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L’emendamento governativo al disegno di legge delega S1662 sulla riforma del processo civile. La riforma del processo di famiglia e minorile

autore: C. Cecchella





1. Una riforma del rito e non ordinamentale



La proposta della Commissione Luiso sul processo di famiglia e minorile, come recepito dal successivo Emendamento governativo, dobbiamo dirlo subito, appare molto condivisibile, se non per alcuni profili che si svilupperanno nel presente scritto, particolarmente per la scelta dell’introduzione di un rito unico nelle controversie familiari e minorili. Nel contesto di norme, come quelle processuali, applicabili alle controversie familiari e minorili, che risalgono al ventennio, come quelle sul tribunale per i minorenni (1934) o sul procedimento di separazione e divorzio (1940 e 1942), la scelta di un intervento esclusivamente sul processo, come via prioritaria per una riforma, è assolutamente condivisibile, sia per la necessità, ormai non più procrastinabile, di un rito unico aperto alle garanzie del giusto processo di rango costituzionale e regolato dalla legge (art. 111 Cost.) e sia perché i tentativi di riforma ordinamentale, con la introduzione di un giudice unico specializzato della famiglia, hanno incontrato ostacoli insormontabili nelle categorie professionali coinvolte. Da un lato gli avvocati favorevoli ad un giudice unico che superi la dicotomia tra tribunale per i minorenni e tribunale ordinario, in una composizione esclusivamente togata, pur evidenziando la necessità di una specializzazione del giudice (come dell’avvocato), dall’altro la magistratura minorile che tendenzialmente rivendica una sopravvivenza del tribunale per i minorenni nella sua composizione mista, togata e non. Oggi tentare una riforma del processo e non del giudice può incontrare minori ostacoli e giungere veramente all’obiettivo, sfruttando anche l’attenzione dell’Unione Europea sulle riforme della giustizia civile in Italia, come garanzia al rimborso dei contributi europei per la pandemia.



2. L’esperienza delle Associazioni specialistiche nel 2017



Troppo evidente l’insegnamento di quanto era accaduto nell’ultimo tentativo di riforma, con emersione ugualmente parlamentare, che era sfumato, al limite della legislatura, nel dicembre del 2017. In quella straordinaria stagione, promossa dal Cnf, su iniziativa di chi sarebbe poi diventata Presidente della massima istituzione dell’Avvocatura, Maria Masi, con il lavoro fattivo in particolare di Ondif e Cammino (Avv. Maria Giovanna Ruo), in unione poi, non rimasta tale sino al termine, con Aiaf, Camere minorili e associazioni dei magistrati (Anm e Aimmf), si era tentata una riforma dell’ordinamento giudiziario e del rito. L’intento lodevole, sia per l’adesione al dibattito di tutte le principali componenti dell’Avvocatura e della Magistratura, peccava di eccessiva ambizione, quelle di unire alla riforma del processo anche la riforma del giudice unico ed è naufragata proprio per la mancata convergenza di alcune componenti su quest’ultimo tema, pur avendo il relatore parlamentare della legge, Sen. Filippin, fatto proprio il testo delle Associazioni specialistiche rimaste (Ondif e Cammino). Poi la legge non è stata più approvata per il finire della legislatura. Sulla riforma del processo con il rito unico non vi erano, al contrario, significativi contrasti di opinioni tra avvocati e giudici minorili.



3. Il rito unico e le preclusioni in relazione ai diritti disponibili. Il principio di auto-responsabilità



Oggi il tentativo di riforma si limita prudenzialmente al processo ed è già molto, in relazione ad alcune soluzioni veramente pregevoli di cui diremo, senza toccare il giudice, salvo un intervento “in punta dei piedi” sull’art. 38 disp. att. c.c. Non può non condividersi, anzitutto, la generalizzazione di un rito unico, a fronte della pluralità esistente: dal rito camerale al rito ordinario, dal rito della separazione e divorzio, con il suo andamento bi-fasico, al rito ordinario sin dall’introduzione del procedimento. Il rito unico delle controversie sulle persone, le relazioni familiari e i minori è applicabile, secondo il disegno governativo (art. 15-bis, lett. a), innanzi a tutte le giurisdizioni, quella minorile del tribunale per i minorenni, quella ordinaria, anche innanzi al giudice tutelare. Restano esclusi solo i procedimenti sullo stato di adottabilità e sulla adozione, nonché i procedimenti della legge sull’immigrazione (legge n. 46 del 2017). La collegialità resta intatta (forse un lusso eccessivo, se è garantita in sede di appello o di reclamo avverso i provvedimenti provvisori), ammettendo la delega al giudice onorario solo per “specifici adempimenti”, escludendo quindi una delega generalizzata per intere fasi del processo, come quella istruttoria (art. 15-bis, lett. b). Mentre anche i criteri di competenza territoriale sono rivisti, preferendosi la prossimità con il minore: “residenza abituale del minore”, che oggi è regola collocata solo nell’art. 709-ter c.p.c. (art. 15-bis, lett. c). Il principio della legge delega – avendo cura di escludere il processo su diritti indisponibili (quindi tutte le controversie civili minorili) – introduce preclusioni immediate, coincidenti con gli atti introduttivi – ricorso e comparsa – nelle quali deve essere contenuta ogni difesa, domanda, allegazione di fatti relativi ad eccezioni riservate alla parte, prove (art. 15- bis, lett. e). È il modello (fuorviante) del rito del lavoro (che non viene tuttavia espressamente richiamato, ed è un bene) che pervade l’intero impianto della riforma, non solo del processo familiare e minorile, e ne offre un elemento certamente critico, anche nella applicazione relativa alla materia in esame. Il principio direttivo impone, poi, alle parti obblighi di allegazione e produzione, relativi al reddito e al patrimonio, che tuttavia nulla hanno a che vedere – e sotto questo aspetto possono essere certamente condivisi – con le preclusioni, perché costituenti l’attuazione dei principi di lealtà e correttezza processuale (art. 88 c.p.c.), stigmatizzati, in caso di violazione, con una sanzione abbandonata alla libertà del legislatore delegato, priva quindi di un principio direttivo. È da auspicare, al contrario, un rilievo della violazione solo ai sensi dell’art. 116 c.p.c. (argomento di prova, ricavato dal comportamento processuale) oppure in relazione alla condanna alle spese ex art. 91 c.p.c.; certamente senza i rilievi penali che una giurisprudenza pretoria dei tribunali di Roma e Napoli avevano imposto alle parti. Tuttavia, tra auto-responsabilità delle parti (doverosa in una materia colma di diritti indisponibili) e preclusioni, vi è una differenza che deve essere sottolineata e non confusa. La violazione del principio di auto-responsabilità non potrà mai incidere sul merito del giudizio finale, trasformando inevitabilmente il diritto tutelato in forma specifica, in un diritto tutelato per equivalente, convertito in risarcimento del danno verso il difensore tecnico negligente. La decadenza incide invece in maniera irrimediabile sul merito del giudizio finale, contribuendo ad allontanare la verità formale dalla verità sostanziale. Vi sono poi profili di tecnica processuale a rendere poco opportuna la scelta: anzitutto la generalizzazione del principio di eventualità, ovvero la necessità che la parte deduca i mezzi di prova a pena di decadenza prima ancora di conoscere le contestazioni specifiche che esprimerà l’altra parte (art. 115 c.p.c.). Un inutile dispendio di attività processuale, che sarebbe stato opportuno diluire in due fasi, l’una destinata alle preclusioni sulla allegazione dei fatti, coincidente con gli atti introduttivi, e l’altra, dopo lo scambio degli atti introduttivi, alle preclusioni sulle prove, come accade (correttamente) nel rito ordinario. Ne discende un sacrificio della verità sostanziale che non si giustifica neppure con gli impegni di accelerazione del processo civile, tenuto conto che il rito del lavoro, improntato su preclusioni concentrate e coincidenti con gli atti introduttivi, non ha prodotto affatto risultati acceleratori, in taluni casi manifestando una durata superiore del processo rispetto al rito ordinario. Ma è l’applicazione alle controversie familiari e minorili a destare le maggiori perplessità, a parte l’opportunità delle norme sull’auto-responsabilità delle parti, non vi è ragione di estendere un così rigoroso regime di preclusioni anche al processo familiare dispositivo (quello che riguarda i diritti economici intercorrenti tra i coniugi). Infatti questi diritti, pur non integrando più l’ipotesi di materia indisponibile, secondo l’ormai consolidato orientamento del giudice di legittimità, implicano intensamente il rilievo di norme imperative, inderogabili e di ordine pubblico. Ora, un’alterata allegazione delle fattispecie, dovute alle rigide decadenze imposte, rischia di rendere disapplicata una disciplina di ordine pubblico che non può esserlo, anche per principi di rango costituzionale. Al di là delle formule, avremmo allora preferito un rito, come quello camerale, sulla scia dell’esperienza dovuta alle riforme della legge fallimentare degli anni 2006 e 2007 e del codice della crisi nell’anno 2019, interamente riscritto, in ossequio al principio della riserva di legge, imposto dall’art. 111 Cost. Un rito duttile ed elastico, in grado di adattarsi alle forti ed intense peculiarità fattuali delle fattispecie rilevanti in materia familiare e minorile, per più intensa attenzione alla verità sostanziale, esonerato da preclusioni e decadenze, anche nella fase di appello, secondo la più recente giurisprudenza del giudice di legittimità, che ha coniato un diritto vivente nel quale il processo è aperto alle garanzie e ad una maggiore sensibilità verso la verità dei fatti e la giustizia del risultato finale.



4. Le deroghe al sistema delle preclusioni



Naturalmente – e su questo punto il legislatore non può essere più chiaro, a scanso di equivoci – il sistema preclusivo non è applicabile nel processo minorile, in cui direttamente o indirettamente (nella vicenda giurisdizionale che interessa i genitori) sono implicati diritti indisponibili, sul piano personale come su quello economico. Ma l’aspetto più interessante, anche per il processualista, è il riconoscimento, nell’ambito delle controversie su diritti indisponibili, di una piena libertà delle parti di formulare, anche nel corso del processo, nuove domande relative all’affidamento e al mantenimento dei minori (art. 15-bis, lett. g), dando perciò dignità ad una differenziazione delle regole del processo su diritti indisponibili, rispetto a quelle del processo su situazioni disponibili, secondo un’impostazione teorica e sistematica che non aveva mai trovato ad oggi riferimenti espressi di diritto positivo, solo elaborati dal diritto “vivente” della giurisprudenza. Coerentemente, oltre alla liberazione della tutela dei diritti indisponibili dalle decadenze e preclusioni, l’art. 15-bis, lett. o), ammette il giudice, anche relatore, ad adottare le misure a tutela dei minori, anche in assenza di istanze di una delle parti, con un ampio potere di iniziativa probatoria. Il principio direttivo salvaguardia in modo esplicito, denunciando una particolare sensibilità di chi ha progettato l’Emendamento, il principio del contraddittorio tra le parti a fronte di un’iniziativa del giudice “a pena di nullità del provvedimento”, garantendo anche “il diritto alla prova contraria”. Di interesse per il processualista, inoltre, le ulteriori riaperture alle preclusioni discendenti dal contraddittorio, consentendosi in prima udienza nuove difese, anche in termini di domande del ricorrente rispetto alle difese del convenuto, come anche spazio ad uno ius poenitendi che, se certamente non potrà avere l’ampiezza di un esercizio del contraddittorio con la possibilità di proporre nuove domande, nuove eccezioni riservate e nuove prove, consente tuttavia, nei limiti di una emendatio libelli, una modifica delle difese. Si è voluto ribadire la possibilità di nuove difese in senso ampio (domande, eccezioni e prove) qualora si manifestasse una sopravvenienza di fatto, che la dinamica delle fattispecie in materia di famiglia e di minori presenta diffusamente; ma il principio avrebbe potuto anche non essere affermato perché rientrante nel tema generale delle suggestioni sistematiche sui limiti cronologici del giudicato. L’art. 15, lett. e), consente tuttavia la formulazione di nuove domande, come in genere nuove difese, anche in relazione a “nuovi accertamenti istruttori”. La norma necessita di una particolare attenzione interpretativa, poiché la nuova domanda (come la nuova eccezione o la nuova prova) potrebbero discendere da risultanze istruttorie nuove acquisite nel corso del processo. Tutto ciò attenua fortemente, a mio parere, il regime delle preclusioni, sia perché fa tramontare ogni idea circa l’impossibilità del giudice di disporre mezzi istruttori, quando le parti sono ad essi decadute, su cui si è fondata la prevalente ricostruzione dedicata all’art. 421 c.p.c. nelle controversie di lavoro, sia perché non è più la sopravvenienza fattuale a fondare la novità difensiva, ma la sopravvenienza probatoria. Già nel regime attuale della generale revocabilità e modificabilità dei provvedimenti anticipatori del presidente e del giudice istruttore (art. 709 u.c. c.p.c.) era invero dato rilievo alla sopravvenienza istruttoria, ma ancora la giurisprudenza tendeva, particolarmente rispetto al giudicato, ad interpretare rigorosamente i presupposti di una revocabilità o modificabilità delle misure giurisdizionali, sulla base di sopravvenienze fattuali rigorosamente intese (cfr., nonostante la lettera della norma non si esprima, la giurisprudenza sull’art. 710 c.p.c., o sull’art. 9 della legge n. 898 del 1970, il quale pone come presupposto il diverso concetto de “i gravi motivi”). Si misconosceva, in tal modo, la portata anche processuale dell’art. 337-quinquies c.c. (“i genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli, l’attribuzione dell’esercizio della responsabilità genitoriale su di essi e delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo”). Oggi, con la previsione di un fondamento di una nuova domanda in corso di causa, sulla base di “nuovi accertamenti istruttori”, è inevitabile che anche il giudicato debba cedere ai “nuovi accertamenti istruttori”, in coerenza con il cit. art. 337-quinquies. In conclusione, oltre alla riapertura dei termini difensivi indotti dall’esercizio del contraddittorio, sia esso provocato dalle iniziative dell’altra parte, sia esso indotto dalle accentuate iniziative del giudice, con minore portata anche per esercizio dello ius poenitendi, o per sopravvenienze fattuali, vi è pure la riapertura dei termini difensivi, sino alla formulazione di nuove domande, quando si manifesta un nuovo accertamento istruttorio.



5. Il procedimento in senso stretto, le misure provvisorie e la loro impugnazione



Il prevedere la forma della domanda mediante uso della tecnica del ricorso, cui consegue la vocatio in ius pienamente dominata dal giudice, che in tal modo è in grado di gestire il lavoro del proprio ufficio, null’altro aggiunge allo status quo (art. 15-bis, lett. e); ugualmente i principi direttivi sull’attività istruttoria (nel codice civile viene sancita l’accentuazione dei poteri istruttori del giudice, cfr. art. 337-octies c.c.), v. art. 15-bis, lett. o, r). Degna di segnalazione è invece la possibilità di misure anticipatorie del giudice relatore, che presiede alla fase di trattazione ed istruttoria, anche inaudita altera parte in limine litis, sul modello dei provvedimenti temporanei ed urgenti della fase presidenziale (che tuttavia non conosce l’inaudita altera parte), nell’attuale procedimento di separazione e divorzio, con una generalizzazione che nell’attuale assetto positivo aveva suscitato qualche problema all’adozione di misure anticipatorie nel contesto particolare di un rito camerale. La previsione generale oggi non pone più dubbi. Le misure anticipatorie saranno rese dal giudice relatore, sempre o comunque quando ve ne sia la necessità, essendo endemico nelle controversie familiari e minorili il profilo del periculum in mora, al punto che il legislatore lo rende, allo stato attuale, irrilevante. Finalmente coerenti con un minimo di stabilità i limiti alla revocabilità o modificabilità dei provvedimenti provvisori pronunciati dal giudice relatore, richiedendosi (art. 15-bis, lett. p) la “presenza di fatti sopravvenuti o di nuovi accertamenti istruttori”, in contrasto con l’attuale libera revocabilità e modificabilità dell’art. 709, u.c., c.p.c., che tante difficoltà interpretative ha posto per essere coerente con la disciplina della reclamabilità di cui all’art. 708 c.p.c. Resta la stabilità comunque del provvedimento provvisorio, secondo l’attuale previsione dell’art. 189, disp. att., c.p.c., a prescindere dalla prosecuzione del giudizio di merito, senza l’idoneità tuttavia al giudicato. Degna di ulteriore, e forse maggiore, segnalazione (e merita la massima approvazione) l’impugnabilità dei provvedimenti provvisori (art. 15-bis, lettera n): “disciplinando il regime della reclamabilità dinanzi al giudice che deciderà in composizione collegiale”. Si risolve così un secolare problema, sul quale la dottrina si è impegnata particolarmente, senza essere ascoltata dalla giurisprudenza, anche di legittimità, della generale e senza limiti impugnabilità dei provvedimenti provvisori (non più solo quelli presidenziali, con il mezzo espresso nell’art. 708 c.p.c.; non più solo le misure provvisorie pronunciate in sede camerale, reclamabili ai sensi dell’art. 739 c.p.c., ma anche quei provvedimenti la cui reclamabilità era esclusa, come quelli emessi dal giudice istruttore nei procedimenti di separazione e divorzio). Resta il rammarico di un principio direttivo molto generico, non intendendosi se la reclamabilità, come da più interpreti auspicato, come il sottoscritto, sia quella dell’art. 669-terdecies c.p.c. (vero e proprio gravame) oppure il reclamo dell’art. 739 c.p.c., nella non condivisibile interpretazione restrittiva della giurisprudenza delle Corti di appello sull’art. 708 c.p.c. È allora auspicabile che il legislatore delegato, negli articolati attuativi, opti per il modello del reclamo cautelare.



6. La domanda riconvenzionale del divorzio nel procedimento per separazione



La soluzione processuale, assai originale, di una domanda di divorzio o di scioglimento degli effetti del matrimonio in pendenza del procedimento per separazione deve intendersi, seppure per riflessi solo processuali, una sorta di abrogazione di fatto della separazione, potendo la parte beneficiare dei termini brevi di cui alla legge n. 55 del 2015, nel contesto di un unico procedimento, superandosi in tal modo tutti i problemi di coordinamento dei provvedimenti, anche provvisori, emessi nei due procedimenti separatamente pendenti, oggi unificati in un simultaneus processus, innanzi ad un unico giudice. Ovviamente l’Emendamento suggerisce la riunione dei procedimenti introdotti separatamente (art. 15-bis, lett. s). La domanda riconvenzionale di divorzio o scioglimento sarà procedibile evidentemente solo in caso di sentenza parziale sullo status passata in giudicato, come precisa l’art. 15-bis, lett. s).



7. Gli ausiliari del giudice



L’Emendamento governativo apre all’invito del giudice verso le parti di procedere ad una mediazione familiare (art. 15-bis, lett. i e l), potendo esse attingere presso un elenco di mediatori, organizzato presso i singoli tribunali, mediatori la cui abilitazione è solo l’iscrizione alle associazioni di settore, in difetto di una legge istitutiva di un ordine e di un albo, perché disciplinate dalla legge n. 4 del 2013. Se certamente l’abbandono al consenso delle parti nell’attuale regime dell’art. 337-octies, 2° comma, c.c., dell’iniziativa mediativa, ne ha reso praticamente inesistente la pratica, oggi la previsione rafforza un intervento del giudice che impone il tentativo di mediazione. L’idea può certamente condividersi, ma sin tanto che non venga disciplinato il delicato profilo professionale con legge speciale e abbandonata la incerta modalità di inserimento dei mediatori familiari nell’apposito elenco tenuto dai tribunali, preferibile sarebbe stato un atteggiamento più prudente. In sostanza la riforma non può prescindere da una disciplina generale della professione dei mediatori familiari. Gli ausiliari del giudice non si esauriscono, oltre ovviamente i consulenti tecnici, nella figura dei mediatori familiari, ma il giudice può nominare come ausiliario, questa volta raccolto il consenso delle parti, professionista scelto tra gli iscritti all’albo dei consulenti oppure, al di fuori di esso, ancora su consenso delle parti, professionista “dotato di specifiche competenze in grado di coadiuvare il giudice per determinati interventi sul nucleo familiare, per superare i conflitti tra le parti e per fornire ausilio ai minori e per la ripesa e il miglioramento delle relazioni genitori-figli” (art. 15-bis, lett. v). Si tratta evidentemente della figura del coordinatore genitoriale, profilo professionale molto discusso, anche nell’ambito della professione degli psicologi, in quanto destinato non ad esaurire un’attività istruttoria di ricostruzione ed interpretazione dei fatti rilevanti, ma di intervenire sulla realtà modificandola. L’art. 15-bis lett. z) si confronta con il tema dell’intervento dei servizi socio-assistenziali o sanitari, imponendo al legislatore delegato “puntuali disposizioni” e “disciplinando presupposti ai limiti dell’affidamento dei minorenni al servizio sociale”. Il principio appare piuttosto generico, ma è lodevole il tentativo di regolamentare una materia priva di norme, sancendo soprattutto il diritto della parte, per il tramite del suo difensore, “di avere visione di ogni relazione ed accertamento compiuto dai responsabili del servizio socio-assistenziale o sanitario”, il che pone finalmente un diritto di accesso troppo spesso impedito e ostacolato dei servizi.



8. Il curatore speciale del minore



Di grande pregio, ma necessitante ancora di una verifica con gli articolati delegati, la nuova disciplina del curatore speciale del minore. L’Emendamento interviene sull’art. 78 del codice di rito, evidentemente sulla scia della giurisprudenza di legittimità che identifica i due separati profili del curatore speciale in caso di conflitto con il rappresentante e di difensore tecnico della parte (attraverso l’empirica soluzione della nomina come curatore speciale di un avvocato). Si vuole risolvere il delicato tema della qualifica del minore come parte non solo sostanziale (ovvero destinataria degli effetti di merito della pronuncia finale), ma anche di parte formale, con la fruizione di tutti i diritti difensivi e le garanzie che ne discendono. Avremmo preferito qualificare la nuova figura come difensore tecnico del minore, ma se la diversa denominazione sovraintende pienamente alla duplice funzione della rappresentanza sostanziale e della rappresentanza tecnico formale, ben venga la soluzione proposta. Ciò che appare, tuttavia, di pregio, è il superamento dell’attuale assetto normativo che contraddistingue alcuni procedimenti, come quello sullo stato di adottabilità (artt. 8 e 10, legge n. 149 del 2001) o quello sulla responsabilità genitoriale (art. 336 c.c.), come procedimenti in cui non può eludersi la nomina del curatore speciale/difensore del minore, in quanto è in re ipsa il conflitto tra genitore e figlio. Negli altri procedimenti la nomina del curatore speciale/difensore, pur essendo oggetto del procedimento anche il diritto personale od economico del minore, è abbandonata da una valutazione discrezionale del tribunale sull’effettiva esistenza di un conflitto di interessi. Alla luce dell’Emendamento (art. 15-bis, comma 5), ritengo oggi sopravvissuta la norma, non toccata dalla riforma, dell’art. 78, 2° comma c.c., ovvero la nomina del curatore speciale/difensore, in caso di conflitto. Tuttavia è inserito nell’art. 78 un terzo comma di grande rilievo, laddove ipotizza la nomina del curatore speciale/difensore del minore, anche in altri casi: “esasperata conflittualità” tra i genitori e “altre gravi ragioni” che evidenziano che i genitori “sono temporaneamente inadeguati a rappresentare gli interessi del minore o si trovano con lo stesso in conflitto di interessi”. È evidente che il futuro legislatore pone l’attenzione sul comportamento dei genitori nel processo, a prescindere da un reale conflitto di interessi, che pure resta quale presupposto della nomina speciale del curatore/difensore del minore, e laddove, come sono ben consapevoli gli avvocati che esercitano nell’ambito delle controversie di famiglia e minorili, esista un esacerbato conflitto tra i genitori sulle regole relative al loro rapporto con i propri figli o semplicemente l’idoneità di un genitore e del suo difensore di rappresentare il minore, ai sensi dell’art. 320 c.c., vi possa essere spazio per la nomina, anche in questo caso, di un curatore speciale/difensore del minore. Non può non intravedersi il maggior respiro della previsione, rispetto all’attuale assetto. Il primo comma dell’art. 15-bis interviene poi sull’art. 336 c.c., il quale sembra sancire il principio della nomina del curatore speciale nei procedimenti sulla responsabilità genitoriale, non essendo tuttavia chiaro quali siano le ragioni di una nomina necessaria, stabilendo un termine difensivo al curatore speciale/difensore del minore, a pena di nullità. Il legislatore delegato dovrebbe intervenire anche sull’art. 80 c.p.c. (art. 15-bis, comma 6), aggiungendosi al primo comma la possibilità della nomina di un curatore d’ufficio anche in un procedimento cautelare.

È poi inserito nella norma un terzo comma che consente al giudice, nel provvedimento di nomina del curatore del minore, di offrire “specifici poteri di rappresentanza sostanziale” al medesimo, che pone su un piano, invero un po’ generico, le sfere di rappresentanza sostanziale del minore da parte del curatore e dei genitori, per cui sarà necessario capire come il legislatore delegato intenderà svolgere la delega nei decreti delegati. La norma, poi, prevede che il curatore del minore proceda al suo ascolto, ai sensi dell’art. 315-bis c.c. e che i genitori, il minore, il tutore o il pubblico ministero, possano, con istanza motivata, chiedere al presidente del tribunale la revoca del curatore per grave inadempienza. Ancora una volta il legislatore futuro, legifera “a costo zero”, dimenticando la necessità di una legislazione di cornice (si ricordi la vicenda dell’art. 336 cit., dove l’inciso “anche a spese dello Stato nei casi previsti dalla legge” è stato abrogato con il d.P.R. 115 del 2002, precisandosi con la legge n. 175 del 2002 che “sino all’emanazione di una specifica disciplina sulla difesa d’ufficio e sul patrocinio a spese dello Stato… continuano ad applicarsi le disposizioni processuali vigenti”). È assolutamente necessaria una disciplina che non abbandoni, oltre tutto con dubbia applicazione, la disciplina del rapporto che intercorre tra il curatore del minore e il minore, alle regole del gratuito patrocinio. Vi è da segnalare anche la previsione di un “riordino delle disposizioni in materia di ascolto del minore, anche alla luce della normativa sovranazionale di riferimento” (art. 15-bis, lett. u).



9. Il giudizio finale e l’appello



Interessanti le modalità alternative di sviluppo del processo, quello della decisione immediata, nel caso di una causa matura per la decisione che possa confluire in una pronuncia di una sentenza definitiva, non essendovi mezzi istruttori da assumere, eventualmente perché irrilevanti ed inammissibili, o sul fondamento di una questione pregiudiziale o preliminare (la ragione più liquida dell’art. 187 c.p.c., art. 15 lett. m), oppure se il giudice debba determinarsi con sentenza parziale, solo sullo status delle persone. Nel caso in cui invece sia necessario procedere ad un’istruttoria completa, non essendovi questioni pregiudiziali o preliminari o questioni di pronta soluzione, il giudice relatore rimette la controversia al collegio per la decisione, con fissazione di termini difensivi finali alle parti (art. 15-bis, lett. q). Generica la previsione sulla “autonoma regolamentazione per il giudizio di appello” (art. 15-bis, lett. dd), non essendo chiaro quale tipo di regolamentazione sarà adottata: qui sarebbe stato auspicabile un maggior coraggio del principio direttivo destinato a regolamentare l’appello in materia di famiglia, secondo gli orientamenti del giudice di legittimità, come vero e proprio gravame privo di preclusioni ex art. 345 c.p.c., in un contesto di tutela differenziata, rispetto all’appello di diritto comune, nel quale non possono ritenersi applicabili i rigori di cui all’art. 342, 345 e 348-bis c.p.c.



10. L’attuazione delle misure



L’art. 15-bis lett. bb), e cc) sanciscono (il termine è significativo) un “riordino” della disciplina sull’attuazione delle misure economiche e personali “introducendo un unico modello processuale, strutturato in analogia a quanto previsto dall’art. 8 della legge 1 dicembre 1970, n. 898”, nonché della disciplina dell’art. 709-ter, al cui interno è possibile l’ottenimento anche delle misure di cui all’art. 614-bis c.p.c. (i principi direttivi appaiono tuttavia molto generici, sarebbe stato auspicabile inserire l’art. 709-ter nel solco delle misure coercitive, al di fuori dell’inquadramento in termini di responsabilità civile, nonché chiarire l’autonoma praticabilità dell’art. 614-bis c.p.c. nelle controversie familiari e minorili, contro un ingiustificato orientamento del giudice di legittimità). In verità il tema dell’attuazione meritava un maggiore ripensamento di ampio respiro, che costituisse finalmente una razionalizzazione e sistemazione della pluralità di norme che regolano diversamente il medesimo istituto, a seconda che sia inserito nell’ambito della famiglia non in crisi, della separazione, dello scioglimento, delle convivenze.



11. L’art. 403 c.c.



Le misure di natura amministrativa a favore dei minori, perché moralmente e materialmente abbandonati, oppure allevati in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone incapaci di provvedere alla loro educazione, di collocamento del minore “in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione”, del tutto mancanti di un sindacato giurisdizionale immediato, stante l’incidenza su diritti personalissimi di cui è titolare persona fragile, vengono finalmente ricondotte in un alveo giurisdizionale garantistico (art. 15-bis, 2° comma). È prevista la trasmissione al pubblico ministero presso il tribunale per i minorenni, entro 24 ore dall’adozione e qualora detta autorità non revochi la misura, entro le ulteriori 24 ore deve ricorrere per la convalida al tribunale per i minorenni che entro 48 ore deve provvedere con decreto alla convalida o non convalida dell’allontanamento. Segue un procedimento ulteriore innanzi ad un giudice delegato a cui partecipa un curatore speciale del minore nominato nello stesso decreto di convalida, con udienza fissata nei quindici giorni successivi a contraddittorio perfezionato dei genitori, del curatore speciale del minore, del p.m., e ulteriore provvedimento con decreto collegiale da pronunciarsi nei quindici giorni successivi. L’intento è assolutamente da sottoscrivere, anche se si deve dire che la cadenza eccessivamente breve dei termini e la sanzione al loro mancato rispetto (“cessazione di ogni effetto dello stesso provvedimento”), avrebbe reso necessario un minore rigore, almeno nei termini.



12. L’art. 38 disp. att. c.c.



In realtà l’intervento che abbiamo definito nel par. 1 come “in punta dei piedi”, forse è meglio definirlo un “colpo di sciabola” sulle competenze del tribunale per i minorenni. La norma che certamente incontrerà la difficoltà nella ferma opposizione dei giudici minorili, di cui si è detto anche storicamente nel par. 2, infatti, amplia la vis actrativa verso la competenza del tribunale ordinario a tutte le misure affidate al tribunale per i minorenni e non solo l’art. 330, correggendo l’impostazione letterale tecnicamente infelice dell’attuale disposizione, ma la isola dal regime della perpetuatio iurisdictionis, sancendo l’attrazione di competenza a prescindere dalla litispendenza, come effetto generalizzato, con l’unico contentino – peraltro non dubitabile anche nell’assetto attuale – di un ricorso ex art. 10 L’Osservatorio sul diritto di famiglia | maggio-agosto 2021 EDITORIALE 709-ter c.p.c. anche innanzi al tribunale per i minorenni, nei procedimenti pendenti innanzi a questi.



13. Le soluzioni consensuali



L’art. 15-bis, lett. aa) supera la dicotomia volontaria giurisdizione della separazione consensuale e rito contenzioso del procedimento del divorzio condiviso, peraltro preferendo quest’ultimo come unico rito per i procedimenti su domanda congiunta di separazione personale dei coniugi, di divorzio e di affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio, da concludere con sentenza, escludendo la necessità della presenza in udienza, sostituita dallo scambio di note scritte e da una dichiarazione delle parti di non volersi riconciliare. Avremmo preferito la soluzione al contrario della separazione consensuale con omologa, molto più duttile e che consente un dialogo tra il Presidente e le parti modificativo dell’accordo non omologabile senza l’automaticità della conversione nel rito contenzioso. Al contrario, si è preferita la via giurisdizionale che avvilisce la matrice negoziale della soluzione consensuale, la quale produrrà effetti solo se fatta propria nei contenuti dalla sentenza del giudice. Scelta questa che darà maggior impulso all’accordo assistito dagli avvocati, sul quale si rinvia all’editoriale di Michela Labriola.

NOTE

* Il contributo si riferisce all’emendamento governativo prima delle modifiche che hanno condotto il Senato all’approvazione di un testo modificato e soprattutto dedicato anche alla introduzione del tribunale per le persone, per le relazioni familiari e per i minori, sui quali temi sarà dedicato il dossier del n. 3/21 della Rivista