inserisci una o più parole da cercare nel sito
ricerca avanzata - azzera

Impresa familiare: radici storiche “occulte e note” di un articolo del codice civile

autore: A. Grillone

Sommario: 1. La nozione economica e la definizione giuridica: la sua collocazione ordinamentale. - 2. L’anello di congiunzione. Storia a ritroso di un modello d’impresa: dal capitalismo latino-cattolico alla Compagnia mercantile medievale. - 3. La struttura familiare dell’impresa in epoca medievale e romana: analogie e discontinuità. - 4. La chiusura del cerchio: dall’impresa patriarcale all’impresa familiare.



1. La nozione economica e la definizione giuridica: la sua collocazione ordinamentale



Nonostante l’impresa di famiglia, nella sua concettualizzazione economica, rappresenti anche a livello globale una forma organizzativa largamente diffusa, si può, senza timore di essere smentiti, affermare che non esiste luogo dove essa abbia rivestito un ruolo cardine, nella storia recente, come nel panorama imprenditoriale italiano1 . A fronte delle profonde divergenze ordinamentali che ne contraddistinguono la regolamentazione giuridica, si può comunque convenire, anzitutto, sulla sua definizione aziendalistica, che si riferisce a tutte le attività imprenditoriali create da famiglie e da queste indirizzate al perseguimento di scopi di lucro, attraverso la trasmissione di aspirazioni e valori propri2 . La definizione, nulla dice, come può notarsi, della dimensione di queste attività. Esistono, dopotutto, anche nel nostro Paese, non pochi esempi di imprese di famiglia divenute grandi imprese e, perfino, gruppi imprenditoriali; come ovvio, esse si sono dotate col tempo di strutture societarie congrue alle esigenze di questa dimensione, che ne determinano il funzionamento in ogni aspetto, pur se giuridicamente rilevante, delle loro esistenze. Non sono queste le entità economiche sulle quali il mio modesto contributo si propone di soffermare la sua attenzione. Esse sono, come vedremo, anche in prospettiva storica, un semplice derivato di una forma di manifestazione nucleare, molto più diffusa, di imprenditoria.

L’impresa familiare è infatti, più propriamente, da un punto di vista giuridico, quella che è condotta attraverso l’attività lavorativa costante prestata da uno o più familiari dell’imprenditore. Quella di cui all’art. 230-bis c.c., in particolare, è definita come l’impresa in cui collaborano continuativamente il coniuge, i parenti entro il terzo grado o gli affini entro il secondo3 . È, nel nostro sistema economico, questa, la forma normale di esercizio dell’attività imprenditoriale: nelle famiglie dei coltivatori diretti, negli esercizi di vendita al dettaglio di prodotti alimentari (e non solo), nelle botteghe artigiane, nei piccoli alberghi e nella maggior parte dei ristori4 . Si tratta, senza dubbio, della parte più vivace dell’economia italiana, da tempo sorretta dallo spirito d’iniziativa – non poco afflitto dalle recenti crisi globali – dei c.d. piccoli imprenditori, la cui nozione codicistica (ex art. 2083 c.c.5 ) non si discosta, del resto, poi molto da quella dettata dall’art. 230-bis, il quale, dopotutto, solo per un curioso caso della storia non la segue numericamente, collocandosi, come forse sarebbe stato più opportuno, all’art. 2083-bis c.c.6 . Lo scopo primario della norma doveva essere – ed è stato – proprio quello di regolare il fenomeno sociale del lavoro familiare in contesti imprenditoriali minori7 , superando la presunzione di gratuità, che, da tempo immemore, aveva caratterizzato l’attività prestata – affectionis causa – dai familiari a servizio dell’impresa patriarcale8 . La peculiare collocazione dell’istituto all’interno del sistema, nel Titolo VI, Del matrimonio, Capo VI, Sezione VI, del I Libro del codice civile, non è infatti dovuta al suo ideatore, l’On. Luigi Carraro, ma deve essere attribuita a successive emendazioni parlamentari nel lungo iter approvativo della legge 151, 19 maggio 1975, volte a valorizzare il dualismo regolativo della norma, tramite il riferimento al binomio: lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare, nonché, forse, ad una frettolosa seconda lettura della IV Commissione permanente Giustizia presso la Camera dei Deputati, in vista della ormai prossima sospensione dei lavori parlamentari in occasione delle elezioni amministrative9.



2. L’anello di congiunzione.



Storia a ritroso di un modello d’impresa: dal capitalismo latino-cattolico alla Compagnia mercantile medievale Come si diceva, la storia imprenditoriale del nostro Paese è ed è stata, in ogni tempo, una storia di famiglie, di nuclei parentali, che si sono fatti impresa e che, con il favore della sorte, hanno talvolta travalicato i limiti della loro struttura originaria. Come Paul Ginsborg ha evidenziato, l’imprenditoria familiare, divenuta grande o rimasta medio-piccola, nell’ultimo secolo, ha avuto, in Italia, un ruolo centrale: siccome nell’ascesa, anche nella disgregazione del consenso fascista durante la Guerra, è stata il nucleo propulsivo primario della crescita economica italiana dalla metà degli anni ’50 fino alla fine del decennio successivo e non ha diminuito la sua influenza politico-economica nemmeno negli anni tra la fine della Seconda e gli inizi della Terza Repubblica. Molte delle imprese che hanno trainato la nostra economia si sono modellate in origine sull’istituzione familiare10. È il frutto, di certo, questo, del particolare sviluppo latino-cattolico del capitalismo moderno, che si contrappone, per molti aspetti, alla sua forma di manifestazione anglosassone, nonché protestante.

Il capitalismo latino-cattolico – almeno quello sano11 – si fonda sulla cultura mercantile dei secoli XII-XV, su quell’idea, cioè, che vuole la legittimazione religiosa del profitto del mercante medievale riposare su di un compromesso: ricercando il guadagno, ottenuto per mezzo delle sue capacità e della collaborazione dei propri familiari, egli perseguirà, guidato dai propri valori cristiani, non solo il suo proprio tornaconto e il benessere della famiglia, ma anche, in via diretta, mediante le elemosine, e, indirettamente, attraverso l’indotto, il bene comune della società. Il palazzo familiare mercantile ospita tutti coloro che partecipano del commercio e ne sono mantenuti, ospita lavoratori salariati, ma anche servi, che sopravvivono, sfamandosi sulla ricchezza del mercante. Egli, per altro, fermamente crede di poter salvare la propria anima e quella dei suoi sodali, che ne condividono profitti ed agi, attraverso atti di beneficenza. Scrive, a tal proposito, Yves Renouard, che, quasi sempre, costoro: “iscrivono al nome di Dio o dei poveri – ‘conto di messer Domenedio’, dicono i Bardi – una parte del capitolo sociale, variabile secondo le compagnie, ma all’incirca dell’1%, e distribuiscono ai poveri i benefici di questa parte di capitale… In ogni magazzino è solitamente appesa una borsa destinata alle elemosine… la maggior parte…” onera la propria famiglia, lasciando “legati ai poveri” o “una donazione a una fondazione ospitaliera”12. A tutto ciò si contrapporrà, a partire dal secolo successivo, la rigida separazione di matrice protestante “tra i due regni”, quello di Dio e quello degli uomini, che reciderà l’intimo legame tra business e gift, tra legami familiari/comunitari preesistenti ed esercizio della mercatura, edificando la concezione anglosassone del capitalismo sulla convinzione che il mercato sia un universo sorretto da legami deboli e dal solitario perseguimento del profitto13. L’impresa familiare italiana si colloca agli antipodi di questo secondo modello14. La comunità, civile o naturale che la si voglia intendere, preesiste e continua a sussistere durante la vita stessa dell’impresa, ne è il fondamento diretto, che può anche – è il caso, proprio, dell’art. 230-bis – prescindere da qualsivoglia legame debole, cioè, in termini più propriamente giuridici, negoziale. Questo vuoto è colmato dal riferimento al legame forte sottostante, quello familiare, che, nondimeno, in una prospettiva storica, prima della grande riforma del diritto di famiglia, ha significato, nei fatti, che essa vivesse di una sola regola, cioè quella per cui il pater-titolare ne fosse per diritto il monarca assoluto. Così era, sostanzialmente, già nella famiglia mercantile dell’età comunale, che era in tal modo definita dallo Statuto del Popolo di Bologna del 1287: intelligimus patres, fratres, filios legitimos et naturales, sorores, matres, uxores et nursus; ovvero come l’insieme dei padri, dei fratelli, dei figli legittimi e di quelli naturali, delle sorelle, delle madri, delle mogli e delle nuore15. La società mercantile dell’Italia comunale considerava la famiglia, la casa, i magazzini, l’azienda un tutt’uno, come per il grande mercante così per il piccolo artigiano, la cui famiglia viveva – si suole ancora usare questa espressione – ‘a uscio e bottega’: il modello giuridico della famiglia e dell’impresa bassomedievale è comune e si attaglia indifferentemente ad entrambe queste forme di manifestazione dell’iniziativa economica “individuale”. L’inscindibile legame tra questi due ordinamenti si spiega proprio in funzione della già menzionata identità del loro vertice: il pater. Attorno a questo capo dal potere indiscusso ruotavano i congiunti – collaboratori familiari – coloro i quali: stant ad unum panem et vinum. E proprio dalla composizione dei due lemmi cum e panis, costoro saranno detti compagni, dando il nome all’organizzazione economica su questa struttura modellata, appunto, la Compagnia16.



3. La struttura familiare dell’impresa in epoca medievale e romana: analogie e discontinuità



Questo modello d’impresa, la Compagnia, era, del resto, pienamente funzionale alle esigenze del tempo in cui si diffuse. Basti pensare – come ricordava il Santarelli17 – alle dimensioni che nel Basso Medioevo venne ad assumere il commercio internazionale, per cui “il mercante che avesse voluto da sé operare contemporaneamente in mercati tra loro così distanti e differenti… avrebbe certamente mancato lo scopo”, ma, pure, alle “funzioni tipiche del mercante nel processo di produzione”, che si cumulavano a quelle, sue proprie, in fatto di intermediazione tra produzione e consumo18.

La notevole differenziazione mansionale all’interno della mercatura, nonché la necessità di estendere la propria zona di influenza commerciale in territori anche molto lontani, richiedevano un consistente numero di collaboratori d’impresa: la popolosità delle famiglie medievali ben rispondeva anche alle esigenze del più grande commercio. I membri della famiglia si muovevano sul territorio, indirizzati dalla guida unica rappresentata dal pater, i figli trattavano su piazze lontane come preposti del genitore e, talvolta, amministravano vere e proprie sedi distaccate o succursali, per le quali, del resto, anche noi, oggi, utilizziamo l’appellativo di filiali. Ogni mercatura era sorretta dall’affidamento, nessuna impresa poteva avere successo senza essersi guadagnata la fiducia dei terzi sul campo. E nel procacciarsela quale miglior viatico vi sarebbe potuto essere di un nome prestigioso, di una casata, che fosse agli occhi dei contraenti sicuramente solvibile. La possibilità di ciascun membro di spendere il nome comune sottendeva la conseguenza giuridica che i compagni, qualsiasi fosse la posizione familiare rivestita e sebbene ognuno nei limiti del proprio potere di rappresentanza, avessero il diritto di compiere atti negoziali a nome di tutti, obbligando l’intera compagine sociale in solido e illimitatamente19. Tutto ciò era perfettamente logico in quel peculiare consortium omnis vitae che era la famiglia mercantile medievale, ma la regola restava anche quando le dimensioni della Compagnia finissero per allargarsi, mercé la sovrapposizione del vincolo sociale, al di fuori del nucleo dei consanguinei20, coinvolgendo pure terzi non legati a quel nome collettivo da vincoli di parentela. La conseguenza, in entrambi i casi, fu comunque sempre quella che l’insolvenza di uno dei compagni avrebbe potuto trascinare tutti gli altri in fallimento. Il padre per i figli, a men che non avesse concesso volontariamente, a costoro, una forma di autonomia patrimoniale parziale nei limiti dei peculia e/o non avesse escluso espressamente la propria responsabilità per le obbligazioni attraverso di loro contratte21; i figli per il padre, poiché, se l’esercizio mercantile comune era costruito intorno alla persona di quest’ultimo, alla sua dipartita, l’unità del patrimonio mercantile familiare veniva conservata, facendo della comunità ereditaria tra fratres insimul habitantes – da cui il nome di Fraterna, che dalla situazione di coeredità tra fratelli si estese all’esercizio imprenditoriale sulla stessa modulato – il centro d’imputazione unico di tutti i rapporti obbligatori che attenevano alla suddetta attività22.

Così come il carattere tipico della Compagnia è stato quello di coagulare la compagine sociale intorno al nome del pater, rispettando la struttura verticalmente orientata della famiglia, così nella Fraterna, come chiarirà la trattatistica del XV secolo in tema di diritto societario, il tratto distintivo è da riconoscersi, invece, nella “condizione paritaria”, che regola i rapporti tra fratres, divenuti a loro volta patres, siccome quelli tra soci. Quest’ultimo aspetto è colto con nettezza nell’opera De Societate di Angelo Perigli da Perugia: et cum societas instar et similitudinem fraternitatis habeat… Sicut ergo inter fratres debet servari aequalitas, ita et inter socios hanc tamen aequalitatem servandam dictus frater Bartholomaeus in d. sua Summa sic declarat…23. In definitiva, dunque, in entrambi i modelli d’esercizio mercantile sopramenzionati, l’indivisione del patrimonium familiare, studiata inizialmente dai Doctores iuris come istituto puro del diritto di famiglia24, venne piegata all’uso del commercio, in quanto essa forniva la miglior base economica, oltreché, da un punto di vista prettamente giuridico, regole di gestione e responsabilità, che, mutuate dal contesto organizzativo familiare, potevano prestarsi anche a disciplinare nuove forme di esercizio delle attività commerciali25. A tal fine, lo schema societario si appoggiava sulle forme dell’istituzione familiare, nonché sulle norme del diritto ereditario: talvolta, la volontà delle parti di costituire il vincolo sociale era espressa, come nel caso delle Compagnie nelle quali il pater avesse voluto associare membri estranei al novero dei parenti; altre volte, invece, poteva essere sostituita da una presunzione, come nel caso disciplinato dal Costitutum usus di Pisa (1161, rev. 1233), dove nella rubrica XXI, De societate inter patrem et filium et inter fratres facta, era contenuto il riferimento alla comunione di tutti gli acquisti compiuti in ossequio a scopi commerciali, purché padri, figli, fratelli, zii e nipoti vivessero sotto il medesimo tetto; oppure, infine, poteva essere desunta da comportamenti concludenti, come, secondo il Tractatus de duobus fratribus di Bartolo (incompiuto e poi terminato dall’allievo Baldo), nel caso in cui i fratelli avessero messo in comune i profitti dell’attività mercantile e, perfino, in base all’opinione successiva del Perugino, qualora avessero compiuto qualsiasi atto inequivoco di gestione comune: … nemo enim potest negare hic esse sociales actus, ex quibus praesumitur intentio et voluntas26.

Se nel diritto mercantile medievale il proficuo intreccio tra la struttura della famiglia e lo schema societario aveva plasmato Compagnia e Fraterna come entità commerciali esercitate sotto un nome comune, nelle quali la responsabilità dei soci fu per natura illimitata e solidale e i figli potevano, fino alla morte del genitore, godere, solo in via eccezionale, di una limitatissima autonomia patrimoniale, l’ordine patriarcale rappresentò anche la base per lo sviluppo del panorama imprenditoriale romano, nell’epoca, oggi detta commerciale27, convenzionalmente estesa dalla vittoria della prima guerra punica, nell’anno 242 a.C., fino alla fine dell’età dei Severi, a quel 235 d.C., che segna il passaggio al mondo tardoantico, preludendo all’avvento del nuovo regime costituzionale del dominato28. Da quando, negli anni immediatamente successivi al 242 a.C., a seguito dell’istituzione del praetor peregrinus e di un nuovo tipo di processo, per formulas, maggiormente funzionale alle esigenze dei traffici, Roma divenne l’epicentro di una fitta rete di commerci che percorreva tutto il Mediterraneo, avvenne una radicale trasformazione del sistema economico-giuridico romano, da assetto fondato sul mero godimento e sulla conservazione dei beni a struttura incentrata sull’accumulazione e sul profitto. Così gli sconvolgimenti economici in atto incisero sul ruolo della famiglia romana e del suo vertice, il pater, il quale, da capo indiscusso della casa e dei suoi abitanti29, divenne vertice economico-giuridico delle attività intorno alla stessa orbitanti. Eravamo al tramonto della famiglia patriarcale gentilizia e al dì natale della famiglia mercantile-imprenditoriale30. Come Aldo Petrucci ha scritto: “la genesi sul piano economico e giuridico dell’impresa romana affonda… le proprie radici nella struttura piramidale della… ‘familia proprio iure’, con al vertice il ‘pater familias’ ed al gradino inferiore i ‘filii’ o i ‘servi’, che svolgevano concretamente gli affari”31. Quella che noi oggi siamo soliti definire capacità giuridica difettava ai figli in potestà inclusi nel nucleo familiare paterno. Come anche recentemente è stato sottolineato essi non rappresentavano entità giuridiche autonome, ma, di fatto, un canale di accrescimento o diminuzione del patrimonio del pater32. Se, da un lato, infatti, in base ad un antico principio del ius civile, i figli e i servi, soggetti alla potestas del pater familias, non potevano mai peggiorare la sua situazione patrimoniale ma solo migliorarla – come risulta da Gaio, 8 ad ed. prov. D. 50.17.133: Melior condicio nostra per servos fieri potest, deterior fieri non potest – acquistando automaticamente al pater/dominus tutti i profitti della loro attività a servizio dell’impresa, è vero anche che, tra II e I secolo a.C., attraverso quel gruppo di azioni ideate dal pretore (actio institoria, exercitoria, de peculio et de in rem verso, tributoria, quod iussu), che in epoca medievale saranno dette adiecticiae qualitatis, i contraenti con costoro avrebbero potuto far valere la responsabilità, talvolta limitata, altre volte illimitata, del titolare reale dell’impresa, cioè, appunto, del pater familias. Nello stesso Commentario all’Editto provinciale, nel successivo libro nono, in un frammento a noi giunto in Digesto 14.5.1, è ancora Gaio a tracciare un quadro esaustivo di queste tutele dei contraenti con gli imprenditori. Colui il quale – ci insegna – abbia contratto con chi è sottoposto all’altrui potestà (cum eo, qui in aliena potestas sit) potrà esercitare: le azioni exercitoria e institoria, quando – in base ad altro suo passo (Inst. 4.71) – il pater/dominus abbia preposto il figlio o il servo come comandante della nave (Tunc autem exercitoria locum habet, cum pater dominusve filium servumve magistrum navi praeposuerit…) o come esercente di una diversa azienda terrestre (Institoria vero formula tum locum habet, cum quis tabernae aut cuilibet negotiationi filium servumve… praeposuerit) 33; l’azione quod iussu, quando il sottoposto abbia assunto un’obbligazione in base ad un ordine o ad una specifica “autorizzazione a contrarre” ricevuta dal titolare della potestà34: questa (9 ad ed. prov. D. 14.5.1: Sive enim iussu eius, cuius in potestate sit, negotium gestum fuerit, in solidum eo nomine iudicium pollicetur), come le precedenti due (Inst. 4.71: Cum enim ea quoque res ex voluntate patris dominive contrahi videatur, aequissimum esse visum est in solidum actionem dari), volte a far valere, senza limitazioni, la responsabilità di quest’ultimo. Frequente, tuttavia, più di come sarà in epoca medievale35, era, però, anche il ricorso a forme di limitazione di responsabilità dell’exercitor/negotiator, imprenditore, mediante l’impiego del peculio, detto profettizio, che poteva essere oggetto di specifica attribuzione al sottoposto da parte del pater/dominus oppure autonomamente formato da quello con il beneplacito dell’avente potestà. In questi casi, attesta sempre Gaio nell’ultima parte di D. 14.5.1, se non ricorrano i presupposti delle altre azioni e, neppure, quelli, che qui esulano dal nostro discorso36, dell’azione tributoria, tutti coloro che abbiano contratto con il servo potranno comunque esercitare un’actio de peculio et de in rem verso, per ottenere una soddisfazione limitata a quanto contenuto nel peculium del servo/figlio oppure a quanto riversato nel patrimonio dell’avente potestà (… etiamsi deficient superiores actiones, id est exercitoria institoria tributoriave… sive non iussu, sed tamen in rem eius versum fuerit, eatenus introducit actionem, quatenus in rem eius versum fuerit: sive neutrum eorum sit, de peculio actionem constituit) 37. Il sistema imprenditoriale romano, radicato sulla struttura della famiglia mononucleare, è stato storiograficamente giudicato, anche recentemente, un modello incompiuto: incompleto per sé stesso e di scarso interesse per noi, in quanto segnato da una successiva, evidente, discontinuità evolutiva38.

Sarebbe tale per la mancanza di rilevanza esterna del contratto di società, secondo quanto risulta da Pap. 3 resp. D. 17.2.8239, per cui, eccetto taluni casi “speciali” di societas alicuius negotiationis40, l’obbligazione contratta da uno dei soci non legittima il creditore ad agire contro gli altri, ma anche per la claudicante concettualizzazione della segregazione patrimoniale, che può avere, forse, al più, dei primordiali antenati nell’arca communis (cfr. Gai. 3 ad ed. prov. D. 3.4.1 pr.-141), di taluni collegi professionali e delle societates publicanorum, o nell’exercitio peculiaris, individuale e per servos communes, sebbene, certo, non la sua più compiuta manifestazione. Questa asserita incompletezza, fieramente avversata da molti rappresentanti delle Scuole42, di cui anche chi scrive fa parte, non deve, in ogni caso, per il discorso che qui interessa svolgere, troppo polarizzare la nostra attenzione. L’impresa romana poteva tramutarsi, per certo, in aggregato sopra-familiare attraverso il contratto di societas, che, nella sua struttura plurilaterale, era funzionale a coinvolgere nell’attività economica estranei, ma anche figli emancipati, divenuti, proprio per mezzo dell’emancipatio, patres e, per noi oggi, centri autonomi d’imputazione di situazioni giuridiche soggettive. Mercé la preposizione di uno o più servi comuni, inoltre, i soci stessi avrebbero potuto conferire rilevanza esterna al vincolo sociale, istaurando fra loro, nei confronti dei terzi contraenti, un regime di solidarietà passiva. Se, poi, costoro avessero voluto anche limitare la propria responsabilità solidale ad un certo capitale imprenditoriale, si sarebbero potuti a tale scopo giovare di un peculio in comunione da affidare al servo prescelto per la gestione dell’impresa43. Mi pare siano queste, nel loro complesso, le forme di un sistema completo ed articolato, in cui, il pater familias, quale centro unico d’imputazione di rapporti giuridici patrimoniali, poteva variamente e liberamente organizzare la propria attività imprenditoriale attorno al nucleo familiare, specificando mansioni e dislocando suoi rappresentanti sul territorio, e dove, allorquando la dimensione familiare-potestativa della negotiatio non fosse più stata sufficiente, gli stessi strumenti (praepositio e peculio) di esercizio dell’impresa individuale si sarebbero prestati a informarne l’organizzazione collettiva. Sullo sfondo restava il contratto di societas, sovrastruttura meramente eventuale delle aggregazioni imprenditoriali collettive, che, ancora in quel tempo, proprio in quanto legame contrattuale – e, dunque, debole – non poteva che cedere il passo ai legami forti, quelli familiari, quelli potestativi, i quali meglio si prestavano ad essere i canali normali di imputazione dei profitti e delle perdite ai patres esercenti.



4. La chiusura del cerchio: dall’impresa patriarcale all’impresa familiare



Le pagine che precedono contribuiscono a fissare l’idea che la storia giuridica dell’imprenditoria italiana sia legata a doppio filo alla struttura della famiglia, con essa al predominio, quasi assoluto, in punto di gestione e distribuzione degli utili del pater negotiator. I peculia – concessione in buona misura graziosa e per molti versi precaria – avevano rappresentato, di questo schema, una forma assai modesta di temperamento. La scienza giuridica dell’età di mezzo si era appoggiata in toto, sul tema, alla disciplina giustinianea e le normative statutarie, dal canto loro, si erano limitate a stringere le maglie intorno all’impiego del peculium nel contesto mercantile come fonte di abusivo costringimento della responsabilità imprenditoriale al suo specifico ammontare44. Sebbene guardato con sospetto, le linee di fondo dell’istituto restavano immutate. Che il peculio profettizio fosse stato oggetto di concessio da parte dell’avente potestà o che ne fosse soltanto stata tollerata la formazione, in ogni caso, la sua proprietà rimaneva in capo all’avente potestà. Sulla base delle fonti romane sarà, del resto, Azzone a ribadire che pater habet totum dominium45; per ciò stesso, mai si dubitò che egli potesse revocarlo in qualsiasi momento, salvo, con tale atto, avesse commesso dolo nei confronti di coloro che su quel patrimonio separato potessero vantare crediti (secondo quanto risulta, tra gli altri, da Marc. 5 reg. D. 15.1.40.1 e Ulp. 29 ad ed. D. 15.1.9.446). Alla luce di questi precorsi, come è stato osservato47, la riforma del diritto di famiglia del 1975, con l’introduzione dell’art. 230-bis, ha rappresentato, nell’evoluzione storica del diritto del nostro Paese, non uno di quei passi volti al perfezionamento della scienza giuridica preesistente, bensì un momento di travolgente rottura con i principi risalenti e consolidati nell’eredità classica del diritto romano. Nel tempo intermedio, e poi moderno, anteriore al 1975, l’intero diritto di famiglia era, del resto, rimasto incentrato su una struttura piramidale di tipo patriarcale. Il codice civile del 1942 aveva confermato al capofamiglia il “governo” pressoché esclusivo sui membri dell’aggregato familiare a lui assoggettati. Questa soggezione trovava la sua espressione non solo nei tradizionali poteri educativi e correttivi, di cui egli era titolare nei confronti dei figli (ex artt. 318 e 319 c.c.) e in certa misura della moglie, ma anche, eventualmente, nell’ambito dell’attività economica al suo dominium riconducibile. Consuetudini sociali, prima ancora che norme giuridiche, coartavano la volontà dei figli (art. 315 ss.) e della moglie (art. 144 ss.) che non fossero stati inclini a rendersene partecipi. In ogni caso, il lavoro dei familiari non trovava alcun riconoscimento giuridico, dovendosi, come accennavo nell’incipit di questa trattazione48, presumere prestato gratuitamente: benevolentiae vel affectionis causa. Il familiare non maturava, in questo contesto, né un diritto alla retribuzione, né alla partecipazione agli utili, restando escluso in toto anche dall’attività decisionale. Solo nel settore agricolo, il lavoro dei familiari godeva di un limitato ed indiretto riconoscimento nell’ambito dell’istituto della “comunione tacita familiare”, di cui all’art. 2140 c.c., che così recitava: le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi. Essa altro non era che una forma particolare di convivenza e di lavorazione comune dei campi sotto la direzione di un “capo”, nell’ambito della quale gli aspetti di gestione economico-aziendale e la regolamentazione della distribuzione dei profitti, oltre a restare del tutto marginali, finivano per mutare, per effetto del rinvio agli usi, di valle in valle49. L’istituto, in ogni caso, finiva per allinearsi perfettamente alle logiche tipiche di una struttura, che era sorretta non dalle generali regole del mercato, ma dall’affectio familiaris e, ancor più, dai principi della comunità agricola contadina, ove soltanto i doveri di mutuo soccorso e di reciproca assistenza, assolvevano alla funzione di temperare l’arbitrarietà nella distribuzione dei profitti. I suoi tratti identificativi, enumerati negli anni ’60 dalla Corte di Cassazione, sono, tuttavia, per quanto qui più interessa, assolutamente rispondenti ai modelli medievali: dell’impresa artigiana, della compagnia mercantile e della società tra fratelli50. Lo si può apprezzare con indiscutibile evidenza dal semplice raffronto tra un breve estratto del Tractatus de Fratribus del giurista urbinate Biagio Micalori e la successiva elaborazione giurisprudenziale del concetto ad opera della Suprema Corte. Nella parte II del suo Trattato, al capitolo XIII, n. 2, si legge infatti: “quinque requisita esse omnino necessaria, ut omnium bonorum societas inducta censeatur. Primo, ut bona fuerint in communi possessa, secundo, cohabitatio ad eandem mensam, tertio, communio fructuum bonorum in communi retentorum, quarto, ut omnia undecumque provenientia fuerint communicata, quinto, et ultimo, ut inter ipsos fratres unquam fuerit reddita ratio”51. Erano, pertanto, requisiti essenziali per configurare una tacita societas omnium bonorum tra fratres: il possesso comune dei beni ereditari, la comunione di tetto e di mensa, quella dei frutti e dei beni acquistati successivamente a qualunque titolo, nonché l’assenza di qualsivoglia reciproco obbligo di rendiconto; allo stesso modo, saranno, secondo la Corte di Cassazione, indici onde cui desumere la ricorrenza della comunione tacita: l’appartenenza, in senso lato intesa, dei lavoratori alla medesima comunità familiare; la comunione di tetto e mensa (communio incidens familiaris); l’attività lavorativa prestata da tutti nell’interesse della comunità; l’esistenza di un patrimonio comune, peculium pro indiviso, utilizzato per la soddisfazione delle esigenze personali dei singoli componenti, siccome per l’acquisto di beni d’interesse comune; l’assenza dell’obbligo di rendiconto in testa al “capo”52. Dall’ambito agreste, poi, il modello in questione sarebbe trasmigrato, per effetto di alcuni ulteriori interventi giurisprudenziali, nel contesto della gestione di un salumificio e nel contesto delle rivendite di giornali53. Soltanto in questa ristretta cerchia di attività, il lavoro del familiare trovava per lo meno un minimo riconoscimento, nella misura in cui questi poteva – in linea teorica – vantare un diritto a godere, negli stringenti limiti delle proprie esigenze personali, degli utili del peculium comune, sebbene, in pratica, anche in questo contesto, il capofamiglia – fermo il suo assoluto potere amministrativo e decisionale – potesse legittimamente appagarlo attraverso nulla più che un dignitoso mantenimento. Al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 2140 c.c., il familiare continuava, di norma, invece, a prestare la propria forza lavoro gratuitamente a vantaggio del pater imprenditore. Fu così54 che, in occasione della riforma del 1975, la tutela dei familiari fu affidata all’art. 230-bis, riconoscendo a coloro che prestino attività lavorativa in modo continuato all’interno dell’impresa di famiglia diritti patrimoniali e gestori, salvo che le parti abbiano inteso configurare altro rapporto: e.g. lavoro subordinato, società, associazione in partecipazione. Sul piano patrimoniale, si trattava, nello specifico: del diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia; di quello di partecipazione agli utili, in proporzione alla quantità di lavoro prestato; di quello, allo stesso modo quantificato, sui beni acquistati con gli utili e sugli incrementi di valore dell’azienda, anche dovuti ad avviamento; sul piano gestionale, invece, si accordava unicamente al familiare il diritto di partecipare alle decisioni di amministrazione straordinaria dell’impresa: le quali avrebbero dovuto essere adottate a maggioranza dai familiari che partecipano dell’impresa stessa. Una tutela minima, certo, ma inderogabile, che chiude il cerchio di una storia, lunga quasi ventitré secoli, sottraendo imperativamente55, a colui che fu il pater familias, il governo arbitrario sull’impresa familiare.

NOTE

1 Cfr. G. FeRRi, Prefazione e l. BRuni, La forza dei legami forti: l’impresa di famiglia come paradigma dell’economia italiana, in L’impresa di famiglia nell’economia italiana. Atti del convegno della LUMSA e della TELOS (Roma, 30 ottobre 2013), a cura di G. FeRRi, a. MaRiani, Roma, 2013, 5 ss., 18 ss., ma anche M. tola, L’impresa familiare. Attualità ed evoluzione dell’istituto nella prospettiva della mediazione, in NGCC, 3/2016, 471 ss.

2 j. ChRisMan, j. Chua, A unified perspective of family firm performance: An extension and integration, in Journal of Business Venturing, 2003, 18 (4), su cui, più recentemente, F. MasCiaRelli, a. PRenCiPe, Dinamiche evolutive delle imprese familiari: il ruolo del capitale umano e del capitale sociale nel ricambio generazionale, in Rivista Piccola Impresa/Small Business, I, 2010, http://rivistapiccolaimpresa.uniurb. it/index.php/piccola/article/view/68 (consultato in data 6 aprile 2021), 47.

3 Cfr. G. Belli, s. MaRtuCCelli, Sub. art. 230-bis, in Commentario breve al diritto della famiglia, diretto da a. zaCCaRia, Padova, 2016, 528 s., ma anche nella manualistica, ex multis, G.F. CaMPoBasso, Diritto dell’impresa, 1, in Diritto Commerciale6, a cura di M. CaMPoBasso, Milano, 2008, rist. 2011, 71 ss.; P. tRiMaRChi, Istituzioni di diritto privato16, Milano, 2005, c. 562, p. 695 e, più recentemente, M. PaRaDiso, Corso di Istituzioni di diritto privato7, Torino, 2012, 664 s.

4 Così tRiMaRChi, Istituzioni, ult. loc. cit., ma pure FeRRi, Prefazione, cit., 5 s.

5 Art. 2083 c.c.: Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia.

6 V. Colussi, Impresa familiare, in Riv. dir. civ., 1981, I, 660 ss.; a. Di FRanCia, Il rapporto di impresa familiare, Padova, 1991, 43 ss. Sulla vicinanza tra le due nozioni e la loro frequente sovrapposizione nella realtà fenomenica, cfr., tra gli altri: a. Galasso, Impresa familiare e comunione tacita familiare nell’esercizio dell’agricoltura, in Riv. dir. agr., 1976, I, 169; F. PRosPeRi, Impresa familiare, in Il Codice civile. Commentario, già diretto da P. sChlesinGeR, continuato da F.D. Busnelli, G. Ponzanelli, Milano, Giuffrè, 2006, 17. Come già si accennava, in ogni caso, “è frequente che la piccola impresa sia anche familiare, ma fra le due fattispecie non vi è coincidenza. Può esservi piccola impresa che non sia impresa familiare, perché l’imprenditore non ha familiari... Viceversa, anche l’impresa non piccola può essere impresa familiare...”, secondo le chiare parole di insegnamento di CaMPoBasso, Diritto dell’impresa, cit., 71.

7 N. iRti, L’ambigua logica dell’impresa familiare, in Riv. dir. agr., 1980, I, 525 ss.; l. BalestRa, L’impresa familiare, Milano, 1996, 32 ss.; C.a. GRaziani, L’impresa familiare, in Trattato di diritto privato, diretto da P. ResCiGno, Torino, 1996, 47; più recentemente si vedano pure: l. venDitti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare anche dopo le recenti riforme, in Temilavoro.it, IV, 2012, 1, https://www. temilavoro.it/index.php/tml/article/download/19/14 (consultato in data 5 gennaio 2021), 3 s. e Belli, MaRtuCCelli, Sub. art. 230-bis, cit., 528 s.

8 R. sCoGnaMiGlio, Il lavoro nella famiglia e nella impresa familiare, in Studi in ricordo di Alberto Auricchio, II, Napoli, 1983, 1497 ss.; v. De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato. III. Il regime patrimoniale della famiglia. Separazione dei beni fondo patrimoniale l’impresa familiare, Milano, 2002, 146; venDitti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare, cit., 4 ss.; PaRaDiso, Corso, cit., 664 e Belli, MaRtuCCelli, Sub. art. 230-bis, ult. loc. cit.

9 Cfr. C.a. GRaziani, L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia: prime considerazioni, in Riv. dir. agr., 1975, 199 ss.; G. Ghezzi, Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, 1358 ss.; F. santoni, Eguaglianza fra i coniugi, parità nel lavoro e pensione di riversibilità, in Dir. lav., 1981, I, 144 ss. e l. BalestRa, L’impresa familiare, in Il Diritto privato oggi, diretto da P. CenDon, Milano, 1996, 9. Si vedano poi gli atti del parlamento: CaMeRa Dei DePutati, Atti Parlamentari, Commissioni in sede legislativa, VI Legislatura, IV Commissione, Seduta del 22 aprile 1975, p. 915 e CaMeRa Dei DePutati, Atti Parlamentari, Commissioni in sede legislativa, VI Legislatura, IV Commissione, Seduta dell’8 aprile 1975, p. 785.

10 P. GinsBoRG, Storia d’Italia dal Dopoguerra a Oggi [1996], ed. a cura di F. oCChiPinti, Torino, 2010, 12 ss., 160 ss., 180 ss., 304 ss.; per un ragguaglio sulla situazione attuale, cfr. pure l’introduzione sociologica contenuta in tola, L’impresa familiare, cit., 471 s., nt. 3.

11 Contrariamente a quello c.d. ‘controriformato o comunitario’, sua forma degenerata, nato dalla reazione alle idee diffuse in Europa dallo scisma protestante, in cui le ragioni della comunità prevalgono sempre e soffocano la libertà d’iniziativa individuale e dove il godimento degli utili dell’impresa individuale diventa concessione graziosa dell’aggregato sopra-familiare dominante. Un sistema economico che è stato il veicolo nel XX secolo delle due malattie endemiche dei sistemi economico-giuridici latini: le mafie e i fascismi. In tal senso, si veda la già citata relazione di BRuni, La forza dei legami forti, cit., 22; non si ignora, tuttavia, vi siano state pure opinioni discordanti in tema di corporativismo, a tal riguardo cito un classico della storiografia novecentesca, C.s. MaieR, La rifondazione dell’Europa borghese. Francia, Germania e Italia nel decennio successivo alla prima guerra mondiale [US 1975], trad. it. Bologna, 1999, che giudicò questa esperienza come l’unica via della borghesia capitalistica per conservare o, forse, meglio sarebbe dire rifondare, l’ordine europeo di fronte alle prospettive rivoluzionarie d’inizio secolo; sul fascismo come via comoda, accolta dagli Italiani per l’evasione dalla lotta di classe e dal temuto liberismo protestante, si veda il classico:P.GoBetti,Elogiodellaghigliottina,inRivoluzioneliberale[23novembre1922], ora anche in Opere complete di Piero Gobetti, a cura di P. sPRiano, Torino, 1969.

12 y. RenouaRD, Gli uomini d’affari italiani nel medioevo [FR 1968], trad. it. a cura di G. taRizzo, Milano, 1973, 247 ss.

13 Per tutti già, M. weBeR, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo [DE 1904-1905], trad. it. a.M. MaRinetti, Milano, 1991, 41 ss., 166 ss., interessanti, ancora, le critiche recentissime che sono mosse a questo modello dalla sociologia di matrice cattolica, si veda per esempio un recente saggio: M. toMasi, Grazia divina e “Spirito del capitalismo”. Sociologia e teologia in dialogo per una critica del capitalismo contemporaneo, in ATB, VI, 2016 (Evento Riforma. Impulsi e Sviluppi), 235 ss.

14 Così BRuni, La forza dei legami forti, cit., 21 s.

15 Da P. toRelli, La famiglia, in Lezioni di storia del diritto italiano: diritto privato, Milano, 1947, 9, e, sulla base di Torelli, u. santaRelli, Mercanti e società tra mercanti3, Torino, 2002, 133.

16 Cfr. santaRelli, Mercanti, cit., 137 s., ma anche toRelli, La famiglia, cit., 19 ss.; s. toGnetti, Le compagnie mercantili-bancarie toscane e i mercati finanziari europei tra metà XIII e metà XVI secolo, in Arch. St. It., 2015, 4, 692 s., per gli sviluppi successivi di questo modello si vedano per esempio le note di G. autoRino stanzione, P. stanzione, Sulla concezione generale della famiglia nell’Italia del XVIII secolo, in Fraterna Munera. Studi in onore di Luigi Amirante, a cura di a. PalMa, Salerno, 1998, 424 s.

17 santaRelli, Mercanti, cit., 135, il quale in tema rimandava ai fondamentali contributi di a. saPoRi, Il commercio internazionale nel Medioevo, in Studi di storia economica (Secoli XIII-XIV-XV)3, I, Firenze, 1955, 495 ss. e R. De RooveR, L’organizzazione del commercio, in Storia Economica Cambridge, III, La città e la politica economica nel Medioevo, a cura di M.M. Postan, e.e. RiCh, e. MilleR, Torino, 1977, 48 ss., ma si veda, pure, toRelli, La famiglia, cit., 63-68 e più recentemente: v. PieRGiovanni, Il diritto del commercio internazionale e la tradizione genovese, in v. PieRGiovanni, P. Massa, Est Genuensis ergo mercator, Genova, 2004, 5-16, ora in Atti della Società Ligure di Storia Patria, n.s., LII/1-2, Norme, scienza e pratica giuridica tra Genova e l’Occidente medievale e moderno, 2012, 417 ss.

18 Diffusamente, santaRelli, Mercanti, cit., 40 ss.; e pure mi si consenta il rinvio a quanto ho detto in a. GRillone, Le nuove frontiere del diritto della crisi e dell’insolvenza ripensate in prospettiva storica. I. I cardini del sistema: soggetti, oggetto, negozialità e par condicio creditorum, Torino, 2021 [in corso di stampa], 3, nt. 5, ove ulteriore bibliografia a riguardo.

19 santaRelli, Mercanti, cit., 137 s.

20 santaRelli, Mercanti, cit., 140 ss. e a. zanini, Famiglia e affari nella Genova del Seicento: il ruolo delle “Compagnie di Fratria”, in La famiglia nell’economia europea secc. XIII-XVIII. The Economic Role of the Family in the European Economy from the 13th to the 18th Centuries (Atti della “Quarantesima Settimana di Studi” 6-10 aprile 2008), a cura di s. CavaCioCChi, Firenze, 2009, 472 ss.

21 Cfr. toRelli, La famiglia, cit., 77 s., il quale già evidenziava l’indistricabile difformità delle impostazioni statutarie sul tema: gli Statuti di Bologna, in varie edizioni successive, obbligavano il pater, indipendentemente dalla costituzione di un peculio a vantaggio del figlio, se fosse anch’egli mercante, nonché maggiore di età, a rispondere per intero dei vincoli da costui contratti, a meno di un’espressa dichiarazione contraria “fatta pubblicamente”, così anche era a Firenze nello Statuto del Podestà 1252, II, 23 e, similmente, nello Statuto di Mantova del 1300, II, 3. L’esatto contrario stabiliva il cap. 150 del Liber iuris civilis di Verona del 1228, dove il padre risponde per intero delle obbligazioni dei figli anche se emancipati e anche se minori, purché non svolgano per loro conto l’attività di mercante. Neppure a Piacenza, in base agli Statuti dei Mercanti, di un secolo successivi alla disciplina veronese, il padre risponde per i figli che abbiano contratto obbligazioni a proprio nome, in qualità di mercanti.

22 u. santaRelli, Per la storia del fallimento nelle legislazioni italiane dell’età intermedia, Padova, 1964, 167 ss.; iD., Mercanti, cit., 136 s.; v. PieRGiovanni, Imprenditori e impresa alle origini della scienza del diritto commerciale, in L’impresa industria commercio banca secc. XIII-XVIII, (Atti della “Ventiduesima Settimana di Studi”dell’Istitutointernazionaledistoriaeconomica“F.Datini”),Prato,30aprile-4 maggio 1990, a cura di s. CavaCioCChi, Firenze, 1991, 519-525, ora in Atti della Società Ligure, cit., 1007 ss. e zanini, Famiglia e affari, cit., 472.

23 anGeli De PeRiGlis De PeRusio, De Societatibus, in Tractatus Universi Iuris, Venetiis, 1584, VI/1, c. 131 r., su cui cfr. PieRGiovanni, Imprenditori e impresa, cit., 1008.

24 Cfr. A. RoMano, La “Summula de fratribus insimul habitantibus” di Iacopo Baldovini, in Rivista di Storia del diritto italiano, XLVIII, 1975, 123-170. Ma più in generale cfr. anche M. BelloMo, voce Famiglia (dir. interm.), in ED, XVI, Milano, 1967, 749 ss.

25 PieRGiovanni, Imprenditori e impresa, cit., 1009 s. e santaRelli, Mercanti, cit., 137 ss.

26 Numerosi sono gli atti costitutivi e i rinnovi di contratti di società giunti sino a noi, sui quali in questa sede rinvio a RenouaRD, Gli uomini d’affari, ult loc. cit.: si vedano, in particolare, quello della Compagnia dei Tolomei di Siena 1321 e quello degli Alberti di Firenze del 1322. Cfr., poi, ancora, toRelli, La famiglia, cit., 18 s., 69 s., sulla disciplina Pisana e altri esempi statutari successivi; si veda, infine, PieRGiovanni, Imprenditori e impresa, cit., 1010 s., con riguardo alla costituzione della Fraterna per facta concludentia, nell’opera: BaRtoli De saxoFeRRato, Tractatus de duobus fratribus invicem habitantibus, in Opera, X, Consilia, Quaestiones et Tractatus, Venetiis, 1590, cc. 116-117 v., cui segue l’opinione di BalDi De PeRusio, Tractatus de duobus fratribus simul habitantibus, cc. 117-119 v.

27 Il passaggio è ormai acquisito in dottrina. Hanno da tempo aderito a questo indirizzo: a. Di PoRto, Impresa collettiva e schiavo manager in Roma antica, Milano, 1984; iD., Il diritto commerciale romano. Una “zona d’ombra” nella storiografia romanistica e nelle riflessioni storico-comparative dei commercialisti, in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. F. Gallo, 3, Napoli, 1997, 413 ss.; F. seRRao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989; ma più di recente si vedano: a. PetRuCCi, Profili giuridici delle attività e dell’organizzazione delle banche romane, Torino, 2002; iD., Per una storia della protezione dei contraenti con gli imprenditori, I, Torino, 2007; P. CeRaMi, a. Di PoRto, a. PetRuCCi, Diritto commerciale romano. Profilo storico2, Torino, 2004; P. CeRaMi, a. PetRuCCi, Diritto commerciale romano. Profilo storico3, Torino, 2010. Oggi è, pure, divenuto, in certo senso, manualistico, grazie all’opera di a. PetRuCCi, Lezioni di diritto privato romano, Torino, 2015, 135-168 e iD., Manuale di diritto privato romano, Torino, 2019, 137-170.

28 Sulla caratterizzazione socio-economica del periodo imprenditoriale romano, mi si consenta il rinvio al breve quadro di sintesi che già ho tracciato in a. GRillone, La gestione immobiliare urbana tra la tarda repubblica e l’età dei Severi. Profili giuridici, Torino, 2019, 7 ss., ma anche si veda P. CeRaMi, Introduzione allo studio del diritto commerciale romano, in CeRaMi, PetRuCCi, Diritto commerciale romano3, cit., 27 ss. e, pure, cfr. i grandi classici: P. BonFante, Storia del commercio. Lezioni tenute all’Università commerciale Bocconi, I, Torino, 1946, 116 ss.; F. De MaRtino, Storia economica di Roma antica, I, Firenze, 1979, 125 ss., nonché, tra i molti contributi di questo Autore in tema, quello dal titolo immaginifico: e. GaBBa, Allora i Romani conobbero per la prima volta la ricchezza, in Del buon uso della ricchezza. Saggi di storia economica e sociale del mondo antico, Milano, 1988, 20 ss.

29 Sulla reale estensione di questo potere nel contesto della famiglia patriarcale e, poi, nella storia legale successiva, rinvio a due recenti contributi, che ne delineano – con tagli diversi – gli elementi fondamentali, v. sCaRano ussani, Padri, Padroni, Patroni. Identità romana e diritto delle persone, della famiglia e delle successioni mortis causa fra l’epoca arcaica e l’età di Adriano, Roma, 2017, 40 ss. e G. Rizzelli, La potestas paterna fra leges, mores e natura, in Anatomie della paternità. Padri e famiglia nella cultura romana, IX, Iuridica historica. Collana dei Quaderni Lupiensi di Storia e Diritto, diretta da F. laMBeRti, Lecce, 2019, 89 ss.

30 CeRaMi, Introduzione allo studio del diritto commerciale, cit., 27, sugli antefatti di questo passaggio: F. seRRao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma. 1. Dalla società gentilizia alle origini dell’economia schiavistica, Napoli, 2006, 245 ss.

31 PetRuCCi, Lezioni, cit., 135 e iD., Manuale, cit., 137.

32 Cfr., tra gli altri, R.P. salleR, I rapporti di parentela e l’organizzazione familiare,

in Storia di Roma, a cura di a. GiaRDina, a. sChiavone, Torino, 1999, 844 ss. e sCaRano ussani, Padri, Padroni, Patroni, cit., 96 ss. Di entità legali non autonome parla espressamente: h. hansMann, R. KRaaKMan, R. squiRe, Incomplete Organizations. Legal Entities and Asset Partitioning in Roman Commerce, in Roman Law and Economics: Institutions and Organizations, I, a cura di G. DaRi-MattiaCCi, D.P. Kehoe, Oxford, 2020, 200 s. Ciò non valeva, per altro, per le donne sui iuris e i figli emancipati. Questi ultimi con l’emancipatio concessa dal pater divenivano pienamente capaci. Le prime, invece, potevano amministrare il proprio patrimonio con i limiti imposti dalla tutela muliebre, poi, dall’età augustea, senza vincoli, a seguito del concepimento di tre figli per le “nate libere”, di quattro per le liberte (ius liberorum). Capacità che finì nella prassi per accordarsi a tutte le donne con la scomparsa della tutela muliebre legittima e, in via definitiva, con una costituzione del 410 d.C. degli imperatori Onorio e Teodosio II (su questa evoluzione basti qui il rinvio a PetRuCCi, Lezioni, cit., 58 e iD., Manuale, cit., 59 s.). Le nostre fonti, del resto, sebbene non possano che configurarsi quali eccezioni nel contesto generale complessivo dell’imprenditoria romana, attestano non pochi casi di donne imprenditrici e, tra gli altri, cfr. in tema i contributi di R.P. salleR, Household and gender, in The Cambridge Economic History of the Greco-Roman World, a cura di w. sCheiDel, Cambridge, 2007, 87 ss.; a. PetRuCCi, Note sui ‘marchi di produzione’ e dati delle fonti giurisprudenziali. A proposito di una recente iniziativa, in BIDR, 111, 2017, 30 ss.; in ogni caso, a tal riguardo, anche personalmente, mi è capitato di intrattenermi, in a. GRillone, La gestione privata dei balnea al tramonto dell’era repubblicana e nei primi secoli dell’impero, in BIDR, 112, 2018, 175 ss.

33 seRRao, Impresa e responsabilità, cit., 24 ss.; a. FölDi, Remarks on legal structures of enterprises in Roman Law, in RIDA, 43, 1996, 179 ss.; M. MiCeli, Sulla struttura formulare delle ‘actiones adiecticiae qualitatis’, Torino, 2001, 189 ss.; a. CassaRino, Ricerche sulle clausole predisposte da un contraente nel diritto romano fra tarda repubblica e principato. Il caso dei negotiatores terrestri e degli exercitores navis, Torino, 2018, 1-15 e PetRuCCi, Per una storia, cit., 9 ss., 56 ss., 81 s., nonché, da ultimo, in iD., Affidamento ed esercizio delle attività economiche organizzate (negotiationes): riflessioni minime sull’esperienza giuridica romana, in I rapporti fiduciari: temi e problemi, a cura di a. PetRuCCi, Torino, 2020, 58 ss. Si rammenti, per altro, che, in un tempo successivo al I secolo d.C., divenne possibile e parimenti vincolante per l’imprenditore preporre persone non sottoposte a potestà e, quindi, anche donne, mogli sui iuris. Il tema è approfondito, in particolare, da Ulpiano, 28 ad ed. in D. 14.3.7.1 e 14.1.1.16, su cui qui rinvio a iD., Per una storia, cit., 49 ss. e iD., Note sui ‘marchi di produzione’, cit., 31 s.

34 Cfr. MiCeli, Sulla struttura formulare, cit., 309 ss.; G. CoPPola Bisazza, Lo iussum domini e la sostituzione negoziale nell’esperienza romana, I, Milano, 2003, 152 ss. e PetRuCCi, Per una storia, cit., 79 ss., 96 ss.

35 Abbiamo ricordato supra nt. 21, l’ostilità dimostrata dalla legislazione intermedia riguardo alla limitazione della responsabilità paterna per le obbligazioni contratte dal figlio mercante.

36 Sull’actio tributoria, qui rinvio ad a. PetRuCCi, Idee ‘vecchie’ e ‘nuove’ sulle attività imprenditoriali gestite all’interno di un peculio, in BIDR, 106, 2012, 295 ss., per una approfondita dissertazione sulle posizioni precedentemente consolidatesi in dottrina, ma anche al recente, fondamentale, contributo di a. CassaRino, Il ‘vocare in tributum’ nelle fonti classiche e bizantine, Torino, 2018, nonché, da ultimo, mi sia consentita la menzione del mio: a. GRillone, Per una storia della crisi d’impresa: dalla liquidazione anticipata della merx peculiaris nel diritto romano dell’età commerciale alla prevenzione dell’insolvenza nella riformanda disciplina fallimentare italiana, in TSDP, XI, 2018, http://www.teoriaestoriadeldirittoprivato. com/media/rivista/2018/contributi/2018_Contributi_Grillone.pdf (consultato in data 6 gennaio 2021), 16 ss.

37 seRRao, Impresa e responsabilità, cit., 27 ss.; più recentemente, R. PesaResi, Ricerche sul peculium imprenditoriale, Bari, 2008; a.M. FleCKneR, Antike Kapitalvereinigungen. Ein Beitrag zu den konzeptionellen und historischen Grundlagen der Aktiengesellschaft, Köln-Weimar-Wien, 2010, 217 ss., 305 ss.; PetRuCCi, Per una storia, cit., 79 ss.; iD., Idee ‘vecchie’ e ‘nuove’, cit., 319 ss. e GRillone, La gestione immobiliare, cit., 81 s.

38 Raccolgono, da ultimo, le tradizionali argomentazioni a riguardo: hansMann, KRaaKMan, squiRe, Incomplete Organizations, cit., 202 ss., 224 s. Sull’inutilità della considerazione del sistema romano nel quadro storico-evolutivo del diritto d’impresa, si ricordi la rigida presa di posizione di M. MontanaRi, Impresa e responsabilità: sviluppo storico e disciplina positiva, Milano, 1990, 5 s., nt. 7, ma anche, in direzione contraria, cfr., tra le altre, le recenti note di a. PetRuCCi, La flessibilità dello schema societario nell’exercitio negotiationum nel diritto romano della tarda repubblica e del principato, in LR, 8, 2019, 337.

39 Iure societatis per socium aere alieno socius non obligatur, nisi in communem arcam pecuniae versae sunt, secondo cui in base al diritto societario il socio non è obbligato per il debito contratto da un altro socio, a meno che i conferimenti sociali non siano stati versati in una cassa comune (in quei casi, non molti, cfr. nt. 41, in cui una società possa esserne dotata).

40 Societates argentariorum, publicanorum, venaliciariae, alcuni casi di societates exercitorum: cfr. CeRaMi, Introduzione allo studio del diritto commerciale, cit., 83 ss.; PetRuCCi, Lezioni, cit., 158 ss.; iD., Manuale, cit., 160 ss. e, da ultimo, in iD., La flessibilità dello schema societario, cit., 312 ss.

41 ... paucis admodum in causis concessa sunt huiusmodi corpora: ut ecce vectigalium publicorum sociis permissum est corpus habere vel aurifodinarum vel argentifodinarum et salinarum. item collegia Romae certa sunt, quorum corpus senatus consultis atque constitutionibus principalibus confirmatum est, veluti pistorum et quorundam aliorum, et naviculariorum, qui et in provinciis sunt. 1. Quibus autem permissum est corpus habere collegii societatis sive cuiusque alterius eorum nomine, proprium est ad exemplum rei publicae habere res communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat. Nel passo in esame Gaio discute di quali siano le entità, che egli definisce corpora, che possono assumere una consistenza giuridica autonoma rispetto ai soggetti che le compongono. Pochi sono, dice il giurista, gli scopi che è consentito esse possano perseguire: come, ad esempio, la riscossione delle imposte, lo sfruttamento delle miniere di oro e di argento e quello delle saline. Parimenti – aggiunge – esistono a Roma e nelle province determinati collegi, che sono corpi autonomi rispetto agli individui che ne fanno parte: come quello dei mugnai, dei trasportatori marittimi e altri simili. Tutte queste entità – conclude il giurista antoniniano – hanno come proprio connotato uniforme, sull’esempio della comunità pubblica, di avere beni comuni, una cassa comune ed un delegato o sindaco, per mezzo del quale venga attuato e fatto tutto ciò che occorre amministrare in comune. Sulle diverse interpretazioni del passo in ordine alla possibilità di desumere da esso la personalità giuridica delle entità menzionate da Gaio, si veda recentemente, PetRuCCi, La flessibilità dello schema societario, cit., 313, nt. 14; basti poi rammentare come due opere coeve si siano espresse in direzione opposta: in senso affermativo cfr. CeRaMi, Introduzione allo studio del diritto commerciale, cit., 81 ss., per la negativa, FleCKneR, Antike Kapitalvereinigungen, cit., 386 ss., 407 ss.

42 Cfr. Di PoRto, Impresa collettiva, cit., 10 ss., 21 ss.; iD., Servus e libertus, strumenti dell’imprenditore romano, in Imprenditorialità e diritto nell’esperienza storica (Erice, 22-25 novembre 1988), Palermo, 1992, 243 ss.; seRRao, Impresa e responsabilità, cit., 7 ss.; CeRaMi, Introduzione allo studio del diritto commerciale, cit., 68 ss., ma si vedano anche le recentissime parole conclusive di PetRuCCi, La flessibilità dello schema societario, cit., 335 ss., che, in rapporto allo schema societario romano, ma il discorso potrebbe allargarsi alle forme tutte di organizzazione imprenditoriale del tempo, ne pone in luce l’assoluta flessibilità e la completa esaustività in rapporto alle esigenze commerciali, pur molto progredite, dell’epoca.

43 Trattasi ormai di dati ampiamente acquisiti in dottrina. Per tutti, cfr. CeRaMi, Introduzione allo studio del diritto commerciale, cit., 71 ss. e PetRuCCi, Lezioni, cit., 150 ss.; iD., Manuale, cit., 152 ss. e iD., La flessibilità dello schema societario, cit., 328 ss.

44 Cfr. supra nt. 21.

45 azzonis, Summa, de bonis quae liberis, [C.6.61], n. 10, Venetiis, 1584, 704; sul sostanziale recepimento dell’elaborazione giuridica romana nella dottrina medievale dai Glossatori ai Commentatori, nonché sulle peculiari divergenze statutarie: toRelli, La famiglia, cit., 73 ss. e BelloMo, voce Famiglia, cit., 754 ss.

46 Il primo, nella parte finale, identifica la “morte” del peculio con la revoca da parte del dominus: ... ita igitur nascitur peculium: crescit, cum auctum fuerit: decrescit, cum servi vicarii moriuntur, res intercidunt: moritur, cum ademptum sit; l’altro stabilisce che il padre e il padrone siano comunque tenuti a rispondere nei limiti di questo, se con dolo abbiano revocato o diminuito il peculio dell’assoggettato: ... quoniam et si per dolum peculium vel ademerint vel minuerint, tenentur. E, sul punto, cfr. PetRuCCi, Per una storia, cit., 87 ss. e iD., Idee ‘vecchie’ e ‘nuove’, cit., 319 ss.

47 Cfr. P. Casu, L’impresa familiare: ermeneutica giuridica ed evoluzione giurisprudenziale dell’istituto, in Rassegna di diritto e giurisprudenza civile, 2017, https://giuricivile.it/limpresa-familiare-ermeneutica-giuridica-ed-evoluzione-giurisprudenziale-dellistituto/ (consultato in data 6 aprile 2021), 6 (dell’estratto pubblicato).

48 Cfr. supra §. 1; sCoGnaMiGlio, Il lavoro nella famiglia, cit., 1497 ss.; venDitti, Solidarietà e protezione nel lavoro familiare, cit., 4 ss.; PaRaDiso, Corso, cit., 664; Belli, MaRtuCCelli, Sub. art. 230-bis, cit., 528 s.; tola, L’impresa familiare, cit., 473 ss.; Casu, L’impresa familiare, cit., 6 ss. e G. Di CoRRaDo, Rapporto di lavoro subordinato tra familiari, in Diritto & Pratica del Lavoro, 3/2019, 141.

49 Cfr. PRosPeRi, Impresa familiare, cit., 337 ss. e P. MiChaeleR, j. luDwiG RunGGeR, w. hintneR, L’impresa familiare con particolare riguardo alla situazione altoatesina, Trento, 2007, 17.

50 Cfr. supra §. 2 e 3.

51 Blasius MiChaloRius, Tractatus de Fratribus in Tres Partes Divisus, in quarum Prima Tractatur de Fratribus Vivente Patre; in Secunda de Fratribus Post Mortem Patris Simul Habitantibus; in Tertia, & Ultima Ponuntur Varia de Fratribus Miscellanea, II, cap. XIII, n. 2, Venetiis, 1647, 126. L’istituto, poi, di qui giunse alla modernità giuridica, attraverso alcune mutazioni genetiche settecentesche (cfr. autoRino stanzione, stanzione, Sulla concezione generale della famiglia, cit., 419: consorzi domestici, monti di famiglia, comunioni contadine) negli artt. 1058-1071 del codice civile per gli Stati Estensi, ma, parimenti, fu accolto, attraverso il rinvio del § 761 agli usi relativi alla successione nei beni rustici, all’interno del Codice Civile Universale Austriaco pel Regno Lombardo-Veneto (1815).

52 Cfr. ex multis: Cass. civ., 24 giugno 1968, n. 2126 e Cass. civ., 21 marzo 1969, n. 903, su cui cfr. PRosPeRi, Impresa familiare, cit., 353 ss. e MiChaeleR, luDwiG RunGGeR, hintneR, L’impresa familiare, cit., 18.

53 Cfr. Cass. civ., 22 luglio 1969, n. 2750 e Cass. civ., 26 settembre 1973, n. 2430 e sulla successiva affermazione dell’idea dell’inammissibilità della comunione tacita familiare al di fuori dell’ambito agricolo: PRosPeRi, Impresa familiare, cit., 363 ss.

54 Sul dibattito circa la multiforme ratio della norma, cfr. BalestRa, L’impresa familiare, cit., 32; De Paola, Il diritto patrimoniale della famiglia, cit., 145 ss.; G. PalMieRi, Del regime patrimoniale della famiglia, in Commentario al Codice civile, a cura di F. GalGano, Libro I. Delle persone e della famiglia, Tomo II, sub art. 230-bis, Bologna-Roma, 2004, 13 ss. e PRosPeRi, Impresa familiare, cit., 5 ss.

55 M. liBeRtini, Sull’impresa familiare e sulla derogabilità della disciplina dell’art. 230-bis, in L’impresa nel nuovo diritto di famiglia, Atti del Convegno di Palermo, 2728 febbraio 1976, a cura di A. Maisano, Napoli, 1977, 121 ss.; G. oPPo, Impresa familiare, in Commentario al diritto italiano della famiglia, III, diretto da G. Cian, G. oPPo, a. tRaBuCChi, Padova, 1990, 484, nonché Belli, MaRtuCCelli, Sub. art. 230bis, cit., 529. Nella manualistica, si veda: CaMPoBasso, Diritto dell’impresa, cit., 72.