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Spunti di riflessione su ruoli e responsabilità della donna nel matrimonio romano

autore: L. Ingallina

Sommario: 1. Cenni introduttivi. 2. Il ruolo femminile nel matrimonio romano. 3. Aborto e mondo romano: libertà, responsabilità, aspetti sociali e conseguenze giuridiche.



1. Cenni introduttivi



Il mondo romano prescrive l’adeguamento a comportamenti e modelli di condotta anche nell’ambito della familia1, ove gli usi, i costumi ed i precetti costituiscono una sorta di ‘società’ concentrica a quella ‘civile’ e nella quale i poteri, i ruoli, le funzioni e gli obblighi non sono (quasi mai) ripartiti in modo eguale.

La società civile accoglie quella coniugale2, e alla comunanza di vita dei due coniugi assegna rispetto e considerazione. Entrambi gli sposi debbono guadagnarsi questo rispetto, attraverso condotte reciproche, ma anche mediante comportamenti che, valutabili al di fuori del nucleo familiare, si svolgono sotto lo sguardo della collettività.

Il matrimonio romano è valido e rileva giuridicamente solo nell’ipotesi in cui un uomo sposi una (sola) donna, andando così a formare un nucleo familiare entro una stabile convivenza3; devono poi ricorrere precisi presupposti giuridici: è noto infatti, come ne sia elemento costitutivo la sussistenza del conubium, da intendersi come capacità matrimoniale reciproca. È richiesta la presenza di tutti i requisiti idonei a definire il matrimonio come iustum, ossia, la pubertà ed il consenso, che deve comprendere quello dell’avente potestà, quest’ultimo maggiormente incisivo con riferimento alle donne; il matrimonio deve poi avvenire tra persone libere, sane di mente e non legate da vincoli di parentela (e di affinità)4; non devono poi sussistere altri impedimenti relativi.

È di certo problematica la ricerca di una definizione univoca e valida per ogni epoca: si tratta infatti, di identificare un’immagine stabile all’interno di un mosaico i cui tasselli e le cui tonalità di colore si trovano, per secoli, in continua formazione e mutamento5. Ma è vero anche che la monogamia, la stabilità e l’esigenza della finalità riproduttiva possono dirsi elementi comuni e costanti, tipici del matrimonio romano; la nota definizione di Modestino6, forse già retaggio della giurisprudenza repubblicana, presenta aspetti compatibili con l’accezione classica del matrimonio e forse con l’evoluzione successiva, sino al diritto di Giustiniano7. La comunanza di vita che si viene a creare nel matrimonio romano impone una reciprocità di condotte che siano adeguate all’honor matrimonii, quel valore etico e sociale condiviso nella coppia di sposi e dalla rispettiva società di appartenenza.

Il matrimonio di età classica si fonda essenzialmente sull’affectio maritalis, ovvero sulla reciproca volontà di considerarsi marito e moglie ed ha come fine quello della procreazione di figli (legittimi). Con il passare del tempo si riconosce, infatti, una minore rilevanza della forma – che aveva fortemente connotato il matrimonio di età preclassica – ed una netta prevalenza della ‘sostanza’: il rapporto coniugale inizia e perdura fondandosi sul consenso dei due coniugi, sulla maritalis affectio8, a prescindere dalle forme con le quali l’unione viene contratta. Dopo la manifestazione di voluntas iniziale, deve poi perpetuarsi un continuo e reciproco consenso coniugale9, in grado di confermare l’intenzione di considerarsi sposi nella quotidianità. Solo nel matrimonio il ‘consenso (continuo)’ è identificabile con l’affectio maritalis10: altre forme di convivenza possono in realtà manifestare solo alcuni degli elementi peculiari del matrimonio. Nel concubinato, ad esempio, il consenso è, sì, continuo, ma è privo di quella reciproca considerazione che connota il rapporto coniugale. È vero anche che i conviventi talora non vogliono ma, più spesso, non possono dare vita ad una relazione coniugale e debbono ‘accontentarsi’ di un rapporto stabile11, privo però di quella considerazione sociale che contraddistingue il matrimonio.

Gli eventi interruttivi di questo continuo consenso coniugale, idonei di per sé a fare ritenere il matrimonio come sciolto, sono valutati con prudenza e con estrema cautela da parte dell’ordinamento, sebbene si debba riconoscere una diversità interpretativa da parte della giurisprudenza.

La prigionia di guerra rappresenta, ad esempio, un episodio ‘critico’ per le sorti del matrimonio. La materia conoscerà un avvicendamento nella sua regolamentazione: con riferimento al matrimonio classico, l’incapacità giuridica determinata dalla captivitas priva il prigioniero del conubium, impedisce la piena e continua manifestazione di affectio maritalis e comporta l’automatico scioglimento del matrimonio. Nel caso in cui il captivus ritorni poi in patria, occorrerà infatti nuovamente manifestare il consenso matrimoniale, contraendo un ‘nuovo’ matrimonio12.



2. Il ruolo femminile nel matrimonio romano



La società coniugale costituisce l’essenza delle nuptiae, rappresentandone il contenuto ed il riconoscimento da parte del contesto sociale, che impone ai coniugi una reciproca condotta, adeguata al valore etico-sociale dell’istituto13.

La condizione femminile non segue un processo uniforme e coerente e la storia della posizione giuridico-sociale della donna è perfettamente riassumibile nelle efficaci parole di Brutti14: “lo studio diacronico della condizione femminile nella società romana si traduce nell’osservazione di un diagramma, con picchi alti e bassi per quanto riguarda la concreta possibilità di esprimere autonomamente la propria volontà. Con un’ambiguità ricorrente tra il silenzio e l’iniziativa indipendente. La quale non può non avere risvolti ed effetti giuridici. Guardare questi alti e bassi ci aiuta a vedere quanto i modelli comportamentali e psicologici dell’esperienza romana siano stati interiorizzati nelle società europee, fino ai tempi moderni, se non altro perché le fonti che li definivano hanno continuato a dispiegare un’influenza culturale”15.

È comunque noto che la donna dell’età del Principato sarà un’attiva protagonista all’interno dell’unione coniugale, entro la quale peraltro non si esaurisce il suo valore, in quanto esso si esplica anche nel contesto sociale di appartenenza, dal quale – anche in base alla sua élite – ottiene considerazione.

La prevalenza della figura maschile, ovvero del padre della donna, del marito sui iuris o del di lui avente potestà, non è incompatibile con il ruolo centrale della donna nella (co)gestione della res familiaris16, con la precisazione per cui i patrimoni erano distinti anche quando la gestione dei beni fosse in comune17: la moglie infatti, si occupava in particolare dei beni domestici e tale competenza può riconoscersi a prescindere dall’esistenza o meno della manus, ovvero del potere esercitato sulla donna da parte del marito18.

La comunione di vita assume un rilievo interpersonale, in quanto genera il dovere di determinati comportamenti e l’obbligo di astenersi da alcune condotte; ma ha pure un valore di tipo ‘assistenziale’ che, tra l’altro, impone ai coniugi una sorta di reciproco dovere di mantenimento e sostentamento19.

Entro questa ‘comunanza di vita’ si evidenzia come alla donna sia affidata l’amministrazione della casa, così come l’economia domestica20; al marito, in quanto titolare della patria potestas sui figli, spetta il potere disciplinare sulla discendenza21, sebbene, col tempo, i comportamenti troppo severi vengano contenuti sia per intervento pubblico, sia in quanto alla madre è concesso qualche rimedio giuridico-processuale volto a contrastare l’eccessiva severità del padre: così ad esempio Traiano costringe un pater familias ad emancipare il proprio figlio, per averlo maltrattato22; Adriano, secondo una delle possibili interpretazioni della fonte23, condanna alla relegatio in insulam un pater familias che aveva barbaramente ucciso il proprio figlio; Marco Aurelio e Settimio Severo concedono alla madre, qualora ricorra una iustissima causa, di trattenere presso di sé i figli, bloccando, mediante l’impiego dell’‘eccezione di dolo’, l’interdictum de liberis exhibendis, richiesto contro di lei dal marito24; ed ancora, alla fine del III sec. d.C., si concede anche alla madre la possibilità di chiedere in giudizio l’esibizione dei figli25.

Sebbene la donna non abbia mai la possibilità di esercitare la potestas sui figli, non ne possa adottare e non possa neppure avere un vero e proprio ruolo giuridico su quelli naturali26, essa tuttavia, assolto il dovere di assicurare una discendenza legittima al marito, svolge (opportunamente) la primaria funzione di educatrice nei confronti della progenie27; la trasmissione della cultura e dei valori va di certo considerata un compito di primaria importanza, soprattutto se si considera che proprio nei primi anni di età i figli erano introdotti alla cultura dalle madri, che, solo dopo, verso circa i sette anni di età del bambino, venivano affiancate28, sempre in ambito familiare, da precettori maschi; l’assegnazione alla figura materna del compito educativo e del dovere di trasmettere la memoria storica culturale familiare contribuisce a definire il ruolo della donna entro la familia proprio iure29, attenuando, almeno in questo, la semplicistica visione della famiglia romana come società completamente sbilanciata sulle prerogative della figura maschile30. È pur vero che, stando alle parole dei giuristi31, “per quanto riguarda molti aspetti del nostro diritto, la condizione delle femmine è peggiore di quella dei maschi”, ma è altrettanto noto che la donna sui iuris, sposata sine manu, possiede una capacità di porre in essere atti vincolanti sul piano giuridico, talora con l’assistenza del tutore32, a volte – e sempre di più col passare del tempo – in piena autonomia. È lecito pensare che il ruolo del tutore sia progressivamente venuto meno con particolare riguardo a quegli atti, personali, i cui riflessi patrimoniali assumevano un ruolo marginale: dobbiamo pensare, ad esempio, ad una donna che, svincolata dalla patria potestas, scelga appunto di contrarre un matrimonio a cui non si accompagni la conventio in manum. L’assenza della manus, congiunta alla situazione patrimoniale venutasi a creare in capo alla donna con la morte dell’avente potestà, le può assegnare una posizione di rilievo che si riflette anche sull’unione coniugale: l’eventuale appartenenza ad una famiglia di alto rango attribuisce infatti alla donna sposata una posizione peculiare e la sua indipendenza economica comporta che sia meno controllabile dal marito33.

Rimanendo nell’ambito della familia proprio iure, sono effettivamente il ruolo di moglie – in quanto tale meritevole di honor matrimonii – e quello di madre a rafforzare la considerazione sociale femminile. La donna conferma, quindi, una propria dignità, in quanto inserita in un contesto familiare che la vede protagonista della gestione domestica, non solo per quanto riguarda alcuni aspetti del patrimonio, ma, in particolare, persino per quanto attiene alla cura ed alla educazione della prole.

Sul tema va detto che il ruolo è svolto anche da educatori professionali e da scuole appositamente costituite34; l’istituzionalizzazione della cultura e la presenza di precettori esterni al nucleo familiare non escludono tuttavia l’apporto culturale fondamentale che il figlio poteva ricevere direttamente (e solo) dalla madre.

Va poi quanto meno accennato al fatto che, anche sotto il profilo patrimoniale e successorio, la posizione giuridica della donna conosce radicali e profondi mutamenti ed evoluzioni, pur caratterizzati da discontinuità, attraverso un percorso evolutivo lungo secoli ed entro un contesto sociale mutevole ed in continuo divenire35.

La moglie acquista una dignità familiare, in quanto sposata ed inserita nel contesto di un’unione matrimoniale legittima; ella partecipa anche della dignità e della condizione familiare e sociale del marito36 (se ne trova un chiaro riferimento nella celebre formula matrimoniale riportata da Gaio: ubi tu Gaius ego Gaia37).

Ho voluto intenzionalmente tralasciare ogni aspetto relativo alla materia patrimoniale e successoria, per svolgere qualche riflessione sul ruolo della donna all’interno del contesto familiare. Intendo ora accennare ad una tematica inserita entro il complesso rapporto che, nel mondo antico, sussiste tra libertà e responsabilità, quando la prima attiene alla disponibilità del proprio corpo e la seconda riguarda l’aspettativa maritale ad una discendenza legittima, nonché l’interesse pubblico all’incremento demografico.

L’interruzionevolontariadellagravidanzaèinfattiunfenomeno conosciuto anche nell’antichità, ed in particolare a Roma, ove la sua storia e la sua disciplina mutano entro un percorso evolutivo che si articola in secoli di esperienza (giuridica).



3. Aborto e mondo romano: libertà, responsabilità, aspetti sociali e conseguenze giuridiche



Nel mondo romano, l’aborto che sopraggiunga per cause naturali non sembra avere rilevanza giuridica, sebbene ne abbia, invece, a vario titolo, il concepimento: la possibilità di determinare il quando consente ad esempio di stabilire la condizione giuridica del nuovo nato anche per quanto concerne la familia e la civitas di appartenenza ed è altresì essenziale per poter definire alcuni rapporti ereditari38.

Le conoscenze mediche dell’epoca non consentivano un adeguato monitoraggio dell’avanzare della gravidanza: le maggiori cautele dovevano, infatti, essere adottate dalla donna stessa. Plinio il Giovane, nelle sue Lettere ai familiari39, annunciando al suocero l’aborto della propria moglie Calpurnia, ne mette in luce gli aspetti umani, nonché gli interessi privati ad avere una discendenza. La fonte conferma che, laddove sia spontaneo, l’aborto non determina conseguenze giuridiche: si noti l’utilizzo del termine ‘error’ e non di ‘culpa’; la moglie di Plinio non ha infatti osservato le cautele richieste da una gravidanza, ma l’evento è privo di responsabilità, in quanto la donna non era consapevole del proprio stato. Il suo ‘errore’ è stato ‘pagato’ in modo esemplare con il pericolo a cui è andata incontro40.

Quando, al contrario, la gravidanza è interrotta con atto volontario da parte della donna o di altri soggetti, in particolare quando ciò avvenga all’insaputa o contro la volontà del marito, ciò comporta talora la sola censura sociale e morale, nonché, in determinati periodi storici, conseguenze giuridiche che ricomprendono anche la possibilità di irrogare sanzioni per gli autori dell’atto.

Sono noti i più disparati antichi metodi abortivi, come l’uso di ferri41, sorta di forcipi42, spilloni di bronzo43, nonché metodi meccanici, come la compressione del ventre, gli sforzi fisici, i sobbalzi prodotti mediante le corse sui carri, l’alternanza di immersione in acqua calda e fredda; frequenti erano poi i metodi chimici, come l’ingestione di varie bevande e droghe44, come ad esempio l’uso di alcuni vini ‘arricchiti’45.

Le donne si procuravano l’aborto da sole o ricorrendo all’ausilio di terzi, di solito del medesimo sesso, in quanto in grado di comprendere la situazione e gli stati d’animo provati da chi si trovava nelle condizioni di dover abortire46.

Nel contesto romano, alla decisione di interrompere una gravidanza possono presiedere le più disparate ragioni: vi sono determinazioni che riguardano il sentire più intimo della donna e decisioni che, diversamente, sono eterodirette, i cui presupposti sono da ricercare in motivi di ordine sociale o economico, finalizzati talvolta a riparare le conseguenze dei costumi più dissoluti o di scandalosi adultèri47. Ricorrevano a queste pratiche donne che erano state troppo prolifiche, coniugate o meno, fanciulle che erano state violate, con o senza il loro consenso, al fine di evitare scandali familiari e conseguenze sociali e patrimoniali; talora sussistevano il timore per la propria incolumità, ma anche la paura di compromettere il proprio aspetto esteriore, in ossequio ad una maggiore cura della persona48.

La gravidanza poteva poi svelare una relazione adulterina o, comunque, extramatrimoniale, magari non condivisa dalla famiglia di appartenenza, in particolare dal capofamiglia, che, come noto, almeno sino all’età classica inoltrata, ha persino la possibilità di ‘combinare’ il matrimonio della propria figlia, inducendola anche a nozze non volute49 o, al contrario, di opporsi a qualsiasi altra scelta di vita sentimentale della fanciulla. È pure chiaramente pensabile che una donna intenda abortire per evitare le criticità legate alla gravidanza50, che possono costituire pericolo per la sua integrità e per la sua incolumità stessa51; in alcuni casi, lo stesso atto sessuale, concepito nella sua accezione meramente edonistica e compiuto nel timore delle naturali ‘conseguenze’, viene condotto in modo da evitare l’instaurarsi della gravidanza52: noti erano infatti numerosi metodi contraccettivi, preferiti da alcuni medici antichi53.

Le ragioni che fondano la scelta di abortire cambiano poi notevolmente a seconda del ceto sociale di appartenenza; se una donna altolocata agiva col fine di prevenire uno scandalo, l’obiettivo della gente povera poteva essere quello di sottrarre lo stesso nascituro ad una condizione di miseria e ad una vita di indigenza, che già affliggevano il nucleo familiare54.

I medici talora evitavano di intromettersi nella volontà abortiva, non tanto per timore che la pratica in sé potesse essere censurata, quanto piuttosto per paura di trovarsi implicati in vicende ‘adulterine’, assai rischiose, in quanto, a differenza dell’aborto, erano specificamente previste e punite dalla legge, almeno per quanto concerne alcuni contesti storico-giuridici.

Il medico che avesse somministrato il farmaco abortivo procurando la morte della donna poteva ad esempio incappare nelle sanzioni previste dalla Lex Cornelia de sicariis et veneficiis55. Egli era peraltro in grado di distinguere i casi in cui fosse necessario un aborto a scopo terapeutico56, dai casi in cui l’interruzione di gravidanza era richiesta per differenti finalità ed in conseguenza di altre cause.

Il mondo greco e il mondo romano – così come tutte le società antiche – conoscono entrambi l’aborto volontario57; nei versi dell’Andromaca di Euripide58 troviamo un riferimento a farmaci abortivi; nelle Vespe di Aristofane59 v’è un cenno ad una mistura di prezzemolo e ruta60, che pare fosse utilizzata proprio come sostanza abortiva; nella Repubblica di Platone61 sembra che l’aborto costituisca solo una opzione possibile, nel caso sia stata intrapresa una gravidanza al di là delle prescrizioni imposte dal legislatore62. È poi possibile ritenere che si trattasse di una pratica – in alcuni casi – legittima, scorrendo un passo del Teeteto di Platone63, ove si legge che l’interruzione della gravidanza è affidata alle levatrici; Aristotele64, nel prevedere casi di aborto ‘legittimo’, propone tuttavia un parametro etico al quale attenersi: “[...] occorre procurare l’aborto prima che nel feto si sviluppino la sensibilità e la vita, perché sono proprio la sensibilità e la vita a determinare la colpevolezza o la non colpevolezza dell’atto”65; più in particolare, nella Politica, è il controllo demografico che può giustificare anche il ricorso all’aborto, limitato però ai casi in cui il feto non abbia ancora acquisito sensibilità e vita66. È poi noto il c.d. ‘Giuramento’, contenuto nel Corpus Hippocraticum67: “[...] e neppure darò mai ad una donna un mezzo che possa indurre l’aborto”68; è altresì conosciuta la consapevolezza da parte degli ippocratici riguardo alla maggiore pericolosità dell’aborto rispetto al parto69. Galeno, il medico di Pergamo, che opera anche alla corte di Marco Aurelio e Commodo, dimostra di conoscere composti utilizzabili a fini abortivi70. Nel mondo romano, prima ancora che conseguenze giuridiche, l’aborto volontario comporta la censura morale ed il biasimo sociale71, attirando anche l’ira degli dei72; il bene giuridico tutelato muta con l’avvicendarsi dei valori morali e delle credenze religiose: si tutela il diritto paterno ad una discendenza legittima ed alla prosecuzione della stirpe73, nonché l’interesse comune all’incremento demografico. Molto più tardi, sarà probabilmente l’influenza del Cristianesimo ad incidere su qualche intervento dei compilatori del Digesto, ove si punisce l’aborto in quanto tale, come evento interruttivo di una vita che si forma nel ventre materno, a prescindere dal consenso o dal dissenso del marito ed indipendentemente dal motivo posto a fondamento dell’atto.

Anche se, giuridicamente – e relativamente all’aborto – la donna non si trova quasi mai al centro della tutela dal punto di vista della sua integrità fisica74, né tantomeno sussiste alcuna salvaguardia del suo diritto ad una libera scelta di interrompere una gravidanza, è però un fatto che, da un punto di vista medico, l’aborto del mondo antico venga da sempre considerato pericoloso per la salute della donna, con evidente rischio di morte75.

“La società romana del II sec. a.C. doveva, dunque, ben conoscere i mezzi per sbarazzarsi di un figlio indesiderato e la pratica doveva essere così diffusa, da poter essere portata sulla scena”76. Effettivamente il Truculentus di Plauto ruota attorno ad intrighi d’amore ed alle ben note conseguenze, tra le quali il fondato timore delle cortigiane che qualcuno potesse ‘indurle’ ad abortire77, presumibilmente al fine di celare situazioni tali da compromettere l’onore di qualcuno o, più frequentemente, gli interessi patrimoniali.

Cappai, dalla sua prospettiva sul mondo romano, nel contesto di una approfondita disamina degli aspetti medico-scientifici, ritiene che “[...] uno dei poteri di cui disponeva la donna del tempo era quello del suo utero [...] il non partorire diveniva per lei possibilità di ricatto, poiché la riproduzione era la sola finalità che le era riconosciuta”78. Questa lettura ostenta una visione del mondo romano obiettivamente orientato alla preminenza dell’uomo, che, per certi versi, è rappresentativa di una realtà fatta di valori spesso declinati al maschile79.

In effetti, dobbiamo rilevare insieme a Brutti80 la presenza nelle fonti di un atteggiamento ispirato ad un “moralismo misogino”: significativo è, ad esempio, il contenuto di alcuni versi della Nux, un’elegia pseudo-ovidiana81: “in questi tempi la donna che vuole apparire bella corrompe l’utero ed è rara oggi colei che vuol essere madre”; una testimonianza a cui sembra fare eco la successiva considerazione che Seneca82 ha per la propria madre, una donna – a suo dire – diversa da tutte le altre: “[...] non hai mai celato il tuo ventre come se fosse un peso indecente e non hai mai soppresso nel tuo utero la speranza dei figli in te (già) concepiti, diversamente dal costume delle altre, per le quali ogni pregio nasce dall’aspetto esteriore”.

Ma occorre fare un passo indietro, alle origini.

Già in tempi antichi, per intervento di una legge romulea, la soppressione del feto viene sanzionata con il ripudio: l’illiceità della condotta deve presumibilmente ravvisarsi nel fatto che venga posto in essere un atto impeditivo nei confronti di una discendenza legittima del marito e tale risultato è ottenibile tanto con la soppressione del concepito, quanto con l’uccisione di prole già nata.

In particolare, secondo una possibile interpretazione di un passo di Plutarco83 che fa riferimento proprio ad un’antica legge di Romolo, la soppressione del feto84 è causa di ripudio, alla stregua dell’adulterio e della sottrazione delle chiavi (della cantina85). Più nel dettaglio e con la premessa per cui, probabilmente, al tempo di Romolo, il ‘divorzio’ è concesso al solo marito86 e soltanto per cause determinate, occorre quanto meno accennare al fatto che tale fonte sia stata oggetto di numerosi studi ed altrettante disquisizioni interpretative. L’ipotesi che qui si accoglie è quella che rinviene nel passo di Plutarco tre cause di ripudio maritale87: l’adulterio della moglie, (μοιχεία), il furto delle chiavi (ἐπὶ ... κλειδῶν ὑποβολῇ) (della cella vinaria88), l’uso di sostanze assunte col fine di abortire (ἐκβάλλειν ἐπὶ φαρμακείᾳ τέκνων)89. Allo stesso modo dell’adulterio, l’aborto compromette infatti, la procreazione di figli legittimi, la quale costituisce il fine naturale del matrimonio90. Pare dunque sussistere una ‘coerenza’ nella previsione normativa romulea: l’adulterio impedisce all’uomo la certezza di una propria discendenza legittima, l’assunzione di vino agevola il comportamento adulterino91, la sottrazione delle chiavi della cella vinaria è una condotta verosimilmente orientata all’assunzione di vino e l’aborto recide direttamente la possibilità che il pater familias possa contare su una discendenza legittima92.

Quanto al ripudio come conseguenza delle condotte elencate da Plutarco, va detto che, pur non configurando una sanzione penale pubblica, esso concretizzava – entro un contesto caratterizzato da trattamenti marcatamente asimmetrici93 – una situazione piuttosto grave: la donna ripudiata, avendo già perduto i vincoli di adgnatio con la propria famiglia di origine (nel momento in cui aveva contratto matrimonio cum manu), rimaneva priva di uno status familiae e di qualsivoglia aspettativa ereditaria94, venendo “letteralmente cancellata dall’ordinamento”95.

Tuttavia, con riguardo alla questione relativa al bene giuridico tutelato dalla società arcaica e con particolare riferimento alla iunctura ‘spes animantis’ contenuta in un passo di Marciano96, laddove il giurista farebbe riferimento ad una antica legge di Numa, si riscontra una significativa diversità di vedute in dottrina; alcuni ritengono che il diritto arcaico proteggesse (anche) la vita del nascituro, per altri il bene giuridico tutelato sarebbe unicamente costituito dall’interesse del padre ad avere una discendenza (legittima). In particolare, parte della dottrina sembra riferire quella ‘spes animantis’ alla considerazione del concepito – in età arcaica – come una entità separata dalla madre e non solo, quindi, come una mera ‘portio’ di essa97.

La più antica testimonianza relativa alla repressione ‘pubblica’ dell’aborto volontario, risalente all’età repubblicana, si trova in Cicerone98 e si riferisce al suo periodo di soggiorno in Asia. Il passo esplicita le ragioni per cui l’atto abortivo è considerato grave: esso è infatti idoneo a sopprimere la speranza di un padre in ordine ad una discendenza legittima, alla continuazione del nome, al sostegno della stirpe. L’aborto priva quindi di un erede il patrimonio familiare e deruba lo stato di un futuro cittadino. A ben vedere, nel caso riportato da Cicerone, il bene giuridico tutelato contro l’aborto riguarda gli interessi privati della familia di riferimento – rectius del padre –, nonché l’interesse pubblico all’incremento demografico, mediante tutela del matrimonio e della famiglia99. È probabile che Cicerone si riferisse ad un processo penale avvenuto in provincia, a tutela di un padre romano contro la moglie peregrina, rea di aborto e, sebbene sia anche pensabile che potesse applicarsi estensivamente la Lex Cornelia de sicariis et veneficiis100, le parole dell’oratore (nec iniuria) svelano tuttavia il carattere eccezionale dell’intervento punitivo contro tale condotta... forse mediante quella legge specifica101.

Con la fine dell’età repubblicana, si assiste ad un cambiamento relativo alla figura femminile: “[...] attraverso un lungo e tortuoso processo ha infatti conquistato relative libertà, oltre all’allentamento dei costumi e a una cura della persona, con attenzione all’esteriorità, per piacersi e per piacere. Aumentano vicende considerate deprecabili come aborto, adulterio e divorzio, poiché esse minano il nucleo della società romana: la famiglia. L’aborto è la scelta della donna a non essere madre, purché non pregiudichi il diritto maschile alla discendenza [...]”102.

Quanto all’età augustea, è possibile desumere l’atteggiamento che l’ordinamento avrebbe avuto nei confronti di quella pratica, tenendo conto del quadro politico e delle finalità legislative103: è noto infatti che Augusto ‘incentivasse’ la formazione della famiglia e la procreazione, ma è stato anche rilevato che “l’impero si instaura in una società in cui la pratica abortiva è ormai radicata”104.

Giovenale105 si riferirà alle pratiche abortive in uso presso le classi agiate, operando quindi il confronto con le donne più umili, che sembrano invece accettare il rischio della gravidanza e le conseguenze – anche economiche – di un incremento della prole. I versi del poeta, evidenziando il fatto che le donne più povere si trovino nelle condizioni di dover affrontare il parto, tollerando le relative fatiche, svelano un affresco inquietante sui costumi delle classi benestanti: le donne più ricche abortiscono ricorrendo all’aiuto di chi effettua questa pratica per mestiere e col consenso di quei mariti che, per il timore di parti adulterini, forniscono di propria mano gli strumenti per abortire; la compiacenza del marito non è di certo finalizzata alla tutela della salute della donna, ma è dovuta alla preoccupazione di doversi confrontare patrimonialmente col frutto dell’adulterio femminile. Sembra che l’intento del poeta non sia tanto la censura dell’aborto, bensì l’invettiva contro la degenerazione dei costumi ed il degrado morale delle classi agiate.

Ancora Giovenale106 si riferisce agli amori tra l’imperatore Domiziano – sposato con Domizia – e la nipote Giulia, a sua volta già coniugata con un altro e costretta poi ad abortire dallo stesso Domiziano107, al fine di evitare uno scandalo; nel medesimo contesto – e con una chiara censura dell’adulterio – si fa una invocazione alla legislazione augustea108, voluta nuovamente dallo stesso Domiziano, ma, evidentemente, qui non applicata.

Nelle Epistulae109, Plinio, come abbiamo già accennato, consola l’avo della moglie Calpurnia per l’aborto accadutole, spiegandogli innanzitutto l’assenza di colpa da parte della donna, che era ignara di essere incinta e che, quindi, non aveva assunto le precauzioni richieste dal suo stato; lo rassicura inoltre che presto potrà contare su una discendenza. Si può dire che le parole di Plinio sottolineano gli interessi del marito e dell’avo ad avere una discendenza a cui trasmettere “una via aperta agli onori e un nome di larga risonanza, nonché una tradizione nobiliare di antica origine”. Emergono quindi aspetti più che altro legati alla perdita di un affetto e alla volontà di rassicurare il destinatario Fabato circa una futura discendenza.

Va notato anche che il caso narrato da Cicerone110 viene richiamato, tempo dopo, in un frammento delle Disputationes di Trifonino111: il giurista sembrerebbe attestare quindi un continuum, o, più realisticamente, la sussistenza di precedenti repressioni contro chi, consapevolmente, abortisca; in particolare, la donna citata da Cicerone, indotta ad abortire dagli eredi, subisce la pena di morte. Nel caso descritto da Trifonino agli inizi del III sec. d.C. la decisione imperiale prevede la sanzione dell’esilio temporaneo per una donna che, avendo divorziato, essendo in stato di gravidanza, fece in modo di non procreare il figlio, essendole ormai divenuto inviso il marito. Il giurista riporta il caso nelle sue Disputationes, un’opera dedicata proprio alla discussione di problemi giuridici e, citando il caso riportato in Cicerone, sembra vieppiù attestare che la decisione di Severo e Caracalla si inserisce in un contesto giuridico non ancora ben definito: gli imperatori stabiliscono quindi una soluzione normativa ‘nuova’, per cui, con una cognitio extra ordinem, si punisce il particolare caso dell’aborto intervenuto sì dopo il divorzio, ma contro la volontà e contro gli interessi del padre112, che pare proprio essere l’unico soggetto tutelato dall’intervento imperiale113. Sembra dunque che l’aborto venga ora represso quale crimen e che il rescritto imperiale tuteli esclusivamente il diritto del marito (pater familias) ad avere una discendenza legittima114.

Sulla medesima linea si colloca la testimonianza di Marciano115 che, nel riferire lo stesso intervento imperiale di cui aveva parlato Trifonino, esplicita inequivocabilmente quale sia l’interesse tutelato: la donna che abbia abortito volontariamente viene punita con l’esilio temporaneo in quanto “appare indegno che ella possa impunemente defraudare dei figli il marito”116.

Stando a due testi entrambi riconducibili al giurista Paolo117, la repressione dell’aborto, anche se indirettamente, avviene in modo severo; va infatti rilevato come il tentato o procurato aborto siano da contestualizzare nell’ambito della disciplina relativa all’uccisione di un uomo o di una donna mediante la somministrazione di ‘filtri d’amore’, o pozioni. Diverse sono tuttavia le sanzioni: i rei di omicidio per avvelenamento subiscono “le pene più atroci, che conducono alla morte”118; chi dà questi veleni viene condannato ai lavori forzati nelle miniere nel caso di soggetti di condizione sociale umile, al confino in un’isola e alla perdita di parte dei loro beni se si tratta di soggetti di condizione elevata. Non deve sfuggire l’inciso – “anche se non vi sia stato dolo” – per cui l’elemento soggettivo risulta integrato anche qualora colui che dà la bevanda non sia a conoscenza delle potenzialità venefiche della sostanza. Lontani dalle precise e puntuali ragioni descritte da Cicerone119 quale fondamento della pena di morte, nei frammenti attribuiti a Paolo si punisce la cessione di una sostanza abortiva a prescindere da qualunque intenzione sorregga l’atto di qui abortionis aut amatorium poculum dant120. Possiamo dunque scorgere una sorta di progressione criminosa relativa all’integrità e all’incolumità fisica121 della donna: è punito il semplice e solo fatto del dare sostanze potenzialmente letali; se da ciò deriva poi il fatto più grave della morte di colei122 alla quale la sostanza viene data, la pena si inasprisce. La disciplina non mira quindi a proteggere il feto in quanto tale: l’aborto configurerebbe dunque un caso di lesione grave al corpo femminile, potenzialmente idoneo a determinarne la morte, punito proprio in quanto presuppone la predisposizione di mezzi in grado di uccidere.

Per meglio comprendere le soluzioni giuridiche relative all’aborto volontario rinvenibili in altri loci del Digesto, occorre passare brevemente in rassegna alcune testimonianze di autori cristiani.

La prospettiva attestata in Tertulliano123 sovverte l’ordine dei valori e degli interessi: l’aborto è considerato un atto grave, ma il bene tutelato non è l’interesse maschile alla discendenza legittima, poiché ad essere preservata è l’‘anima’ del nascituro. Infatti “impedire la nascita è un precoce omicidio, né importa se qualcuno estirpi un’anima già nata o la distrugga mentre sta nascendo. Uomo è anche colui che sarà; anche ogni frutto è già nel proprio seme [...]”.

In Ambrogio124 viene riproposta la differenza tra ceti che determina anche una diversità di condotte, sebbene tutte orientate ad evitare l’allevamento dei figli: i poveri, non potendo ricorrere a pratiche abortive costose, per non rischiare la vita e l’integrità fisica con strumenti abortivi pericolosi, preferiscono ‘esporre’ i nuovi nati successivamente al parto, disconoscendoli poi, qualora vengano ritrovati; i ricchi, avendo a disposizione strumenti abortivi efficaci e meno pericolosi, è probabile che ricorressero a soluzioni più drastiche.

Agostino125 non si limita a condannare l’aborto, ma biasima anche l’utilizzo dei farmaci anticoncezionali, censurando ulteriormente la libertà femminile in ordine alla gestione del proprio corpo e della propria vita.

Sembra che l’influenza del Cristianesimo abbia in qualche modo inciso sulla repressione normativa dell’aborto; è però molto probabile che i compilatori del Digesto abbiano alterato un testo ulpianeo126, collocato entro il titolo dedicato alla Lex Cornelia de sicariis et veneficiis: nel frammento manca effettivamente ogni riferimento all’interesse maritale ad assicurarsi una discendenza legittima, né si distingue se vi sia o meno il consenso del marito127. Viene così punita la condotta abortiva della donna, a prescindere dalle motivazioni e dalle circostanze che vi presiedono. Dal tenore del testo, si potrebbe dedurre che l’aborto venga qui considerato illecito in quanto delitto contro una futura vita128, ma non ci sono elementi sicuri a sostegno di tale ratio.

Tuttavia, ai tempi di Giustiniano, l’aborto costituisce (anche) una causa di divorzio unilaterale129; il che porta nuovamente alla centralità della figura maschile; lo si evince chiaramente dalla costituzione imperiale dell’imperatore, che ravvisa una causa di ripudio da parte del marito non solo nell’aborto, ma anche in comportamenti lascivi che possano compromettere l’onore maritale e assecondare il pericolo di rapporti extramatrimoniali. Si tratta in ogni caso di “atti offensivi verso il marito, tutti riguardanti la libera esplicazione della sessualità della donna, temuta e biasimata dall’imperatore”130.

A ben vedere, nella costituzione imperiale, non sembra essere tutelata la vita del nascituro, mentre acquisisce chiara forma il controllo della stabilità della coppia coniugale e lo stesso consenso coniugale, che, in conseguenza della frattura di un patto di fiducia e fedeltà, viene legittimamente meno, giustificando il divorzio unilaterale.

Se non si tiene conto di D. 48.8.8, Ulp. 33 ad ed., sembra che nelle fonti giuridiche prevalga la tutela contro la lesione di una spes filiorum del marito, che determinerebbe un ripudio legittimo131.

Tuttavia, secondo una possibile interpretazione132, non vi sono sufficienti elementi per escludere che l’aborto potesse essere represso anche qualora fosse stato procurato da una donna non sposata; stando a questa impostazione, l’interesse tutelato potrebbe non limitarsi all’aspettativa paterna riguardo alla propria discendenza legittima.

La donna, nel contesto del matrimonio romano, acquisisce ruoli e funzioni, guadagna, conferma o rafforza prestigio e dignità, assume responsabilità ed obblighi di condotta. Nel corso di secoli di esperienza sociale e giuridica si riconosce – quasi costantemente – un evidente dualismo tra l’importanza essenziale della figura femminile e il marcato pregiudizio nei confronti della sua libertà d’azione. Spesso, infatti, questa viene sacrificata agli interessi privati del marito e, talvolta, a quelli della collettività.



NOTE



1 Qui intesa come ‘proprio iure’, ovvero come quell’insieme di persone e ‘soggetti’ sottoposti al potere di un capo-famiglia; D. 50.16.195.2, Ulp. 46 ad ed.: “[...] diciamo familia proprio iure l’insieme di più persone che sono sottoposte alla potestà di uno solo o per nascita, o per diritto, come il padre di famiglia, la madre di famiglia, il figlio e la figlia di famiglia, come anche i loro successori, come i nipoti e le nipoti e di seguito [...]”, ivi compresi coloro che si aggregano (alla familia proprio iure) per adoptio (adozione di un soggetto già sottoposto ad altrui potestà), con adrogatio (adozione di un pater familias, o comunque di un soggetto sui iuris, che sceglie di soggiacere alla patria potestas altrui) e per conventio in manum; sul punto, per tutti, si veda C. FayeR, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, I, Roma, 1994, 17-21.

2 Per una particolare prospettiva sul concetto e sulla funzione della famiglia, si veda F.P. Casavola, D. annunziata, F. luCRezi, Isola sacra. Alle origini della famiglia, Napoli, 2019 e, in particolare, D. annunziata, Immagini sacre. Alle origini della patria potestas, in ibidem, 37-77, 38.

3 La coabitazione, se è ordinaria espressione di comunanza di vita, di cui è una manifestazione fisica (cfr. R. astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, Napoli, 2018, 138-139), non può essere sempre ritenuta condizione necessaria, laddove ed in quanto la lontananza dei due sposi possa essere richiesta – e imposta – da esigenze ed interessi superiori o imprescindibili; cfr. D. 24.1.32.13, Ulp. 33 ad Sab.; D. 25.2.15 pr. Ulp. 34 ad ed.; si veda R. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Milano, 2014, 117-118, del quale si accoglie l’interpretazione. È discusso D. 7.8.4.1, Ulp. 17 ad Sab.; si vedano le posizioni di e. levy, Der Hergang der römischen Ehescheidung, Weimar, 1925, 81 nt. 6 e diP.Giunti,Consorsvitae:matrimonioeripudioinRomaantica,Milano,2004,164.

4 Gai. 1.58-64. Va precisato che il conubium venne progressivamente esteso; ad es. la concessione della cittadinanza a tutti i sudditi dell’impero (212 d.C.) incise fortemente sulla limitazione di quelle restrizioni che, sino a quel momento, erano state legate allo status civitatis, fatta salva qualche eccezione; inoltre l’avvento del Cristianesimo modificò ulteriormente lo stesso concetto di conubium, atteso che l’etica cristiana prevedeva che ciascun individuo libero, capace di intendere e di volere, raggiunta una determinata età, potesse sposarsi con un altro soggetto dell’altro sesso, fatta salva l’introduzione di specifici limiti; per questo bastino gli aspetti istituzionali per i quali, per tutti, si rinvia a l. FasCione, Storia del diritto privato romano, 3a ed., Torino, 2012, 547; in determinate epoche storiche si assiste all’introduzione di impedimenti di tipo relativo, come ad esempio il divieto di matrimonio tra un senatore ed una liberta o una donna di bassa condizione.

5 È possibile arricchire questa metafora pensando che i tasselli siano costituiti dai precetti giuridici e religiosi, mentre le sfumature di colore vengono date dalla morale, dall’etica, e dai relativi usi e costumi.

6 D. 23.2.1, Mod. 1 reg.: “le nozze sono l’unione di un maschio e di una femmina e una condivisione di tutta la vita, punto di incontro di diritto divino ed umano”. La fonte è ampiamente discussa dalla dottrina, ed è da sempre oggetto di studi e interpretazioni; per tutti, si veda G. viaRenGo, Studi su Erennio Modestino. Metodologie e opere per l’insegnamento del diritto, Torino, 2012, 108-114, con bibliografia.

7 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 3-4.

8 Nota è l’affermazione di Ulpiano, in D. 24.1.32.13, Ulp. 33 ad Sab.: [...] non enim coitus matrimonium facit, sed maritalis affectio; è la volontà reciproca di considerarsi marito e moglie a costituire il matrimonio e non l’unione fisica; sul tema si veda anche L. inGallina, Il valore del consenso nel matrimonio romano classico, in l’Osservatorio sul diritto di famiglia. Diritto e processo, a. n. 4, f. 2, maggio-agosto 2020, 133-143, con bibliografia.

9 È, in proposito, emblematico quanto si legge in D. 23.2.65.1, Paul. 7 resp.: “lo stesso Paolo, nel medesimo locus, rispose: io ritengo che sebbene il matrimonio sia stato contratto in provincia in violazione di quanto prescritto dai mandata, tuttavia, se, una volta cessata la carica, le parti perseverano nel consenso, le nozze divengano giuste; e perciò i figli nati dopo da giusto matrimonio ritengo che siano legittimi”. Il frammento si riferisce al divieto di sposare donne della stessa provincia imposto agli alti ufficiali provinciali; a ben vedere prevale la volontà dei due soggetti di istituire una società coniugale; infatti, al cessare della carica, in presenza di affectio maritalis, il matrimonio si può considerare valido e iustum ed i figli che nasceranno successivamente alla fine dell’officium si potranno considerare legittimi; il loro consenso si presume quindi libero ed il matrimonio avrà dunque efficacia ex nunc; sulla fonte e sul tema cfr. ad es. R. FioRi, La struttura del matrimonio romano, in BIDR, IV ser. I, 2011 (CV della collezione), 197-233, in particolare 213-214.

10 Per tutti si veda FioRi, La struttura del matrimonio romano, cit., 226.

11 Sul tema ad esempio e. volteRRa, s.v. Concubinato, in NNDI, 3, Torino,

1967, 1052; FioRi, La struttura giuridica del matrimonio romano, cit., 221-223; s.a. CRistalDi, Unioni non matrimoniali a Roma, in aa. vv., Le relazioni affettive non matrimoniali, Torino, 2014, 141-200; inGallina, Il valore del consenso, cit., 138-140.

12 D. 49.15.14.1, Pomp. 3 ad Sab.: [...] consensu redintegratur matrimonium; trad.: “(solo) con il consenso si può rinnovare il matrimonio”. Si vedano, per gli aspetti istituzionali, A. lovato, S. Puliatti, l. soliDoRo, Diritto privato romano, 2a ed., Torino, 2017, 162 e, tra i molti che del tema si sono occupati, astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 65; sul tema generale l. aMiRante, Captivitas e postliminium, Napoli, 1950; M.v. sanna, Capitis deminutio e captivitas, in Diritto@Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 6, 2007. Per un commento sul testo integrale della fonte e per il cenno alla disciplina giustinianea, attestata in D. 24.2.6, Iul. 62 dig. e D. 49.15.8, Paul. 3 ad leg. Iul. et Pap., si veda astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 65-66; 419-441: i due passi, da confrontarsi con Nov. 22.7, sembrerebbero attestare che i compilatori escludessero la prigionia di guerra dalle cause di scioglimento del matrimonio; un cenno anche in inGallina, Il valore del consenso, cit., 135.

13 Cfr. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 323.

14 M. BRutti, Il diritto privato nell’antica Roma, 3a ed., Torino, 2015, 151.

15 Per una particolare e articolata prospettiva si veda anche F. luCRezi, Prigio-

ne sacra. Alle origini della soggezione femminile, in Casavola, annunziata, luCRezi, Isola sacra, cit., 81-120.

16 D. 25.2.1, Paul. 7 ad Sab.: “la particolare azione per beni sottratti fu introdotta avverso colei che è stata moglie, dal momento che non si ritenne opportuno che si potesse agire contro di lei per furto; alcuni sostengono che costei non commettesse neppure il furto, come Nerva e Cassio Longino, dal momento che la società di vita coniugale rendeva la donna in un certo modo padrona dei beni”. Per la comprensione del contesto e l’interpretazione della fonte si rinvia a l. PePPe, Posizione giuridica e ruolo sociale della donna romana in età repubblicana, Milano, 1984, 35 ss.; G. loBRano, Uxor quodammodo domina. Riflessioni su Paul. Dig. 25.2.1, Sassari, 1989, 113 ss.; s. tReGGiaRi, Roman Marriage. Iusti coniuges from the Time of Cicero to the Time of Ulpian, Oxford, 1991, 374 ss.; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 328 ss.; F. laMBeRti, La famiglia romana e i suoi volti. Pagine scelte su diritto e persone in Roma antica, Torino, 2014, 22-23; astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 139-140.

17 laMBeRti, La famiglia romana, cit., 23.

18 Quando il matrimonio è sine manu, la donna non entra a far parte della famiglia del marito, non assumendo quindi la posizione di ‘figlia’, con evidenti riflessi sul piano patrimoniale e successorio; il matrimonio sine manu le consente infatti di mantenere l’appartenenza alla famiglia di origine con i conseguenti effetti relativi al piano patrimoniale e successorio. In tema di conventio in manum si rinvia, ex multis, a M. KaseR, Ehe und conventio in manum, in Iura. Rivista internazionale di diritto romano antico, I, 1950, 64-101; M.j. GaRRiDo, “Conventio in manum” y matrimonio, in Anuario de historia del derecho español, 26, 1956, 781-787; e. volteRRa, Nuove ricerche sulla “conventio in manum”, in Memorie della Classe di Scienze morali e storiche dell’Accademia dei Lincei, XII, 4, 1966, 251-355; tReGGiaRi, Roman Marriage, cit., 16; i. PiRo, “Usu” in manum convenire, Napoli, 1994; e. CantaRella, L’‘usus’ e la ‘conventio in manum’, in Labeo 41, 3, 1995, 434-449; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 92-95; iDeM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., passim.

19 Anche se di fatto ciò grava maggiormente sul marito; cfr. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 331.

20 iDeM, cit., 328 e 345: il marito, tuttavia, ne assume e mantiene la responsabilità giuridica in qualità di pater familias; cfr. anche iDeM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 139.

21 Si vedano ex multis FayeR, La familia romana, I, cit. 123 ss.; sul tema generale M. De siMone, Studi sulla patria potestas. Il filius familias ‘designatus rei publicae civis’, Torino, 2017, entrambi i lavori con fonti e bibliografia.

22 D. 37.12.5, Pap. 11 quaest.

23 D. 48.9.5, Marcian. 14 inst.; sulle due fonti cfr. ad es. FayeR, La familia

romana, I, cit., 170-171, con bibliografia e resoconto del relativo dibattito.

24 D. 43.30.1.3 e 5, Ulp. 71 ad ed.; cfr. ad es. FayeR, La familia romana, I, cit., 287 nt. 618, che dà conto anche delle tesi interpolazionistiche; si veda anche astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 345.

25 C. 8.8.2 e 3, Impp. Diocl et Max.; cfr. ad es. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 345.

26 Gai. 1.104: feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales liberos in potestate habent; trad.: “le donne non possono in alcun modo adottare poiché non hanno la potestas neppure sui figli naturali”.

27 Per tutti, PePPe, Posizione giuridica, cit., 74-75; sul tema si vedano anche M.P. BaCCaRi vaRi, Curator ventris. Il concepito, la donna e la res publica tra storia e attualità, Torino, 2012, 93 ss.; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 345; C. FayeR, La vita familiare dei romani antichi. Dalla nascita al matrimonio, Roma,2016,23-24;F.Fasolino,Alcuneconsiderazionisulruolodelladonnanell’educazione della prole a Roma, in aa.vv., Lo spazio della donna nel mondo antico (a cura di M. del Tufo, F. Lucrezi), Napoli, 2019, 175-197. In un rescritto di Alessandro Severo del 223 (C. 5.49.1, Imp. Alex. Sev.), dopo la morte del marito, si predilige l’educazione materna, salvo che la donna non si risposi; l’impostazione è accolta da Giustiniano in Nov. 22.38.



28 Forse è più corretto pensare ad un’educazione in forma congiunta, più credibile, atteso che i padri avevano spesso impegni pubblici o militari; un’educazione affidata quindi alle madri, agli educatori in ambito familiare, nonché a nonni e prozii, non impegnati per ragioni militari; concordo dunque decisamente con l’osservazione di PePPe, Posizione giuridica, cit., 74-75.

29 “[...] attorno ai tre anni la nutrice (educatrix) lo affidava al pedagogo, al maestro o alla madre. Esisteva quindi una filiera educativa al femminile che nella prima fase della vita risaliva dalle più anziane alla genitrice, in cui si preservava e si tramandava il patrimonio ideale e rafforzava il principio identitario”: così l. sanDiRoCCo, rec. a aa.vv., Lo spazio della donna nel mondo antico (a cura di M. del Tufo, F. Lucrezi), Napoli, 2019, in BSL, 50, 2020, 366-374, in particolare 370.

30 Sono ancora una volta imprescindibili le parole di BRutti, Il diritto privato, cit., 149: “La condizione giuridica della donna non è statica, ma si modifica storicamente con il mutare delle forme di vita. Non vi è soltanto la disuguaglianza rispetto ai maschi, ma in campi diversi della vita giuridica vediamo anche momenti significativi di discontinuità e di emancipazione”; sul ruolo della donna nella familia si veda anche BaCCaRi vaRi, Curator ventris, cit., 87 s.

31 D. 1.5.9, Pap. 31 quaest.; per una ricostruzione storiografica si veda F. MeRCoGliano, La condizione giuridica della donna romana: ancora una riflessione, in Teoria e storia del diritto privato, 4, 2011, 1-40.

32 Ne leggiamo in Gaio (1.144) la giustificazione: [...] veteres enim voluerunt feminas, etiamsi perfectae aetatis sint, propter animi levitatem in tutela esse; trad.: “gli antichi infatti vollero che le donne, sebbene in età pubere, fossero sottoposte a tutela in conseguenza della loro debolezza di carattere”; sul tema si vedano ad es. PePPe, Posizione giuridica, cit., 37-42 e FayeR, La familia romana, I, cit., 515 ss.

33 Si rinvia alle osservazioni di BRutti, Il diritto privato, cit., 151.



34 Sul tema dell’educazione cfr. fra gli altri s.F. BonneR, Education in Ancient Rome: from the elder Cato to the younger Pliny, London, 1977; PePPe, Posizione giuridica, cit., 74-75; K. BRaDley, Discovering the Roman Family: Studies in Roman Social History, New York-Oxford, 1991; R. FRasCa, Donne e uomini nell’educazione a Roma, Milano, 1991; B. Rawson, Children and Childhood in Roman Italy, Oxford, 2003; R. FRasCa, Educazione e formazione a Roma. Storia, testi, immagini, Bari, 2011; laMBeRti, La famiglia romana, cit., 78-80; FayeR, La vita familiare, cit., 4774; h.-i. MaRRou, Storia dell’educazione nell’antichità, Roma, 2018; un riferimento anche in annunziata, Immagini sacre. Alle origini della patria potestas, cit., 66.

35 In questa sede si lascia spazio agli aspetti prevalentemente non patrimoniali, personalistici, etici ed umani.

36 Vat Frag. 104: “Paolo rispose che la dignità delle donne era solita essere aumentata o diminuita in base all’honor matrimonii”; sul passo ad es. FioRi, La struttura giuridica del matrimonio, cit., 228; cfr. ancora D. 1.9.8, Ulp. 6 fideicom.: “le donne sposate con persone molto illustri sono a loro volta considerate molto importanti. Le figlie dei senatori non sono contrassegnate dall’appellativo di clarissimae a meno che non contraggano matrimonio con uomini clarissimi. Infatti le donne ricevono tale attributo dai loro mariti ed anche dal padre, finché non si uniscano a mariti plebei. Una donna quindi non avrà la condizione di clarissima se non fino a quando rimarrà sposata con un senatore o con un uomo clarissimus; non così se, al contrario, separatasi da costoro, si sposi con un altro connotato di una dignitas inferiore”; una conferma anche in una Costituzione (C. 12.1.1, Imp. Alex. Sev.) di Alessandro Severo: “se, come proponete, avete avuto un avo ex console ed un marito pater praetorius, e se siete state sposate con uomini di condizione non privata, ma con uomini assai illustri, meriterete la nobiltà della stirpe”; sul passo di Ulpiano, sul rescritto di Alessandro Severo e sulla condizione sociale della donna clarissima nell’ambito dei matrimoni diseguali, si veda l’approfondita trattazione di F. nasti, Riflessioni sui matrimoni diseguali delle clarissimae feminae fra II e III sec. d.C., in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di Luigi Labruna, VI, Napoli, 2007, 3739-3763; si veda anche FayeR, La vita familiare, cit., 106.

37 Così astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 327; sulla formula e con particolare riferimento al matrimonio di età preclassica, si veda iDeM, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 41 e 138; già, prima, FayeR, La vita familiare, cit., 114-115.



38 È qui sufficiente un semplice cenno; per gli aspetti istituzionali si veda BRutti, Il diritto privato, cit., 106-110.

39 Plin., epist. 8.10.

40 [...] quem errorem, magnis documentis expiavit, in summum periculum adducta [...]; sulla fonte, con una diversa prospettiva, si veda ad esempio n. CRiniti, “Imbecillus sexus”: donne in Roma antica, in Ager Veleias 11,18, 2016, www. veleia.it, 1-121, in particolare 101.

41 Cfr. Ov., am. 2.14 v. 30.

42 Rinvenuti nelle tombe.

43 A cui fa riferimento ancora Tertulliano (de an. 25.5): si tratta di uno

strumento chirurgico atto ad uccidere il feto prima che venga asportato (ἐμβρυοσφάκτης); cfr. i. Mazzini, La letteratura cristiana antica e la medicina (II). Saggio di indagine su “Realien” e linguaggio medici nella letteratura cristiana, in Les Études Classiques, 71,3, 2003, 241-261, in particolare 241.

44 Cfr. Ov., am. 2.14 v. 30; her. 11 v. 39.

45 Per un approfondimento si vedano, ad esempio, e. naRDi, Procurato aborto nel mondo greco romano, Milano, 1971, 19; De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 198-199; CRiniti, “Imbecillus sexus”, cit., 103-106; astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 167.

46 De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 198.

47 Plin., epist. 4.11; Suet., Dom. 22; Iuv., 2 vv. 29 ss.: Giovenale incentra la sua censura sull’adulterio, facendo anche riferimento alla relativa repressione normativa e lasciando a margine l’invettiva contro l’aborto, che sembra rilevare in quanto ne sia conseguenza.

48 In particolar modo dopo l’età repubblicana; cfr. ad es. sanDiRoCCo, rec. a aa.vv., Lo spazio della donna, cit., 369.

49 Si vedano ex multis R. astolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova, 1994; C. FayeR, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia Matrimonio Dote, II, Roma, 2005, 15 ss., con accurato ed approfondito apparato di fonti e bibliografia; eaDeM, La vita familiare, cit., 102-105; imprescindibile è P. FeRRetti, Forme costrittive e libertà matrimoniale tra mos e ius, in AUPA, 51, 2018, 97-122, con fonti e bibliografia; uno spunto in l. inGallina, Vincoli potestativi, libertà matrimoniale e responsabilità nel fidanzamento romano, in L’Osservatorio sul diritto di famiglia. Diritto e Processo, a. 2, f. 3, settembre-dicembre 2018, 113-119, in particolare la nota bibliografica, 113 nt. 1; G. GReCo, Il rifiuto della figlia alle nozze in diritto attico, ebraico e romano, in aa.vv., Lo spazio della donna, cit., 15-41.

50 Pur nella consapevolezza che lo stesso atto abortivo fosse pericoloso; si vedano P. CaRRiCK, Medical Ethics in Ancient Word, Washington (DC), 2001, 117118; sul punto si veda anche l. loDDo, I Greci e l’aborto fra teoria politica e prassi medica. Per una rilettura di Platone, Aristotele, Ippocrate, in Erga-Logoi, 2, 2013, http://www.ledonline.it/erga-logoi/, 105-133, in particolare 106.

51 In generale, sul tema si rinvia a s. santelia, ... nec viscera tua conceptas spes liberorum elisisti. Pensieri (di uomini) sull’aborto a Roma tra I sec. a.C. e II d.C., in Invigilata lucernis, 39, 2017, 183-198.

52 Un cenno si trova in un epigramma di Marziale (6.67).

53 De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 200-201.

54 Sul punto si vedano per tutti naRDi, Procurato aborto, cit., 246-247 e De

FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 198.

55 D. 48.19.38.5, Paul. 5 sent.; il testo corrisponde, con minime varianti, a quello contenuto in Paul. sent. 5.23.14; si veda di seguito.

56 De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 200, con riferimenti alle fonti anche relative alla conoscenza da parte dei medici della distinzione tra ‘espulsivi’ ed ‘abortivi’.

57 eaDeM, 196.

58 Vv. 355-356.

59 V.480.

60 Cfr. CRiniti, “Imbecillus sexus”, cit., 99.

61 Resp. 461.

62 Sul punto j. aDaM (ed.), The Republic of Plato, I, Cambridge, 1963, 357-

360; h.D. RanKin, Plato and the Individual, London, 1964, 46; opportunamente prudente è loDDo, I Greci e l’aborto, cit., 109-110, che interpreta in modo cauto il pensiero di Platone, laddove il filosofo sembra contemplare l’interruzione di gravidanza solo come una mera opzione tra altre.

63 Teet., 149 c-d.

64 Pol. 1335 b 22-26.

65 Ibidem, 25-28.

66 Sul passo loDDo, I Greci e l’aborto, cit., 117 ss.; in particolare la sua analisi

sulla ‘liceità’ dell’aborto a cui fa riferimento Aristotele, in relazione al termine ὅσιον (lecito) e al ‘principio vitale’ dell’embrione.

67 Non si tratta di scritti di diretta paternità ippocratea, bensì di una confluenza di varie opere appartenenti ad autori diversi; lo stesso ‘Giuramento’ è certamente antecedente al medico di Cos, che nasce intorno al 460/450 a.C.; sul punto si veda per tutti G. MonaCo, M. CaseRtano, G. nuzzo, L’attività letteraria nell’antica Grecia. Storia della letteratura greca, Palermo, 1991, 259-261.

68 Hp., Iusi. 2.13-16.

69 Hp. Mul. 1.72.

70 De antid., 2.20; sul punto CRiniti, “Imbecillus sexus”, cit., 99; Galeno distin-

gue tra aborto terapeutico e aborto non terapeutico, diversificando altresì i mezzi ‘abortivi’ da quelli ‘espulsivi’, in grado, questi ultimi, secondo una possibile interpretazione, di determinare l’espulsione dell’ovulo fecondato; cfr. De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 200. 71 Cfr. ad es. Ov., am. 2.13 e 2.14; nei Tristia (2, vv. 413-418), Ovidio, nel richiamare gli scritti licenziosi di Aristide di Mileto, li associa ad un trattato di un certo Eubio, ove questi descrive la soppressione di embrioni materni, e ritiene quindi condotta grave la pratica abortiva. Su Ov. am. 2.14, si veda BaCCaRi vaRi, Curator ventris, cit., 111 ss. Il poeta, nelle Eroidi (11), narra la storia di Canace, figura mitologica, che ebbe una relazione incestuosa con il fratello Macareo, in conseguenza della quale rimase incinta; con l’aiuto della nutrice tentò di abortire, mediante l’uso di erbe varie e medicamenti, all’insaputa dell’uomo, senza però riuscirvi (vv. 37-44).

72 Ov., am. 2.14 vv. 45-46; in particolare in età preclassica, il dovere di fedeltà, di morigeratezza, di non assumere vino e di portare a termine la gravidanza ha anche una valenza religiosa; cfr. ad es. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 335.

73 Ov., am. 2.13 v. 5; 2.14. vv. 11-30.

74 Si veda BRutti, Il diritto privato, cit., 111.

75 Sono ancora i versi di Ovidio (am. 2.13 e 2.14) a svelare l’umanità dei

sentimenti del poeta, non solo addolorato per la perdita di un eventuale discendente (che Ovidio spera essere suo), ma anche angosciato per il pericolo di vita in cui è incorsa Corinna.

76 De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 196.

77 Cfr. Plaut., Truc. vv. 200-202: “te lo celava e aveva paura che tu la inducessi

ad abortire, ad uccidere il suo bambino”.

78 De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 197.

79 “La donna ha una vocazione, l’unica, che le deriva dalla nascita per sesso: sarà

moglie per essere madre e assicurare così la continuità familiare nel segno della legittimità biologica”; efficace la sintesi di l. sanDiRoCCo nella sua rec. a F.P. Casavola, D. Annunziata, F. Lucrezi, Isola sacra. Alle origini della famiglia, Napoli, 2019, in BSL, 50, 2020, 374-379, in particolare 377.

80 Il diritto privato, cit., 111.

81 Nux, vv. 23-24: nunc uterum vitiat quae volt formosa videri, / raraque in hoc aevo est quae velit esse parens.

82 Ad Helv. 16.3; per la comprensione della fonte e sul tema generale si veda anche santelia, ... nec viscera, cit., 183-198.

83 Rom. 22.3.

84 Ci si è chiesti se la norma faccia riferimento al solo aborto o ricomprenda, a fortiori, l’uccisione volontaria da parte della madre o di terzi di prole già nata, a dispetto del padre; sul punto si registra una diversità di vedute, per il cui resoconto si rinvia a M.v. sanna, Spes nascendi spes patris, in AUPA, 55, 2012, 519-552, in particolare 532-534, secondo la quale, se nel testo si fosse fatto riferimento all’avvelenamento dei figli già nati (o di estranei), si sarebbe necessariamente configurata una ipotesi di ‘omicidio’, ancor più severamente sanzionato; si veda anche FayeR, La vita familiare, cit., 120.

85 Plin. n.h. 14.89; che si tratti delle chiavi della cella vinaria è probabile; era infatti questa una zona inaccessibile alla donna, alla quale era preclusa la possibilità di bere vino. Cfr. per tutti la ricostruzione di FayeR, La familia romana, I, cit., 150-152; si veda altresì astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 171.

86 Lo si può dedurre a fortiori dal resoconto di Gell. 10.23.5: “quanto al diritto di ucciderla, così è scritto: “se tu sorprendessi tua moglie in flagranza di adulterio, potresti ucciderla, impunemente, senza dover per questo essere giudicato; se invece fosse lei a sorprenderti in adulterio [...] non oserebbe toccarti con un dito e non sarebbe neppure giuridicamente lecito farlo” (Cato. fr. 222 Malcovati = fr. 201 Sblendorio)”. Sul diritto al ripudio, quale strumento eccezionale previsto con esclusivo riferimento all’uomo, cfr. ad es. astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 154 ss. ed in particolare 171; sul tema più in generale i. PiRo, Unioni confarreate e “diffarreatio”. Presupposti e limiti di dissolubilità delle unioni coniugali in età regia, in Index. Quaderni camerti di studi romanistici, 25, 1997, 253-299.

87 astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 154 ss. ed in particolare 171-172.

88 Propongo qui in traduzione il già citato Plin., n. h. 14.89: “a Roma non era concesso bere vino alle donne. Tra gli esempi troviamo che la moglie di Egnazio Metennio, poiché aveva bevuto vino da una botte, fu uccisa dal marito con un bastone, e che egli fu assolto da Romolo per la strage. Fabio Pittore nei suoi Annali ha scritto che una matrona, poiché aveva aperto cassette in cui c’erano le chiavi della cella vinaria, fu costretta dai suoi familiari a morire di inedia”. L’uso del vino viene altresì paragonato all’adulterio; così Catone in Gell. 10.23.3-4: “però Marco Catone riferisce che le donne erano non solo biasimate, ma addirittura punite dal ‘giudice’ qualora avessero assunto vino non meno che se avessero commesso un’azione disonorevole e l’adulterio. Ho tratto le parole di Marco Catone dall’orazione che si intitola Sulla dote, nella quale vi è scritto anche questo, e cioè che nel caso in cui le mogli fossero state sorprese in flagranza di adulterio, il marito avrebbe avuto il diritto di ucciderle. Egli scrisse: “quando il marito ha divorziato, è giudice della donna con poteri di censore e ha tutta l’autorità che ritiene opportuna; nel caso in cui la donna abbia commesso qualcosa di scorretto e di vergognoso essa viene punita; se beve vino, se commette scandalo con un altro uomo, viene condannata” (Cato fr. 221 Malcovati = fr. 200 Sblendorio)”. Presumibilmente l’assunzione di vino, secondo una possibile interpretazione, costituisce una condotta preordinata all’adulterio; per tutti si veda astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 167.

89 Sull’attendibilità del testo di Plutarco non tutti concordano: si vedano ad es. P. BonFante, Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Milano, 1963, 343; e. volteRRa, s.v. Divorzio (diritto romano), in NNDI, 6, 1960-1981, 62.

90 Così già P. noailles, Fas et jus: études de droit romain, Paris, 1948, 20 e astolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 172. Per R. FioRi (Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli, 1996, 244), l’aborto indotto lede il diritto del marito di essere il solo a poter decidere sulla vita dei figli; tale lettura sposta il baricentro della valutazione dell’illiceità della condotta sulla posizione dei due coniugi entro il rapporto matrimoniale. A mio avviso anche questa impostazione va accolta, poiché contribuisce a rappresentare fedelmente l’equilibrio, rectius il disequilibrio, nella coppia coniugale.

91 Per una approfondita analisi contestuale si veda P. Giunti, Adulterio e leggi regie. Un reato tra storia e propaganda, Milano, 1990, 155 ss.; e CantaRella, Passato prossimo. Donne romane da Tacita a Sulpicia, Milano, 1996, 62 s. e 156 s. ntt. 59-64; MeRCoGliano, La condizione giuridica, cit., 2.

92 Mi baso ancora sul ragionamento di astolFi (Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, cit., 172), che, poi, approfondisce ulteriormente l’esegesi del passo con un’analisi sintattica (Ibidem). Sul tema e sulla fonte si veda però anche la posizione di Giunti, Adulterio e leggi regie, cit., 155; eaDeM, Alle origini del ripudio: criminalità femminile e dissolubilità del matrimonio in Roma arcaica, Firenze, 1993; eaDeM, Consors vitae, cit., cap. 1, con bibliografia; sul testo, già prima naRDi, Procurato aborto, cit., 22.

93 Sul tema, per tutti, si vedano Giunti, Adulterio e leggi regie, cit.; G. Rizzelli, Le donne nell’esperienza giuridica di Roma antica. Il controllo dei comportamenti sessuali. Una raccolta di testi, Lecce, 2000; da una diversa prospettiva P. Pavón, Impp. Severus et Antoninus AA. Cassiae (CJ. 9.9.1). El caso del esposo adúltero, in SDHI, 77, 2011, 385 ss. e C. teRReni, Le ragioni di una moglie tradita: note in margine a C.9.9.1, in Teoria e storia del diritto privato, 11, 2018, 1-30, www.teoriaestoriadeldirittoprivato. com; si veda ancora MeRCoGliano, La condizione giuridica, cit., 17-18.

94 Cfr. sanna, Spes nascendi, cit., 534.

95 FioRi, Homo sacer, cit., 232 ss.

96 D. 11.8.2, Marc. 28 dig.: negat lex regia mulierem, quae praegnans mortua sit,

humari, antequam partus ei excidatur: qui contra fecerit, spem animantis cum gravida peremisse videtur; trad.: “una legge regia nega che una donna, morta mentre era in stato di gravidanza, possa essere sepolta, prima che il feto le sia estratto dal corpo; colui che avrà fatto il contrario, si ritiene abbia fatto morire insieme con la donna gravida anche la speranza di un essere vivente”.

97 Per il relativo dibattito si veda l’accurata ricostruzione di sanna, Spes nascendi, cit., 521-524. Le medesime questioni possono discutersi anche con riguardo al prescritto differimento di una condanna a morte e della tortura, nei confronti di una donna gravida, di cui in D. 1.5.18, Ulp. 27 ad Sab., in D. 48.19.3, Ulp. 14 ad Sab. e in Paul. Sent. 1.12.14; anche in questo caso la ratio della previsione normativa viene rinvenuta talora nella protezione del nascituro, a volte nella tutela dell’interesse paterno a preservare una propria discendenza; cfr. ancora il dibattito del quale dà puntualmente conto sanna, Spes nascendi, cit., 524-526.

98 Pro Cluent., 11.32: memoria teneo Milesiam quandam mulierem, cum essem in Asia, quod ab heredibus secundis accepta pecunia partum sibi ipsa medicamentis abegisset, rei capitalis esse damnatam; nec iniuria, quae spem parentis, memoriam nominis, subsidium generis, heredem familiae, designatum rei publicae civem sustulisset; trad.: “mentre mi trovavo in Asia, ricordo di una donna di Mileto che venne condannata per delitto capitale, dal momento che aveva ricevuto una somma di denaro dai secondi eredi e si era procurata un aborto mediante uso di farmaci. (E questa condanna non fu inflitta) in deroga al diritto (iniuria), dal momento che la donna aveva distrutto la speranza del padre, la continuazione del nome, il sostegno alla stirpe, l’erede della familia, nonché un futuro cittadino della repubblica”.

99 Sulla questione relativa all’interesse protetto si veda sanna, Spes nascendi, cit., 536.

100 Entrata in vigore nell’81 a.C., cfr. G. RotonDi, Leges publicae populi romani, Hildesheim-Zürich-New York, 1990, 357-358; si accoglie qui l’interpretazione di BRutti, Il diritto privato, cit., 112-113: probabilmente la modalità con cui viene procurato l’aborto – ossia la somministrazione di sostanze venefiche – attrae la fattispecie – eccezionalmente – nella disciplina di questa Lex Cornelia.

101 Si segue quindi ancora BRutti, Il diritto privato, cit., 112-113; parte della dottrina ritiene tuttavia che la condanna della donna non sia avvenuta per effetto di una applicazione estensiva della Lex Cornelia de sicariis et veneficiis, bensì sulla base di una normativa locale, ovvero il diritto vigente in Asia; in proposito si vedano e. Costa, Cicerone giureconsulto, Roma, 1964, 53 e nt. 1; escludono l’applicazione della Lex Cornelia de sicariis et veneficiis anche naRDi, Procurato aborto, cit., 221 s.; P. saRDi, L’aborto ieri e oggi, Brescia, 1975, 38 s.; C. teRReni, Me puero venter erat solarium. Studi sul concepito nell’esperienza giuridica romana, Pisa, 2009, 283.

102 Così sintetizza sanDiRoCCo, rec. a aa. vv., Lo spazio della donna, cit., 369.

103 Per uno studio sul contesto, si veda, recentemente, P.l. CaRuCCi, Tutela

della madre dopo il divorzio nel I sec. d.C. Spunti di riflessione, in aa. vv., Lo spazio della donna, cit., 127-173.

104 Così De FiliPPis CaPPai, Medici e medicina, cit., 197; cfr. sul punto sanDiRoCCo, rec. a aa. vv., Lo spazio della donna, cit., 369; per la repressione dell’aborto nella legislazione imperiale si veda BaCCaRi vaRi, Curator ventris, cit., 124 ss.

105 6.592 ss.: “queste (povere donne) tuttavia, nella sorte avversa che le opprime, affrontano il parto e i relativi rischi, sopportano tutte le fatiche dell’allattamento; ma sui letti dorati non giace più nessuna puerpera. Tanto possono le ‘arti’, tanto i ‘farmaci’ di colei che rende sterili e uccide a pagamento ‘uomini’ nel ventre materno. E tu, o infelice marito, esulta e porgile tu stesso ciò che ella dovrà bere; infatti se lei volesse ampliare il suo ventre e tormentarlo con lo scalciare di un figlio, forse potresti diventare padre di un Etiope e ben presto l’erede dalla pelle scura, che tu non vorresti mai vedere alla luce del giorno, riempirebbe il tuo testamento”.

106 2 vv. 29-33.

107 Cfr. Suet., Dom. 22.

108 Iuv. 2 v. 37, ove si legge ancora una censura dell’adulterio, ma non dell’aborto.

109 Ep. 8.10.

110 Pro Cluent. 11.32, di cui sopra.

111 D. 48.19.39, Tryph. 10 disp.: “Cicerone, nell’orazione pro Cluentio Habito,

scrisse che, quando era in Asia, una donna di Mileto fu condannata alla pena capitale, in quanto aveva di propria mano abortito con sostanze venefiche, dopo aver ricevuto del denaro dai secondi eredi. Ma fu stabilito, con un rescritto dei nostri ottimi imperatori, che dovesse essere condannata all’esilio temporaneo quella donna che ha abortito dopo il divorzio, al fine di non dare un figlio al marito che lei (ormai) riteneva nemico”.

112 Cfr. BRutti, Il diritto privato, cit., 114.

113 La mia osservazione, che trova conforto in C. FeRRini, Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, estr. da Enciclopedia del Diritto Penale Italiano, Milano, 1902, 386 e in BRutti, Il diritto privato, cit.,114, potrebbe non essere condivisa da coloro che escludono che le circostanze descritte dal frammento siano inidonee a far supporre che, accanto alla tutela del marito-padre, possa essere pensabile anche quella verso lo stesso nascituro. Per sanna (Spes nascendi, cit., 539), la fattispecie non esclude che l’aborto potesse essere perseguito anche in assenza di specifico interesse del marito o ex marito.

114 Sulla natura dell’interesse tutelato dal rescritto si vedano a. MaRonGiu, s.v. Aborto, in E.D., 1, Milano, 1958, 126 s.; saRDi, L’aborto ieri e oggi, cit., 48 ss.; G.

GanDolFi, s.v. Nascituro (storia), in E.D., 27, Milano, 1977, 530 ss., in particolare 534; G. Galeotti, Storia dell’aborto, Bologna, 2003, 19 ss.

115 D. 47.11.4, Marcian. 1 reg.: “gli imperatori Severo e Antonino stabilirono con rescritto che colei che abortì di propria mano venga mandata in esilio temporaneo dal preside (della provincia): deve infatti essere ritenuto indegno il fatto che ella possa defraudare dei figli il marito”.

116 In questa direzione F. lanFRanChi, s.v. Nascituri, in NNDI, 11, Torino, 1965, 13 s.; G.G. aRChi, s.v. Concepimento, in E.D. 8, Milano, 1961, 354 ss., ora in Scritti, 1, Milano, 1981, 193 ss., in particolare 194 s.; si veda la ricostruzione di sanna, Spes nascendi, cit., 538-539.

117 Paul sent. 5.23.14: “coloro che danno un veleno abortivo o un filtro d’amore, sebbene non lo facciano con dolo, tuttavia, dal momento che si tratta di un atto di cattivo esempio, se sono humiliores, sono condannati ai lavori forzati nelle miniere, se si tratta di honestiores, sono relegati su un’isola, previa confisca di una parte dei beni. E se, da questo fatto, ne deriverà la morte di una donna o di un uomo, i rei siano puniti con il supplizio capitale”; e D. 48.19.38.5, Paul. 5 sent. (con minime varianti rispetto al passo delle Pauli sententiae); come osserva BRutti (Il diritto privato, cit., 115), sono due testi pressocché identici, che tuttavia vengono trasmessi per vie diverse, ma si tratta, per entrambi, di frammenti provenienti da una raccolta di testi di Paolo, che andrebbero collocati in un periodo successivo a quello dei Severi, seppure “entro poco più di un secolo dagli anni in cui il giurista è vissuto”.

118 BRutti, Il diritto privato, cit., 115.

119 Pro Cluent. 11.32: [...] nec iniuria, quae spem parentis, memoriam nominis,

subsidium generis, heredem familiae, designatum rei publicae civem sustulisset; trad.: “(E questa condanna non fu inflitta) in deroga al diritto (iniuria), dal momento che la donna aveva distrutto la speranza del padre, la continuazione del nome, il sostegno alla stirpe, l’erede della familia, nonché un futuro cittadino della repubblica”.

120 Paul. sent. 5.23.14: [...] etsi id dolo non faciant [...] e D. 48.19.38.5, Paul. 5 sent.: [...] etsi dolo non faciant [...].

121 Si veda anche saRDi, L’aborto ieri e oggi, cit., 48 ss.

122 O ‘colui’..., in quanto il fatto illecito potrebbe configurarsi anche in caso

di dazione di ‘pozioni d’amore’, rivelatesi venefiche, in danno di un uomo.

123 Ap. 9.8: “a noi non è lecito infatti, essendo vietato l’omicidio, distruggere ciò che è stato concepito nell’utero, mentre il sangue è sottratto quando ancora si trova nell’essere vivente. Impedire la nascita è un precoce omicidio, né importa se qualcuno estirpi un’anima già nata o la distrugga mentre sta nascendo. Uomo è anche colui che sarà; anche ogni frutto è già nel proprio seme”. L’autore, si sa, vive tra il II e il III sec. d.C., ma quest’opera è precisamente del 197 d.C.

124 Più di un secolo dopo; hex. 5.18.58: “[...] le donne più povere se ne disfano (dei figli), esponendoli e, qualora vengano ritrovati, li disconoscono. I ricchi, al fine di non dividere il patrimonio tra più eredi, rinnegano le proprie creature nel grembo materno e con pozioni mortifere spengono i frutti del loro ventre nello stesso grembo che li ha generati e così la vita viene tolta prima ancora di essere trasmessa [...]”. Si veda FayeR, La vita familiare, cit., 5-6.

125 Autore del IV-V sec. d.C. De nupt. et conc. 1.15; propongo qui la traduzione di BRutti (Il diritto privato, cit., 116): “talora questa dissoluta crudeltà o dissolutezza crudele arriva al punto di procurare anche i veleni della sterilità; e, se a nulla ciò sia servito, ad annientare e dissolvere in qualche modo nell’utero i prodotti del concepimento: volendo piuttosto che la sua prole si estingua anziché viva, o, se già nell’utero viveva, sia uccisa prima di nascere. Certo, se sian così entrambi, non sono coniugi; e se così furono dall’inizio non in matrimonio si congiunsero, ma piuttosto in adulterio [...]”.

126 D. 48.8.8, Ulp. 33 ad ed.: “se risulterà che una donna abbia usato violenza contro il proprio grembo per provocare un aborto, il preside della provincia la manderà in esilio”. Sostengono che il testo sia interpolato ad es. B. BionDi, Il diritto romano cristiano, 3, Milano, 1954, 487 ss.; u. BRasiello, Sulla ricostruzione dei crimini in diritto romano. Cenni sull’evoluzione dell’omicidio, in SDHI, 42, 1976, 246 ss., in particolare 259; P. FeRRetti, In rerum natura esse in rebus humanis nondum esse. L’identità del concepito nel pensiero giurisprudenziale classico, Milano, 2008, 131 ss.

127 Cfr. BRutti, Il diritto privato, cit., 117.

128 Sulla fonte si veda anche R. MentxaKa, El aborto en el derecho romano: consideraciones sobre las fuentes jurídicas clásicas, in Estudios de Deusto, 31, 1983, 307-320, in particolare 314-316.

129 C. 5.17.11.2, Imp. Iust.: “tra le colpe della moglie enumerate nelle costituzioni imperiali dobbiamo altresì aggiungere l’ipotesi per cui la moglie, ad esempio, con una propria azione o attività abbia praticato l’aborto, oppure se è così lussuriosa da osare di avere un lavacro comune con gli uomini a fini libidinosi, oppure se, in costanza di matrimonio, abbia tentato di procurarsi un altro marito”; si vedano ad es. BRutti, Il diritto privato, cit., 117 e CRiniti, “Imbecillus sexus”, cit., 109.

130 BRutti, Il diritto privato, cit., 117.

131 Quella stessa conseguenza prevista circa tredici secoli prima dalla legge romulea, di cui Plut. Rom. 22.3; da confrontarsi quindi con C. 5.17.11.2 e Nov. 22.16.1.

132 Si veda sanna, Spes nascendi, cit., 543-544, con fonti e bibliografia.