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Fine vita, rispetto della dignità della persona, effettività delle scelte individuali (nota a Trib. Ancona, ord. 11 giugno 2021)

autore: C. Fossati

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il caso. - 3. Il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento. - 4. La sentenza 24 settembre 2019 n. 242 della Corte Costituzionale. - 5. L’Ordinanza del Tribunale monocratico di Ancona del 26 marzo 2021. - 6. L’Ordinanza del Tribunale collegiale di Ancona 11 giugno 2021.



1. Premessa



Con l’Ordinanza resa in data 11 giugno 2021 il collegio del Tribunale di Ancona1 si è pronunciato sul reclamo proposto avverso un primo provvedimento di rigetto, emesso dal giudice monocratico dello stesso Tribunale in data 26 marzo 20212 , sul ricorso in via d’urgenza promosso ai sensi dell’art. 700 c.p.c., da un uomo che chiedeva la verifica degli estremi di una situazione patologica irreversibile, per lui divenuta insopportabile e difforme dalla sua dignità, in relazione alla quale egli si era deciso ad accedere al suicidio assistito, nel rispetto delle volontà da lui espresse, secondo la procedura disegnata dalla Corte Costituzionale. I temi etici e giuridici dell’eutanasia e del fine vita sono stati attraversati in questi anni da sempre più sensibili esigenze di evoluzione della società e da nuove consapevolezze, dall’intervento legislativo attuato con la disciplina della legge n. 219 del 2017 sul biotestamento, dagli interventi della Consulta con i provvedimenti n. 207 del 2018 e n. 242 del 2019, dalle pronunce cui sono state via via chiamate le corti di merito3 . La sensibilizzazione dell’opinione pubblica è stata l’esito di un processo graduale, segnato dalle tappe delle drammatiche vicende di noti casi assurti agli onori delle cronache, nei quali le sempre più sofisticate tecniche capaci di mantenere il paziente in vita artificialmente hanno mostrato i limiti etici degli obiettivi ai quali dovrebbe tendere la cura4 .



2. Il caso



L’istante, vittima di un grave incidente stradale che gli aveva procurato nel 2010 la frattura della colonna vertebrale e lo aveva sprofondato in uno stato di totale prostrazione e dipendenza dall’aiuto di terzi per qualunque sua necessità, consapevole della irreversibilità della propria condizione e dell’impossibilità di vivere secondo la propria coscienza, dichiarava di non avere più alcun interesse alla prosecuzione di una vita così dolorosa e travagliata e di voler pertanto porre fine alla stessa. Oltre a redigere apposite dichiarazioni anticipate di trattamento, egli aveva chiesto in via stragiudiziale all’azienda sanitaria pubblica l’accertamento della sussistenza delle condizioni previste dalla sentenza di incostituzionalità numero 242 del 2019 della Corte Costituzionale, affinché potesse accomiatarsi dalla vita con la modalità meno invasiva ed evitando ogni possibile incriminazione di terzi per l’ipotesi di aiuto al suicidio. L’azienda sanitaria pubblica rispondeva che non era possibile procedere con la richiesta di verifica delle condizioni previste dalla sentenza Cappato della Corte Costituzionale poiché occorreva una legga in materia5 , come peraltro sollecitato dalla Consulta. La persona malata si vedeva costretta a formulare nuovamente la domanda in sede giudiziaria cautelare, instando per la verifica delle condizioni, previo parere del comitato etico competente, affinché la prescrizione del farmaco letale non costituisse reato ai sensi dell’art. 580 c.p., nel nuovo perimetro delimitato dalla sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale. L’azienda sanitaria si costituiva eccependo nel merito l’insussistenza di un obbligo per i sanitari di adoperarsi ai fini dell’assistenza al suicidio di un paziente, ritenendo che la sentenza numero 242 del 2019 non avesse portata direttamente applicativa, rilevando vice versa la possibilità per il ricorrente di rifiutare i trattamenti sanitari necessari alla sua sopravvivenza, ai sensi della legge n. 219 del 2017, mediante sedazione palliativa profonda continua.



3. Il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento



Anteriormente al predetto intervento legislativo in materia di consenso ai trattamenti sanitari, furono le magistrature superiori a tracciare un percorso, attraverso il quale si è assistito al passaggio da una concezione di stampo prettamente paternalistico in ambito sanitario, ad una nuova visione rappresentata dal fondamentale principio del consenso e dell’autodeterminazione del paziente. A segnare questa evoluzione furono dapprima la Corte Costituzionale6 e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo7 , le quali individuarono nell’autodeterminazione sanitaria il principio cardine del rispetto della persona e della vita privata. Fu quindi il caso Englaro8 a smuovere le coscienze, e decisiva in quella vicenda si dimostrò la Corte di Cassazione9 che pervenne all’affermazione secondo la quale nessuno può essere costretto ad un trattamento sanitario contro la sua volontà, e il medico è tenuto a verificare che quel rifiuto sia informato, autentico, attuale, anche attraverso la ricostruzione a posteriori della volontà della persona. Da lungo tempo attese10, con legge 22 dicembre 2017 n. 21911 sono state introdotte nel nostro ordinamento norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento che, lungi dall’affrontare integralmente le questioni implicate dal tema del fine vita, hanno tuttavia avuto il pregio di delineare quantomeno il quadro complessivo della relazione terapeutica e del rifiuto e/o sospensione di trattamenti sanitari vitali. Scopo programmatico, ma significativo, della legge è quello di contemperare la tutela della vita e della salute con la dignità e l’autonomia del paziente. Nell’ambito del rapporto terapeutico medico-paziente ed integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010 n. 38 sull’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore12, si inserisce il concetto di cura appropriata, comprensiva di terapia del dolore, sino a prospettare l’utilizzo della sedazione profonda, nonché una pianificazione condivisa delle cure e la possibilità per il paziente di predisporre disposizioni anticipate di trattamento. All’art. 1 comma V si sancisce il diritto del paziente al rifiuto delle cure, precisando che nel concetto di cure rientrano anche la nutrizione e l’idratazione artificiali13, e si prevede cheil medico si faccia parte attiva per promuovere ogni azione di sostegno al paziente, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Viene poi garantita un’appropriata terapia del dolore, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari; vi è inoltre la possibilità di ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, sempre beninteso con il necessario consenso del paziente. Tuttavia, laddove il paziente rifiuti questa opzione, non è data attualmente dal sistema interno una soluzione in grado di rispondere alle esigenze di rispetto della dignità della persona nella fase terminale della vita. Quando la scienza medica non può più nulla, subentra l’umanità e l’attività assistenziale del medico nelle fasi terminali della vita può mutare, mostrando un’attenzione particolare all’ascolto, al dialogo funzionale a comprendere gli ultimi bisogni del paziente: anche questa auspicabile propensione all’ascolto costituisce cura14. Nonostante l’indubbia evoluzione compiuta attraverso la legge 219 del 2017, il legislatore non ha colto l’occasione dell’elaborazione normativa per delimitare il campo delle ipotesi riconducibili all’eutanasia. Anche se i temi sono assai affini, in realtà la richiesta del paziente di non essere sottoposto a determinate terapie, ovvero di sospendere quelle già avviate, facoltà che rientra nell’ambito di azione della legge 219 (2017), non comprende il diverso tema dell’eutanasia, vale a dire la domanda del malato di porre fine alla sua vita in quanto afflitto da intollerabili sofferenze fisiche o psichiche, tema che il Parlamento non ha voluto affrontare con la predetta legge e neppure discutendo la legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’Eutanasia depositata dall’Associazione Luca Coscioni ed altre associazioni nel 201315. A rendere il dibattito particolarmente acceso va stigmatizzato altresì l’abuso di una terminologia che sembra utilizzata allo scopo di distogliere e fuorviare l’attenzione dell’opinione pubblica: si è così parlato di eutanasia attiva, nella quale rientrerebbero l’omicidio del consenziente ed il suicidio assistito, entrambi presidiati da norme penali (artt. 579 e 580 c.p.), e di eutanasia passiva, che verrebbe ricondotta alla desistenza terapeutica e rientrerebbe, in base a questa prospettazione, nell’esercizio di una facoltà legittima del paziente incurabile. In realtà la più attenta dottrina16 ha obiettato come la richiesta, di stretta pertinenza del paziente, di interrompere le terapie, non abbia nulla a che vedere con il concetto di eutanasia.

Il termine eutanasia17 indica qualsiasi atto che sia finalizzato a provocare intenzionalmente la morte indolore di qualcuno, in accordo alla sua esplicita volontà. Essa corrisponde all’atto, che la Chiesa trova moralmente inaccettabile18, con il quale il medico somministra farmaci letali, su richiesta del paziente, allo scopo di provocarne la morte immediata19. Parlare di eutanasia passiva stride palesemente con la facoltà del paziente di non essere sottoposto a determinate terapie, ovvero di interromperle e fa emergere la contraddittorietà dell’utilizzo sia del termine eutanasia, sia dell’attributo “passiva”. Veniamo quindi all’antecedente giudiziario che ha costituito espresso e puntuale richiamo da parte del ricorrente nel caso deciso dal Tribunale di Ancona. La Corte Costituzionale è intervenuta nel noto caso che porta il nome di dj Fabo (Fabiano Antoniani, e che ha visto imputato Marco Cappato) dapprima con Ordinanza 207 del 16 novembre 2018, avente ad oggetto l’ipotesi penalmente rilevante dell’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., con la quale ha preso atto che la legislazione vigente non consente al medico che ne sia richiesto di mettere a disposizione del paziente, che versi in condizioni di irreversibilità della malattia, come invece previsto in altre legislazioni, trattamenti diretti non a lenire le sofferenze, bensì a porre termine alla vita20. In altre parole al paziente è consentito lasciarsi morire mediante il rifiuto delle cure, ma non è consentita la possibilità di aiutarlo a farlo in maniera dignitosa, attraverso una morte più rapida e fonte di minori sofferenze. Alla Corte in allora è stato chiesto di pronunciarsi in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. laddove la norma incrimina l’aiuto al suicidio, allorché questo sia stato prestato su espressa richiesta del paziente consapevole, affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze non altrimenti trattabili, tenuto in vita da trattamenti artificiali. L’incriminazione della condotta di aiuto al suicidio, a differenza della condotta del suicida che non è (né potrebbe essere) incriminata, ha tuttora una ragion d’essere, che risiede nella necessità di tutelare il diritto alla vita dei soggetti più fragili e vulnerabili, creando attorno a loro una sorta di “cintura protettiva”. Il tenore della norma è decisamente severo, punendo essa non solo chi determina altri al suicidio o rafforza in lui il proposito suicida, ma altresì chiunque ne agevoli in qualsiasi modo l’esecuzione. Antoniani, in seguito all’incidente, aveva fatto tutto il possibile per recuperare una vita che valesse la pena d’essere vissuta, attraverso cure sperimentali, ricoveri, numerosi tentativi di riabilitazione, ma la sua condizione era rimasta di irreversibilità della malattia, nonché fonte di atroci dolori, neppure leniti dalle terapie farmacologiche.

Se la legge mette al centro la decisione del malato, libero di scegliere la sua sorte di fronte a terapie che non condivide, fino ad interrompere quelle già avviate, si palesa irragionevole una normativa che punisca chi aiuta a sottrarre il malato al decorso più lento, essendo chiaramente identici i valori presidiati e fondamentali della dignità umana. L’alternativa data al paziente è fra un’interruzione delle terapie ed un congedo dalla vita più doloroso per sé e per i propri cari, ed uno più breve e maggiormente rispondente alla sua idea di dignità. La Consulta con una ordinanza di incostituzionalità accertata, ma non dichiarata, rilevando un vulnus nel nostro ordinamento in materia di rispetto della libertà del paziente ha rinviato l’udienza di discussione di 11 mesi, ha quindi espressamente suggerito al legislatore la possibilità di integrare le norme della legge 219 del 2017, inserendo in essa una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di alcuni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze, non solo passando attraverso la sedazione profonda, ma altresì optando per l’assunzione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte21. È interessante notare come la Corte (Costituzionale) abbia deciso di adottare per la prima volta una soluzione già sperimentata da Corti Supreme di altri ordinamenti, vale a dire quella di un provvedimento monito interlocutorio, attraverso il quale mantiene sospeso il giudizio, invita il legislatore ad intervenire entro un dato termine, riservandosi di dichiarare l’illegittimità costituzionale in caso di inerzia del legislatore22. Trattasi di tecnica che ha il pregio di non lasciare l’esame della questione all’eventualità di una futura delibazione di un’identica o analoga fattispecie, consentendo nel contempo al Parlamento di intervenire su temi rimessi in linea di principio alla sua discrezionalità. In tutto ciò è agevole constatare come le scelte di politica del diritto abbiano un peso rilevante su queste tematiche. I modelli giuridici possono essere suddivisi fra quelli a valenza tendenzialmente impositiva, nei quali l’incriminazione dell’aiuto al suicidio appare assoluta e non contempla eccezioni o scriminanti, e quelli a tendenza permissiva, nei quali invece l’ipotesi cede di fronte a determinate condizioni23. La molteplicità dei punti di vista si coglie anche in occasione del parere richiesto al Comitato di Bioetica in tema di suicidio assistito e reso in data 18 luglio 201924: ove per una parte degli esperti l’eventuale legittimazione del suicidio assistito rappresenta un’offesa “irrimediabile al principio secondo il quale compito primario e inderogabile del medico sia l’assoluto rispetto della vita del paziente”; mentre altri componenti che raggiungono la maggioranza del comitato reputano che il bilanciamento di valori favorevole all’aiuto al suicidio medicalmente assistito sia eticamente e giuridicamente legittimo, perché la persona ha diritto di preservare la propria dignità anche e soprattutto nelle fasi finali della vita”. Come ha osservato Stefano Rodotà25, la discussione italiana negli anni è stata pesantemente inquinata da fondamentalismi religiosi, strumentalizzazioni politiche, approssimazioni giuridiche. In simile contesto la magistratura esercita un ruolo di supplenza. Ma è del pari inaccettabile che i provvedimenti dell’autorità giudiziaria attribuiscano il diritto di sospendere l’alimentazione forzata a distanza di diciassette anni26. I vuoti, le lacune normative vanno colmati, auspicabilmente con leggi dal tenore inequivocabile, soggette il meno possibile ad attività interpretative ed agli orientamenti soggettivi, capaci di garantire che in tempi ragionevoli si possano risolvere i problemi del fine vita. Sul punto si presenta di cristallina chiarezza la richiesta di archiviazione del 23 gennaio 2008 del PM di Sassari Paolo Piras nel caso Nuvoli27: “È necessaria una legge, perché i magistrati privi di leggi a disposizione sono come i medici senza farmaci […] È morto di sete, a conclusione di un calvario clinico. E giuridico, perché manca una legge che faccia chiarezza. È così: in Italia il medico che non vuole rischiare è costretto a lasciare morire di sete il suo paziente. E neanche su questo si è tutti d’accordo”. Proprio in questi giorni è stato approvato alla Camera un testo unificato di disegno di legge in materia di “Rifiuto di trattamenti sanitari e liceità dell’eutanasia”, che si ripromette di introdurre apposite disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita per la persona affetta da patologia irreversibile, con il supporto e la supervisione del Servizio Sanitario Nazionale. Ai sensi dell’art. 3 può formulare richiesta di morte volontaria medicalmente assistita la persona capace e maggiorenne, in presenza delle seguenti condizioni o presupposti: a) essere affetta da una patologia irreversibile o a prognosi infausta ovvero portatrice di una condizione clinica irreversibile; b) essere tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; c) essere assistita dalla rete di cure palliative oppure abbia espressamente rifiutato tale percorso assistenziale.



4. La sentenza 24 settembre 2019 n. 242 della Corte Costituzionale



Il dialogo che la Corte Costituzionale ha fortemente voluto e promosso con il legislatore attraverso l’Ordinanza del 16 novembre 2018 non ha avuto dal secondo la risposta che la prima auspicava28. A fronte di ciò, i giudici costituzionali non solo decidono il caso concreto, ma delineano le linee guida cui attenersi per il futuro, riscrivendo l’ambito di applicazione dell’art. 580 c.p.29.

Essi perciò non si limitano ad indicare una nuova ipotesi scriminante la condotta, in ottica meramente penale, ma disegnano un rinnovato quadro dei confini dell’attività di agevolazione al suicidio consentita pro futuro. Le quattro condizioni personali indicate dall’Ordinanza interlocutoria del 2018 per escludere la responsabilità penale di chi abbia fornito ausilio al suicidio vengono ribadite dalla pronuncia definitiva dell’anno successivo che conferma l’illegittimità costituzionale della norma in parte qua30. Esse richiedono che il malato terminale sia: 1. colpito da malattia irreversibile; 2. fonte di sofferenze insopportabili; 3. sia mantenuto in vita da strumenti di sostegno vitale; 4. sia capace di assumere decisioni libere e consapevoli. Tali condizioni e le modalità di esecuzione, nel rispetto di quanto previsto dalla procedura medicalizzata introdotta dalla legge 219/2017, devono essere verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, dopo aver acquisito altresì il parere del comitato etico competente per territorio, e ciò per evitare abusi o rischi di circonvenzione di persone fragili. Per la Corte, lo squilibrio venutosi a creare fra le modalità per porre fine all’esistenza introdotte dalla legge 219/17, date dal rifiuto delle cure, e le ulteriori diverse ipotesi nelle quali il semplice rifiuto non può bastare, determina un danno nella capacità per il paziente di definire il proprio personale percorso di commiato, perché gli impone una sola modalità per congedarsi dalla vita, quella della sedazione profonda continua31. Al malato terminale oggi l’ordinamento consente, anche grazie all’intervento provvidenziale della Corte, le seguenti facoltà: 1. di redigere il personale testamento biologico; 2. di pianificare le cure; 3. di rifiutare i trattamenti sanitari; 4. di usufruire della terapia del dolore, della medicina palliativa e della sedazione profonda; 5. di chiedere l’accertamento dei requisiti delle condizioni scriminanti l’ipotesi di aiuto al suicidio. All’opera sostitutiva della Corte rispetto all’inerte legislatore, va il pregio di avere messo al centro dell’attenzione la volontà e la dignità del paziente, di aver affidato al medico un ruolo fondamentale di accompagnamento costante del paziente terminale, di aver non solo scriminato la condotta di aiuto al suicidio, al concorrere delle circostanze evidenziate, ma di avere anche indicato nel dettaglio la procedura che occorre seguire per andare esenti da incriminazione e di averlo fatto con una pronuncia autoapplicativa che pone rimedio a situazioni che smuovono le coscienze e l’opinione pubblica.



5. L’Ordinanza del Tribunale monocratico di Ancona del 26 marzo 202132



Il giudice monocratico del Tribunale marchigiano, adito in sede di ricorso ex art. 700 c.p.c., aderendo alle tesi dell’azienda sanitaria pubblica, ha respinto la richiesta del paziente-ricorrente formulata in via d’urgenza, sul rilievo che non vi sarebbe nel nostro sistema giuridico un diritto al suicidio, ovvero un diritto ad ottenere la prescrizione di un farmaco ad effetti letali per porre fine alle proprie sofferenze. In realtà nel ricorso introduttivo il paziente aveva rivendicato non un diritto al suicidio – ciò che peraltro sarebbe risultato incongruo – quanto piuttosto l’accertamento delle condizioni enunciate dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242 del 22 novembre 2019, vale a dire la sussistenza delle condizioni scriminanti la condotta di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p., previa acquisizione del parere del comitato etico competente. La difesa dell’azienda sanitaria si era soffermata sulla insussistenza di un obbligo a carico dei sanitari di prestare assistenza al suicidio, negando pertanto un diritto del paziente ad ottenere qualsiasi adempimento di questo tipo e circoscrivendo l’operatività della sentenza della Corte Costituzionale all’ambito esclusivamente penale. Richiamando la legge 219 del 2017 l’azienda aveva altresì ribadito la facoltà del ricorrente, ove lo volesse, di rifiutare le cure e i trattamenti salvavita, usufruendo viceversa della terapia del dolore, anche attraverso la sedazione profonda. Il Giudice ha quindi passato al vaglio le considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale, ritenendole inconferenti, in quanto si limiterebbero a formulare una nuova ipotesi di circostanza scriminante in grado di escludere la punibilità di alcune condotte di aiuto al suicidio, rilevante però solo in ambito penale e non nel giudizio civile, oggetto della domanda cautelare sub iudice. Il malato, per congedarsi dalla vita, potrebbe non accettare la soluzione della sottoposizione a sedazione profonda, perché percorso più lento e carico di sofferenze aggiuntive per sé e per le persone care. Pur riconoscendo di trovarsi nelle medesime condizioni e presupposti del caso oggetto di decisione da parte della Consulta, dati dalla riscontrata gravità ed irreversibilità del quadro clinico e dalla consapevolezza delle scelte effettuate dal paziente, il giudice ha ritenuto l’illegittimità costituzionale limitata all’ambito applicativo della norma penale (l’art. 580 c.p.), ed alla nuova ipotesi di non punibilità, con esclusione di ogni altra applicazione in ambiti diversi, quale quello relativo alla relazione di cura fra paziente e medico. Le specifiche concezioni etiche del decidente emergono nella lettura dell’Ordinanza, dal richiamo al dovere prioritario dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo, posti in contrapposizione al diritto dell’individuo di ottenere dallo Stato un aiuto al suicidio. Ciò impedirebbe a chi che sia non solo la somministrazione diretta del farmaco ad effetti letali, ma finanche la sua indicazione o prescrizione. Aggiunge infine il magistrato come non competa all’Autorità Giudiziaria sindacare se l’Autorità Sanitaria abbia o meno regolarmente espletato tutti gli adempimenti previsti dalla legge 219/2017. Piuttosto evidente l’utilizzo delle argomentazioni che richiamano il modello a tendenza impositiva, il quale si fonda essenzialmente su tre ordini di ragioni: 1. l’indisponibilità del bene della vita, ciò che allude alla teoria della c.d. sanctity of life33; 2. il ruolo unicamente curativo e mai diretto a procurare la morte, del medico34; 3. i timori per le possibili derive legate all’argomento della china scivolosa o piano inclinato – c.d. slippery slope, in relazione alla quale si temono abusi o un’estensione incontrollata di pratiche eutanasiche.



6. L’Ordinanza del Tribunale collegiale di Ancona del 11 giugno 202135

Attraverso la lettura dell’Ordinanza del collegio marchigiano è possibile rinvenire con maggiore precisione il tenore della domanda formulata dal ricorrente sin dal febbraio 2021 (oggetto della suesposta Ordinanza di rigetto), la quale era diretta: 1. ad accertare la sua condizione patologica irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili, legata al mantenimento in vita tramite trattamenti artificiali; 2. la sua capacità di autodeterminarsi e la scelta per il fine vita; 3. ad accertare che un determinato farmaco è idoneo allo scopo in modalità rapida, efficace e indolore; 4. stante il rifiuto già opposto dall’azienda sanitaria, ordinare alla stessa l’esecuzione degli accertamenti predetti, previa acquisizione del parere del comitato etico; 5. accertare la sussistenza del diritto del ricorrente a disporre del detto farmaco; 6. ordinare all’azienda sanitaria, che si era rifiutata, di disporre la ricetta del predetto farmaco. Secondo il Tribunale della fase del reclamo si contrappongono oggi due concezioni ed interpretazioni in ordine alle conseguenze nel nostro ordinamento della pronuncia della Consulta n. 242 del 2019: una, fatta propria dal giudice monocratico marchigiano, che riconduce gli effetti innovativi della sentenza di illegittimità costituzionale nei peculiari e ristretti limiti del singolo caso illustrato, quale scriminante penale, al solo operare di tutti i requisiti richiesti. L’altra concezione, ricondotta dal collegio ad una “parte minoritaria della Dottrina”, in forza della quale la Corte avrebbe deciso di prendere posizione nella delicata materia del fine vita e del suicidio assistito, introducendo una regolamentazione innovativa ed autosufficiente, al cospetto dell’inerzia del legislatore. Il tenore usato tradisce ancora una volta la precipua adesione del collegio alla prima concezione richiamata ed il dispositivo ne è conferma, salva l’excusatio secondo cui “la questione è complessa e si colora di sfumature etiche e filosofiche, oltre che giuridiche”. Anche l’affermazione secondo la quale ci troveremmo comunque in assenza di una disciplina normativa non sembra cogliere nel segno, dal momento che l’intervento della Consulta si è reso esplicitamente necessario proprio in sostituzione di quello sollecitato e mancante del legislatore. Si apprezza quantomeno l’intento di valorizzare, ai sensi degli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione il “diritto alla liberazione dalle sofferenze nel più breve tempo possibile, ovvero il diritto a morire con dignità”36. La distinzione – fallace – richiamata facendo leva ancora una volta su una non meglio definita Dottrina, fra diritto a ricevere un aiuto nel morire e diritto di morire, quest’ultimo apparentemente assoluto, mostra ancora i limiti e i timori, esito di una forte resistenza degli operatori giuridici ad attuare i chiari precetti contenuti nella rivoluzionaria sentenza 242 del 2019. Al paziente il quale necessiti di un quid pluris rispetto alla mera interruzione delle cure, onde poter concretamente realizzare una morte per lui dignitosa, e per il quale la sedazione profonda continua avrebbe l’effetto inaccettabile di annullare definitivamente ogni sua coscienza e volontà, il diritto di morire viene in tal modo nei fatti negato. Ancora si discetta nell’ordinanza in commento, distinguendo tra forme di eutanasia attiva diretta, ove il farmaco letale possa essere assunto dal paziente, e indiretta, laddove sia previsto l’intervento di un terzo. Mette ancora una volta in evidenza, in una sorta di inno alla vita, i richiami al dovere dello Stato di tutelare l’esistenza di ogni individuo, dimenticando come in situazioni quale quella oggetto di giudizio, “tutelare” o proteggere finisce con l’equivalere ad accanirsi dal punto di vista terapeutico. Ricorda l’ordinanza collegiale come la Consulta suggerisca al legislatore l’approvazione di una legge che preveda il suicidio assistito, attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, ma riconnette questa volontà soltanto all’ordinanza del 2018 e non alla sentenza del 2019, dimenticando che attraverso quest’ultima la Corte Costituzionale si è volutamente e dichiaratamente sostituita al legislatore inerte. Ma il Tribunale marchigiano non è affatto convinto che la Corte Costituzionale abbia introdotto nell’ordinamento il riconoscimento di un vero e proprio diritto del malato a poter scegliere quando e come morire. La preoccupazione maggiore che emerge dal provvedimento in commento pare essere quella di voler evitare a tutti i costi il rischio di poter essere accusati di aver legittimato l’eutanasia, ovvero un diritto al suicidio. Si sposta così sul medico, facendo leva sulla c.d. alleanza terapeutica, il dilemma etico del se e in che modo poter dare attuazione alla volontà del paziente. Si richiamano le norme del codice deontologico medico e quelle del farmacista, senza però ricordare la circostanza che a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale il Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei Medici ha approvato all’unanimità in data 6 febbraio 202037, una rilevante modifica dell’articolo 17 del Codice di Deontologia medica intitolato “Atti finalizzati a provocare la morte”. L’attuale formulazione dell’art. 17 risulta infatti la seguente: “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte. La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”. Il collegio anconetano in definitiva auspica ancora una volta un intervento del legislatore, ritenendo la decisione della Consulta non immediatamente precettiva e richiamando la circostanza che al paziente in stato di coscienza è data la facoltà di interrompere i trattamenti di sostegno vitale e optare per la sedazione profonda. Gli elementi esaminati fanno dire al Tribunale che allo stato attuale non è riconosciuto, né riconoscibile, un diritto soggettivo ad essere assistiti nel suicidio, né un corrispondente obbligo del personale sanitario a dar corso a tale intento. Si richiamano – questa volta – i limiti del potere giudiziario, affermando che il riconoscimento di un siffatto diritto comporterebbe lo stravolgimento del sistema, contro il principio generale della soggezione del giudice alla legge38. Nonostante tutto, il collegio perviene infine all’accoglimento del ricorso, riconducendo ad asserite precisazioni del reclamante, atte a circoscrivere l’oggetto del giudizio, il fatto che venga ritenuta meritevole di accoglimento l’istanza diretta ad ottenere quantomeno l’accertamento dei presupposti illustrati dalla Consulta. In specie, affinché l’azienda sanitaria verifichi, con il coinvolgimento del comitato etico, se la modalità, la metodica ed il farmaco prescelti siano i più adeguati al caso e rispettosi della dignità umana del paziente. Quest’ultimo ha precisato di aver comunicato la sua volontà ai familiari tutti, di aver dato corso alle DAT, di aver approntato il necessario per recarsi in svizzera, onde poter avere almeno lì accesso al suicidio assistito, di chiedere in sostanza all’azienda sanitaria la mera verifica dei presupposti perché egli possa accedere al suicidio assistito, senza che alcuno possa essere accusato di aiuto al suicidio. Finalmente il tribunale attesta che ad una richiesta siffatta la struttura sanitaria pubblica non può sottrarsi. Incredibilmente invece il comitato etico della Regione Marche, richiesto a suo tempo del parere sul caso di specie, non si era espresso (!)39, motivo per cui all’interessato non era rimasto che rivolgersi all’autorità giudiziaria, precisando altresì di essere ben consapevole della possibilità di fruire della metodica della sedazione profonda, ma di non voler usufruire di tale modalità di commiato, per il fatto di esporsi a gravi sofferenze psico-fisiche per un tempo indeterminabile. Seppure tardivamente e con tutti i distinguo evidenziati, l’autorità giudiziaria finalmente prende atto che il ricorrente non ambisce ad ottenere il risultato finale della morte indotta, come parrebbe evincersi dalla mera lettura dell’ordinanza del 26 marzo, ma solo i richiesti approfondimenti in via cautelare. Con l’ulteriore corollario che ove l’azienda non ottemperi a quanto richiesto e alla fine prescritto, sarà nuovamente onere del paziente introdurre un ulteriore giudizio di merito per vedere riconosciuto il suo diritto. Ne deriva come ancora una volta non si riesca ad evitare l’effetto “calvario giudiziario” già stigmatizzato nei precedenti sfortunati casi. Visto che l’azienda resistente aveva già dato prova di non voler dar corso alle pur legittime richieste del paziente, è lecito chiedersi perché il Tribunale non abbia saputo cogliere l’esigenza di tutela sottesa alla domanda e non abbia rivolto direttamente istanza di parere al comitato etico, come pure non abbia disposto da subito gli accertamenti tecnici necessari ed effettuare le verifiche dei presupposti richiesti, come si converrebbe in ambito di tutela anticipatoria e cautelare. Un vero peccato che sia mancato al giudice italiano il coraggio di sostenere moralmente e giuridicamente un individuo già così provato dalla malattia, in una lunga e tortuosa battaglia di civiltà, come se non bastassero le indicibili sofferenze che l’avverso destino gli ha purtroppo riservato.

NOTE

1 M. Nefeli Gribaudi, Il Tribunale di Ancona sul fine vita: prime applicazioni della Corte Cost. n. 242/19, in Quot. Giur. 24 giugno 2021 e R. Masoni, Fine vita: qualche considerazione sugli sviluppi della pronuncia Cappato, in Il Familiarista, 14 luglio 2021.

2 Scaricabile da www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza (consultato il 18 luglio 2021).

3 A partire dal leading case Welby: GUP Trib. Roma 23 luglio 2007 in Cass. pen., 2008, 5, 57; al caso Englaro: Corte App. Milano, 9 luglio 2008 in Altalex, al caso Nuvoli: Procura della Repubblica di Sassari, richiesta archiviazione 23 gennaio 2008 in Diritto e Giustizia, 25 gennaio 2008; al caso Trentini: Corte Assise Massa 27 luglio 2020 in GiustiziaCivile.com, 2021, con nota di V. Cappelli

4 R. Masoni, Rifiuto di trattamento medico e scelte di fine vita nella l. n. 219/17: l’ultima tappa di un lungo percorso, in Dir. Fam. Per., 2018, 3, 1139 ss.

5 La lettera di diniego è scaricabile al seguente link: https://www.associazionelucacoscioni.it/wp-content/uploads/2021/03/Diniego-Asur-Marche.pdf

6 Corte Cost. 23 dicembre 2008 n. 438 in Foro it., 2009, I, 1328 e 30 luglio 2009 n. 253 in Fam. dir., 2009, XI, 1046.

7 Pretty c. Regno Unito 2002, Haas c. Svizzera 2011, Gross c. Svizzera 2013/ Gross c. Svizzera (GC) 2014, e Koch c. Germania 2012.

8 V. nota 3.

9 16 ottobre 2007 n. 21748 in Dir. Fam. Per., 2008, 1, 77 con note di F. Gazzoni, A. Galizia Danovi, G. Galuppi.

10 Esito di un’elaborazione almeno ventennale.

11 G. Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 47 e P. Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in NGCC, 2018, 2, 247.

12 Nonostante si tratta di legge che ha ricevuto unanimi apprezzamenti anche a livello internazionale, la sua applicazione continua a presentare gravi limiti e carenze. Così S. Amato, Abbandono terapeutico, ostinazione irragionevole e sedazione profonda, in NLCC, 2019, 1, 180.

13 La cui qualificazione come trattamenti sanitari era stata oggetto di vivaci contrasti fra il Comitato Nazionale per la Bioetica in un documento del 2005, contrario, come pure la Chiesa, e vice versa autorevole dottrina, fra tutti G. Ferrando, in Stato vegetativo permanente e sospensione dei trattamenti medici, in AaVv. Testamento biologico, Milano, 2006, 146 ss.

14 Decisamente interessante la prospettiva della c.d. medicina narrativa, metodica di intervento clinico-assistenziale basata su una specifica competenza comunicativa, fondata sull’idea della narrazione, sul dialogo medico-paziente, cfr. R. Masoni, Disponibilità del corpo umano per un fine vita dignitoso, in Dir. Fam. Per., 2020, 4, 1711 ss. Contro Amato, op. cit., 176, che in riferimento al n. 8 dell’art. 1 della legge 219 del 2017 che recita: “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” scrive “È una poesia? Una postilla burocratica per conteggiare le ore?”.

15 Fonte: https://www.camera.it/leg18/126?tab=2&leg=18&idDocumento=2&sede=&tipo=.

16 L. D’Avack, Norme in materia di consenso informato, Dir. Fam. Per., 2018, 181; C.M. Mazzoni, La persona fisica, Milano, 2016; G. Ferrando, voce testamento biologico, in Enc. dir., ann., 2014, 987 ss.

17 Dal greco “la morta non dolorosa, la morte bella, tranquilla, naturale”, voce da Enc. Treccani.

18 Ricorda M. Labriola: “Con un pensiero quasi rivoluzionario, Papa Francesco ha affermato come il malato non vada mai abbandonato, ma le cure non devono sfociare nell’accanimento terapeutico, ed ha sollecitato chi amministra le cure ad un ‘supplemento di saggezza’, in quanto è ‘moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure’”, Processo nei confronti di Marco Cappato per il suicidio assistito di Dj Fabo, www.osservatoriofamiglia.it, 15 febbraio 2018.

19 Masoni, Disponibilità del corpo umano, cit.

20 Labriola, op. cit

21 M. Rinaldo, Il silenzio normativo e l’intervento evolutivo della Corte Costituzionale nell’ambito delle scelte di fine vita, in Dir. Fam. Per., 2020, 2, 606.

22 R. Masoni, Riflessioni su suicidio, suicidio assistito, interruzione delle cure ed eutanasia, alla luce della pronuncia della Corte Cost. n. 207 del 16 novembre 2018, in Dir. Fam. Per., 2019, 2, 465. 23 M. Di Masi, La giuridificazione della relazione di cura e del fine vita. Riflessioni a margine della legge 22 dicembre 2017 n. 219, in Riv. Dir. Comparati, 2018, 3, 110 e C. Casonato, Introduzione al biodiritto, Torino, 2009.

24 Ne dà conto V. Cianciolo, The last dance. Il Parere del Comitato di Bioetica in tema di suicidio assistito e il legislatore latitante, in www.osservatoriofamiglia.it, dottrina, 7 agosto 2019, consultato il 19 luglio 2021.

25 S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Bari, 2012, 276, nota 40.

26 Come è accaduto nel caso Englaro, vedi nota 3.

27 In Diritto e Giustizia, 25 gennaio 2008, con nota di A. Vallini, Non è delitto rispettare l’altrui diritto di essere lasciato morire.

28 La Corte nell’Ordinanza del 16 novembre 2018 ha fatto riferimento ad un contesto “collaborativo e dialogico”, ad uno “spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”, al fine di lasciare “al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse in linea di principio alla sua discrezionalità”.

29 S. Cacace, La libertà e la dignità di morire secondo la Corte Costituzionale, in Riv. It. Medicina legale, 2020, 1, 1.

30 R. Masoni, Il sì della Consulta in tema di suicidio assistito: riflessioni e condizioni, in IlFamiliarista, 17 dicembre 2019.

31 Per una critica della posizione assunta dalla Corte Costituzionale v. F. Zammartino, Annotazioni sul trattamento di fine vita tra incertezze legislative e giurisdizionalizzazione dei diritti, in Rivista AIC, 2020, 2, secondo il quale: “Al di là delle (lecite) preoccupazioni che possono sollevarsi rispetto a questo modus operandi che va a neutralizzare norma penali poste a protezione della vita, introducendo, di fatto, una (illogica quanto incomprensibile) deroga al divieto di uccidere, nonché agli effetti della decisione che potrebbero riflettersi sui principi dell’inviolabilità del diritto alla vita e dell’uguaglianza quale pari dignità sociale, senza distinzione di condizioni personali e sociali (art. 3 Cost.), si ha la sensazione che l’interpretazione costituzionale data dalla Corte sia avulsa dall’ampio contesto di informazione e di conoscenza sulla questione che divide il tessuto pluralistico”.

32 Scaricabile da www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza, visitato il 18 luglio 2021.

33 Casonato, op. cit., 157 ss., il quale riferisce due casi emblematici degli opposti risultati cui pervengono le due fattispecie dell’eutanasia attiva e del diritto al rifiuto delle cure: Ms B. tetraplegica costretta a vivere in un polmone d’acciaio riuscì ad ottenere dalla London High Court of Justice il rispetto delle sue volontà e pertanto abbandonò “peacefully and with dignity” un’esistenza che per lei non era più degna di essere vissuta; al contrario per Diane Pretty, affetta da sindrome neurodegenerativa e paralizzata, l’House of Lords confermò il divieto di aiuto al suicidio, con la conseguenza ch’ella dovette affrontare una morte in condizioni da lei ritenute contrarie alla sua dignità.

34 Principio che si ritrova già nel c.d. giuramento di Ippocrate, in cui il medico promette di non compiere mai atti idonei a provocare deliberatamente la morte del paziente.

35 Sempre scaricabile da www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza, visitato il 18 luglio 2021.

36 Nella prospettiva delle cure palliative fatta propria dal legislatore la morte torna ad essere considerata come un processo naturale e non come il fallimento della scienza medica. Motivo per cui la legge accoglie l’etica dell’accompagnamento verso la morte, permettendo al morente di non trovarsi a compiere una scelta netta tra vivere tra atroci sofferenze o morire. Sul punto Di Masi, op. cit., 140.

37 Ne dà conto www.sicp.it/informazione/news/2020 (consultata in data 18 luglio 2021).

38 A riprova, se ce ne fosse bisogno che: “Il diritto giurisprudenziale non riesce a garantire i diritti di tutti, secondo il fondamentale principio di eguaglianza. Spesso garantisce solo chi ha più mezzi o più strumenti culturali per far sentire la propria voce”. G. Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Riv. crit. dir. priv. 2018, 47 ss.

39 Nel caso Englaro la Regione Lombardia si era rifiutata di dare attuazione alla decisione della Corte di Cassazione del 2007 nonché a quella della Corte d’Appello di Milano del 2008 e il provvedimento è stato poi ritenuto illegittimo e fonte di responsabilità civile dal TAR e dal Consiglio di Stato.