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Alcune considerazioni sull’Iniuria e i ‘rapporti familiari’

autore: L. Ingallina

Sommario: 1. Premessa. 2. Il delitto di iniuria, cenni in prospettiva evolutiva. 3. Familia e iniuria indiretta. 4. Un’ipotesi particolare di iniuria indiretta: considerazioni a margine di D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.



1. Premessa



All’interno della familia romana (proprio iure1) si instaurano rapporti e legami di natura eterogenea, che convergono verso l’apice di quella che può essere immaginata come una sorta di piramide, al cui vertice sta il pater familias2.

Egli è dominus di tutte le res che costituiscono il patrimonio familiare, compresi i servi. I suoi discendenti legittimi gli sono legati da vincoli di potestà ed egli può esercitare la manus sulla propria moglie e su quelle dei propri figli sottoposti3. Entro la categoria dei figli legittimi sono compresi anche quelli poi emancipati, che il pater familias ha però voluto sciogliere dal proprio vincolo potestativo. È titolare di prerogative uniche con riferimento ai figli in potestate: esercita infatti lo ius vitae ac necis, lo ius tollendi, lo ius vendendi e lo ius noxae dandi: gli è dunque possibile, in alcuni casi e con limitazioni progressive4, persino uccidere i propri figli, scegliere se accoglierli o meno come propri discendenti legittimi, venderli o metterli nella disponibilità di un terzo che sia stato da essi danneggiato o leso5.

Il pater familias può persino interferire nelle scelte personalissime dei propri figli, imponendo loro il fidanzamento e dunque anche il matrimonio6.

Può inoltre scegliere se munire i propri discendenti di un peculio7, così come può concederlo ai propri servi, sui quali vanta quei poteri assoluti che un dominus esercita in relazione a qualsiasi altra ‘cosa’ si trovi nella sua proprietà. L’evoluzione sociale imporrà col tempo alcuni temperamenti di questo potere assoluto, tanto nei confronti degli schiavi, quanto nei confronti dei figli e delle mogli, ma il pater familias resterà sempre al vertice della struttura piramidale della famiglia: non solo ad esso è assegnato il compito di assicurare una stirpe, bensì gli è anche affidata la conservazione e la tradizione dei sacra familiaria. Il pater familias rappresenta quindi un anello di congiunzione tra passato, presente e futuro, tra vita e morte, tra persone viventi e antenati defunti8.

Il pater familias, garantendo a sé stesso una stirpe, procura una discendenza non solo alla familia proprio iure, ma anche alla comunità gentilizia, nonché a quella sociale di appartenenza, che contano sul contributo di ogni nucleo familiare. La procreazione è dunque concepita come finalità primaria dell’unione coniugale e la responsabilità di avere figli accomuna l’uomo alla donna e coinvolge aspetti privati e pubblici della società romana.

Le vicende che riguardano i soggetti che, a vario titolo, sono sottoposti al capo famiglia coinvolgono quasi sempre il loro ‘vertice’.

Persino gli atti di natura illecita che i terzi rivolgano all’indirizzo di un servus, di una donna sposata, o di un filius familias toccano gli interessi e i diritti di chi è dominus, marito e pater familias.

La patria potestas non è quindi solo espressione di potere incontrastato e strumento di trasmissione dei sacra e della tradizione ‘familiare’, bensì manifestazione simbolica dello status onorifico della familia: una condizione direttamente vulnerabile da parte di quelle offese rivolte al capostipite vivente, il quale può tuttavia essere anche oggetto di una lesione indiretta, che si configura in via mediata attraverso l’offesa procurata ad un sottoposto, sia esso un filius familias, un servus o una donna che, entrata a far parte della familia mediante matrimonio cum manu, assuma a sua volta la posizione di una ‘sottoposta’.

Colui che per esempio commette iniuria in danno di chi è legato da rapporti di patria potestas, vincoli coniugali, o dominicali, o semplicemente da rapporti di ‘affetto’, risponderà del fatto commesso anche in forza di questi ‘speciali’ elementi di unione, che sembrano proprio ‘qualificare più gravemente’ la condotta illecita.



2. Il delitto di iniuria, cenni in prospettiva evolutiva



L’iniuria è un illecito di ius civile che conosce una complessa evoluzione normativa e giurisprudenziale: essa consiste in qualsiasi atto che sia contra ius, ossia non conforme al diritto9.

Si configura inizialmente solo in caso di lesioni corporali e percosse rivolte in danno di qualcuno: stando in particolare alla legislazione decemvirale10, erano previste e punite le condotte di chi procurava l’inutilizzabilità permanente di un arto o di un organo (membrum ruptum), la frattura di un osso (os fractum) o una lesione lieve che ricomprendeva anche la moderna fattispecie delle ‘percosse’11. Le pene previste erano pecuniarie12 e variavano in forza del tipo di lesione e della categoria dei soggetti lesi.

Col tempo l’intervento del pretore determinò importanti modifiche tanto sul piano della tipologia e della quantificazione della pena, quanto – in forza del ius honorarium – con riferimento all’estensione del concetto stesso di iniuria13.

Sotto il profilo processuale, forse già nel II sec. a.C., venne introdotto un giudizio estimatorio14 (actio iniuriarum aestimatoria) in virtù del quale il giudice privato15 aveva l’arbitrio di condannare il colpevole in misura proporzionata all’offesa arrecata, secondo criteri equitativi16. Nella formula17 il pretore poteva però indicare una taxatio18, ovvero un limite pecuniario massimo oltre al quale la condanna del iudex privatus non doveva spingersi19: la pena poteva in tal caso consistere in una somma minore ma non maggiore di quella fissata dal magistrato. In alcuni casi l’iniuria era considerata atrox20, ovvero particolarmente grave per la tipologia di offesa, per la modalità della condotta materiale tenuta o per lo status dell’offeso, magari personaggio d’alto rango, o dell’offensore, per esempio di basso ceto sociale; in tali ipotesi era direttamente il pretore, nella fase in iure, a stabilire l’ammontare della condanna, senza necessità di valutazione da parte del iudex privatus, che, all’esito della fase istruttoria, che si compiva – appunto – apud iudicem, si limitava ad irrogare la sanzione prestabilita21.

Apprendiamo dal commento edittale ulpianeo che l’attore che agisse ex iniuriis aveva l’onere di una descrizione chiara, precisa, puntuale e circostanziata della condotta lesiva che riteneva di aver subito22. La sua specifica indicazione dei fatti, arricchendo la demonstratio23, consentiva al pretore di verificare da subito la congruenza dell’azione processuale richiesta rispetto ai fatti oggetto di causa, nonché l’individuazione della condotta lesiva.

Come in tutti gli altri giudizi, a fronte di vizi di forma o di manifesta infondatezza, il magistrato poteva decidere di denegare actionem o denegare iudicium24.

Ai fini di un’obiettiva valutazione circa la verosimiglianza del diritto, era in alcuni casi fondamentale una previa causae cognitio25.

Col tempo, per intervento pretorio e per effetto dell’interpretazione giurisprudenziale, l’iniuria arriverà a ricomprendere le più disparate fattispecie di lesione morale26, tra cui l’offesa verbale, la diffamazione, scritta e orale, le condotte lesive del pudore, persecutorie e moleste in danno di donne di una certa levatura morale o di giovani praetextati.

In tutti questi casi si assiste ad una lesione all’onore e/o al decoro della persona colpita dal comportamento offensivo, tutelabile mediante un’actio iniuriarum27. L’estensione della tutela avvenne mediante la previsione di numerosi editti speciali, che, secondo un’ipotesi accreditabile, affiancarono l’editto generale De iniuriis aestumandis28.

In particolare, seguendo la ricostruzione di Lenel29, venne previsto l’editto De convicio30, che puniva la condotta di chi si assembrava in gruppo presso il domicilio di una persona che veniva insultata; la fattispecie si configurava anche nell’ipotesi in cui il medesimo comportamento illecito si consumasse in un luogo frequentato dalla vittima.

L’editto De adtemptata pudicitia31 puniva l’attentato al pudore delle donne di una certa moralità e dei giovani che indossavano la toga praetexta. In proposito Ulpiano32 e Paolo33 precisano in cosa consista tale condotta illecita, identificando l’evento che ‘configura’ il delitto: se qualcuno tenti di rendere ‘impudica/us’ una femmina o un maschio, siano essi nati liberi oppure schiavi liberati, l’autore risponderà di iniuria. Ma anche qualora qualcuno abbia tentato di rendere ‘impudicus’ un servo risponderà comunque ex iniuriis. Paolo in particolare descrive la condotta che integra l’adtemptata pudicitia: “fare diventare impudicus qualcuno che era pudicus”; in questa sede del suo commento edittale il giurista non specifica tuttavia le singole modalità di condotta34.

L’editto De iniuriis quae servis fiunt puniva l’offesa subita indirettamente dal dominus di uno schiavo in conseguenza di alcuni comportamenti illeciti rivolti a quest’ultimo.

L’editto De noxali iniuriarum actione si riferiva all’ipotesi in cui un pater familias o un dominus venissero sanzionati a causa dell’iniuria commessa da chi era a questi legato da un vincolo di potestà o da un rapporto servile: se un filius familias o un servus commetteva iniuria in danno di un terzo, ne rispondeva infatti chi ne era – in un certo senso – ‘responsabile’, in qualità di pater familias o di dominus. Costui, come noto, poteva risarcire direttamente la persona lesa o mettere il colpevole nella disponibilità dell’offeso, affinché quest’ultimo potesse ‘soddisfarsi’ sull’autore del fatto.

L’editto Si ei, qui in alterius potestate erit, iniuria facta esse dicetur prevedeva i casi in cui un pater familias subisse iniuria indirecta a causa dell’offesa rivolta al figlio in sua potestate.

L’editto Ne quid infamandi causa fiat sanzionava ogni tipo di condotta diffamatoria tenuta in danno di una persona35.

Fu anche previsto l’editto De contrario iniuriarum iudicio per sanzionare chi avesse intentato un giudizio temerario, agendo ex iniuriis36.

Con riferimento all’elemento soggettivo, previsto ai fini della configurabilità dell’illecito, è richiesto un dolo specifico, da intendersi come volontà consapevolmente diretta a recare iniuria alla vittima, ovvero l’animus iniuriandi37.

Stando ad Ulpiano, tutti coloro i quali sono in grado di patire, rectius di percepire l’iniuria su di sé, comprendendone quindi la portata lesiva, sono allo stesso tempo soggetti in grado di porre in essere tale condotta illecita, eccezion fatta per il furiosus e l’impubes: costoro infatti pati iniuria solent, ma non sono in condizione di porre in essere, con dolo, l’illecito in questione38, mancando in loro la consapevolezza.

L’evoluzione successiva vide l’attrazione dell’iniuria – quanto meno per quanto riguarda alcune tipologie particolarmente gravi39 – nell’ambito della Lex Cornelia de iniuriis40: il giudizio, che poteva anche essere promosso dai privati cittadini, si svolgeva davanti ad una corte criminale, la quaestio de iniuriis41.

Si assiste dunque alla configurazione di una sorta di doppio binario: i delitti di iniuria meno gravi continuano ad essere perseguiti con un giudizio privato che si svolge dinnanzi al pretore; i casi più gravi sono sanzionati con un giudizio pubblico di repressione criminale.

Il problema del concorso tra azione privata e ricorso pubblico venne poi risolto mediante il criterio dell’alternatività, probabilmente già previsto dalla stessa lex Cornelia42.



3. Familia e iniuria indiretta



D. 47.10.1.3, Ulp. 56 ad ed.

Item aut per semet ipsum alicui fit iniuria aut per alias personas. Per semet, cum directo ipsi cui patri familias vel matri familias fit iniuria: per alias, cum per consequentias fit, cum fit liberis meis vel servis meis vel uxori nuruive: spectat enim ad nos iniuria, quae in his fit, qui vel potestati nostrae vel affectui subiecti sint43.

“E così a qualcuno viene fatta iniuria per sé medesimo o attraverso altre persone. Per sé medesimo allorquando si commette iniuria direttamente in danno di un pater familias o di una mater familias. Si commette invece iniuria attraverso altre persone quando l’illecito indiretto ne sia una conseguenza: come ad esempio nel caso in cui si faccia iniuria ai miei figli o ai miei servi, o alla moglie o alla nuora. Riguarda infatti noi stessi quell’iniuria che venga rivolta a chi sia soggetto alla nostra potestas o a coloro che sono a noi congiunti per affetto”.

Nel commento edittale ulpianeo si legge che l’iniuria può essere diretta o indiretta; nel primo caso lede immediatamente il soggetto passivo dell’illecito, che è sui iuris44 e può trattarsi tanto di un pater familias quanto di una mater familias; nel secondo caso si assiste anche ad una lesione ‘indiretta’ in danno di una persona che viene offesa attraverso un altro soggetto.

In quest’ultima ipotesi, con un’unica condotta illecita si dà dunque luogo ad una lesione di più individui: c’è una vittima direttamente colpita dall’iniuria, il cui oltraggio reca offesa anche ad un secondo soggetto passivo, in via mediata e all’interno della familia. Quando questo avviene significa che un componente che appartiene ad una famiglia45 ha subito un oltraggio, una lesione, un’offesa, che determina la maggiore gravità dell’atto illecito, a cui conseguono specifici rimedi processuali: alla plurima lesione corrisponde infatti un ampliamento della legittimazione ad agire giudizialmente46.

L’iniuria rivolta ad un pater familias o ad una mater familias47 lede direttamente questi soggetti, che sono sui iuris48 e saranno (solo) costoro a radicare il giudizio.

L’iniuria compiuta in danno di un filius familias49 o di una donna sposata50 comporta anche un’offesa, indiretta, al pater familias-maritus, il quale potrà esercitare l’azione nomine proprio, cumulandola con quella promossa filii-uxoris-(nurus) nomine. Nel caso del comportamento illecito rivolto al servo, sarà in particolare concessa l’azione sulla base dell’edictum de iniuriis quae servis fiunt51; quando invece a subire l’iniuria sia il filius familias, sarà operante l’editto speciale si ei, qui in alterius potestate erit, iniuria facta esse dicetur52.

È evidente che il pater non possa ritenersi offeso da quell’iniuria commessa in danno del figlio emancipato e quindi uscito dalla patria potestas, o dato in adozione, così come dall’iniuria che abbia colpito il servo già liberato o alienato a terzi53.

Secondo parte della dottrina, il riferimento di Ulpiano a coloro che affectui subiecti sint legittimerebbe l’azione del marito, che agisce in quanto leso indirettamente dall’‘offesa’ rivolta alla moglie, che ha contratto con lui un matrimonio in assenza di conventio in manum54.

Sarebbe infine il rapporto di ‘affinità’ a giustificare l’azione del suocero in conseguenza dell’offesa subita dalla nuora55.



4. Un’ipotesi particolare di iniuria indiretta: considerazioni a margine di D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.



D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.

Idem ait Neratius ex una iniuria interdum tribus oriri iniuriarum actionem neque ullius actionem per alium consumi. Ut puta uxori meae filiae familias iniuria facta est: et mihi et patri eius et ipsi iniuriarum actio incipiet competere.

“Lo stesso Nerazio afferma che da un’unica iniuria può nascere un’azione processuale in capo a tre persone e che l’azione dell’una non è consumata da quella dell’altra. Immagina ad esempio il caso in cui venga fatta iniuria a mia moglie, ancora sottoposta al padre: sia a me, sia al di lei pater, sia a lei stessa, comincerà a spettare l’actio iniuriarum”.

Il frammento è tratto dal LVI libro di commento di Ulpiano all’editto del pretore, ove il giurista di Tiro si occupa, tra l’altro, proprio di iniuria, argomento che poi sviluppa anche nel libro successivo56.

Il brano in esame è raccolto da Lenel57 sotto la rubrica de iniuriis, che, entro un unico lungo passo, contiene una descrizione dettagliata dell’illecito. D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed. chiude questa sorta di ‘introduzione’, proponendo appunto un caso particolare di iniuria ‘indiretta’, la cui soluzione rappresenta una sorta di unicum.

Commentando l’Editto del Pretore, Ulpiano riporta il pensiero del giurista Nerazio: nella fattispecie si fa riferimento all’ipotesi in cui un soggetto, commettendo iniuria ai danni di una donna maritata e ancora in potestate, lede tre soggetti diversi, tutti legittimati ad agire contro l’offensore mediante l’actio iniuriarum, senza peraltro che l’azione dell’uno ‘consumi’ quella dell’altro.

Nerazio, giurista di scuola proculiana, console e membro del consilium di Traiano e Adriano, è autore dei libri membranarum58, opera a cui secondo Lenel59 deve essere ascritto il pensiero espresso nel brano in commento60. Ritenendo che la giurisprudenza avesse raggiunto un certo livello di stabilità, Nerazio si pone il problema della ricerca della certezza del diritto. È propenso anche al recupero dei valori della tradizione, a cui è ammissibile che venga sottoposta anche la creatività tipica del giurista61: egli propone una visione razionale e rigorosa del ius, entro la quale è pensabile rientrasse anche la regola espressa proprio in D. 47.10.1.9.

Nerazio – come detto – ritiene che da una sola condotta ingiuriosa possa nascere in capo a tre persone la legittimazione ad agire con l’actio iniuriarum; egli precisa poi un ulteriore aspetto processuale, per cui l’azione dell’una non consuma quella dell’altra.

Nel caso in cui venga tenuta una condotta ‘offensiva’ in danno di una donna sposata ed ancora soggetta alla patria potestas, l’azione ex iniuriis spetta sicuramente al marito, al padre della donna e a quest’ultima stessa62; l’autore dei libri membranarum è peraltro l’unico a riconoscere esplicitamente un’autonoma azione processuale in capo alla donna in potestate: Ulpiano lo riporta chiaramente – [...] et ipsi iniuriarum actio incipiet competere.

L’esemplificazione è formulata da Ulpiano come se parlasse il marito in prima persona (Ut puta uxori meae), al fine di chiarire meglio il pensiero di Nerazio. Un’attenta interpretazione letterale, che sia il più fedele possibile, non sembra lasciare dubbi: l’azione spetta sia a ‘me’ (‘mihi’ riguarda il marito che, nel frammento, parla – come detto – in prima persona), sia al padre della donna (‘patri eius’ non può che riferirsi al padre della donna: trattandosi appunto di una narrazione in prima persona, se si fosse voluto accennare al padre del marito, il giurista avrebbe usato l’aggettivo possessivo meus, declinato al dativo meo), sia alla stessa vittima diretta dell’iniuria (‘ipsi’ non può che riferirsi alla donna, poiché è il terzo soggetto dell’elencazione proposta dal giurista: et mihi et patri eius et ipsi...).

Sono qui opportune alcune riflessioni.

La soluzione interpretativa espressa nel frammento è tutt’altro che univoca, se per esempio si considerano quei passi in cui lo stesso Ulpiano attesta che, in caso di iniuria rivolta al filius familias, la legittimazione a proporre l’actio iniuriarum spetta direttamente al sottoposto solamente in via alternativa e residuale rispetto al diritto che vanta il di lui pater familias63.

In D. 47.10.4164 è addirittura lo stesso Nerazio a prevedere che, in caso di iniuria in danno di un filius familias, soltanto il padre possa agire, a tutela di sé stesso e a tutela del proprio sottoposto. La fonte parla al riguardo di due giudizi distinti, ma entrambi riservati all’avente potestà: uno finalizzato a reprimere l’offesa diretta subita dal filius familias, l’altro radicato per punire l’iniuria subita indirettamente dal pater familias.

Anche se si cambia prospettiva e si analizza la posizione della vittima in qualità di donna sposata si deve osservare ancora una volta la peculiarità del pensiero di Nerazio: il giurista le assegna direttamente una legittimazione processuale attiva all’actio iniuriarum (et ipsi), che va ad aggiungersi a quella del padre (patri eius) e a quella del marito (et mihi).

In proposito si deve osservare che né Gaio (3.221), né lo stesso Ulpiano (D. 47.10.1.3), né il manuale istituzionale imperiale (I. 4.4.2) fanno riferimento esplicito ad una autonoma legittimazione processuale attiva della donna: le tre fonti si limitano infatti ad evidenziare la possibilità di azione da parte del pater familias65 e/o del di lei marito.

È il caso di evidenziare anche una consonanza tra i due principali commenti edittali:

stando a Paolo66, se una figlia sposata, ma ancora sottoposta al padre, subisce l’iniuria, potranno ricorrere al pretore con l’actio iniuriarum tanto il marito quanto il padre. Anche Paolo sostiene dunque che l’illecito perpetrato contro un soggetto legato da rapporti di patria potestas o coniugali amplia la legittimazione ad agire ex iniuriis: due saranno dunque le azioni radicate e l’una non ‘consuma’ l’altra.

Emerge tuttavia una evidente differenza tra i frammenti che appartengono ai due commenti all’editto: Ulpiano, rectius Nerazio, riconosce una diretta legittimazione ad agire (anche) alla donna stessa, mentre Paolo si riferisce esclusivamente alla tutela contro l’iniuria indirettamente subita dal padre e dal marito della donna. Paolo però aggiunge poi chiaramente che la donna maritata e non più sottoposta alla patria potestà potrà agire in prima persona a tutela dell’iniuria direttamente subita: la sua azione si aggiungerà quindi a quella radicata dal marito, leso soltanto in modo indiretto.

Sembra quindi che alla diretta interessata spetti l’azione processuale nella sola ipotesi in cui non sia (più) sottoposta al pater familias: in ciò è riscontrabile una simmetria tra fonti che si collocano lungo un arco temporale di secoli: Gaio (3.221), Ulpiano (D. 47.10.1.3), Paolo (D. 47.10.18.2) e Istituzioni imperiali (4.4.2).

Solo Nerazio – nella testimonianza ulpianea (D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.) – riconosce ad una donna maritata ed ancora in potestate un’autonoma legittimazione processuale attiva.

Nel commento di ius civile di Ulpiano67, ove il tema centrale del frammento è quello dell’aestimatio, ovvero della determinazione del quantum risarcitorio, il giurista fa tuttavia un’affermazione che, nel contesto che qui si discute, rimarca la questione dell’autonoma legittimazione processuale di chi si trovi ancora in potestate: nell’ipotesi in cui un filius familias sia stato leso da iniuria, l’interpretazione letterale della fonte consente di riconoscere tanto al padre quanto al figlio la possibilità di radicare giudizio ex iniuriis. In dottrina non manca chi sostiene che, al di là del dato letterale, la duplice azione spetti comunque solo al padre68.

Se ci si vuole attenere ad una interpretazione letterale del commento di Ulpiano a Sabino sembra potersi confermare la ‘regola’ di Nerazio, e quindi che il giudizio possa essere radicato dal figlio e dal padre; qualora si voglia invece interpretare il passo in modo conforme al commento edittale dobbiamo ‘supporre’ che la fonte minus dixit quam voluit: Ulpiano è forse intento a discutere la quantificazione dell’aestimatio e non si preoccupa quindi di fornire esplicite precisazioni sulla legittimazione processuale attiva69.

Se la ‘regola’ impone dunque che, in caso di iniuria in danno del filius familias, la legittimazione processuale attiva spetti al di lui avente potestà, in alcuni casi eccezionali è proprio il filius familias a poter radicare, nomine proprio, l’actio iniuriarum: qualora il pater familias sia assente e qualora inoltre non vi sia un procuratore, l’azione potrà allora essere concessa al diretto interessato, previa una causae cognitio, finalizzata proprio ad accertare, nel dettaglio, anche i presupposti della legittimazione processuale attiva70.

Se poi il pater familias è presente, ma si trova in condizioni di pazzia o in altre situazioni di ‘demenza’, potrà anche in questo caso agire il suo sottoposto; Ulpiano è particolarmente chiaro nella sua spiegazione: l’avente potestà furiosus, pur presente fisicamente, è tuttavia mentalmente assente71.

Ulpiano72 è altresì convinto (plane) che la legittimazione processuale attiva in relazione all’actio iniuriarum debba altresì precludersi al figlio offeso da iniuria anche qualora il padre, pur presente – fisicamente e mentalmente – scelga comunque di non agire in giudizio in quanto differisca tale facoltà, o qualora vi rinunci e perdoni l’iniuria. Per il giurista, diverso è però il caso in cui il padre sia fisicamente assente, in quanto è verosimile ritenere che, qualora fosse stato presente, avrebbe lui stesso radicato il giudizio.

Il commento edittale ulpianeo propone anche un altro caso peculiare: non è consentito che un pater familias ‘vile’ o ‘abietto’ possa rimettere l’offesa rinunciando all’actio iniuriarum: alla condizione disonesta del padre Ulpiano oppone la dignitas del figlio, sulla base della quale costui ha quindi tutto il diritto di difendersi ‘da solo’ per l’offesa subita73. Affinché il figlio sia legittimato processualmente non basta dunque che il padre ‘rinunci’ all’azione, occorrendo anche che quest’ultimo sia connotato da spregevolezza. In questo caso, l’onta subita verrà quindi valutata sulla base delle qualità personali del figlio, che qui fungono da parametro non solo ai fini della legittimazione processuale attiva, ma anche in funzione dell’aestimatio, ovvero della valutazione del quantum risarcitorio.

Ed ancora: in assenza del ‘nonno’74, rectius dell’avo, detentore della patria potestas in qualità di membro apicale della piramide75 familiare, si preferisce riconoscere la legittimazione processuale in capo al padre e non direttamente al nipote: il giurista Giuliano infatti, in un’ulteriore testimonianza ulpianea76, ritiene che quello del padre sia una sorta di “officium generale di protezione”77, legato prevalentemente a ragioni affettive78, dato che è appunto il nonno, ancora vivente, ad essere invece titolare della patria potestas... su entrambi.

Alla luce di questa breve rassegna, con riferimento alla legittimazione processuale attiva, è lecito affermare quindi che il pensiero di Nerazio, nella narrazione ulpianea, costituisca davvero un unicum. Le fonti attestano ancora una asimmetria laddove alla donna non è invece concesso il diritto di agire contro l’iniuria arrecata al marito.

Se infatti l’offesa rivolta ad una donna sposata legittima dunque il marito ad agire ex iniuriis, diversamente non si consente alla donna di radicare giudizio a difesa del consorte. La ragione va rinvenuta leggendo il commento edittale di Paolo79: “è conforme all’equità che le mogli siano difese dai mariti e non che i mariti siano difesi dalle mogli”.

Ciò, secondo Astolfi80, non esclude che una moglie possa avere comunque un ‘proprio’ interesse ad agire, essendo lei stessa offesa indirettamente dall’oltraggio rivolto al marito: in alcuni casi, qualora quest’ultimo non possa radicare il giudizio, potrà quindi agire la donna, nomine proprio. Se ne trova un esempio nel commento edittale ulpianeo81: un liberto che abbia subito iniuria dal patrono non potrà agire contro costui; lo potrà fare tuttavia la moglie, indirettamente offesa.

Va in ogni caso rilevato che il principio enunciato nel commento di Paolo82 all’editto verrà accolto nelle Istituzioni di Giustiniano83, ove chiaramente si ribadisce: “al contrario, se viene fatta offesa al marito, la moglie non può agire ex iniuriis: è conforme all’equità infatti che le donne siano difese dagli uomini e non che gli uomini siano difesi dalle donne”.

Va infine quanto meno fatto un cenno ad una questione piuttosto controversa: Ulpiano, in D. 47.10.1.9, non specifica se la donna offesa da iniuria sia sposata cum manu o sine manu. Il riferimento alla filia familias evidenzia come la stessa sia ancora sottoposta alla potestà paterna e potrebbe fare supporre che il relativo matrimonio sia in effetti avvenuto sine manu84. Va però detto che, quando scrive il giurista di Tiro, la conventio in manum è già in disuso da molto tempo, già da quando scrive Gaio e forse sin dall’epoca di Nerazio. In ogni caso la dottrina da sempre dibatte, coinvolgendo nella discussione anche i frammenti di Gaius 2.221 e di I. 4.4.2: l’interrogativo è il medesimo, ovvero se il marito possa agire processualmente solo se il matrimonio sia stato accompagnato dalla conventio in manum85. È certo che l’iniuria rivolta ad una donna sposata cum manu offenda anche il marito: la manus, allo stesso modo della patria potestas, è infatti un potere che appartiene all’uomo, il cui onore potrebbe essere leso indirettamente.

Non aiuta considerare che quando il pater familias emancipa il figlio, facendolo uscire dalla sua potestà, perde la legittimazione processuale attiva all’actio iniuriarum, poiché volontariamente ha rinunciato al potere legato alla sua potestas. Il marito, invece, è tale indipendentemente dalla sussistenza o meno della manus e la sua dignità è la medesima in entrambi i casi86 e probabilmente il bene giuridico tutelato non si limita all’onore del marito ma anche allo stesso legame di affetto che unisce i due coniugi87.

Ma ciò costituisce il punto di arrivo di un probabile contrasto giurisprudenziale – di cui sarebbe peraltro prova l’inequivocabile iunctura contenuta nel manuale imperiale88: id enim magis prevaluit, “e tale interpretazione89 è quella che prevalse” –, che potrebbe essere, col tempo, approdato alla soluzione proposta da Nerazio: la donna di D. 47.10.1.9 è infatti sposata sine manu.

Va peraltro ancora ribadito che la conventio in manum cade pian piano in disuso e il matrimonium cum manu, desueto già quando scrive Ulpiano, ai tempi di Giustiniano aveva cessato di esistere da lungo tempo, tanto che l’unico matrimonio (ri)conosciuto dall’Imperatore è senz’altro quello sine manu. Il fatto che la donna sia sottoposta alla potestas paterna non sembra dunque avere incidenza sulla legittimazione processuale attiva del marito, il quale può ricorrere al pretore proprio in quanto ‘marito’, per ragioni di onore e di affetto.

Probabilmente, la regola originaria assegnava una legittimazione processuale attiva al marito nella sola ipotesi in cui fosse avvenuta la conventio in manum. È tuttavia pensabile che di pari passo con il progressivo disuso del matrimonio cum manu cominciasse ad essere concessa la tutela ex iniuriis al marito della donna offesa, anche indipendentemente dalla sussistenza della manus stessa. Il caso descritto in D. 47.10.1.9 ne sarebbe una chiara esemplificazione, laddove vengono tutelati l’onore e l’affetto del marito di una donna a lui legata senza manus.

In proposito Paolo90 riporta l’opinione di Pomponio, nell’ambito di una testimonianza ove si attesta che l’iniuria rivolta all’uxor in nullius potestate e – presumibilmente – non soggetta neppure alla manus maritale, comporta comunque una legittimazione processuale attiva in capo al marito91.

È dunque plausibile che, progressivamente, il marito venga tutelato contro un oltraggio indiretto a prescindere dalla conventio in manum e dunque tenendo conto del suo status di coniuge e sulla base di un rapporto che è anche di natura affettiva.

Merita ancora qualche considerazione il tema dell’elemento psicologico che, in particolare, accompagni l’iniuria rivolta a quei soggetti che sono legati ad altri da rapporti di patria potestas, di coniugio o di affetto.

In D. 47.10.1.8, Ulp. 56 ad ed., che precede la descrizione del caso di iniuria in danno della uxor-filia familias92, Ulpiano richiama ancora Nerazio:

D. 47.10.1.8, Ulp. 56 ad ed.

Sive autem sciat quis filium meum esse vel uxorem meam, sive ignoraverit, habere me meo nomine actionem Neratius scripsit.

“Tanto nel caso in cui sappia che (la vittima) fosse mio figlio o mia moglie, quanto nel caso in cui l’autore (dell’iniuria) lo ignorasse, Nerazio scrisse che mi spettava l’azione (ex iniuriis) meo nomine”.

L’autore dei libri membranarum si sta appunto occupando dell’elemento psicologico relativo all’iniuria indirecta: egli afferma che la legittimazione processuale ad agire spetta al pater familias della vittima di iniuria e al di lei marito, indipendentemente dal fatto che l’autore dell’illecito fosse o meno a conoscenza che la donna si trovasse (ancora) in potestate e/o sposata.

Si può pertanto prudentemente affermare che, stando a Nerazio, il rapporto di coniugio e/o il rapporto di patria potestà aggravino obiettivamente la condotta illecita, incrementandone il disvalore e che ciò abbia significativi effetti sotto il profilo processuale93: l’iniuria commessa in danno di una uxor-filia familias risulta in sé e per sé idonea a legittimare una pluralità di azioni processuali e, ai fini della risarcibilità in giudizio di tutti i soggetti lesi, pare sufficiente che l’autore abbia intenzionalmente rivolto l’iniuria alla vittima direttamente ‘offesa’94.

Anche in questo caso la soluzione di Nerazio appare rigidamente severa, specie se si considerano quelle testimonianze che, ai fini dell’attribuzione della legittimazione processuale attiva in capo ai soggetti ‘indirettamente’ lesi, richiedono invece una evidente consapevolezza da parte dell’autore dell’illecito95: solo se chi agisce è consapevole di ledere un soggetto in potestate o che si trovi in un rapporto di coniugio, egli potrà subire più azioni processuali ex iniuriis, che dunque si cumulano tra loro senza consumarsi vicendevolmente96.

Un’ultima osservazione di carattere processuale. Nel descrivere al pretore la condotta lesiva, colui che agiva in giudizio doveva dunque prestare la massima attenzione per consentire al magistrato di individuare al meglio – già nella prima fase del giudizio – il tipo di illecito e al giudice privato – nel corso della fase istruttoria – di valutare efficacemente ogni fatto e circostanza: occorreva specificare nel dettaglio la condotta materiale, il luogo e il tempo dell’azione, le condizioni sociali dell’attore, quelle della vittima97, quelle dell’autore del fatto illecito. Andava inoltre evidenziato l’eventuale rapporto di patria potestas o di coniugio sussistente tra l’attore e la vittima ‘diretta’.

La stessa struttura della formula processuale prevista per l’iniuria dà la possibilità di una descrizione minuziosa, precisa e puntuale, che consente al pretore di individuare con chiarezza il tipo di iniuria subita dalla vittima, sia essa direttamente colpita dall’illecito, sia essa indirettamente oltraggiata, in forza di un rapporto di patria potestas o di affetto nei confronti della vittima diretta.

Questo modello di responsabilità evidenzia ancora una volta la posizione centrale del pater familias, anche con riguardo agli illeciti commessi in danno dei suoi sottoposti.

Vi sono beni giuridici tutelati in via immediata, come l’onore della vittima, ma anche in via indiretta, come il decoro dell’avente potestà, che rappresenta e governa, in qualità di membro apicale, l’intera familia proprio iure.

Padre o marito, l’uomo si vede riconoscere maggiore tutela: il padre agisce a salvaguardia del sottoposto e per garantire il ristoro della propria onta subita. Il marito è indirettamente oltraggiato a causa dell’offesa rivolta alla moglie: chi commette iniuria contro un soggetto legato da un rapporto di patria potestas o da un vincolo coniugale potrà subire plurime azioni processuali.

Nella previsione giuridica romana viene così a delinearsi un rigoroso sistema di responsabilità, qualificato proprio dalla sussistenza di rapporti familiari.











NOTE

1 D. 50.16.195.2, Ulp. 46 ad ed.: ... iure proprio familiam dicimus plures personas, quae sunt sub unius potestate aut natura aut iure subiectae...; mia trad.: “chiamiamo famiglia di proprio diritto più persone che sono soggette per natura o per diritto ad un’unica potestà”.

2 Che potrebbe non identificarsi – sempre – con il “parens... immediato”, bensì con un altro soggetto, maschio, nell’ordine degli ascendenti, come ad esempio l’avus, l’abavus, l’atavus: si veda F.P. casaVola, Isola sacra. Alle origini del diritto, in F.P. casaVola, d. annunziata, F. lucrezi, Isola sacra. Alle origini della famiglia, Napoli, 2019, 19-34, in particolare 25; per l’efficace immagine della struttura piramidale cfr. d. annunziata, Immagini sacre. Alle origini della patria potestas, in casaVola, annunziata, lucrezi, Isola sacra, cit., 37-77, in particolare 60-61.

3 Manus maritale e matrimonio sono strettamente connessi sino alle soglie dell’età classica, quando invece si afferma l’uso di contrarre matrimoni sine manu. Originariamente la donna che contraeva matrimonio entrava a far parte della famiglia del marito ‘cadendo’ nella manus di costui o del di lui pater, qualora l’uomo fosse ancora sottoposto alla patria potestà. In tal caso ella era considerata come se si trattasse di una ‘nuova figlia’ del pater familias e dunque... di una ‘sorella’ del marito. La conventio in manum avveniva attraverso la confarreatio, che era una cerimonia religiosa prevalentemente riservata alle classi agiate e che consentiva l’accesso ad alcune cariche pubbliche; si utilizzava anche la coemptio che configurava una sorta di vendita immaginaria con la quale la donna veniva ‘alienata’ dalla famiglia di origine a quella che l’accoglieva. Inoltre era stato stabilito dalla legislazione decemvirale che il matrimonio che si protraesse ininterrottamente per un anno facesse automaticamente ‘cadere’ la donna nella manus del marito. Il tema – qui accennato e semplificato – è ampiamente trattato e discusso dalla dottrina; cfr. ex multis e. Volterra, Nuove ricerche sulla conventio in manum, in Scritti giuridici, 3, Napoli, 1991, 3-107; e. cantarella, Sui rapporti fra matrimonio e conventio in manum, in RISG, 1959-1962, 93, 3a ser., 10, 181-228; i. Piro, “Usu” in manum convenire, Napoli, 1994; e. cantarella, L’usus e la conventio in manum. Rec. a I Piro, “Usu” in manum convenire, Napoli, 1994, in Labeo, 41.3, 434-449; c. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia Matrimonio Dote. Parte seconda, Roma, 2005, 185-325, con fonti e bibliografia; r. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Milano, 2014, 92-95; r. astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, Napoli, 2018, 227-491.

4 Strettamente legate a quei mutamenti sociali e morali che conseguono anche all’espansione militare, ai contatti con le nuove civiltà ed al fenomeno dell’ellenizzazione. Il modello romano dimostra – anche in questo, ovvero nell’evoluzione di quei poteri che sono espressione della patria potestas – un’evidente capacità di adattamento, idonea a permettere la preservazione degli istituti, adeguandoli alla realtà in divenire. L’istituto della patria potestas permane con una tensione dualistica: da un lato il persistere della figura apicale dell’avente potestà, dall’altro un cambiamento di forma e l’alleggerimento della forza coercitiva; sul punto si veda annunziata, Immagini sacre, cit., 70.

5 Il dibattito letterario in materia è consistente ed attuale: rinvio pertanto a F. Gallo, Osservazioni sulla signoria del pater familias in epoca arcaica, in Studi in onore di Pietro De Francisci, 2, Milano, 1956, 195-236; l. caPoGrossi coloGnesi, Ancora sui poteri del pater familias, in BIDR, 1970, 73, 356-425, ora in Scritti scelti, 2, Napoli, 2010, 669 ss.; a.M. raBello, Effetti personali della patria potestas. I. Dalle origini all’età degli Antonini, Milano, 1979, passim; B. alBanese, Le persone nel diritto privato romano, Padova, 1979, 247 ss.; c. GioFFredi, Funzioni e limiti della patria potestas, in Nuovi studi di diritto greco e romano, Roma, 1980, 77-112; P. Voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, in Iura, 1980, 31, 37-100, ora in Studi di diritto romano, 2, Padova, 1985, 397-463; l. caPoGrossi coloGnesi, s.v. Patria potestas, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, 242-249, ora in Scritti scelti, 2, Napoli, 2010, 769 ss.; ideM, Idee vecchie e nuove sui poteri del pater familias, in Poteri Negotia Actiones nella esperienza romana arcaica. Atti del convegno di diritto romano, Copanello 12-15 maggio 1982, Napoli, 1984, 53-76, ora in Scritti scelti 2, Napoli, 2010, 795 ss.; F.M. de roBertis, I limiti spaziali al potere del “pater familias”, in Labeo, 1983, 29, 164-174; y. thoMas, Vitae necisque potestas. Le père, la cité, la mort, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Rome, 1984, 499-548; P. Voci, Storia della patria potestas da Costantino a Giustiniano, in SDHI, 1985, 51, 1-72; c. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Parte Prima, Roma, 1994, 123289, con l’accurato apparato di fonti e relativi riferimenti alla letteratura; a. torrent, “Patria potestas in pietate non atrocitate consistere debet”, in Index, 2007, 35, 159-174, laddove l’Autore si occupa dell’importante testimonianza contenuta in D. 48.9.5, Marc. 14 inst.; cfr. ancora e. cantarella, L’ambiguo malanno.

Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Milano, 2017, in part. 171-173; eadeM, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Milano, 2017, 23 ss.; si veda ancora la diversa prospettiva di M. de siMone, Studi sulla patria potestas. Il filius familias ‘designatus rei publicae civis’, Torino, 2017; sulla libertà matrimoniale dei figli in potestate cfr. l. inGallina, Vincoli potestativi, libertà matrimoniale e responsabilità nel fidanzamento romano, in L’Osservatorio sul diritto di famiglia. Diritto e processo, a. II, f. 3, settembre-dicembre 2018, 2019, 113-119; si veda anche casaVola, annunziata, lucrezi, Isola sacra, cit., ove ben si delineano non solo l’essenza del concetto di patria potestas, ma anche la peculiare posizione femminile all’interno della familia (in part. F. lucrezi, Prigione sacra. Alle origini della soggezione femminile, in ibid., 81-120); sulla compressione della libertà matrimoniale quale ulteriore espressione della patria potestas cfr. l. inGallina, Il valore del consenso nel matrimonio romano classico, in L’Osservatorio sul diritto di famiglia. Diritto e processo, a. IV, f. 2, maggio-agosto 2020, 133-143, in particolare 141-143; ed ancora c. Buzzacchi, L’infanzia è muta: a proposito della violenza sui minori in Roma antica, in Tra odio e (dis)amore. Violenza di genere e violenza sui minori dalla prospettiva storica all’era digitale, a cura di a. santanGelo cordani, G. ziccardi, Milano, 2020, 1-18, in particolare 5-18.

6 Anche in questo caso, col tempo, la giurisprudenza comincia ad interrogarsi sul valore del consenso dei diretti interessati e, più in generale, sulla iniquità delle imposizioni matrimoniali che possano direttamente o indirettamente pregiudicare una libera manifestazione del consenso alle nozze.

7 Cfr. per tutti Fayer, La familia romana, I, cit., 250-268.

8 “Il pater è il custode dei sacra familiaria, l’interprete della volontà degli avi e il

depositario dei comandamenti da essi impartiti...”, così, efficacemente, annunziata, Immagini sacre, cit., 59, con bibliografia.

9 th. MoMMsen, Römisches Strafrecht, Leipzig, 1899; d.V. siMon, Begriff und Tatbestand der “iniuria” im altrömischen Recht, in ZSS, 1965, 82, 132 ss.; V.l. da nóBreGa, L’iniuria dans la loi des XII Tables, in Romanitas, 1967, 8, 250 ss; M. kaser, Die Beziehung von lex und ius und die XII Tafeln, in Studi in memoria di Guido Donatuti, II, Milano, 1973, 523 ss.; a. Watson, Personal Injuries in the XII Tables, in TR, 1975, 43, 213-222; r.h. halPin, The Usage of iniuria in the Twelve Tables, in Irish Jurist, 1976, 11, 344 ss.; J. Plescia, The Development of “Iniuria”, in Labeo, 1977, 23, 271-289; B. alBanese, Una congettura sul significato di “iniuria” in XII tab. 8.4, in Iura, 1980, 31, 21 ss.; c. GioFFredi, In tema di iniuria, in Nuovi studi di diritto greco e romano, Roma, 1980, 148 ss.; e. Polay, “Iniuria dicitur omne quod non iure fit”, in BIDR, 1985, 88, 73-81; ideM, Iniuria Types in Roman Law, Budapest, 1986; a. di Francesco, Autodifesa privata e “iniuria” nelle XII Tavole, in Le XII Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di M. Humbert, Pavia, 2005, 415-440.

10 Si tratta come noto di uno dei fondamenti del sistema giuridico romano, prodotto dai decemviri legibus scribundis tra il 451 e il 450 a.C., definito dallo storico Livio (3.34.6) come “fonte di tutto il diritto pubblico e privato”. Una sorta di originaria codificazione ufficiale, prima e ultima per quanto attiene il periodo che va dall’età Repubblicana sino al Principato. Sulla base del modello ateniese, la codificazione, scritta dietro forti pressioni sul patriziato da parte della plebe, venne affissa nel foro, ove rimase a tutti visibile e conoscibile probabilmente sino all’incendio di Roma del 386 a.C. Sull’argomento mi limito a questo cenno e rinvio ex multis a G. GiliBerti, Elementi di storia del diritto romano, Torino, 19972, 60-63 e a P. ceraMi, M. Miceli, Storicità del diritto. Strutture costituzionali, fonti, codici. Prospettive romane e moderne, Torino, 2018, 158-162; sullo specifico tema dell’iniuria nelle 12 Tavole si veda, da ultimo, s. Fusco, Specialiter autem iniuria dicitur contumelia, Roma, 2020, 17-28.

11 G. cornil, Ancien Droit Romain, le problème des origines, Paris, 1930, 80 s.; B. schMidlin, Das Rekuperatorenverfahren. Eine Studie zum römischen Prozess, Freiburg, 1963, 29; u. Von lüBtoW, Zum römischen Injurienrecht, in Labeo, 1969, 15, 131-167; Polay, Iniuria Types, cit., 16 ss.; da nóBreGa, L’iniuria, cit., 269.

12 Gai. 3.223: Poena autem iniuriarum ex lege XII tabularum propter membrum quidem ruptum talio erat; propter os vero fractum aut conlisum trecentorum assium poena erat, si libero os fractum erat; at si servo, CL; propter ceteras vero iniurias XXV assium poena erat constituta. et videbantur illis temporibus in magna paupertate satis idoneae istae pecuniae poenae esse. Le XII Tavole, per il caso del membrum ruptum prevedevano (ancora) la pena del taglione, salvo che offensore ed offeso non si fossero accordati per una volontaria composizione pecuniaria; per l’os fractum erano previste pene pecuniarie elevate; per le lesioni di minore importanza la pena prevista era pecuniaria, ma meno elevata; bastino qui questi cenni. Cfr. per tutti G. nicosia, Profili istituzionali di diritto privato romano, Catania, 2017, 348-349.

13 Cfr. a. loVato, s. Puliatti, l. solidoro, Diritto privato romano, Torino, 20172, 612-614. La creazione di un’actio iniuriarum corrisponde ad un intento riformatore da parte del pretore, che previde appunto una consistente modifica sul piano sanzionatorio attraverso il passaggio da una pena fissa prestabilita ad una pena che fosse commisurata alla gravità del fatto lesivo: si veda per tutti c.a. cannata, Profilo istituzionale del processo privato romano. II: Il processo formulare, Torino, 1982, 92.

14 Furono quindi progressivamente abbandonate la prassi del taglione (cfr. l. Franchini, La desuetudine nelle XII Tavole nell’età arcaica, Milano, 2005, 45 ss.) e – come detto – il ricorso ad una pena fissa che, col tempo, si dimostrò persino irrisoria (cfr. il noto Gell. 20.1.13). Vennero poi definitivamente superate le pene decemvirali. Sulla natura onoraria dell’actio iniuriarum cfr. Coll. 2.5.5: Iniuriarum actio aut legitima est aut honoraria...; mia trad.: “l’actio iniuriarum è legittima oppure onoraria...”; si veda per tutti ad es. M. aMelotti, Actiones perpetuae e actiones temporales nel processo formulare, in SDHI, 1956, 22, 185 ss.

15 A discrezione del magistrato, si ricorreva ad un collegio di giudicanti di tre o cinque persone, che avevano il compito di stimare la lesione subita. Gaio (3.224) fa riferimento ad un giudice unico: sed nunc alio iure utimur. Permittitur enim nobis a praetore ipsis iniuriam aestimare, et iudex vel tanti condemnat, quanti nos aestimaverimus, vel minoris, prout illi visum fuerit...; mia trad.: “ma ora ci serviamo di un altro ‘diritto’. Infatti è permesso a noi stessi da parte del pretore di stimare l’iniuria e il giudice o condanna sulla base di quanto noi avremo stimato, o di meno, a seconda di quanto gli sarà sembrato opportuno”. Sul punto si veda r. Fiori, Le formule dell’actio iniuriarum, in Acta juridica et politica, 2004, LXV, f. 8, 147-156, in particolare 152-154.

16 In quantum bonum et aequum videbitur; cfr. per es. D. 47.10.17.2, Ulp. 57 ad ed.; si vedano ex multis cannata, Il processo formulare, cit., 92-93 e d. MantoVani, Le formule del processo privato romano. Per la didattica delle Istituzioni di diritto romano, Padova, 19992, 75 nt. 324.

17 L’actio iniuriarum prevede una formula priva di intentio (cfr. per tutti cannata, Il processo formulare, cit., 88), locus di solito adibito alla descrizione della pretesa dell’attore, ed è invece provvista di una ampia demonstratio, di solito finalizzata a ‘chiarire’ l’intentio, ad esempio esplicitando la fonte dell’obbligazione. Nell’actio iniuriarum la demonstratio ‘chiarisce’ il più possibile l’evento lesivo, descrivendolo con precisione sotto il profilo fattuale e circostanziale; (ibidem, 94). Sulla struttura della formula si vedano: V. aranGio-ruiz, Le formule con demonstratio e la loro origine, in Studi Cagliari, 1912, 4, 30 ss., ora in Scritti di diritto romano, 1, Napoli, 1974, 321 ss.; G. laVaGGi, Iniuria e obligatio ex delicto, in SDHI, 1947-1948, 13-14, 143 ss.; a. cenderelli, Il carattere non patrimoniale dell’actio iniuriarum e D. 47.10.1.6-7, in Iura, 1964, 15, 159 ss.; F. la Penna, D. 47,10,1,6-7. Iniuria post mortem testatoris e intrasmissibilità dell’actio iniuriarum, in aa.VV., Testimonium Amicitiae, Milano, 1992, 181 ss.; MantoVani, Le formule, cit., 74 ss.; G. criFò, Le obbligazioni da atto illecito. Caratteristiche delle azioni penali, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al Profesor José Luis Murga Gener, Madrid, 1994, 734; Fiori, Le formule, cit., 147-156.

18 Probabilmente invitando l’offeso a determinarne il quantum.

19 Gai. 4.51; cfr. cannata, Il processo formulare, cit., 101.

20 Cfr. Gai. 3. 225: la maggiore gravità poteva sussistere ex facto, ex loco,

ex persona, ovvero in base alla modalità della condotta, al luogo ove avveniva l’illecito, allo status dell’offeso o dell’offensore. Si vedano D. 47.10.7.7, Ulp. 57 ad ed., ove Ulpiano chiarisce che si tratta delle iniuriae maggiormente offensive, e D. 47.10.7.8, Ulp. 57 ad ed., quando Ulpiano riporta la tripartizione di Labeone, secondo il quale l’iniuria è considerata atrox a seconda del soggetto che subisce l’illecito, tenendo conto della circostanza in cui si commette il delitto o in base alla modalità del comportamento. Sarà ad esempio più grave quell’iniuria rivolta ad un magistrato, oppure commessa alla presenza di più soggetti, o ancora che derivi da una ferita o da una percossa al volto. In D. 47.10.9 pr.-1, Ulp. 57 ad ed. il giurista di Tiro fa riferimento a Pomponio; ci si chiede se sia da considerarsi atrox la sola lesione corporale, ma l’autore dell’Enchiridion non lascia spazio a dubbi: l’iniuria è atrox anche al di fuori dei casi di corporalità della lesione, ben potendosi configurare anche in ipotesi di lesione morale. 21 Potendo semmai diminuirla. Basti qui un cenno, cfr. loVato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 613.

22 Cfr. D. 47.10.7 pr., Ulp. 57 ad ed.: Praetor edixit: ‘qui agit iniuriarum, certum dicat, ‘quid iniuriae factum sit’: quia qui famosam actionem intendit, non debet vagari cum discrimine alienae existimationis, sed designare et certum specialiter dicere, quam se iniuriam passum contendit; mia trad.: “il pretore stabilì: “colui che agisce ex iniuriis deve specificare con precisione che cosa fu fatto con ‘iniuria’”: dal momento che chi radica un’azione infamante, non deve divagare con pericolo per l’altrui valutazione, dovendo invece indicare e in particolare dire in modo certo quale sorta di iniuria abbia sofferto”. Il commento di Ulpiano all’editto (D. 47.10.7.4, Ulp. 57 ad ed.) propone poi una preziosa testimonianza di Labeone: Quod autem praetor ait ‘quid iniuriae factum sit, certum dicat’, quemadmodum accipiendum sit? Certum eum dicere Labeo ait, qui dicat nomen iniuriae, neque sub alternatione, puta illud aut illud, sed illam iniuriam se passum; mia trad.: “come deve essere interpretata l’affermazione del pretore “quid iniuriae factum sit, certum dicat”? Labeone sostiene che per la parola ‘certum’ si intende il nome (della tipologia) dell’iniuria ed inoltre che non si deve parlare in modo alterno” – (e quindi ambiguo) – “passando ad esempio da ‘quella’ o ‘quell’altra’ (tipologia); bisogna invece dire con precisione di aver subito quell’iniuria in particolare”. Anche nella Collatio (2.6.1-5) leggiamo di un puntuale onere di allegazione. Sul tema si veda per esempio Fusco, Specialiter, cit., 31-32.

23 Che proprio nell’actio iniuriarum aveva la funzione di fornire al magistrato ed al giudice privato quante più informazioni possibili circa la condotta lesiva subita. Era poi essenziale che durante il processo emergessero tutti gli elementi utili alla valutazione: e ciò con riguardo all’autore dell’illecito, alla vittima, alle circostanze e agli eventuali rapporti di potestà, di coniugio o di affetto, che potevano legare la vittima a qualcuno, come ad esempio il pater familias o il marito.

24 Il pretore actionem denegat quando, per vizi formali o per manifesta infondatezza o iniquità, non ritiene di poter concedere l’azione richiesta dall’attore; denegat iudicium quando ritiene di non concedere il giudizio dopo che anche il convenuto ha richiesto l’inserimento della propria exceptio all’interno della formula. Sono efficaci le parole di s. sciortino, Denegare iudicium e denegare actionem, in AUPA, 2015, 58, 197-238, in part. 208: “crediamo che le espressioni denegare (non dare) actionem ovvero denegare iudicium siano impiegate nelle fonti giuridiche in modo tecnico: viene impiegata la locuzione denegare iudicium in contesti incompatibili con la concessione di un programma di giudizio munito di exceptio; compare la locuzione denegare actionem allorquando il magistrato veniva posto di fronte ad una alternativa: rifiutare la concessione dell’azione ovvero concedere un programma di giudizio munito di exceptio”. Sul tema generale si vedano per tutti a. Metro, La “denegatio actionis”, Milano, 1972 ed ancora s. sciortino, “Denegare actionem”, decretum e intercessio, in AUPA, 2012, 55, 659-703.

25 Una valutazione sommaria dei fatti, agevolata dalla puntuale descrizione da parte dell’attore.

26 Si veda ad esempio Fusco, Specialiter, cit., 21 e nt. 13.

27 Originariamente prevista per le sole lesioni fisiche; cfr. per tutti Fusco, Specialiter, cit., 22.

28 Databile probabilmente tra la fine del III e la prima metà del II sec. a.C. e comunque prima dell’emanazione della Lex Cornelia de iniuriis dell’81 a.C.

29 o. lenel, Das Edictum perpetuum, Leipzig, 1927, §§ 191-197, 400-403.

30 Databile intorno alla fine del II sec. a.C.

31 Probabilmente successivo alla Lex Scatinia del 220 a.C. e precedente al 193

a.C.; cfr. l. inGallina, Riflessioni in tema di iniuria alla sponsa, in QLSD, 2019, 9, 243-292, in part. 259, anche sulla base della ricostruzione di d. de laPuerta Montoya, Estudio sobre el “edictum de adtemptata pudicitia”, Valencia, 1999, 52 e di e. cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano, 1995, 141-154: l’Autrice osserva che in Plauto (Curc. 35-38) si riscontrano i termini nuptae, viduae, virgines, che in effetti sembrano rinviare ai tre soggetti tutelati dall’editto de adtemptata pudicitia. Sul punto anche Fusco, Specialiter, cit., 25-26.

32 D. 47.10.9.4, Ulp. 57 ad ed.: Si quis tam feminam quam masculum, sive ingenuos sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet; mia trad.: “se un tale cercò di far diventare qualcuno impudico, sia donna che uomo, sia libero, sia di condizione libertina, sarà tenuto in base all’actio iniuriarum. Ma anche se sia adtemptata la pudicizia di un servo, ha luogo l’actio iniuriarum”.

33 D. 47.10.10, Paul. 55 ad ed.: Adtemptari pudicitia dicitur, cum id agitur, ut ex pudico impudicus fiat; mia trad.: “si dice ‘attentare alla pudicizia’, quando si agisce in modo tale da rendere impudica una persona pudica”.

34 Per un approfondimento in tema di adtemptata pudicitia si vedano i lavori di inGallina, Riflessioni, cit., passim e Fusco, Specialiter, cit., 71-120, con fonti e bibliografia.

35 Probabilmente l’ultimo ad essere emanato; cfr. per tutti Fusco, Specialiter, cit., 26.

36 In molti si sono dedicati allo studio dei singoli editti ed alla relativa evoluzione; cfr. per esempio: P. huVelin, La notion de l’iniuria dans le très ancien droit romain, Paris, 1903, rist. anast. Roma, 1971, 93 ss.; s. di Paola, La genesi storica del delitto di iniuria, in Annali Catania, 1, Catania, 1947, 268 ss.; M. Marrone, Considerazioni in tema di iniuria, in Synteleia. Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, 1, Napoli, 1964, 475 ss.; t. sPaGnuolo ViGorita, “Actio iniuriarum noxalis”, in Labeo, 1969, 15, 33-76; P.B.h. Birks, The Early History of Iniuria, in RHD, 1969, 37, 163-208; Plescia, The Development, cit., 271 ss.; a.d. ManFredini, La diffamazione verbale nel diritto romano dell’età classica, Milano, 1979; J. santa cruz teiJeiro, a. d’ors, A proposito de los edictos especiales “de iniuriis”, in AHDE, 1979, 49, 653 ss.; M. Balzarini, “De iniuria extra ordinem statui”. Contributo allo studio del diritto penale romano dell’età classica, Padova, 1983, 209 ss.; Polay, Iniuria Types, cit., 94 ss.; de laPuerta Montoya, Estudio, cit.; M. Guerrero leBrón, La injuria indirecta en Derecho romano, Madrid, 2005; inGallina, Riflessioni, cit., 243-292; Fusco, Specialiter, cit., passim.

37 D. 47.10. 3 pr.-4 (Ulp. 56 ad ed.).

38 Si vedano, per tutti, G. donatuti, Il soggetto passivo dell’“iniuria”, in Studi di diritto romano, 2, Milano, 1977, 533 ss.; inGallina, Riflessioni, cit., 260-261; Fusco, Specialiter, cit., 34-36.

39 Pulsare, verberare, domum vi introire: dunque in caso di percosse, fustigazione, violazione di domicilio compiuta con violenza.

40 Risalente all’81 a.C.; cfr. G. rotondi, Leges publicae populi romani, Hildesheim-Zürich-New York, 1990, 359.

41 loVato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 613.

42 Criterio presumibilmente mantenuto sino a Giustiniano: cfr. I. 4.4.10: in summa sciendum est de omni iniuria eum qui passus est posse vel criminaliter agere vel civiliter...; mia trad.: “in generale bisogna sapere che, con riferimento ad ogni tipo di iniuria, colui che patì iniuria può agire criminaliter o civiliter”. Cfr. loVato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 613-614.

43 Va preliminarmente osservato quanto afferma Gaio nel proprio manuale istituzionale (3.221), che descrive l’iniuria indiretta dal punto di vista del soggetto passivo dell’illecito: il giurista precisa che si subisce iniuria in modo diretto quando colpiscono direttamente noi stessi, oppure in modo indiretto allorché l’illecito sia condotto in danno dei figli che abbiamo in potestate, ovvero contro le nostre mogli. L’autore delle Institutiones propone un esempio pratico: se avrai recato iniuria a mia figlia, sposata con Tizio, potrai subire l’actio iniuriarum proposta non solo filiae nomine, ma anche in mio nome e in nome di Tizio. Si tratta dunque di una triplice legittimazione ad agire: propone il giudizio il padre a nome della figlia ed ancora il padre nomine proprio, a tutela della propria onorabilità e di quella della familia; ed infine agisce Tizio, marito della donna, nomine proprio, a tutela della propria onorabilità. La dottrina (per esempio Guerrero leBrón, La injuria indirecta, cit., 78), ritiene opportunamente che l’elencazione di Gaio non sia esaustiva ma, in congruenza con il tipo di opera – un manuale per l’insegnamento – sia soltanto esemplificativa: lo dimostrerebbe per esempio il fatto che, nel paragrafo successivo (Gai. 3.222) il giurista prende in considerazione anche l’ipotesi di iniuria che, diretta ad un servo, colpirebbe indirettamente il suo dominus, legittimandolo ad agire. Gaio (3.220) propone inoltre una rassegna meramente esemplificativa sui modi con cui si configura l’iniuria. Per i problemi testuali di Gai. 3.221 si rinvia per tutti ad astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 349-351 e a Fusco, Specialiter, cit., 143 ss., con relativa accurata ricostruzione dottrinaria; di D. 47.10.1.3, Ulp. 56 ad ed. propongo, nel corpo del testo, una mia traduzione.

44 Gai. 1.48: ... Nam quaedam personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri sunt subiectae; trad. da loVato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 167: “infatti alcune persone sono di diritto proprio, altre sono soggette al diritto altrui”.

45 Da intendersi efficacemente (nella particolare prospettiva proposta da annunziata, Immagini sacre, cit., 38) come “luogo di origine di un’intera civiltà, base fondante della civitas romana”.

46 Emblematico e peculiare appare quanto riportato in D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.; cfr. per esempio Fusco, Specialiter, cit., 31 e 137. Si veda di seguito nel prosieguo della disamina.

47 Da intendersi qui come donna ‘di proprio diritto’ e connotata da una particolare condizione sociale, non sottoposta all’altrui potestà e senza vincoli coniugali. Sul concetto di mater familias in relazione al delitto di iniuria si vedano ad esempio inGallina, Riflessioni, cit., 246-255 e Fusco, Specialiter, cit., 138 ss., con ampia rassegna di fonti e bibliografia.

48 Non sottoposti quindi alla potestas di alcuno.

49 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 347; ideM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 456-457.

50 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 348; ideM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 456.

51 lenel, EP., cit., § 194, 401. Per esempio, nel caso di una verberatio (‘percossa’) condotta con modalità tali da risultare contra bonos mores o nel caso di torture inflitte a fini investigativi; negli altri casi il pretore concedeva al dominus l’actio iniuriarium dopo un’attenta valutazione anche attraverso la causae cognitio. Nei casi accennati il soggetto passivo dell’iniuria non è il servo bensì il suo padrone.

52 lenel, EP., cit., § 196, 402-403.

53 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 347; ideM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 456. L’emancipazione del figlio dalla patria potestà, l’adozione, la manumissio e l’alienazione del servo recidono infatti quei rapporti idonei a giustificare la legittimazione processuale attiva del pater familias e del dominus.

54 Guerrero leBrón, La injuria indirecta, cit., 79 e nt. 5.

55 Un cenno per esempio in inGallina, Riflessioni, cit., 267. Nelle Istituzioni di Giustiniano (I. 4.4.2) troviamo precise informazioni, in parte corrispondenti a quelle contenute nel manuale di Gaio: si subisce iniuria direttamente o indirettamente, allorché l’illecito avvenga in danno dei figli in potestate o della donna maritata. Nel caso in cui sia commessa iniuria contro una donna in potestate, maritata a qualcuno, l’autore subirà l’azione processuale radicata dal padre in nome della figlia e in proprio nome, nonché quella esercitata dal marito nomine proprio. Dal manuale imperiale si ricavano però due informazioni più dettagliate: in caso di iniuria commessa in danno diretto di un marito, la moglie non potrà agire ex iniuriis, poiché non appare conforme all’equità che gli uomini siano difesi dalle mogli. Sul punto si riscontra un precedente nel commento edittale di Paolo (D. 47.10.2, Paul. 50 ad ed.). In secondo luogo viene esplicitato che il suocero (titolare della patria potestas) potrà agire in difesa della nuora colpita da iniuria, nel caso in cui il di lei marito si trovi ancora sotto la potestà del proprio pater familias (appunto il suocero della donna).

56 o. lenel, Palingenesia Iuris Civilis 2, Leipzig, 1889 (rist. Roma 2000), coll. 766-777, frr. 1335-1369; propongo una mia traduzione di D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed. nel corpo del testo.

57 Pal. 2, cit., coll. 766-767, fr. 1335.

58 Opera casistica che propone anche riflessioni dogmatiche sul ius civile e

sul ius honorarium.

59 o. lenel, Palingenesia Iuris Civilis 1, Leipzig, 1889 (rist. Roma 2000), col. 771, fr. 41.

60 In particolare al V libro; cfr. lenel, Pal. 1, cit., coll. 770-771.

61 GiliBerti, Elementi, cit., 264.

62 Cfr. Guerrero leBrón, La injuria indirecta, cit., 93; astolFi, Il matrimonio nel

diritto romano classico, cit., 349; ideM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 457-458; Fusco, Specialiter, cit., 31 e 146.

63 Cfr. lenel, Pal. 2, cit., coll. 775-777, frr. 1362-1369, per es. D. 47.10.17.10, Ulp. 57 ad ed. Sul punto cfr. i lavori di inGallina, Riflessioni, cit., 274-276 e di Fusco, Specialiter, cit., 156 ss.

64 Nerat. 5 membr.: pater, cuius filio facta est iniuria, non est impediendus, quo minus duobus iudiciis et suam iniuriam persequatur et filii; mia trad.: “il padre, al cui figlio fu fatta iniuria, non deve essere impedito nell’agire processuale con due giudizi, al fine di perseguire l’offesa propria e quella del figlio”; stando a lenel (Pal. 1, cit., col. 771, frr. 40-41), il pensiero di Nerazio – attestato nella testimonianza ulpianea – proverrebbe a sua volta dal V libro delle membranae, medesimo locus a cui sarebbe riconducibile quanto espresso da Ulpiano in D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.

65 In particolare Gaio e il manuale di Giustiniano potrebbero riferirsi alla legittimazione attiva del padre ad agire anche in nome della figlia, mentre Ulpiano ancora più chiaramente afferma che ci tocca da vicino quell’iniuria che leda chi si trova sotto la nostra potestà e fra i nostri ‘congiunti per affetto’.

66 D. 47.10.18.2, Paul. 55 ad ed.: si nupta filia familiae iniuriam acceperit et vir et pater iniuriarum agant, Pomponius recte putat, tanti patri condemnandum esse reum, quanti condemnetur, si ea vidua esset, viro tanti, quanti condemnaretur, si ea in nullius potestate esset, quod sua cuiusque iniuria propriam aestimationem haberet. Et ideo si nupta in nullius potestate sit, non ideo minus eam iniuriarum agere posse, quod et vir suo nomine agat; mia trad.: “se una donna sposata, ancora soggetta alla potestas paterna, avrà subito iniuria, sia il marito sia il padre agiscano ex iniuriis; così Pomponio correttamente ritiene, che il reo debba essere condannato nei confronti del padre ad un ammontare pari a quanto sarebbe condannato se la donna fosse vedova e nei confronti del marito ad una somma pari a quanto sarebbe condannato se la donna non fosse in potestà di alcuno: questo perché l’iniuria arrecata contro ciascuno ha una sua propria aestimatio; per cui se la donna sposata non è soggetta alla potestas di nessuno, ciò non di meno essa può agire ex iniuriis, mentre anche il marito agisce a suo proprio nome”.

67 D. 47.10.30.1, Ulp. 42 ad Sab.: si filio iniuria facta sit, cum utrique tam filio quam patri adquisita actio sit, non eadem utique facienda aestimatio est; mia trad.: “se viene fatta iniuria al figlio, dato che ad entrambi, tanto al padre, quanto al figlio, spetta l’azione (ex iniuriis), comunque non deve essere fatta la medesima aestimatio per entrambi”.

68 In questa direzione per esempio Guerrero leBrón, La injuria indirecta, cit., 91.

69 Questa volta non aiuta neppure la collocazione nella Palingenesia, lenel,

Pal. 2, cit., col. 1172, fr. 2895, mentre si osserva che i compilatori hanno raccolto la testimonianza ulpianea tra due frammenti attribuibili al decimo libro di commento di Paolo a Sabino: in D. 47.10.29, Paul. 10 ad Sab. è attestato che in caso di manumissio o alienazione di un servo che abbia subito iniuria, permarrà comunque la legittimazione processuale attiva in capo al dominus. In D. 47.10.31, Paul. 10 ad Sab. si afferma che, in relazione alla dignitas del figlio, talora può considerarsi più grave l’iniuria a questo direttamente rivolta, rispetto a quella indirettamente patita dal pater familias: neppure dall’ordine sistematico delle Pandette si ricavano dunque elementi per definire con certezza la questione qui discussa.

70 D. 47.10.17.10, Ulp. 57 ad ed.: ait praetor: “Si ei, qui in alterius potestate erit, iniuria facta esse dicetur et neque is, cuius in potestate est, praesens erit neque procurator quisquam existat, qui eo nomine agat: causa cognita ipsi, qui iniuriam accepisse dicetur, iudicium dabo”; mia trad.: “dice il Pretore: “se a colui il quale si trovi in potestate altrui, viene fatta iniuria e se colui nella cui potestà si trova non sarà presente e se non vi sia neppure alcun procuratore che a suo nome possa agire, previa causae cognitio, a quello stesso che ha subito iniuria concederò il giudizio”“; sulla fonte per tutti cfr. Guerrero leBrón, La injuria indirecta, cit., 45 e Fusco, Specialiter, cit., 157-159 e 166 ss.

71 Cfr. D. 47.10.17.11, Ulp. 57 ad ed.: filio familias iniuriam passo, si praesens sit pater, agere tamen non possit propter furorem vel quem alium casum dementiae, puto competere iniuriarum actionem: nam et hic pater eius absentis loco est; mia trad.: “penso che l’actio iniuriarum competa al figlio sottoposto che abbia subito iniuria, (anche) qualora il pater familias, pur presente, non possa tuttavia radicare il giudizio in conseguenza della pazzia o di qualche altra causa di ‘demenza’: infatti è come se il padre fosse assente”.

72 D. 47.10.17.12, Ulp. 57 ad ed.: plane si praesens agere nolit, vel quia differt vel quia remittit atque donat iniuriam, magis est, ut filio actio non detur: nam et cum abest, idcirco datur filio actio, quia verisimile est patrem, si praesens fuisset, acturum fuisse; mia trad.: “chiaramente se (il pater) è presente e non voglia radicare giudizio, o perché (lo) differisce o perché rinunci e perdoni l’iniuria, è più opportuno che al figlio l’azione processuale non venga concessa: infatti nel momento in cui (il padre) fosse assente, per tale ragione l’azione processuale viene data al figlio, dal momento che è verosimile che qualora il pater familias fosse stato presente, avrebbe agito in giudizio”. Sul frammento un cenno anche in inGallina, Riflessioni, cit., 269.

73 Cfr. D. 47.10.17.13, Ulp. 57 ad ed.: interdum tamen putamus et si pater remittat, iniuriarum actionem filio dandam, ut puta si patris persona vilis abiectaque sit, filii honesta: neque enim debet pater vilissimus filii sui contumeliam ad suam vilitatem metiri. Ponamus esse eum patrem, cui iure meritoque curator a praetore constitueretur; mia trad.: “talvolta tuttavia riteniamo che l’actio iniuriarum vada concessa al filius familias qualora il padre rimetta l’iniuria: ad esempio nel caso in cui la persona del padre sia vile ed abietta, mentre il figlio è una persona onesta; infatti il padre assai vile non deve misurare l’oltraggio subito dal figlio in base alla propria spregevolezza; come ad esempio si verifica nel caso in cui al padre, giustamente e meritatamente, il pretore abbia affiancato un curatore”.



74 Appunto assente, ma ancora vivente.

75 Utilizzo ancora il termine impiegato nell’efficace descrizione di annunzia-

ta, Immagini sacre, cit., 61: “Il pater, quindi, rappresenta il vertice di due piramidi, speculari l’una all’altra: una dei vivi, visibile e palpabile, destinata a smembrarsi di continuo, l’altra dei morti, invisibile, destinata invece, ad accrescersi senza sosta, attraverso il progressivo ingresso dei patres nel regno dei morti”.

76 D. 47.10.17.18, Ulp. 57 ad ed.: quod deinde ait “qui iniuriam accepit”, interdum ita accipiendum est, ut patri eius competat actio. Ut puta nepoti facta iniuria est, pater praesens est, avus abest: scribit Iulianus patri potius dandam iniuriarum actionem quam ipsi nepoti: ad cuius, inquit, officium pertinet etiam vivente avo filium suum in omnibus tueri; mia trad.: “ciò che il pretore poi dice, “colui che ricevette iniuria”, deve alle volte così essere inteso: che compete l’actio iniuriarum al di lui pater. Ad esempio, nell’ipotesi in cui venga fatta iniuria al nipote mentre il padre è presente e il nonno è (invece) assente, Giuliano scrive che l’azione debba essere concessa al padre più che al nipote stesso; rientra infatti nel dovere del padre – così afferma il giurista – proteggere il proprio figlio in tutte le cose, pur essendo vivente l’avo”.

77 Così, efficacemente, Fusco, Specialiter, cit., 174-175.

78 E ciò richiama ancora alla mente quanto affermato in D. 47.10.1.3, Ulp.

56 ad ed.: ... spectat enim ad nos iniuria, quae in his fit, qui vel potestati nostrae vel affectui subiecti sint.

79 D. 47.10.2, Paul. 50 ad ed.: quod si viro iniuria facta sit, uxor non agit, quia defendi uxores a viris, non viros ab uxoribus aequum est. (Di cui, nel corpo del testo, propongo una traduzione). Sul punto r. astolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova, 1994, 136; Guerrero leBrón, La injuria indirecta, cit., 95-96 e nt. 43 e 143 con nt. 48; inGallina, Riflessioni, cit., 286-287; Fusco, Specialiter, cit., 148 nt. 34.

80 Il fidanzamento, cit., 136.

81 D. 47.10.11.7-8, Ulp. 57 ad ed.

82 D. 47.10.2.

83 4.4.2: ... contra autem, si viro iniuria facta sit, uxor iniuriarum agere non

potest: defendi enim uxores a viris, non viros ab uxoribus aequum est. ... (di cui, nel corpo del testo, propongo una traduzione).

84 Cfr. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 349; ideM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 458; ma si vedano le posizioni di a. corBino, Rec. a A.M. Rabello, Effetti personali della patria potestas. I. Dalle origini al periodo degli Antonini, in Iura 31, 1980, 184-193; ideM, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica, in La proprietà e le proprietà, Atti del Convegno, Pontignano 30 settembre 3 ottobre 1985, a cura di E. Cortese, Milano, 1988, 3-38 in part. 11 s.; i. Piro, “Usu” in manum convenire, Napoli, 1994, 69 ss.; e. cantarella, L’usus e la conventio in manum, rec. a I. Piro, “Usu” in manum convenire, in Labeo, 1995, 41, 439 s.; i. Piro, Riflessioni in tema di ‘in manu filii esse’, in Iura, 1996, 47, 93-160, in part. 139; u Bartocci, Le species nuptiarum nell’esperienza romana arcaica. Relazioni matrimoniali e sistemi di potere nella testimonianza delle fonti, Roma, 1999, 154 ss. Per una accurata ricostruzione della questione si veda Fusco, Specialiter, cit., 137-151.

85 E quindi solo nel caso in cui la donna sia ‘passata’ dalla soggezione alla potestà paterna al potere del marito, che, mediante la conventio in manum, instaura sulla propria uxor un vero e proprio potere di controllo. Sulla questione si vedano ad es. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 347-351 e Fusco, Specialiter, 138 ss. con accurata ricostruzione dottrinaria.

86 Cfr. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 348.

87 D. 47.10.1.3, Ulp. 56 ad ed.: spectat enim ad nos iniuria, quae in his fit, qui... affectui subiecti sint; mia trad. “riguarda noi stessi quell’iniuria che colpisce ... i nostri congiunti per affetto”.

88 I. 4.4.2.

89 Quella per cui il marito subisce l’iniuria attraverso l’offesa commessa in danno di sua moglie, presumibilmente anche in assenza di conventio in manum, ormai scomparsa – come detto – ai tempi di Giustiniano.

90 D. 47.10.18.2, Paul. 55 ad ed.

91 Una conferma anche in Paul. Sent. 5.4.3; cfr. Guerrero leBrón, La injuria

indirecta, cit., 94-95; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 348; ideM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 457; Fusco, Specialiter, cit., 150-151.

92 D. 47.10.1.8, Ulp. 56 ad ed. è a sua volta riconducibile al LVI libro del commento edittale ulpianeo; viene inserito dai compilatori subito prima del frammento ove Nerazio e Ulpiano si occupano della triplice legittimazione ad agire; il frammento è ancora raccolto da lenel in Pal. 2, cit., col. 767, fr. 1335 e Pal. 1, cit., col. 771, fr. 41. (Del frammento, nel corpo del testo, propongo una traduzione).

93 D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.

94 Cfr. per esempio astolFi, Il fidanzamento, cit., 136: il marito può agire nomine proprio contro l’autore dell’illecito anche se questi non lo conosceva e/o fosse ignaro della sussistenza del matrimonio; secondo Guerrero leBrón, L’injuria indirecta, cit., 135-136, Ulpiano concorderebbe con la visione – ‘severa’ – di Nerazio. Va tuttavia osservato come nel testo manchino espliciti riferimenti all’identità di pensiero tra i due giuristi che, come noto, sono separati da circa un secolo di evoluzione giuridica. La rigorosa impostazione di Nerazio è inoltre antitetica rispetto a quanto affermerà Paolo (D. 47.10.18.4-5, Paul. 55 ad ed.) nel proprio commento edittale che è – come noto – quasi coevo a quello di Ulpiano: è infatti possibile ipotizzare che tra la conclusione del commento edittale di Paolo e l’inizio di quello di Ulpiano sia intercorso un breve periodo di tempo e addirittura ritenere possibile una “parziale sovrapposizione” (si veda G. lucchetti, Paolo e i commentari edittali di epoca severiana: il legame con il passato, in G. lucchetti, a.l. de Petris, F. Mattioli, i. Pontoriero, Iulius Paulus. Ad edictum libri I-III, in Scriptores iuris Romani 2, dir. A. Schiavone, Roma, 2018, 39). Nei due commenti edittali, i due autori, sullo stesso argomento, sembrano riferire due cose diverse – ma questo solo ammettendo che Ulpiano faccia proprio il pensiero di Nerazio –: stando a Paolo, non si può non tenere conto della consapevolezza o meno da parte dell’autore dell’illecito in relazione alla condizione giuridica della vittima. Se chi commette iniuria non è consapevole del fatto che la persona direttamente offesa sia un filius familias e/o sposata, nella sua condotta occorre riconoscere come assente la volontà di offendere anche il padre e/o il marito della vittima. Per il giurista, ai fini dell’assegnazione della legittimazione processuale attiva al padre e/o al marito della vittima, l’autore dell’illecito deve quindi essere consapevole circa lo status familiare dell’offeso. Non è questa la sede per disquisire sulla posizione del pensiero ulpianeo in merito ai casi di ignorantia circa la condizione della vittima di iniuria, né tanto meno sul confronto dei due commenti edittali. Si è qui esposto quanto basta a considerare la posizione di Nerazio ancora una volta peculiare e appunto particolarmente ‘severa’. Per una migliore comprensione di D. 47.10.1.8-9, Ulp. 56 ad ed. e per uno studio relativo al pensiero di Nerazio si rinvia, tra gli altri, a F. raBer, Grundlagen klassischer Injurienansprüche. Forschungen zum römischen Recht, 28, Graz-Böhlau, 1969, 169; r. Greiner, Opera Neratii. Drei Textgeschichten, Karlsruhe, 1973, in part. 9-114; a.M. honoré, A StudyofNeratiusandaReflectiononMethod,inTRG,1975,43,223-240;V.scarano ussani, Valori e storia nella cultura giuridica fra Nerva e Traiano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli, 1979, 44-45; F. sitzia, Il conservatorismo di Nerazio, in Labeo, 1983, 29, 33-44, in part. 40-41; r.a. BauMan, Lawyers and Politics in the Early Roman Empire. A Study of Relations between the Roman Jurists and the Emperors from Augustus to Hadrian, München, 1989, in part. 194-213; V. scarano ussani, Empiria e dogmi. La scuola proculiana tra Nerva e Traiano, Torino, 1989, 61-63; J. MaiFeld, Die “aequitas” bei L.N. Priscus, Trier, 1991.

95 D. 47.10.18.4-5, Paul. 55 ad ed.: At cum aliquis filium familias patrem familias putat, non potest videri iniuriam patri facere, non magis quam viro, si mulierem viduam esse credat, quia neque in personam eorum confertur iniuria nec transferri personae putationem ex persona filiorum ad eos potest, cum affectus iniuriam facientis in hunc tamquam in patrem familias consistat. Quod si scisset filium familias esse, tamen, si nescisset, cuius filius esset, dicerem, inquit, patrem suo nomine iniuriarum agere posse: nec minus virum, si ille nuptam esse sciret: nam qui haec non ignorat, cuicumque patri, cuicumque marito per filium, per uxorem vult facere iniuriam; mia trad.: “ma quando qualcuno ritiene che un filius familias sia un pater familias non si può ritenere che abbia arrecato iniuria (anche) al pater familias e nemmeno che abbia arrecato iniuria al marito, qualora (l’autore del fatto illecito) ritenga che la donna sia vedova. E questo dal momento che l’iniuria non si riferisce a quelle persone (l’avente potestà e il marito), né ad esse può trasferirsi dalla persona dei figli a causa dell’errore circa la persona da parte dell’autore dell’illecito; mentre l’intenzione di colui che commette iniuria consiste nella sola offesa al pater familias. Ma se l’autore avesse saputo che (la vittima) era un filius familias, senza però sapere di chi fosse figlio, io direi – come è stato sostenuto – che il padre può agire suo nomine con l’actio iniuriarum, non meno che il marito, se l’autore (dell’illecito) sapeva che la donna era sposata; infatti colui che non ignora queste circostanze, vuole arrecare iniuria a qualunque padre tramite il figlio, a qualunque marito tramite la moglie”.

96 D. 47.10.1.9, Ulp. 56 ad ed.

97 Alla luce di quanto sin qui esposto è ormai chiaro che l’attore poteva es-

sere una persona diversa rispetto alla vittima direttamente lesa dall’illecito di iniuria; poteva ad esempio trattarsi del padre della vittima o del di lei marito.