a fronte, invece, di una vorticosa dinamica della disciplina di diritto sostanziale: basti pensare alla legge sullo scioglimento del matrimonio del 1970, alla riforma del diritto di famiglia del 1975, alla riforma del c.d. affido condiviso del 2006, alla riforma delle unioni civili e delle convivenze del 2016 e, infine, alla riforma della filiazione degli anni 2012 e 2013. Il legislatore ha, infatti, riconosciuto e disciplinato diritti personalissimi nella titolarità del minore e del coniuge personalmente ed economicamente debole, ha introdotto una legislazione contro la violenza e la limitazione delle libertà personali nella convivenza, ha esteso la materia a rapporti diversi da quelli fondati in via esclusiva sul matrimonio, attraverso interventi di grande rilievo che non potevano più essere assicurati, sul piano giurisdizionale, attraverso le forme del processo introdotte nel ventennio.

La scelta dell’Emendamento, a fronte dell’urgenza imposta dall’Europa per consentire all’Italia di beneficiare degli aiuti per il superamento della crisi epidemica, è stata quella di astenersi

– salvo la novellazione di parte dell’art. 38 disp. att. c.c. – dai profili ordinamentali, per dedicare l’intervento esclusivamente ai profili di carattere processuale in senso stretto. Il testo definitivo approvato dal Parlamento ha, invece, osato dove l’Emendamento è stato cauto, introducendo un’altrettanto epocale modifica ordinamentale, e istituendo il Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, nel quale si ricompone l’attuale dicotomia tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario. La riforma assumerà, così, caratteri processuali ma anche ordinamentali, rispondendo ad una sistemazione, attesa dal 1948, quando l’eredità del ventennio, ben presto, aveva manifestato di non conciliarsi con i principi del testo costituzionale e con le garanzie del diritto di azione, del diritto di difesa, del diritto alla prova, del diritto ad un giusto processo, soprattutto nell’esperienza camerale del rito innanzi al tribunale per i minorenni. Quest’ultimo, privo di un rito legislativamente regolato, abbandonato alla libertà di giudici laici, troppo spesso delegati alla conduzione del processo, risentiva di un modello di volontaria giurisdizione destinata a regolare interessi, dove il giudice doveva sostituire il pater familias, nella sua incapacità di gestire la crisi, collocato in una posizione gerarchica dove gli altri membri, il coniuge e i figli, erano privi di diritti tutelabili in sede giurisdizionale. Ben presto l’evoluzione della legge sul piano sostanziale ha superato quel modello, abrogando la supremazia di un componente sugli altri e ponendo veri e propri diritti in capo ai componenti della famiglia, da tutelare con tutte le garanzie giurisdizionali.

L’impostazione iniziale dell’Emendamento risente del dibattito estremo, espresso, in modo particolare, nelle diverse posizioni dei Giudici minorili rispetto a quelle dell’Avvocatura impegnata sul fronte della materia familiare e minorile, intorno alla introduzione di un giudice unico specializzato della famiglia. Da un lato gli avvocati, ispirati ad un’idea cui aderisce la dottrina processual-civilistica, favorevoli ad un giudice unico, che superasse la dicotomia tra il tribunale per i minorenni e il tribunale ordinario, in una composizione esclusivamente togata, giudice specializzato, come specializzata pure la classe forense; dall’altro i giudici minorili, favorevoli ad un modello non dissimile dall’attuale tribunale per i minorenni confermativo della sua composizione mista, togata e laica, pur nel contesto della comune visione di una specializzazione dei giudici e degli avvocati1.

Negli anni 2016 e 2017, in occasione di una prolifica stagione, nella quale la dicotomia delle posizioni sembrava ricomporsi attraverso un dibattito, condotto e stimolato dal Consiglio Nazionale Forense, su iniziativa della consigliera allora responsabile della materia familiare, oggi Presidente dello stesso Consiglio, Avv. Maria Masi, con intervento di rappresentanti della Anm e della Aimmf, che riuniscono i magistrati minorili, e delle principali associazioni specialistiche forensi riconosciute dallo stesso C.n.f., quali l’Aiaf, Cammino, l’Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia e l’Unione Camere Minorili, era stato ipotizzato il modello del giudice di sorveglianza, giudice dell’esecuzione penale, nella sua composizione monocratica circondariale e collegiale a livello distrettuale, piuttosto che adottare il modello, prevalentemente suggerito dagli avvocati, del tribunale ordinario, sezione specializzata famiglia e minori, oppure un modello di giudice specializzato sulle orme del tribunale per i minorenni, privilegiato dai magistrati minorili.

Tuttavia, la base sostanzialmente unitaria della discussione non confluì in un modello condiviso da tutti, essendo, in particolare, motivo di divisione la discussione sulla dirigenza del tribunale della famiglia e minorile.

Ciononostante, la Relatrice al disegno di legge delega in discussione già a quell’epoca presso il Senato2, Senatrice Filippin, fece proprio il testo elaborato nel dibattito presso il C.n.f. nella direzione di chi aveva tentato una soluzione unitaria3, senza esito, per il rapido esaurirsi della legislatura, alla fine dell’anno 20174.

La timidezza dell’Emendamento sugli aspetti ordinamentali è stata superata dal Senato (per cui dire che il Parlamento non abbia, nel frangente, svolto un ruolo decisivo è errato), che ha voluto legiferare anche sul Tribunale unico, seguendo un modello non molto differente da quello che era stato suggerito nella stagione degli anni 2016 e 2017, con un giudice monocratico circondariale e un giudice collegiale distrettuale (ma i profili ordinamentali sfuggono al tema affidato al presente scritto, che resta quello del processo in senso stretto).

Oggi la scelta, dopo l’approvazione anche alla Camera, è legge dello Stato.



2. L’ambito di applicabilità del processo unitario e il timido intervento sulle regole relative alla competenza



Come già si è evidenziato, la novità più significativa, e da salutare positivamente, è la riconduzione ad unità delle regole processuali applicabili alla materia, a fronte della attuale diaspora dei riti, che caratterizza il processo a tutela dei diritti della persona, anche nelle relazioni familiari, e dei minori, attraverso l’introduzione nel secondo libro del codice di procedura civile (e non più nel quarto libro, trattandosi di un processo di merito a cognizione piena e non di un processo speciale a cognizione sommaria di rito camerale) di un titolo V, dedicato alle “norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie”, ricomprendente la vasta materia degli status, delle controversie nascenti dalla pluralità di relazioni familiari (donde l’uso del plurale “famiglie”) e delle controversie minorili in senso stretto, oggi regolate variamente con il rito camerale, ordinario o speciale, della separazione e del divorzio (art. 1, comma 23).

Il principio direttivo esclude espressamente i procedimenti sullo stato di adottabilità e di adozione, nonché i procedimenti regolati dalla legge sull’immigrazione (legge n. 46 del 2017), che restano regolati dalle leggi speciali vigenti.

Per quanto si è detto nel par. 1, resta – sino a quando, ai sensi dell’art. 1, comma 24, non entrerà in vigore la riforma del Tribunale delle persone, dei minori e delle famiglia, con una vacatio biennale, lett cc) – la ripartizione delle competenze tra il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni (salvo un intervento, tutt’altro che “in punta dei piedi”5, sull’art. 38 disp. att. c.c. di cui si dirà), con la particolarità che il primo organo dovrà avere, come ha tutt’oggi, una composizione collegiale. Ovviamente, il secondo pure collegiale, in composizione mista togata e laica, con la precisazione che le fasi decisorie incidentali del processo potranno essere delegate solo a giudici togati, essendo delegabili ai giudici onorari solo “specifici adempimenti”. La soluzione originaria dell’Emendamento era assai ambigua; non sarebbe stata delegabile certamente l’attività decisoria, anche nell’ambito dei provvedimenti provvisori ed urgenti, ma auspicabilmente neppure l’attività istruttoria in senso stretto, sia nella fase ammissiva, sia nella fase di assunzione vera e propria: la formulazione lasciava spazio, quindi, ad un intervento coerente in sede di articolati contenuti nei decreti delegati. Il testo del Senato risolve, escludendo dalla delega l’ascolto e l’assunzione delle prove testimoniali (lett. c).

La competenza dei due organi resta, quindi, regolata dall’art. 38 disp. att. c.c., che definisce le controversie civili affidate al tribunale per i minorenni, limitate ai procedimenti sulla responsabilità genitoriale (artt. 330 e ss., c.c.), e le controversie sui rapporti dei minori con gli ascendenti (riproducendo nell’art. 38 cit. il richiamo all’art. 317-bis, u.c., c.c.). Ogni altra controversia sui diritti nella titolarità dei minori o nascenti dalle relazioni familiari (fondate sul matrimonio, sulla convivenza oppure sull’unione civile) è affidata al tribunale ordinario.

La novità è invece offerta alla regolamentazione della attrazione, verso il tribunale ordinario, delle controversie connesse che, nella formulazione originaria dell’art. 38 cit., nonostante una lettura letterale della norma che poteva deporre già in tale direzione6, erano state ricondotte, dalla giurisprudenza7, all’istituto della perpetuatio iurisditionis, con una competenza attrattiva solo nel caso di previa instaurazione del procedimento innanzi al tribunale ordinario. Il comma 28 del testo senatoriale, risolve ulteriori dubbi interpretativi, sempre conseguenti all’art. 38 cit. nell’attuale formulazione, che limitavano una competenza attrattiva solo a procedimenti relativi all’art. 333 c.c., e non per quelli relativi alle altre disposizioni sulla responsabilità genitoriale.

Con la diversa formulazione suggerita, si sradica la competenza attrattiva dal criterio della prevenzione nella instaurazione della causa e dalla litispendenza: l’attrazione diventa possibile anche in caso di instaurazione successiva tra le stesse parti del giudizio di separazione o di scioglimento degli effetti civili del matrimonio, oppure degli altri giudizi connessi, esplicitamente indicati, con formulazione ampia della legge delega: richiamo agli artt. 250, 4° comma (riconoscimento dei figli), 268 (provvedimenti provvisori in pendenza del giudizio di riconoscimento), 277, 2° comma (provvedimenti relativi all’affidamento, al mantenimento, all’istruzione e all’educazione del figlio riconosciuto in sentenza), 316 (contrasti su questioni relative all’esercizio della responsabilità genitoriale), 710 c.p.c. e 9 legge n. 898 del 1970 (revoca e modifica delle sentenze passate in giudicato).

L’attrazione si produce sull’intera materia della responsabilità genitoriale (artt. 330 e ss., c.c. e non solo 333 c.c.)8 per evitare il grave, serio e concreto pericolo di un contrasto di giudicati sulle misure, anche provvisorie, dettate nella controversia sulla responsabilità genitoriale innanzi al tribunale per i minorenni e le corrispondenti misure dettate in sede di separazione e divorzio e controversie analoghe. Resta solo il potere del tribunale minorile di dettare gli “opportuni provvedimenti temporanei ed urgenti” che, tuttavia, il tribunale ordinario potrebbe modificare e revocare.

Si intende, in tal modo, ricondurre l’istituto non alle deroghe sulla competenza per ragioni di connessione, bensì alla coerenza dei giudicati, essendovi spesso coincidenza di oggetto tra i procedimenti giurisdizionali dinanzi al tribunale per i minorenni e gli analoghi procedimenti innanzi al tribunale ordinario, per gli aspetti personali riguardanti i diritti dei minori.

La concessione sembra, tuttavia, pagare “lo scotto” di una competenza attrattiva contraria, in relazione ai procedimenti ex art. 709-ter, c.p.c. (ancora comma 28), fissando una sorta di competenza generale del tribunale per i minorenni come giudice dell’esecuzione (non si deve dimenticare che l’art. 709-ter cit. non contiene soltanto la disciplina delle misure coercitive, ma contiene altresì una regola sulla competenza del giudice dell’esecuzione, fatto coincidere con il giudice del merito e una regola sulle forme della attuazione delle misure lasciate alle modalità dell’esecuzione in via breve determinate discrezionalmente dal giudice del merito).

Ma questa non può essere l’interpretazione da offrire alla previsione: “nei casi in cui è già pendente o viene instaurato autonomo procedimento previsto dall’art. 709-ter del codice di procedura civile davanti al tribunale ordinario, quest’ultimo, d’ufficio o a richiesta di parte… trasmette gli atti al tribunale per i minorenni”.

L’aspetto più critico di una interpretazione letterale sta nella violazione del principio sulla identificazione del giudice del merito con il giudice dell’esecuzione, in deroga ai principi e alle regole del libro terzo del codice di rito sulla esecuzione ordinaria, ove le competenze sono rigorosamente separate, in quanto la specialità della materia familiare rende necessario un continuo confronto, in caso di incidente di esecuzione, con le scelte compiute sul merito e una interazione tra merito ed esecuzione che solo il giudice innanzi al quale pende la controversia di merito è in grado di condurre (non è casuale che l’art. 709-ter cit. consenta al giudice adito con il mezzo di “modificare i provvedimenti in vigore”).

La scelta processuale muove dal previgente testo dell’art. 6, 10° comma della legge n. 898/1970 (dovuto alla legge n. 74/1987) e oggi è tradotto, non solo nell’art. 709-ter cit., ma anche nell’art. 337-ter, 2° comma: “all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il giudice del merito e, nel caso di affidamento familiare, anche d’ufficio”, dovuto al d.lgs. n. 154/2013).

La scelta è in contrasto con un’opzione del legislatore, ormai radicata nel sistema, che rischia di eludere le esigenze di tutela giurisdizionale differenziata che devono caratterizzare la materia familiare e minorile.

Peraltro, lo stesso principio si trova invece dettato nel comma 23 lett. ff), dove il testo, nel trattare il tema dei servizi, lascia impregiudicata una competenza del tribunale ordinario in sede esecutiva, senza optare per una competenza esclusiva del tribunale per i minorenni.

Si deve allora pensare che la competenza sui provvedimenti di cui all’art. 709-ter spetti al tribunale per i minorenni solo in relazione ai procedimenti sulla responsabilità genitoriale, di cui è competente per il merito, e solo in tal caso, se l’istanza dell’art. 709-ter è rivolta erroneamente al tribunale ordinario, quest’ultimo deve rimettere gli atti al tribunale per i minori. In tal modo non si nega il principio sulla coincidenza del giudice dell’esecuzione con il giudice del merito.

Infine, sempre sul piano della competenza, si delega l’esecutivo al riordino dei criteri di competenza territoriale, prevedendo, con una norma di portata generale (e non, come oggi, limitata all’art. 709-ter c.p.c.), il criterio della residenza abituale del minore, sulla quale il testo del Senato specifica che “residenza abituale” non deve intendersi quella dovuta al trasferimento illecito e abusivo da parte di uno dei genitori, neppure per suo consolidamento nel tempo.



3. Il processo su situazioni indisponibili



La legge delega ha anzitutto il merito di cogliere, come risultato di un diritto vivente offerto dalla giurisprudenza del giudice di legittimità, una fondamentale distinzione, sinora ignorata dal legislatore (salvo le norme sull’intervento necessario del

p.m. ai sensi dell’art. 70, nn. 2) e 3) c.p.c.), tra un processo che ha ad oggetto diritti indisponibili, per lo più coincidente con i diritti nella titolarità del figlio minore, ed un processo su situazioni disponibili, per lo più riferite a diritti di natura economica concernenti il mantenimento del coniuge, o del partner dell’unione civile, e l’assegno divorzile (e, forse, anche il mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente). Come la giurisprudenza ha evidenziato nella materia dei diritti minorili, il processo deve uscire dalle forme dispositive, radicate sul principio della domanda e sull’onere dell’allegazione dei fatti rigorosamente riservati alla parte, per adeguarsi ad un processo nel quale le tutele, se non sollecitate dal p.m. o dalle parti private, possono essere pronunciate anche d’ufficio con il potere del giudice, seppure attraverso mezzi istruttori particolari come la consulenza o le indagini di polizia tributaria, di ricercare il fatto rilevante privo di allegazione ad

iniziativa della parte.

Il riferimento ad un processo su situazioni indisponibili emerge nel comma 23, lett. f, h, i, ed r) che esclude l’applicabilità di un regime di decadenze e preclusioni alle domande aventi ad oggetto diritti indisponibili (principio offerto in relazione alla domanda dell’attore, ma ugualmente alla lettera

h) in relazione alle difese del convenuto), ammettendosi, nel corso del processo, domande nuove nell’ipotesi di azioni relative all’affidamento e al mantenimento dei minori (lett. i), e l’adozione, anche d’ufficio, dei provvedimenti temporanei ed urgenti nell’interesse dei minori (lett. i) e r)) e, nel comma 28, la pronuncia d’ufficio dei provvedimenti di cui agli artt. 614bis e 709-ter del codice di procedura civile.

Ne scaturisce un modello processuale (ben noto nella pratica delle aule giudiziari, ma ignorato sinora dal legislatore) che, per la strumentalità necessaria alla tutela di diritti indisponibili facenti capo al minore, deroga al principio della domanda e dell’onere dell’allegazione di fatti ad iniziativa delle parti. Conseguentemente, per l’inteso impulso officioso regolato, il processo viene privato di un modello ispirato a preclusioni e decadenze e nel quale è imposta la nomina di un curatore speciale del minore, quale difensore tecnico del medesimo.

Elemento invece comune al processo su situazioni disponibili, tale quindi da non contraddistinguere il diverso modello processuale su situazioni indisponibili, è l’accentuazione dei poteri di iniziativa probatoria del giudice. Il principio risulta dalla lettera t) del comma 23, ove l’accentuazione dei poteri istruttori viene stabilito non solo a tutela dei minori, nonché delle vittime di violenze, ma anche nelle indagini patrimoniali, quindi nella materia disponibile.

È noto, infatti, come l’accentuazione dei poteri istruttori non involge i principi del processo dispositivo e può essere originata da esigenze differenti9, che nulla hanno a che vedere con la natura disponibile o indisponibile del diritto tutelato in sede giurisdizionale. Il profilo emerge in modo evidente nelle controversie di lavoro, dopo la legge n. 533 del 1973, che ha novellato l’art. 421, 2° comma, c.p.c., nel successivo richiamo nella materia delle locazioni e dei contratti assimilabili, contenuto nell’art. 447-bis c.p.c., e infine, in varie norme sparse del codice civile per la materia familiare.

Esso appare probabilmente generato dalla necessità di accentuare i principi di collaborazione del giudice con le parti quando i diritti disponibili, oggetto della tutela giurisdizionale, come nel caso del diritto del lavoro, del diritto delle locazioni e, appunto, del diritto di famiglia, sono comunque disciplinati da norme inderogabili ed imperative di ordine pubblico, che pongono dei limiti minimi di tutela imposti dalla legge e a cui il giudice deve conformare il suo giudizio10.

Il potere istruttorio non sempre è stato esercitato dal giudice, che manifesta remore ad iniziative officiose, preferendo essere sollecitato dalle istanze delle parti, ma soprattutto pone il dilemma, ancora irrisolto, del rapporto tra l’iniziativa probatoria d’ufficio e le preclusioni e decadenze in cui sono incorse le parti, che, a parere di chi scrive, non può risolversi nel senso di un’impossibilità di esercizio del potere istruttorio del giudice quando vi è decadenza della parte, poiché in tal modo si priva il giudice di un potere che è sempre svincolato dai limiti temporali nel suo esercizio, salvo ovviamente il contraddittorio.

Di un certo interesse l’accentuazione, voluta nei principi direttivi, della regola del contraddittorio, particolarmente nello svolgimento dell’iniziativa officiosa. Lo esprime all’evidenza il comma 23, lett. t), ove nel caso di adozione di provvedimenti d’ufficio a tutela dei minori, è espressamente salvaguardato il contraddittorio tra le parti “a pena di nullità del provvedimento”. Deve essere sottolineato questo principio, peraltro già chiaro nella disposizione dell’art. 101, 2° comma, c.p.c., per le questioni rilevate d’ufficio, che il legislatore ha ritenuto egualmente di disciplinare espressamente: una qualsiasi iniziativa officiosa, in ordine a domande, allegazioni o prove, deve svolgersi in forme idonee all’esercizio del contraddittorio delle parti del processo, con conseguenti riaperture delle loro difese.



4. L’adozione di un modello a preclusioni concentrate nelle controversie su diritti disponibili e le riaperture per esigenze di contraddittorio e per “nuovi accertamenti istruttori”



La diversa opzione proposta, invece, per il processo su situazioni disponibili conduce – per una scelta di carattere generale e generalmente molto discutibile11, ma attenuata nella lettura del Senato12 – ad un rito che, senza richiamare esplicitamente il processo sulle controversie di lavoro, in realtà ne adotta il modello: preclusioni immediate, per ogni aspetto difensivo, dalle domande, alle allegazioni fattuali e alle prove, coincidenti con gli atti introduttivi – ricorso e comparsa – che devono contenere ogni difesa di parte.

Si deroga in tal modo ad un regime di piena liberalità sui tempi di espressione delle difese nel rito camerale e, per quanto attiene al rito della separazione e divorzio o al rito ordinario, in toto applicabili oggi, a un regime di preclusioni e decadenze graduate, essendo limitate quelle relative a domande ed allegazioni sulla formazione del thema decidendum e del thema probandum, in coincidenza con gli atti introduttivi (o con le memorie dell’art. 709 c.p.c.), e la previsione di decadenze in ordine alle prove, solo a seguito del pieno svolgimento del contraddittorio in udienza (artt. 163, 167 e 183, 5° e 6° comma, c.p.c.).

Non si vuole discutere sulla possibilità di introdurre un sistema di preclusione anche nelle controversie familiari sui diritti disponibili, ma si discute sulla bontà di un modello che concentra in assoluto le preclusioni alle difese nella fase introduttiva del processo.

Vi sono ragioni di carattere generale a rendere quel modello non auspicabile, come anche ragioni legate alla particolarità della materia familiare.

Delle prime è certamente rilevante l’adozione generalizzata (e irrazionale) del principio di eventualità, poiché non ha senso, sul piano tecnico, imporre alle parti gli oneri di svolgimento della iniziativa probatoria prima di avere, con il contraddittorio perfezionato sulle domande e sulle allegazioni dei fatti, individuato l’effettivo thema probandum coincidente con i fatti specificamente contestati, ai sensi dell’art. 115 c.p.c.

Ma vi sono anche ragioni legate alla materia.

Non si dimentichi che i diritti, ancorché disponibili, disciplinati nella materia familiare, sono soggetti a norme imperative e di ordine pubblico che pongono delle tutele minime sulle quali deve adeguarsi il giudizio finale: la regola concreta di comportamento che coincide con il giudicato.

Ora è noto come un modo tutt’altro che celato di provocare una disapplicazione della norma imperativa e inderogabile è quello di alterare le fattispecie concreta dedotta in causa.

Peraltro, vi è da dire altresì – anche alla luce della incontenibile variazione degli orientamenti della giurisprudenza (solo che si pensi ai nuovi indirizzi sull’assegno divorzile13 o sul contributo di mantenimento del figlio maggiorenne14), con i continui richiami ai principi del processo dispositivo da parte del giudice di legittimità – che il compito del difensore, nella corretta allegazione dei fatti, talvolta è particolarmente arduo, cosa che rende auspicabile un certo respiro ed una progressività delle preclusioni, che invece il principio direttivo nega (cfr. comma 23, lett. f) ed h). Non è casuale che la stessa giurisprudenza di legittimità nel giudizio di rinvio che fa seguito al nuovo principio di diritto pronunciato dalla S.C., riapra esplicitamente i termini difensivi per le parti nella fase rescissoria successiva alla cassazione della sentenza15.

Infine, non è mai auspicabile nella materia familiare che le parti enuncino tutte le domande in limine litis, allo scopo di non sfavorire, per la inevitabile conflittualità suscitata dalla espressione di tutte le pretese, una prospettiva conciliativa, oltretutto di necessario tentativo in prima udienza.

Deve dirsi, tuttavia, che la legge delega apre alla prospettiva di nuove difese nel corso del processo e ciò non solo nell’ambito, già visto nel par. che precede, del processo su situazioni indisponibili, dove sostanzialmente non vi sono preclusioni. Secondo la lett. i) si consente in udienza al ricorrente una totale riapertura delle difese a fronte delle domande riconvenzionali e delle allegazioni compiute dal convenuto (ed ovviamente anche delle prove che questi ha formulato in comparsa). La riapertura è pure contemplata ovviamente nell’ipotesi di fatti sopravvenuti (profilo di diffusa verificazione nell’ambito delle controversie familiari e minorili), non resistendo ai fatti sopravvenuti neppure il giudicato, che copre solo il deducibile.

Ma l’aspetto più problematico ed emblematico di una intensa elasticità del modello preclusivo, è costituito dalle nuove difese, non solo in ordine a prove ed allegazioni, ma anche a domande, previste in caso di “nuovi accertamenti istruttori”. Si tratta di una riapertura assolutamente nuova ed originale che auspicabilmente, attraverso un’applicazione diffusa da parte della giurisprudenza, potrà concretamente ovviare alla severità dei limiti preclusivi, così rigidi, imposti al ricorrente e al resistente negli atti introduttivi.

Cosa deve intendersi per “nuovi accertamenti istruttori”? Deve intendersi una qualsiasi prova o mezzo istruttorio di-

verso (si pensi ad una consulenza patrimoniale) che riveli fatti e circostanze non ancora dedotti dalle parti, ma di cui potrà tener conto il giudice se le parti intenderanno far valere il fatto e la circostanza provati nel corso del procedimento, senza preclusioni di sorta.

Si badi bene. Le riaperture per “nuovi accertamenti istruttori” non necessitano di una rimessione in termini, ovvero della verifica della non imputabilità della decadenza, ai sensi dell’art. 153, 2° comma, c.p.c.; è un’attività consentita alla parte senza la necessità di un’autorizzazione del giudice.

Ma vi è di più.

Il nuovo accertamento istruttorio potrà stimolare, ancorché le parti siano decadute dal mezzo per il maturarsi della preclusione, un potere istruttorio d’ufficio che il legislatore pone trasversalmente, nella materia dei diritti indisponibili, ma anche in quella dei diritti disponibili.

La sensazione è che il legislatore voglia ridare alle parti e all’esercizio dei poteri officiosi, ciò che ha tolto altrove, attraverso l’introduzione di preclusioni rigide e concentrate, in tal modo diversificando il regime del processo familiare e minorile rispetto al processo comune.

Un’ulteriore osservazione merita il nuovo istituto. La materia familiare evidenzia una minor tenuta dei provvedimenti, siano essi provvisori oppure definitivi. Si pensi al regime attuale della generale revocabilità e modificabilità dei provvedimenti presidenziali da parte del giudice istruttore, anche senza il presupposto di sopravvenienze (art. 709, u.c., c.p.c. oppure art. 9 legge n. 898 del 1970), ma soprattutto al regime particolare del giudicato in materia minorile (art. 337-quinquies, c.c.: “i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo”).

Il senso di queste disposizioni non è facilmente intelligibile, non potendosi supporre che anche nella materia di diritti indisponibili prima o poi la giurisdizione si debba fermare, con il formarsi di un giudicato irrevocabile.

Ecco allora che l’apertura verso “nuovi accertamenti istruttori” propone, probabilmente, le ragioni per una revoca e modifica dei provvedimenti provvisori, ma anche di quelli definitivi, dando un senso alla disposizione, altrimenti enigmatica, dell’art. 337-quinquies cit.



5. Il principio di auto-responsabilità della parte



Del tutto diversa dal principio di preclusione, e quindi da approvare, è la scelta verso l’accentuazione del principio di auto-responsabilità delle parti.

Il ricorso e la comparsa devono essere “redatti in modo sintetico”; devono contenere necessariamente alcune allegazioni fattuali e documenti: la produzione di precedenti provvedimenti in cause connesse; l’indicazione di procedimenti penali in cui il minore o una delle parti è coinvolto come parte offesa; le denunce dei redditi e la documentazione attestante la titolarità di beni mobili, immobili e titoli di risparmio degli ultimi tre anni.

Nella materia familiare e minorile, dunque, le parti devono misurarsi con tutti i fatti rilevanti e ciò sin dagli atti introduttivi (il problema della preclusione è, ovviamente, aspetto differente di cui si è trattato sub par 4).

Meno condivisibile, invece, l’abbandonare i contenuti delle sanzioni, per il mancato deposito della documentazione o per il deposito di documentazione inesatta o incompleta (o per una lacunosa o inesatta allegazione dei fatti) alle determinazioni libere del legislatore delegato, poiché deve ritenersi auspicabile non consentire di trarre da questi elementi conseguenze che involgono il merito della controversia, e di richiamare, anche con estrema severità, l’applicazione degli istituti dell’abuso del processo ex art. 96 c.p.c. e di regolamentazione delle spese ex artt. 91 e ss. c.p.c.

Con questo non deve ritenersi, per un verso, introdotto un vero e proprio obbligo di verità della parte, che non ha luogo di esistere nel sistema (vi è un obbligo di lealtà e correttezza sancito dall’art. 88 c.p.c., che è cosa ben diversa), poiché il processo non si potrebbe condurre se non nel contraddittorio tra una verità e una menzogna, che fanno parte delle regole del gioco, e quanto più il contraddittorio è effettivo, tanto più il giudizio finale potrà dirsi corrispondente a verità.

Nello stesso tempo – come per prassi, molto discutibili, adottate da alcuni importanti tribunali italiani16 – le allegazioni fattuali delle parti non devono ritenersi effettuate sotto le conseguenze penali di un’affermazione mendace o addirittura reticente (in una sorta di giuramento decisorio imposto alla parte con gli atti introduttivi, che oltretutto avvilisce il libero convincimento del giudice).

Il principio direttivo dovrà perciò essere calato nel contesto della responsabilità processuale aggravata e dell’abuso del processo, temi questi enunciati dall’art. 96 c.p.c., ma che certamente devono essere oggetto di una più ampia disciplina, anche particolare, nell’ambito delle controversie della famiglia e dei minori.

Con questo si intende sottolineare la diversità tra il principio di auto-responsabilità della parte e il principio di preclusione, il primo auspicabilmente da accentuare, il secondo, per la materia particolare, auspicabilmente da attenuare.

La violazione del principio di auto-responsabilità non potrà mai incidere sul merito del giudizio finale, bensì avere rilievo solo processuale, con sanzioni di tale natura, costituite dalla condanna alle spese e dalla condanna ai danni per abuso del processo.

La decadenza o preclusione incide, invece, in maniera irrimediabile sul merito del giudizio finale, contribuendo ad allontanare la verità formale dalla verità sostanziale, che è un risultato inaccettabile nella materiale familiare e minorile, perché trasforma il diritto, tutelato in forma specifica, in un diritto tutelato per equivalente, convertito in risarcimento del danno verso il difensore tecnico negligente.



6. Le misure provvisorie e la loro impugnazione



Pregevole la regolamentazione, nei principi direttivi del comma 23, lett. f), m) ed r) dei provvedimenti provvisori e della loro impugnazione, in superamento di numerose lacune presentata dall’attuale ordinamento.

Si prende atto dell’assoluta necessità, per un’effettiva tutela giurisdizionale dei diritti, di misure provvisorie in materia di famiglia. È sempre presente un periculum a fondamento della tutela cautelare, da rendere irrilevante un suo accertamento del giudice come premessa della misura anticipatoria.

Ecco allora che nel comma 23, lett. f), è già possibile, con il decreto che, a seguito del deposito del ricorso, fissa la data dell’udienza di comparizione delle parti e il termine per la notifica del ricorso e del decreto, “assumere inaudita altera parte provvedimenti d’urgenza nell’interesse delle parti e dei minori”, salvo “instaurazione del contraddittorio per la conferma, modifica o revoca di tali provvedimenti”. Ovviamente, come precisa il letterale richiamo, in questo caso esplicitamente sul presupposto cautelare del grave ed irreparabile danno, da allegare e provare. Principio confermato, dopo l’instaurazione del contraddittorio delle parti, nella lettera m), consentendosi al giudice relatore di adottare provvedimenti temporanei ed urgenti, in questo

caso senza la formale allegazione e prova del periculum.

Viene ribadito ed esteso al rito unificato il potere preliminare di pronuncia di provvedimenti temporanei ed urgenti del Presidente, propri del procedimento di separazione e divorzio, come già era avvenuto, sulla base di una prassi diffusa nel contesto del rito camerale, al di là delle ipotesi effettivamente richiamate quali l’art. 336 c.c., e l’art. 710 c.p.c.

È di centrale interesse la previsione contenuta nella lett. r): “disciplinando il regime della reclamabilità dinanzi al giudice che decide in composizione collegiale”. Il principio direttivo pone la generalizzazione dell’istituto del reclamo avverso i provvedimenti temporanei ed urgenti (non più solo riconosciuto esclusivamente ai provvedimenti presidenziali ed escluso per quelli, di identico contenuto, pronunciati dal giudice istruttore nei procedimenti di separazione e divorzio17), fuoriuscendo dallo schema della corte d’appello, ai sensi dell’art. 708 c.p.c., per adottare un modello analogo all’art. 669-terdecies

c.p.c. (cfr. anche lett. v): il reclamo al collegio del tribunale, del quale non può far parte il giudice che ha pronunciato la misura anticipatoria (l’auspicio è che il modello cautelare sia adottato in toto, avendo dato buona prova di sé in sede applicativa, con soluzione di numerosi problemi interpretativi, come quello, ad esempio, della deducibilità di fatti sopravvenuti in sede di reclamo).

Infine, ancora per una soluzione condivisibile, il provvedimento provvisorio resta revocabile e modificabile da parte del giudice che lo ha pronunciato, ma solo in caso di sopravvenienza o di “nuovi accertamenti istruttori”, razionalizzando il potere, ingiustificatamente illimitato, concesso oggi all’istruttore ai sensi dell’art. 709, u.c., c.p.c. Confermata, poi, la stabilità del provvedimento provvisorio in grado di sopravvivere all’estinzione del procedimento di merito, sul modello dell’art. 189 disp. att. c.p.c.

Si tratta, allora, di adottare il modello del processo cautelare uniforme, cui deve essere ricondotta la misura temporanea ed urgente, ancorché manchi di tratti cautelari in senso stretto (la cognizione del periculum è irrilevante, salva l’ipotesi della misura inaudita altera parte).



7. La domanda riconvenzionale di divorzio nel procedimento per separazione



La soluzione processuale, assai originale, di una domanda di divorzio o di scioglimento degli effetti del matrimonio in pendenza del procedimento per separazione deve intendersi, seppure per i riflessi solo processuali, una sorta di “abrogazione di fatto” della separazione18, potendo la parte beneficiare dei termini brevi di cui alla legge n. 55 del 2015, nel contesto di un unico procedimento, superandosi, tra l’altro, tutti i problemi di coordinamento dei provvedimenti, anche provvisori, emessi nei due procedimenti separatamente pendenti, oggi unificati in un simultaneus processus, innanzi ad un unico giudice. Ovviamente, il comma 23, lett. bb) suggerisce la riunione di procedimenti introdotti separatamente.

La domanda riconvenzionale di divorzio o scioglimento sarà procedibile, evidentemente, solo in caso di sentenza parziale sullo status passata in giudicato, come opportunamente precisato.



8. Il procedimento in senso stretto, il duplice modello di sviluppo



Il principio direttivo utilizza una terminologia che, per un verso, sembra ricordare il rito camerale (con il richiamo al giudice relatore e non al giudice istruttore), per altro verso sembra proporre un rito analogo a quello collegiale innanzi al tribunale.

In verità, il modello appare avulso da richiami al passato, prevedendosi normalmente la collegialità del rito “con facoltà di delega per l’istruzione e trattazione al giudice relatore”; giudice relatore che fissa le udienze innanzi a sé (comma 23 lett. f), tenta la conciliazione delle parti comparse personalmente (lett. l), invita le parti ad esperire un tentativo di mediazione familiare, salvo che siano allegate violenze di genere o domestiche (lett. n), emette i provvedimenti temporanei ed urgenti (lett. l), m), r), ammette e dispone i mezzi di prova, anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile (lett. r) e t), modifica e revoca i provvedimenti provvisori (lett. u), dichiara chiusa l’istruttoria rimettendo la causa innanzi al collegio per la decisione finale (lett. z), nomina un ausiliario (lett. ee) “in grado di coadiuvare il giudice per determinati interventi sul nucleo familiare, per superare conflitti tra le parti, per fornire ausilio per i minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni genitori e figli”.

Il giudice relatore ha quindi un ampio potere decisorio, su

misure provvisorie e misure istruttorie ed un altrettanto potere di direzione del procedimento. È per questa ragione che, auspicabilmente, tale giudice non possa essere il giudice laico del collegio innanzi al tribunale per i minorenni.

Esaurita la fase della comparizione personale delle parti alla prima udienza, per il tentativo di conciliazione, con obbligo di comparire, potendone discendere sanzioni che il legislatore delegante lascia al legislatore delegato (lett. l), il giudice relatore può avviare il processo su di un duplice binario alternativo.

Un procedimento semplificato e concentrato “ove la causa sia matura per la decisione” ovvero se deve “essere decisa la sola domanda relativa allo stato delle persone e il procedimento debba continuare per la definizione delle ulteriori domande”.

Un procedimento ordinario, con l’aperura di una vera e propria fase istruttoria, previa ammissione o disposizione d’ufficio dei mezzi di prova, sui quali suscitare il contraddittorio delle parti e consentire il diritto alla prova contraria, esaurita la quale solo il giudice relatore fissa l’udienza innanzi a sé per la rimessione della causa in decisione, sulla sua relazione. Il duplice modello, a ben riflettere, non sembra diversificare il procedimento delle controversie familiari e minorili dal procedimento comune, se viene adottato un corretto uso degli artt. 187 e 188 c.p.c., rimettendosi in decisione immediata questioni preliminari di merito o questioni pregiudiziali di rito, ovvero cogliendo la questione più liquida che consente l’immediata decisione, in questo contesto unita alla sentenza parziale sullo status che costituisce peculiarità del procedi-

mento familiare.

Il passaggio alla decisione collegiale, nell’uno e nell’altro modello, avrebbe potuto preferibilmente evitare l’udienza innanzi al giudice relatore, presumibilmente per la precisazione delle conclusioni, udienza che può certamente condursi mediante note di trattazione scritta delle parti che evitino la comparizione dei difensori tecnici.



9. Gli ausiliari del giudice



La legge delega apre all’invito del giudice verso le parti di procedere ad una mediazione familiare (comma 23, lett. f) ed n), potendo attingere da un elenco di mediatori, organizzato presso i singoli tribunali, la cui abilitazione è solo offerta dall’iscrizione alle associazioni di settore, con superamento di corsi ed esami da queste impartite, in difetto di una legge istitutiva di un ordine e di un albo, perché disciplinate dalla legge n. 4/2013.

Se certamente l’abbandono del consenso delle parti, come condizionante l’iniziativa mediativa – attuale regime dell’art. 337-octies, 2° comma, c.c. –, potrebbe favorirla rendendola effettiva, sin tanto che non venga disciplinato il delicato profilo professionale, con legge speciale, e abbandonata la incerta modalità di reclutamento dei mediatori familiari e del loro inserimento nell’apposito elenco tenuto dai tribunali, sarebbe stato preferibile un atteggiamento più prudente. In sostanza, la riforma non può prescindere da una disciplina generale della professione dei mediatori familiari.

Gli ausiliari del giudice non si esauriscono ai mediatori familiari, oltre ovviamente ai consulenti tecnici. Il giudice può nominare come ausiliario, questa volta raccolto il consenso delle parti, un professionista scelto tra gli iscritti all’albo dei consulenti oppure, al di fuori di esso, ancora su consenso delle parti, un professionista “dotato di specifiche competenze in grado di coadiuvare il giudice per determinati interventi sul nucleo familiare, per superare i conflitti tra le parti, per fornire ausilio ai minori e per la ripresa e il miglioramento delle relazioni genitori e figli” (cfr. comma 23, lett. ee). Si tratta evidentemente della figura del c.d. coordinatore genitoriale, profilo professionale molto discusso nell’ambito della professione degli psicologi, in quanto destinato non ad esaurire un’attività istruttoria di ricostruzione ed interpretazione dei fatti rilevanti, ma di intervenire sulla realtà modificandola in una sorta di terapia imposta alle parti. Tuttavia, la necessità del consenso riconosciuta dal principio direttivo supera questa obiezione.

Lo strumento, per quanto sia introdotto nella fase cognitiva

e di merito, merita la massima attenzione nella fase esecutiva ed attuativa delle misure, laddove sorgono motivi di intenso conflitto tra le parti, dopo che il giudice ha adottato una decisione, anche di natura provvisoria.

Sempre per il profilo degli ausiliari del giudice, il comma 23, lett. ff) si confronta con il tema dell’intervento dei servizi socio-assistenziali o sanitari, imponendo al legislatore delegato “puntuali disposizioni”. Il principio appare piuttosto generico, ma è lodevole il tentativo di regolamentare una materia priva di norme, sancendo soprattutto il diritto della parte, per il tramite del suo difensore, “di avere visione di ogni relazione ed accertamento compiuto dai responsabili del servizio socio-assistenziale o sanitario”, il che pone finalmente un diritto di accesso pieno alla documentazione amministrativa, troppo spesso impedito e ostacolato dai servizi.

Si pone anche un metodo all’intervento dei servizi, troppo spesso nella titolarità di persone non esperte e che confondono la ricostruzione dei fatti con il giudizio sui fatti:



10. Il curatore speciale del minore



Di grande pregio, ma necessitante ancora di una verifica con gli articolati delegati, la nuova disciplina del curatore speciale del minore.

Il comma 30 interviene sull’art. 78 del codice di rito, evidentemente sulla scia della giurisprudenza di legittimità che identifica i due separati profili del curatore speciale, in caso di conflitto con il rappresentante, e del difensore tecnico della parte, attraverso l’empirica soluzione della nomina come curatore speciale di un avvocato. Si vuole risolvere, in tal modo, il delicato tema della qualifica del minore come parte non solo sostanziale (ovvero, destinataria degli effetti di merito della pronuncia finale), ma anche formale, con la fruizione di tutti i diritti difensivi e le garanzie che ne discendono.

Sarebbe stato preferibile qualificare la nuova figura introdotta come difensore tecnico del minore, ma se la diversa denominazione sovraintende pienamente alla duplice funzione della rappresentanza sostanziale e della rappresentanza tecnico formale, ben venga.

Ciò che appare, tuttavia, di pregio, è il superamento dell’attuale assetto normativo che contraddistingue nella nomina solo alcuni procedimenti, come quello sullo stato di adottabilità (artt. 8 e 10, legge n. 184 del 1983, come novellati dalla legge n. 149 del 2001) o quello sulla responsabilità genitoriale (art. 336 c.c.), procedimenti in cui non può eludersi la nomina del curatore speciale/difensore del minore, in quanto in essi è in re ipsa il conflitto tra genitore e figlio. Negli altri procedimenti la nomina del curatore speciale/difensore, pur essendo oggetto del procedimento anche il diritto personale od economico del minore, è abbandonata ad una valutazione discrezionale del tribunale sull’effettiva esistenza di un conflitto di interessi con i genitori19 (in tal modo, intendendo, il legislatore, valorizzare l’art. 320 c.c., laddove è stabilito che il genitore è il rappresentante nel processo del minore e di conseguenza tecnicamente il suo avvocato rappresenta pure il minore, con risvolti deontologici di rilievo).

Alla luce del comma 30, è comunque sopravvissuta la norma, non toccata dalla riforma, dell’art. 78, 2° comma c.c., ovvero la nomina del curatore speciale/difensore, in caso di conflitto tra minore e genitore. Tuttavia è inserito nell’art. 78 cit. un terzo comma, che ipotizza la nomina discrezionale del curatore speciale/difensore del minore anche in altri casi, quando i genitori “sono temporaneamente inadeguati a rappresentare gli interessi del minore”. Ovviamente, il provvedimento di nomina dovrà essere “succintamente motivato”.

È evidente che il futuro legislatore pone l’attenzione sul comportamento dei genitori nel processo, a prescindere da un reale conflitto di interessi, che pure resta come presupposto alternativo della nomina del curatore/difensore del minore, e laddove, come sono ben consapevoli gli avvocati e i giudici che esercitano nell’ambito delle controversie di famiglia e minorili, esiste spesso un esacerbato ed insanabile conflitto dei genitori tra di loro (e non con il minore) sulle regole relative al loro rapporto con i propri figli, oppure più semplicemente l’inidoneità di un genitore e del suo difensore a rappresentare adeguatamente il minore, ai sensi dell’art. 320 c.c., il giudice deve procedere, anche in questo caso, alla nomina di un curatore speciale/difensore del minore.

Non può non intravedersi, ed essere valutato positivamente, il maggior respiro della previsione contenuta nel disegno di legge delega.

Il terzo comma dell’art. 78 c.p.c., novellato, stabilisce una serie di ipotesi in cui la nomina è vincolante per il giudice, non potendo esercitare un potere discrezionale, a pena di nullità degli atti del procedimento. Anche questa una novità di rilievo. Già nel comma 26, ove il legislatore delegante interviene sull’art. 336 c.c., si sancisce il principio della nomina necessaria del curatore speciale del minore nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale. Infatti, se già nominato, il curatore speciale viene abilitato alla domanda introduttiva, mentre qualora il ricorso sia introdotto da altri o il procedimento avviato d’ufficio, il tribunale per i minorenni deve nominare il curatore speciale del minore concedendo al medesimo un termine per la sua costituzione “a pena di nullità del provvedimento di accoglimento”. L’ipotesi è poi coerentemente riprodot-

ta nell’art. 78, comma 3, n. 1.

In materia di responsabilità genitoriale, essendo implicato, per definizione, un conflitto di interessi, dove è messo in discussione il rapporto con il genitore, la nomina del curatore speciale del minore non può essere discrezionale ma obbligatoria. Il legislatore sembra, tuttavia, limitare la nomina all’ipotesi estrema della decadenza richiesta dal p.m. o da uno dei genitori.

Vi sono tuttavia delle altre ipotesi contemplate nel novellato art. 78 c.p.c.: nell’adozione dei provvedimenti giurisdizionali ex art. 403 c.c., oppure nelle ipotesi di “affidamento del minore” ex artt. 2 e ss., legge n. 184 del 1983 (n. 2); quando dovessero emergere fatti nel procedimento implicanti un pregiudizio per il minore tali “da precludere l’adeguata rappresentanza processuale da parte di entrambi i genitori” (n. 3) e, infine “quando ne faccia richiesta il minore che abbia compiuto quattordici anni” (n. 4).

Resta intatta la previsione della nomina obbligatoria del curatore/difensore nei procedimenti sullo stato di adottabilità e di adozione ai sensi dell’art. 10, legge n. 184 del 1983.

Il legislatore delegato deve intervenire anche sull’art. 80

c.p.c. (comma 31), aggiungendo, al primo comma, la possibilità della nomina di un curatore d’ufficio, anche in un procedimento cautelare.

È poi inserito nell’art. 80 cit. un terzo comma, che consente al giudice, nel provvedimento di nomina del curatore speciale del minore, di offrire “specifici poteri di rappresentanza sostanziale” al medesimo, che lascia incerti, tuttavia, per genericità, i confini tra la rappresentanza sostanziale del minore da parte del curatore e la rappresentanza del medesimo da parte dei genitori (ex art. 320 c.c.), per cui sarà necessario capire come il legislatore delegato intenderà svolgere la delega su questo tema.

La norma, poi, prevede che il curatore del minore proceda al suo ascolto e che i genitori, il minore che ha compiuto quattordici anni, il tutore o il pubblico ministero, possano, con istanza motivata, chiedere al presidente del tribunale o al giudice che precede, la revoca del curatore per grave inadempienza o perché sono mancanti o venuti meno i presupposti della sua nomina.

Ancora una volta il legislatore futuro legifera “a costo zero”, dimenticando la necessità di una legislazione di cornice (si ricordi la vicenda dell’art. 336 cit., dove l’inciso “anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge” è stato abrogato con il d.P.R. 115 del 2002, precisandosi con la legge n. 175 del 2002 che “sino all’emanazione di una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio e sul patrocinio a spese dello Stato… continuano ad applicarsi le disposizioni processuali vigenti”), che disciplini i compensi del curatore speciale del minore. È perciò necessaria una disciplina che non abbandoni, oltre tutto con dubbia applicazione, la disciplina del rapporto che intercorre tra il curatore del minore e il minore, alle regole del gratuito patrocinio.

Vi è da segnalare anche la previsione di un “riordino delle disposizioni in materia di ascolto del minore, anche alla luce della normativa sovranazionale di riferimento” (comma 23, lett. dd), riordino di cui non è dato sapere il principio direttivo.



11. L’appello



Generica la previsione sulla “autonoma regolamentazione per il giudizio di appello” (comma 23, lett. nn), non essendo chiaro quale tipo di regolamentazione sarà adottata: qui sarebbe stato auspicabile un maggior coraggio del principio direttivo destinato a regolamentare l’appello in materia di famiglia e minorile, secondo gli orientamenti del giudice di legittimità20, come vero e proprio gravame privo di preclusioni ex art. 345 c.p.c., in un contesto di tutela differenziata, rispetto all’appello di diritto comune, nel quale non possono ritenersi applicabili i rigori di cui agli artt. 342, 345 e 348-bis c.p.c.



12. L’attuazione delle misure



Il comma 23, lett. ff), ii), ll), mm), sancisce (il termine è significativo) un “riordino” della disciplina sull’attuazione delle misure economiche e personali.

La lettera ff) introduce un principio direttivo di maggior respiro, almeno per gli aspetti personali, stabilendo modalità di esecuzione “in via breve”, fissate dal giudice in apposita udienza con il contraddittorio delle parti, sotto il controllo del giudice, ispirato al preminente interesse del minore. La norma non chiarisce che il giudice è necessariamente il giudice del merito, ma il mancato intervento sotto questo aspetto particolare sull’art. 709-ter c.p.c. e sull’art. 337-ter, 2° comma, c.c., non lascia spazio, in sede applicativa, ad una diversa articolazione del giudice dell’esecuzione e del giudice del merito.

Per il resto, i principi direttivi mancano di un maggior respiro di intervento.

Sarebbe stato auspicabile inserire l’art. 709-ter nel solco delle misure coercitive, al di fuori dell’inquadramento in termini di responsabilità civile; la norma chiarisce almeno l’autonoma praticabilità dell’art. 614-bis c.p.c. nelle controversie familiari e minorili, contro un ingiustificato orientamento del giudice di legittimità21(lett. mm).

Il riordino riguarda, altresì le misure economiche, come la via esecutiva diretta contro il terzo, ai fini del versamento di una quota del reddito del coniuge/genitore obbligato in favore dell’altro (lett. ii) e l’allineamento dell’art. 156 c.c. alle modalità dell’art. 8, legge n. 898 del 1970, sia nella disciplina del sequestro come misura coercitiva e sia nell’effetto verso terzi della corresponsione anche periodica di somme di denaro dall’obbligato direttamente agli aventi diritto (come risultato di un’attività tutta stragiudiziale, senza la necessità di scomodare il giudice), lett. ll).

In verità, il tema dell’attuazione meritava un maggiore ripensamento, di ampio respiro sistematico, che costituisse finalmente una razionalizzazione e sistemazione della pluralità di norme che regolano diversamente il medesimo istituto, a seconda che sia inserito nell’ambito della famiglia non in crisi, della separazione, dello scioglimento, delle convivenze.

I principi direttivi avrebbero dovuto riconoscere una generale deroga all’ordinamento del libro terzo del codice di rito, come già concepito dal legislatore attuale: la coincidenza del giudice dell’esecuzione con il giudice del merito, nella determinazione delle forme esecutive “in via breve”; una tutela esecutiva, sia per i profili personali che patrimoniali, anche in caso di inesigibilità del diritto, proiettata nel futuro (nel diritto di famiglia il sistema deve impedire l’inadempimento e non reagire solo quando l’inadempimento è avvenuto) ed infine, un adeguato sistema di misure coercitive civili, sia per i diritti personali, ma anche per quelli economici, essendo nel diritto di famiglia e minorile necessario che l’obbligato, condannato alla prestazione, adempia lui e solo lui alla stessa (sistema del tutto mancante in relazione alle misure economiche, assicurate solo con l’improbabile misura del sequestro e con una tutela coercitiva tutta posta sul piano penale).



13. L’art. 403 c.c. e le misure in tema di affidamento familiare



Le misure emergenziali di natura amministrativa (come l’allontanamento o l’affido ad altri) a favore dei minori, perché moralmente e materialmente abbandonati, esposti, nell’ambiente familiare, a grave pregiudizio e pericolo per la loro incolumità psico-fisica, del tutto mancanti di un sindacato giurisdizionale immediato, stante l’incidenza su diritti personalissimi di cui è titolare la persona fragile, vengono finalmente ricondotte in un alveo giurisdizionale garantistico (comma 27).

È prevista, da parte dell’assistente sociale, la trasmissione della misura (con avviso orale) entro 24 ore dall’adozione, al pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni, nella cui giurisdizione il minore ha la sua residenza abituale e, qualora detta autorità non revochi la misura, entro le ulteriori 72 ore, lo stesso p.m. deve ricorrere per la convalida al tribunale per i minorenni, potendo chiedere eventuali ulteriori misure ex art. 330 e ss. c.c.; il Giudice adito, entro 48 ore, deve provvedere con decreto alla convalida o non convalida delle misure. Con il relativo decreto, nomina il curatore speciale del minore e fissa l’udienza di comparizione delle parti entro il termine di quindici giorni “il decreto è notificato entro 48 ore agli esercenti la responsabilità genitoriale e al curatore speciale a cura del p.m.”.

Segue un procedimento ulteriore innanzi al giudice relatore e un ulteriore provvedimento con decreto collegiale di conferma, modifica o revoca, da pronunciarsi nei quindici giorni successivi. Il decreto è reclamabile alla Corte di appello ai sensi dell’art. 739 c.p.c.

L’intento del legislatore è assolutamente condivisibile, anche se si deve dire che la cadenza eccessivamente breve dei termini e la sanzione al loro mancato rispetto (“cessazione di ogni effetto dello stesso provvedimento”), avrebbe reso necessario un minore rigore, almeno nei termini, a cui è difficile pensare possa rispondere l’attuale struttura del tribunale per i minorenni.

Il comma 27, lett. b), si conclude con l’affermazione dell’ipotesi assolutamente residuale costituita dall’affidamento in comunità di tipo familiare, dovendosi percorrere tutte le possibili soluzioni alternative e apre la prospettiva di una riforma dell’istituto dell’affidamento dei minori disciplinato dagli artt. 2 e ss. della legge n. 184 del 1983 e successive modifiche. Il principio direttivo contenuto nel comma 23, lett. gg), si preoccupa, alla luce di gravissimi episodi di rilievo penale recentemente balzati alla cronaca e oggetto di procedimenti in corso, della incompatibilità degli affidamenti in strutture e comunità pubblico-private, con il ruolo rivestito da coloro che coprono in esse cariche rappresentative o partecipano alla gestione o prestano attività professionali a favore di esse, anche a titolo gratuito, ivi compreso il coniuge, partner dell’unione civile, convivente, parente o affine entro il quarto grado. Ugualmente, qualora tali incompatibilità riguardino il giudice, il consulente tecnico d’ufficio o chi ha svolto funzioni di assistente sociale al medesimo procedimento.

Trattasi, evidentemente, di un intervento minimo, necessario e non più dilazionabile, ma che non può esaurire esclusivamente una generale riforma dell’istituto, il quale sempre più si presta ad affidamenti, che la legge vuole temporalmente precari e conservativi del legame con la famiglia di origine (dovendo necessariamente confluire nel recupero della piena responsabilità genitoriale dei genitori biologici, oppure nello stato di adottabilità del minore), di carattere concretamente permanente nel tempo, sino alla maggiore età del minore collocato presso la famiglia affidataria. Si rende probabilmente necessario un ripensamento generale dell’istituto, dove all’ipotesi dell’affidamento rigorosamente temporaneo e dell’adozione definitiva, si proponga, con una regolamentazione ad hoc, un istituto intermedio, un’adozione “mite” che giustifichi e regoli la prassi ormai diffusa presso tutti i tribunali per i minorenni.



14. I rischi dell’Emendamento 15.o.8/2: un grave attentato alle garanzie processuali



Nei lavori della Commissione giustizia del Senato, ove si è discusso il disegno di legge delega S1662 sulla riforma della giustizia civile, avulso dal contesto particolare e di conseguenza fuori dalla impostazione originaria della Commissione Luiso e dell’Emendamento governativo, è comparso ad un certo momento un Emendamento di origine parlamentare, contenente un principio di direttivo che entra, in modo lacerante, nel delicato tema dell’affidamento condiviso e della bi-genitorialità, ponendo soluzioni che rischiano di minare alle basi un lungo percorso normativo, a partire dalla legge

n. 54/2006, e la conseguente evoluzione giurisprudenziale. Premesso che la violenza di genere e domestica impone in-

terventi drastici, sino a comprimere, quando necessario, il rapporto con il figlio di colui o colei che esprime violenza fisica o morale verso il genitore e verso il minore, e la circostanza merita la massima attenzione del giudice minorile o familiare, per la sua rilevanza sulle misure personali in tema di affidamento, di collocamento e di diritto di visita in senso lato, non si vede come possa giustificarsi la mancanza di un accertamento giudiziale o, quando previsto, un accertamento sommario urgente e libero dalle forme processuali.

Infatti nell’Emendamento 15.0.8/2, prima firmataria la Sen. Valeria Valente, si legge: “l’obbligo per tutti i soggetti istituzionali che entrano in contatto con i minorenni di garantire che i diritti di affidamento e di visita siano assicurati tenendo conto delle violenze, anche assistite, rientranti nel campo di applicazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, ratificata e resa esecutiva con legge 27 giugno 2013, n. 77, allegate, denunciate, segnalate o riferite; l’obbligo di protezione del minore da qualsiasi forma di violenza, anche assistita che il giudice civile o minorile accerta, con urgenza, incidentalmente e senza formalità, ai fini dell’emissione di ogni provvedimento che li riguardi, per evitare la vittimizzazione secondaria loro e del genitore che non ha esercitato violenza; la previsione che l’accertamento incidentale della violenza non sia delegabile da parte del giudice”.

Dunque sarà sufficiente, per escludere un rapporto significativo tra genitore presunto violento e il minore, da parte di una qualunque Autorità (evidentemente amministrativa o di pubblica sicurezza), una semplice allegazione, denuncia, segnalazione, senza alcun accertamento da parte di un giudice terzo, con tutte le garanzie del giusto processo.

Quando, poi, vi sarà l’avventura di un accertamento del giudice, questo sarà necessariamente urgente e senza formalità, sulle difese e il contraddittorio.

Quando il legislatore disciplina procedimenti deformalizzati siamo abituati, in linea con la Costituzione, ad una eloquente dizione, mancante nell’Emendamento: “omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio” (cfr. art. 669-sexies c.p.c. ad esempio). Ancora, questa misura – così penetrante su di un diritto personalissimo qual è la bigenitoralità anche e soprattutto nella prospettiva del figlio minore – è cautelare, quindi reclamabile? Oppure, e qui il silenzio del principio direttivo si fa assordante, resta relegato nel diritto vivente delle misure non impugnabili (ad esempio se resa dal giudice istruttore nei

procedimenti di separazione e divorzio).

In altre parti dell’Emendamento poi il provvedimento non si misura con la prova del fatto rilevante, ma è sufficiente la mera allegazione, per originare una misura di sospensione della genitorialità.

Un provvedimento che incide sulla responsabilità genitoriale attraverso la sola affermazione di un fatto, la sua semplice allegazione: un giudizio sommario senza prova, un monitorio puro. Ugualmente, è la sola allegazione che esclude l’esperimento di un tentativo di conciliazione o di mediazione familiare, o, addirittura, anche una consulenza sulle condizioni psicologi-

che delle parti.

Al di là della palese violazione di principi come il diritto di azione, il diritto di difesa, il diritto di contraddire, le garanzie del giusto processo, riconosciute com’è noto dagli artt. 24 e 111 Cost., non può non evidenziarsi – nella sommarietà delle tutele prive di accertamento giudiziale e di prova – la violazione dell’art. 8 della Cedu, sulla garanzia di rispetto e libertà nella vita familiare e privata.

Eppure lo stesso Emendamento governativo, che pure aveva dato rilievo agli stessi fatti e circostanze in un contesto garantistico ben diverso, ha prestato la massima attenzione alle garanzie del processo, solo che si pensi alla riscrittura dell’art. 336 c.c. (provvedimenti sulla responsabilità genitoriale) oppure alle garanzie offerte alle misure di cui all’art. 403 c.c. (misure della pubblica autorità a favore dei minori).



15. Il sollievo della mancata approvazione dell’Emendamento 15.o.8/2: le soluzioni nel testo della legge delega



Per buona sorte il testo approvato dall’aula del Senato il 21 settembre 2021 e confermato il 24 novembre alla Camera non ha dato seguito all’Emendamento Valente, sul quale è parsa opportuna una disamina più ampia per i gravi rischi sul piano delle garanzie.

La violenza, ovviamente destinata ad incidere solo se accertata giudizialmente, sulla regolamentazione dell’affidamento del minore, nel suo superiore interesse, è il riferimento che si rinviene in numerosi principi direttivi della legge delega.

Il comma 23, lettera l), esclude la comparizione personale dei coniugi all’udienza se sono allegate o segnalate violenze di genere o domestiche e la lettera m) successiva, esclude che il tentativo di conciliazione possa avere, in tal caso, luogo; ugualmente la lettera n) esclude nell’ipotesi l’invito al tentativo di mediazione familiare, con obbligo alla lettera p) dei mediatori familiari di interrompere la loro opera nel caso in cui emerga qualsiasi forma di violenza. Infine, anche l’attività di monitoraggio, controllo e accertamento dei servizi sociali, resta influenzata dalle ipotesi di violenza di genere e domestiche, perché destinata solo alla protezione della vittima e del minore. Ugualmente nella previsione novellata dell’art. 13, comma 3, c.p.c., relativamente alla formazione degli elenchi di consulenti tecnici, si sottolinea la necessità di una comprovata esperienza in materia di violenza domestica e nei confronti dei minori (comma 34, lett. b).

L’abbandono dell’autore degli episodi di violenza a se stesso (soprattutto nei casi isolati, dovuti a momentanei atti di impulso incontrollati, ma non corrispondenti a personalità violente affette da patologie), lascia qualche perplessità: ben avrebbe potuto il principio direttivo stabilire una qualche forma di recupero della personalità non violenta rispetto al singolo isolato episodio di violenza (perché impedire una consulenza tecnica o una mediazione familiare?).

Ma certamente degna di segnalazione e della massima attenzione rispetto al pericolo indotto dall’emendamento Valente, è la previsione contenuta nel comma 23, lett. b), ove l’allegazione di violenza di genere o domestica è avviata alle misure di cui all’art. 342-bis c.c., che quindi assumono una nuova funzione, non più preventiva, come oggi, rispetto ai provvedimenti previdenziali o alle misure opportune innanzi al tribunale per i minorenni, bensì anche incidentali, nel corso del procedimento di merito. Misure, come è noto, ampiamente disciplinate dal codice civile e dal codice di rito con tutte le garanzie e un modello che, pur richiamando il rito in Camera di consiglio, mutua molto dalle regole del processo cautelare uniforme (art. 736-bis, c.p.c., che richiama all’esito il reclamo di cui all’art. 739 c.p.c.).

NOTE

* Il presente saggio è già stato pubblicato sulla Rivista Questione Giustizia ed è reperibile sul sito www.questionegiustizia.it; si ringrazia la Direzione della Rivista per avere autorizzato la pubblicazione.

1 Ancor oggi schierati sul fronte conservativo della disciplina previgente: al testo del Senato hanno opposto una lettera aperta al Ministro e deliberato una proposta di emendamenti sottoposta alla Camera; i due testi si trovano in www.minoriefamiglia.org v., inoltre su questa Rivista, l’intervento del Presidente dell’Associazione dei Magistrati minorili, C. MAGGIA, Ancora una volta i tribunali per i minorenni messi al margine della giurisdizione.

2 S2284, XVII legislatura.

3 Si tratta in particolare della componente espressione del Consiglio nazionale forense e delle associazioni forensi CamMino e Osservatorio nazionale sul diritto di famiglia, con l’adesione di massina della Amm. In posizioni contrastanti, ovviamente su diversi fronti, i magistrati minorili e Unione camere minorili, da un lato, e Aiaf, dall’altro, che aveva tuttavia aderito inizialmente alla soluzione proposta.

4 Deve dirsi della lunga stagione dei tentativi di riforma, a seguito dell’approvazione della Costituzione repubblicana, di cui è data documentazione in La riforma della giustizia minorile in Italia (atti del convegno di Firenze, 9-11 maggio 1986), a cura di A. GERMANÒ, Milano, 1986, con un’appendice sulle principali ipotesi di riforma sino a quell’epoca, v. in part. 263 ss., di ispirazione della magistratura minorile e, invece di ispirazione degli avvocati e studiosi del diritto processuale civile, il volume Quale processo per la famiglia e i minori (atti del convegno di Cagliari, 5-6 dicembre 1997), a cura di L. FANNI, Milano, 1996, ivi le relazioni di LUISO, CIPRIANI, PROTO PISANI e ChIARLONI, con una ricca appendice di documenti, 185 ss. La progettualità degli anni ’60 ispirata ancora al modello del tribunale per i minorenni, pur nella unificazione delle competenze, fu soppiantata alla fine del secolo, in favore di progetti ispirati alla introduzione di una sezione specializzata del tribunale ordinario (a partire dal disegno di legge governativo

n. 2517 del 2002, in Dir. fam., 2003, 491 e di iniziativa parlamentare, nel biennio 1996-1997, promotori gli On. Magliocchetti, n. 966 del 16 luglio 1996 e Casinelli, n. 3041 del 23 gennaio 1997). Ma certamente emblematico, in questa direzione, il progetto Casellati n. 194 del 2013. L’idea di una sezione specializzata del tribunale, sul modello adottato per le controversie di lavoro, ha incontrato la ferma opposizione e il dissenso della magistratura minorile (cfr. Le proposte governative di modifica della giustizia minorile: la novità sta nel tornare indietro, in Minori giustizia, 2002, 1-2, e Le ragioni di contrarietà alle proposte governative di abolizione del tribunale per i minorenni, ibidem, 2002, 2-3). L’estremo tentativo di una composizione delle diverse idee, tentato nel dibattito presso il C.n.f. negli anni 2016/2017, di cui si è detto nel testo, incontrò al termine ancora la contrarietà dell’Aimmf (cfr. Comunicato Aimmf sulla decisione del Ministro di stralciare dalla riforma del processo civile la parte ordinamentale relativa alla giurisdizione minorile), in www.minoriefamiglia.it (3 agosto 2017). In una posizione equivoca, invece, il disegno di legge delega di ispirazione del Ministro Orlando, approvato dalla Camera dei Deputati in data 16 marzo 2016 e mai approvato successivamente dal Senato, il quale incontrò ostacoli insormontabili per le aspre critiche del magistrati minorili ed ordinari, delle principali associazioni specialistiche orensi, sino ad una presa di posizione critica del CSM del 13 luglio 2013, v. documenti essenziali in C. CECChELLA (a cura di), Il processo di famiglia: problemi e prospettive. Contributo critico al disegno legge delega di riforma, Pisa, 2016, 63 ss., il quale riproponeva modelli del passato rivestendo solo nominalisticamente il tribunale per i minorenni, denominato sezione distrettuale del tribunale ordinario, ma confermandolo sostanzialmente nella struttura e nelle funzioni.

5 Che ha suscitato subito la reazione della Aimmf, con una proposta di sub-Emendamento unita ad osservazioni in data 17 giugno 2021, la quale suggerisce un intervento del legislatore semplicemente in linea con gli attuali orientamenti del giudice di legittimità circa l’attuazione anche dei provvedimenti di cui all’art. 330 c.c., v. il documento in www.minoriefamiglia.org.

6 Sia consentito rinviare a C. CECChELLA, Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili, Bologna, 2018, 22.

7 Cass., 14 ottobre 2014, n. 2833, in Fam. dir., 2015, 105 ss.

8 Viste le oscillazioni della giurisprudenza, per un’interpretazione estensiva, Cass., 26 gennaio 2015, n. 1349, in Fam. dir., 2015, 653 con nota di BUFFONE; contra, Cass., 12 febbraio 2015, n. 2837, in www.ilcaso.it/sentenze/ultime/12248#gsc.tab=0.

9 A seguito del fondamentale contributo di T. CARNACINI, Tutela giurisdizionale e tecnica del processo, in Studi in onore di E. Redenti, II, Milano, 1951, 730 ss.

10 Anche se si deve dire che il principio appare affermarsi anche in contesti

differenti, solo che si pensi alla accentuazione dei poteri istruttori del giudice civile nel rito monocratico innanzi al tribunale ordinario ai sensi dell’art. 281-ter

c.p.c. che ammettono poteri del giudice in relazione alla prova testimoniale, sulla quale maggiormente si era espresso il principio della disponibilità ad esclusiva iniziativa delle parti.

11 In tal senso la dottrina processualistica, v. Nota del Consiglio direttivo dell’associazione italiana fra gli studiosi del processo civile a proposito dell’emendamento governativo all’art. 3 del d.d.d. AS 1662, in www.aispc.it seguita dall’ulteriore nota Nota del consiglio direttivo dell’Associazione sulle proposte di modifica 2.77, 2.78, 3.41, 3.42, 6.20, 6.02, 12.19 e 15.6, presentate dal governo al D.D.L A.S N.1662, ivi. Numerosi i singoli interventi, G. COSTANTINO, Perché ancora riforma della giustizia, in www.questionegiustizia.it (13 luglio 2021); G. VERDE, Il problema della giustizia non si risolve modificando le regole del processo, in www.giustiziainsieme.it (17 giugno 2021); A. PROTO PISANI, Brevi considerazioni di carattere tecnico e culturale su ‘Proposte normative e note illustrative’ rese pubbliche dal Ministero del-la Giustizia, ivi (8 giugno 2021); G. SCARSELLI, Osservazioni al maxiemendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile, ivi (24 maggio 2021); B. CAPPONI, Brevi note sul maxiemendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, ivi (18 maggio 2021). Reazioni conformi anche nell’Avvocatura, cfr. la nota congiunta C.n.f., O.c.f., Unione camere minorili del 2 luglio 2021, in www.organismocongressualeforense.news/news/ riforma-giustizia-civile/

12 Cfr., l’art. 1, comma 5, lett. c), e) e f) che gradua le preclusioni per le prove, affidandole a due memorie a cui sono abilitate le parti, prima della udienza, ma dopo gli atti introduttivi.

13 Da Corte di Cassazione, I sez. 11 maggio 2017 n. 11504, con nota di V. AMATO, in www.questionegiustizia.it (25 settembre 2017) e con nota di I. MARIANI, ivi (19 giugno 2017), a Sezioni Unite n. 18287 dell’11 luglio 2018, con nota di

M. DI BARI, ivi (4 dicembre 2018).

14 Da ultimo Corte di Cassazione con l’ordinanza 2 luglio 2021 n. 18785, in

www.osservatoriofamiglia.it (2 luglio 2021).

15 Ex plurimis, Cass. Civ., Sez. I, ord., 24 febbraio 2021, n. 5055, in www.osservatoriofamiglia.it (24 febbraio 2021) e Cass., Sez. I, 23 aprile 2019, n. 11178, ivi (2 maggio 2019).

16 Alcuni Tribunali (così Roma e Napoli) hanno imposto ai coniugi l’obbligo di depositare una dichiarazione sostitutiva di atto notorio, ai sensi del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, in relazione ad alcune circostanze relative ai redditi ed al patrimonio di ciascuna (fonti di reddito, proprietà immobiliari e mobiliari, collaboratori domestici, spese per mutui e finanziamenti, ecc.), contro l’orientamento del giudice di legittimità, secondo cui l’autocertificazione, prevista dall’art. 46 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 può essere idonea ad attestare, sotto la propria responsabilità, fatti a sé favorevoli, unicamente nel rapporto con la PA, ma nessun valore probatorio, neanche indiziario, può esserle riconosciuto nell’ambito del giudizio civile (da ultimo, Cass., SS.UU., 22 gennaio 2015, n. 1205).

17 Per una generale ricostruzione, anche storica, sul tema sia consentito rinviare a C. CECChELLA, Il giudice di legittimità apre all’impugnazione dei provvedimenti provvisori nelle controversie di famiglia e minorili, in Giusto proc. civ., 2020, 917.

18 La soluzione ha il sapore di un altro artificio processuale che fu, all’epoca del codice di rito, in una vera e propria “zampata” liberale dei codificatori, grazie forse alla disattenzione di Carnelutti, l’art. 189 disp. att., che consentì una sopravvivenza degli effetti della ordinanza presidenziale, anche in caso di estinzione del processo di merito, evidentemente ponendo il crisma giudiziale alla separazione senza colpa (il presidente nei provvedimenti provvisori non indagava sulla colpa): una sorta di divorzio ante litteram.

19 In giurisprudenza, per il prevalente indirizzo a limitare la nomina al curatore speciale in caso di conflitto, v. Corte cost., 11 marzo 2011, n. 83, in Fam. dir., 2011, 547 ss. con nota di F. TOMMASEO e Cass., 14 luglio 2010, n. 16553, in Giust. civ., 2011, I, 2908, che cassa App. Milano 16 ottobre 2008, in Fam. dir. 2009, 251 con nota di F. TOMMASEO, la quale invece aveva ritenuto di nominare un difensore del minore e non un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.

20 Cfr., Cass., Sez. I, ord., 30 novembre 2020, n. 27234, in www.avvocatipersonefamiglie.it.

21 Il richiamo è a Cass., Sez. I, 6 marzo 2020, n. 6471, in www.judicium.it, con nota di A. DI BERNARDO, che nega l’applicazione dell’art. 14-bis all’obbligo di visita del figlio minore da parte del genitore non affidatario.