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Questioni vecchie e nuove in tema di violenza sessuale in ambito lavorativo (nota a Trib. Pen. Pavia, 12 dicembre 2019, n. 577)

autore: N. Rocco

Sommario: 1. Il caso. 2. Le questioni. 3. Le soluzioni giuridiche. 4. Osservazioni.



1. Il caso



Un odontoiatra di [omissis] è stato tratto a giudizio dinanzi al GuP di [omissis] per rispondere del reato di violenza sessuale [art. 609-bis c.p.] continuata [81, c. 2°, c.p.] ed aggravata dall’abuso di relazioni di ufficio [art. 61, c. 1°, n. 11) c.p.], ascrittogli dalla locale autorità inquirente per aver più volte molestato sessualmente una delle lavoratrici-dipendenti [‘assistente alla poltrona’] addette al suo studio dentistico.

Si è contestato – in particolare – all’imputato di aver insistentemente e sistematicamente fatto oggetto la sua collaboratrice di studio nel corso del rapporto lavorativo di “frasi offensive e di commenti con connotazioni sessuali... anche alla presenza di altre persone”, palpeggiandole ripetutamente seni e glutei, infilandole le mani sotto il camice e/o all’interno dei pantaloni da lavoro [dotati di elastico a vita] “fino ad arrivare in mezzo alle gambe, cercando di scostare gli slip”; altre volte ancora tentava di “baciarla sulle orecchie e sul collo” e “nel far ciò ansimava e le intimava di non fiatare”.

Tutto questo profittando delle occasioni in cui, dovendo tenerle immerse “nella scatola contenente i liquidi per lo sviluppo delle lastre”, “la donna non poteva usare le mani”, tant’è che “molte volte per liberarsi del datore di lavoro” la vittima era stata costretta a velocizzare “i tempi di sviluppo rispetto a quelli richiesti, anche se, così facendo, spesso veniva compromessa la buona riuscita dello sviluppo delle radiografie, che dovevano pertanto essere nuovamente eseguite”. Anziché per nome e/o cognome, il medico era solito chiamare – peraltro – la sua assistente con l’epiteto anglofono “sheep” [“pecora”] e non le risparmiava i suoi discutibili florilegi nemmeno in presenza dei clienti ovvero terzi estranei, così come è accaduto in occasione della prova di una nuova apparecchiatura il cui funzionamento richiedeva lo “stringere in bocca una sorta di legnetto”, allorché il dentista aveva detto: “Il macchinario lo prova lei, che lo sa ciucciare bene”.



2. Le questioni



Il caso consente di approfondire due aspetti tra loro distinti e separati che molto spesso s’integrano e vanno di pari passo nei processi con omologa contestazione accusatoria: l’uno di carattere processuale; l’altro, di natura sostanziale. Sul primo versante [processuale], è indubbio che in tutti [o quasi tutti] i processi per ‘violenza sessuale’ uno dei temi centrali sia quello della prova, sia degli atti di violenza sia del consenso [o meno] della vittima. Il secondo aspetto [sostanziale] impinge – invece – nelle connotazioni tipiche della violenza sessuale in ambito lavorativo, a prescindere tanto dal titolo del reato che la stessa, medesima ed identica condotta naturalistica rende giuridicamente configurabile, quanto dalle conseguenze [completamente diverse] in termini di pene accessorie connesse all’affermazione della penale responsabilità per l’una o per una delle altre teoricamente possibili sul piano giuridico-accusatorio Ottiche e prospettive differenti che sono – purtroppo – ancora oggi tenute insieme da un comune fil rouge, fatto di inutili e ridondanti ‘luoghi comuni’ processuali e sostanziali. E per avere l’esatta dimensione del problema e – quindi – di cosa stiamo parlando, qualche ‘numerino’ non guasta.

Si stima1 – infatti – che siano 8 milioni 890mila (44%) le donne in età compresa tra 14 e 65 anni che hanno subito nell’arco della loro vita molestie (considerando tutte le forme precedentemente citate) al di fuori dell’ambito lavorativo o sul posto di lavoro o ricatti sessuali per l’assunzione, per mantenere il posto di lavoro o fare carriera2.

Si tratta di un’indagine conoscitiva di singolare importanza perché, essendo state per la prima volta rilevate anche le molestie a sfondo sessuale ai danni degli uomini, biodegrada uno degli argomenti di cui si sono fatti scudo per tanto tempo i cc.dd. negazionisti di genere3.

Più in particolare, sono un milione 404 mila le donne tra 15 e 65 anni che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche4 sul luogo di lavoro, o da parte di un collega o di un datore di lavoro, o ricatti sessuali sul posto di lavoro.

Nella quasi totalità dei casi, l’autore del ricatto sessuale sulle donne è un uomo: sono, rispettivamente, l’11,9% e il 10,1% le vittime che per essere assunte hanno ricevuto ripetute richieste di prestazioni sessuali e di disponibilità sessuale dallo stesso autore.

Assai interessante è il dato secondo cui nell’arco degli ultimi tre anni è risultato più frequente per una donna subire un ricatto sessuale, per essere assunta o per mantenere il suo posto di lavoro, se è un’impiegata [37,6%] o una lavoratrice qualificata [39,4%] nel settore dei servizi [34,9%] e all’atto dell’assunzione in professioni non qualificate [10,1%]: negli ultimi tre anni, la quota maggiore delle vittime lavorava o cercava lavoro nel settore delle attività professionali, scientifiche e tecniche [20%].

Le difficoltà che il tema qui oggetto di approfondimento espone [anche] sotto il profilo probatorio continuano a dipendere e/o – comunque – ad essere pesantemente influenzate dal fatto che la donna vittima di un ricatto sessuale non ne parla con alcuno sul posto di lavoro (80,9%), soltanto una minima parte (8,2%) ne parla coi colleghi, ancor meno col datore di lavoro (4,1%) ovvero con i dirigenti o l’amministrazione del posto di lavoro (3,3%) o con i sindacati (1%): quasi nessuna denuncia il fatto alle Forze dell’Ordine.



a) La prova della violenza sessuale



Va da subito rilevato come in questa materia affiori – ancor più o sicuramente più di frequente rispetto ad altre fattispecie incriminatrici – il problema relativo al valore probatorio attribuibile e – dunque – da attribuirsi alle dichiarazioni accusatorie della vittima/persona offesa.

Un tema questo tornato da ultimo di grande attualità [anche] nei dibattiti televisivi che letteralmente inchiodano al piccolo schermo l’opinione pubblica [vedi c.d. ‘caso Brizzi’ ed ancor più di recente c.d. ‘caso Genovese’] ed [anche] in riferimento ad ipotesi in cui non dovrebbe nemmeno teoricamente porsi un problema del genere quanto meno riguardo alla loro ontologica materialità, stante la evidenza delle risultanze probatorie ritraibili dalle riprese audio-video dei contestati atti di violenza.

Tentando di dare ordine alle nostre annotazioni e restando – quindi – nell’ambito del tema [processuale] della prova degli atti di violenza sessuale, occorre considerare che i fatti di violenza sessuale – in generale ed a maggior ragione in ambito lavorativo – si consumano non già coram populo, bensì [e nella stragrande maggioranza dei casi] soltanto tra autore e vittima, essendo intuitivamente impensabile che finanche le molestie sessuali lavorative possano essere condotte senza remore di sorta alla presenza di colleghi o altro personale.

Il che, sotto altra, ma concorrente prospettiva, rievoca uno dei tanti luoghi comuni ai quali abbiamo fatto prima cenno: per usare una terminologia colloquiale, che ciò nonostante riecheggia ancora troppo spesso nelle aule di udienza, si tratterebbe ‘della parola dell’una/o, contro quella dell’altro/a’, espressione quest’ultima che riconduce direttamente al tema della valenza probatoria delle dichiarazioni accusatorie della vittima di violenza sessuale ed ancor di più di quella in ambito lavorativo.

Ha da tempo chiarito – invero – la giurisprudenza che “In tema di violenza sessuale, le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, sicché non operano le regole dettate dall’art. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni che confermino l’attendibilità delle parole medesime; tutto ciò, però, impone la verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone”5.

Anzi, in tema di reati sessuali, si ritiene immune da censure financo la ‘valutazione frazionata’ delle dichiarazioni della parte offesa “quando queste siano riferibili, ad una molteplicità e diversità di episodi succedutesi nel tempo, soprattutto se con cadenze cronologiche non recenti, in quanto un eventuale giudizio di inattendibilità su alcune circostanze non necessariamente inficia la credibilità delle altre parti del racconto, non essendo sempre e necessariamente ravvisabile, in tale ipotesi, un’interferenza fattuale e logica tra le parti del discorso”6.

Non a caso si ritiene pure pacificamente in giurisprudenza che la querela sporta dalla vittima a pena di improcedibilità del reato in rassegna “non richiede necessariamente una descrizione dettagliata degli episodi oggetto di contestazione, potendo in ogni caso gli stessi essere in seguito chiariti e circostanziati dalla vittima, pur a distanza di tempo”7.

Un orientamento quello di cui si è appena dato conto che si è andato sempre più consolidando negli ultimi anni e che dimostra – altresì – la crescente attenzione verso la tutela della vittima di reati sessuali, tanto da accogliere, come principio di diritto, l’estendibilità della querela o meglio della volontà punitiva in essa estrinsecatasi, anche per fatti analoghi successivi, non espressamente denunciati ma che siano “investigativamente” connessi ai primi, giungendo ad affermare la tesi della procedibilità d’ufficio quando tali nuovi episodi siano espressione di un delitto contro la libertà sessuale della vittima8.

In poche parole, l’identità o l’analogia di episodi per i quali vi era stata già una manifestazione di volontà della vittima a che questi venissero perseguiti penalmente e dunque puniti, è sufficiente per procedere alla perseguibilità d’ufficio di fatti successivi – e strettamente connessi ai primi – pur non oggetto di specifica querela ma idonei a configurare un’ipotesi di reato sessuale.

Il che spiega – inoltre – il perché non sia attribuita alcuna particolare rilevanza al periodo di tempo più o meno lungo trascorso vuoi dalla violenza subita che dalla denuncia sporta all’autorità giudiziaria.

Le ragioni sono tante e pure di ineccepibile rango logico, a fortiori se ci si confronta con le violenze sessuali in ambito lavorativo: il timore di perdere il lavoro ovvero la chance di essere assunta, l’impossibilità o anche la semplice difficoltà di dimostrare le molestie, il pudore, la vergogna, la consapevolezza di poter diventare oggetto di una sostanziale e silente marginalizzazione funzionale o – infine, ma altrettanto importante – la scarsa consapevolezza dei ‘confini del lecito’ e dei propri diritti.

La questione ci consente di fare cenno – da ultimo – ad un ulteriore e diverso tema, che si pone sostanzialmente ‘a cavallo’ dei due, oggetto della nostra digressione annotativa per il quale “L’assenza di segni di violenza fisica o di lesioni sulla vittima non esclude la configurabilità del delitto di violenza sessuale, in quanto il dissenso della persona offesa può essere desunto da molteplici fattori e perché è sufficiente la costrizione ad un consenso viziato”9.

Non può farsi a meno di rilevare sotto quest’ultimo profilo che, seppur tardivamente operata dalla l. n. 66/1996 in attuazione della risoluzione europea n. 62/1986, la collocazione sistematica del reato di violenza sessuale all’interno dei delitti contro la libertà personale e non più contro la moralità pubblica, ha condotto giurisprudenza e dottrina ad un comune ed oggi monolitico approdo esegetico, in virtù del quale il bene giuridico tutelato è la libertà personale in assoluto della persona, da intendere come libertà di autodeterminazione dell’individuo, non già e non più il pudore o l’onore sessuale, né la libertà morale della vittima10.

Insomma, una definizione di violenza che non passa necessariamente e non postula affatto “una coazione fisica, una forma di vis atrox, potendo altresì estrinsecarsi in una forma di intimidazione psicologica, purché quest’ultima sia tale da determinare uno stato di sudditanza nella persona offesa, o, ancora, nel compimento di atti di libidine subdoli e repentini, posti in essere senza previa acquisizione del consenso di chi li subisce, o, peggio, prefigurandosi tale dissenso”11.



b) Gli atti di violenza sessuale



Se tale è la ricorrente, pacifica e monodroma nozione da attribuirsi dal punto di vista teleologico e sistematico all’elemento materiale della violenza sessuale, continua – a nostro sommesso avviso – ad essere decisamente, se non addirittura inspiegabilmente, sopravvalutato sia [e non solo] tra i ‘non addetti ai lavori’, quanto piuttosto tra i conditores più accreditati, il tema – anch’esso affrontato seppur incidentalmente nella pronuncia in commento – della natura degli atti e/o delle molestie per assumere una connotazione penalmente rilevante.

La norma incriminatrice non richiede affatto l’impiego od utilizzo di un’energia fisica che trasmodi in un effettivo pregiudizio fisico, ovvero un’attività intensa, duratura e di immediata percezione, ben potendo la violenza sessuale sotto il profilo oggettivo estrinsecarsi, oltre che in una sopraffazione fisica, anche nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell’impossibilità di difendersi, così come si è ritenuto – ad esempio – nel caso della minore baciata improvvisamente sulla bocca e – quindi – colta di sorpresa dall’estemporanea iniziativa del suo dentista, di fronte alla quale si è trovata nell’impossibilità di reagire e di esprimere il suo dissenso12.

Si spiega così agevolmente il perché [anche] il bacio sulla guancia [ed anche] nel corso di un rapporto sessuale a pagamento possa integrare e – in effetti – integri il reato di violenza sessuale, “qualora tale modalità di esecuzione del rapporto fuoriesca dalle attività a cui la donna ha prestato il consenso, potendo ritenersi che tale condotta incida sulla libertà sessuale della vittima”13.

È giusto ricordare sotto la medesima prospettiva ermeneutica che, a mente dell’art. 26 codice pari opportunità [d.lgs. n. 198/2006], nell’ordinamento giuslavoristico le molestie di tipo morale sono integrate da quei comportamenti indesiderati connessi al sesso, aventi “lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima ostile, degradante, umiliante o offensivo” (co. 1°), mentre quelle sessuali si risolvono in “quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” (co. 2°).

Nel tentativo di evitare una bulimica digressione sulla vasta casistica delle condotte che possono dare luogo ad una molestia sessuale, ci limitiamo a rievocare ai fini in esame gli apprezzamenti allusivi, le battute a sfondo sessuale, gli inviti a cena insistenti e indesiderati, le telefonate continue con costanti ricadute sul piano sessuale, le proposte di approccio, i gesti osceni, il contatto fisico tramite baci o toccamenti anche in parti intime, nonché l’invio di messaggi di posta elettronica o tramite social media, telefono e WhatsApp di contenuti, foto o video dal contenuto pornografico, osceno o comunque esplicito.

Ci si troverà sempre in presenza di atti discriminatori rilevanti (co. 2-bis), ossia di “trattamenti meno favorevoli subiti da una lavoratrice o da un lavoratore per il fatto di aver rifiutato i comportamenti di cui ai commi 1 e 2 o di esservisi sottomessi”, qualora non si ceda alle richieste di carattere sessuale del superiore gerarchico ed a tale atteggiamento consegua l’irrogazione di una sanzione disciplinare, demansionamento, marginalizzazione, arresto della carriera fino ad arrivare a licenziamento pretestuoso.

Sotto altra, diversa e concorrente ottica interpretativa, nella nozione di atti sessuali di cui all’art. 609-bis c.p. si devono includere non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì tutti quelli che riguardano le zone erogene su persona non consenziente, quali palpeggiamenti e sfregamenti delle parti intime, ovvero gli atti insidiosi e rapidi come palpamenti al seno e tentativi di baci sulla bocca, così come sono stati correttamente ricondotti nell’alveo applicativo dello stesso delitto gli atti di libidine violenti di cui al previgente art. 521 c.p., posti in essere dal dirigente di un ufficio pubblico il quale aveva fatto oggetto una dipendente di “ripetuti toccamenti al seno ed al sedere e di tentativi di baci sulla bocca”, sì come azioni ritenute incidenti in modo diretto sulla libertà di determinazione della persona nella sfera intima sessuale e per di più aggravate da una odiosa discriminazione sul lavoro14.



3. Le soluzioni giuridiche



Le questioni giuridiche sinora illustrate, hanno trovato tutte puntuale e persuasiva risoluzione nella sentenza in rassegna.

Il Gup di Pavia ha ritenuto – innanzitutto – pienamente coerente e – per ragioni di logica simmetria – credibile sia il narrato querelatorio che le dichiarazioni testimoniali della persona offesa.

Costei risulta aver “descritto nel dettaglio i fatti, specificando il luogo in cui accadevano (la stanza per le sterilizzazioni), le circostanze che li occasionavano (lo sviluppo delle lastre delle radiografie), le modalità dell’azione (l’avvicinamento dell’imputato alle spalle della lavoratrice, l’apertura da parte dell’uomo del camice della danna, l’introduzione della mano fino a sganciarle il reggiseno ed a toccarle il seno, l’introduzione della mano nei pantaloni della dipendente, fino a raggiungere i suoi slip), distinguendo, peraltro, in relazione alle diverse condotte descritte, la loro frequenza (minori erano le volte in cui l’imputato inseriva la mano nei pantaloni della dipendente)”.

L’obiettiva ed intrinseca attendibilità della persona offesa risulta avvalorata – altresì – dagli elementi probatori di “portata favorevole per l’imputato... sotto il profilo della materialità dell’azione” pure riferiti all’autorità giudiziaria, escludendosi per tale via ogni intento calunnioso nella sua iniziativa querelatoria.

Determinanti al fine di corroborare le accuse rivolte all’imputato le dichiarazioni testimoniali – in particolare – di uno dei clienti, in presenza del quale il dentista risulta aver fatto costantemente ricorso ed utilizzato un “linguaggio volgare e poco rispettoso nei confronti delle sue collaboratrici e una scarsa considerazione delle donne in generale” fino ad abbandonarsi ad apprezzamenti del tipo “quella lì la metterei a novanta – se fossi da solo in studio con lei gli farei certe cose – donne tutte zoccole – ecc. [...]”.

Espressioni identiche a quelle che anche una delle colleghe della persona offesa ha sentito rivolgere a quest’ultima in più circostanze dal comune datore di lavoro: “andresti messa a pecora per punizione”.

Specifico e rilevante valore probatorio è stato assegnato anche al contenuto dei messaggi WhatsApp inviati dal medico alla propria assistente e rivenuti dal consulente nominato dallo stesso Gup nel corso delle operazioni peritali disposte nella pendenza del processo e – quindi – in epoca successiva sia alla presentazione della querela che all’ammissione dell’imputato al rito alternativo.

Ad avviso del Giudice di primo grado, “le modalità dell’azione” ed il dissenso “manifestato apertamente al medico” costituiscono elementi più che sufficienti a comprovare sotto il profilo soggettivo “la piena consapevolezza da parte dell’imputato di aver agito contro la volontà” della p.o.



4. Osservazioni conclusive



Di là dall’esito che la vicenda processuale esaminata potrà avere nei successivi gradi del giudizio15, è davvero triste dover constatare che ancor oggi possano verificarsi in ambito lavorativo situazioni come quella al centro del decisum qui annotato.

Non tanto e non solo per gli atti violenza sessuale in sé e per sé considerati oggetto di contestazione accusatoria, quanto piuttosto per la incorreggibile, datata ed inqualificabile tendenza da parte di alcuni datori di lavoro ad avere un approccio machista ed inaccettabilmente muscolare, nei confronti delle dipendenti e sottoposte e/ o comunque delle donne lavoratrici: ‘correva l’anno 1985’ quando il profilo must dell’uomo ‘vincente’, ‘ambìto’, ‘corteggiato’ veniva inoculato dagli opinion maker del tempo con slogan del tipo: ‘l’uomo che non deve chiedere mai’; e 36 anni, riguardati anche alla luce – da un lato – delle esperienze terrificanti e – dall’altro – delle conquiste entusiasmanti fatte nel campo, non sono certamente pochi per ‘rottamare’16 definitivamente non solo quel ‘modello maschile’ pulsante di inutile ed ostentata virilità, ma anche chi continua ad interpretarlo e ad esportarlo, in contraddizione con l’atteggiamento di dichiarata ostilità solitamente (recte, pubblicamente) tenuto, solo nelle occasioni in cui, come sembra evidente nella fattispecie in commento, può esercitare un potere maggiore e/o di diverso e più intenso spessore nei confronti di coloro che, come i lavoratori dipendenti, sono fisiologicamente portati, anzi dovrebbero auspicabilmente nutrire sentimenti di umana gratitudine verso il datore di lavoro.

Torna probabilmente utile – anche questa occasione – ragionare sui numeri, sui dati – cioè – ricavati dall’ultimo ‘Censimento delle imprese Istat’ 201817: il tessuto imprenditoriale del mercato italiano è caratterizzato da una forte e specifica connotazione familiare, rappresentando le ‘imprese familiari’ (almeno 3 addetti) il 75,2% delle unità produttive italiane e il 63,7% di quelle con 10 addetti e oltre.

Il che, a maggior ragione in un momento storico economicamente assai depresso come quello che stiamo tutti vivendo, costituisce – con ogni probabilità ancor’oggi – il terreno più fertile per la diffusione degli abusi sessuali in ambito lavorativo, abusi che sono destinati all’evidenza a crescere in tutti questi contesti lavorativi nel cui ambito il datore e le sue esigenze rappresentano una sorta di ‘ombelico del mondo’, in cui devono inevitabilmente convergere anche quelle dei collaboratori.

Non a caso, e volendo assecondare per un istante il favore mostrato dall’imputato per la terminologia anglofona, la molestia con ogni probabilità più odiosa tra quelle ascrittegli nella fattispecie è costituita – a ben vedere – dal becero e bestiale nickname [“ship” ovvero “pecora”] cui il medesimo pare abbia fatto spesso e volentieri ricorso nella ordinaria interlocuzione con la propria dipendente.

Il truculento e sinistro appellativo orgogliosamente utilizzato – peraltro – dall’odontoiatra, è espressione proprio di quella pseudo ed inesistente superiorità di genere cui abbiamo fatto appena riferimento e che ha creato nel corso degli anni e tuttora comporta, danni incalcolabili per la stragrande maggioranza dei datori di lavoro eticamente responsabili, bandita ogni e qualsiasi distinzione sessista riguardo all’imputabilità.

È un atteggiamento che, disvelando – a tacer d’altro – una profonda e plastica disistima verso la propria interlocutrice, indirizza il rapporto – quale esso sia – su binari sbagliati, in cui la pregiudiziale sottovalutazione dell’altra è innegabilmente agevolata, se non addirittura eziologicamente indotta, da un ego ipertrofico ed autoreferenziale che incoraggia la diffidenza, lo scetticismo preconcetto, la marginalizzazione dell’apporto intellettivo altrui.

Va da sé che per una persona che si pone in tal modo nel mondo del lavoro e – quindi – nella vita, il palpeggiare i seni e/o le natiche della propria collaboratrice nella chiara ed incontestata insussistenza di ogni forma di consenso ovvero l’attribuirle dogmaticamente singolari attitudini erotico-sessuali anche in presenza di terzi estranei e così via non desta e di certo non deve destare particolare stupore, tanto evidente ed irrefutabile è la contrarietà di siffatto atteggiamento ai principi cardine del vivere civile, prim’ancora che delle regole dettate dalla legislazione giuslavoristica e penalistica.

Si tratta – in altre e più semplici parole – di una condotta di natura ‘sub-umana’ senz’altro in grado di esprimersi attraverso le manifestazioni comportamentali illecite e penalmente rilevanti contestate all’imputato e che rispecchia il classico atteggiamento psicologico di supposta superiorità che di solito è alla base delle prevaricazioni sessuali in contesto lavorativo.

La cosa, di per sé ontologicamente assai grave, lo è ancor di più se si tiene conto e considera la cornice professionale nel cui ambito gli atti di violenza sessuale sono stati consumati: il che incrocia l’ulteriore ed anch’esso infondato ‘luogo comune’ secondo cui i liberi professionisti sarebbero quasi per definizione alieni dall’assumere condotte illecite di questo tipo.

Non è – purtroppo – così: non c’è laurea, titolo e/o gagliardetto formativo che possa tenere a freno gli impulsi prevaricatori di chi considera e tratta – in ispecie – le donne, alla stregua di un moderno ‘minus habens’, come se fosse in assoluto possibile che esistano persone che abbiano, di fatto, meno diritti di quelli riconosciuti alla generalità dei consociati.

La sentenza in oggetto denota una particolare e lodevole sensibilità del magistrato verso la cultura di genere, lì dove in motivazione si legge: “quelli riportati sono commenti ed epiteti scurrili ed aventi connotazioni sessuali, ora fatti ad un paziente ora rivolti direttamente alla lavoratrice, che, non solo, rappresentano un positivo riscontro a quanto narrato dalla persona offesa, [...] ma attestano come l’imputato sia in possesso di un quadro culturale concernenti i rapporti di genere che vede la donna come essere inferiore, meritevole di giudizi sferzanti e di disprezzo, pensabile soltanto come mero oggetto sessuale, di cui gli atti sessuali descritti dalla persona offesa non sono che una coerente attuazione”.

Certo, la legge e la giurisprudenza possono fare tanto, ma non tutto: ognuno vede – invero – come in difetto di una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’ generalizzata sul piano culturale, non sarà facile sconfiggere definitivamente atteggiamenti, comportamenti tipici di un grave gap culturale che ritenevamo et pour cause fosse stato se non definitivamente, quanto meno significativamente espunto dalla società civile e dagli ambienti lavorativi, in cui la pari dignità e l’uguaglianza dovrebbero concorrere a costituire la pre-condizione di ogni relazione umana e professionale.

NOTE

1 Dati ufficiali desunti fedelmente da indagine Istat (www.istat.it) su Le molestie e i ricatti sessuali sul lavoro edito nel 2018 [periodo di riferimento: anni 2015-2016; data di pubblicazione: 13 febbraio 2018].

2 Esaminando il testo integrale della nota metodologica che ha ispirato ed informato la stessa indagine conoscitiva (www.istat.it), si legge che ricatti sessuali sul lavoro sono stati rilevati sulle donne dai 15 anni (età attiva dal punto di vista lavorativo) con riferimento al momento dell’assunzione (“Nel corso della Sua vita per essere assunta al lavoro ha avuto richieste di prestazioni o di rapporti sessuali?”; nel caso non fossero stati subiti viene chiesto: “Nel corso della Sua vita qualcuno le ha fatto capire che se fosse stata disponibile sessualmente avrebbe potuto avere in cambio un lavoro, ad esempio le hanno chiesto se era fidanzata, se era disponibile ad uscire la sera o ad andare a cena o a pranzo fuori insieme?”) e anche in momenti successivi della vita lavorativa (“Nel corso della Sua vita per progredire nella carriera o mantenere il Suo posto di lavoro ha mai avuto richieste di prestazioni o rapporti sessuali?”)

3 www.istat.it: si stima che 3 milioni 754mila uomini le abbiano subite nel corso della loro vita (18,8%), 1 milione 274 mila negli ultimi tre anni (6,4%).

4 Le molestie fisiche sessuali sul lavoro vengono rilevate dai 15 anni (età attiva dal punto di vista lavorativo) e si riferiscono ai tentativi da parte di colleghi, superiori o altre persone sul posto di lavoro di toccare, accarezzare, baciare la donna contro la sua volontà (www.istat.it).

5 Cass., sez. un., 9 luglio 2012, n. 41461, in C.E.D. Cass., 2012; da ultimo, Cass. pen., sez. III, 14 novembre 2018, n. 56117, in Diritto & Giustizia, 2018 (13 dicembre 2018); ma anche Cass. pen., sez. IV, n. 44644/2011, in Cass. pen., 2012, 11, 3822; Cass. pen., sez. III, n. 28913/2011, in C.E.D. Cass., 2011; Cass. pen., sez. III, n. 1818/2010, idem, 2010; Cass. pen., sez. VI, n. 27322/2008, id., 2008 (tutte le pronunce citate sono edite in dejure.it).

6 Così, Cass. pen., sez. III, 22 dicembre 2017, n. 24979, in CED Cass. pen., 2018; conformi: Cass. pen., sez. I, 17 marzo 2006, n. 24466; idem, n. 40170/2006 (dejure.it).

7 Limpidamente, Cass. pen., sez. III, 18 luglio 2018, n. 53985, in CED Cass. pen., 2019.

8 Cit. Cass. pen., sez. III, n. 53985/2018.

9 In termini, Cass. pen., sez. III, 12 maggio 2010, n. 24298, in Cass. pen.,

2011, 6, 2226.

10 Così, Cass. pen., sez. III, 25 marzo 2004, Català Serra, in C.E.D. Cass., n. 228695; in dottrina F. RoMano, Talune problematiche sollevate dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66, in Giur. merito, 1996, 638.

11 Ex ceteris, Cass. pen., sez. III, 12 dicembre 2006, Zannelli, in Cass. Pen., 2008, 212.

12 Cass. pen., sez. III, 10 maggio 2018, n. 20712, in Diritto & Giustizia, 2018, 11 maggio (nota di A. ievolella).

13 Cass. pen., sez. III, 19 novembre 2019, n. 2201, in Diritto & Giustizia, 2020, 22 gennaio; idem, n. 43423/2019, in CED Cass. pen., 2019: fattispecie in cui la Corte ha confermato la condanna di un professore che, all’interno della scuola, aveva abbracciato da dietro un’alunna, baciandola sulla guancia, dopo aver provato a farlo sulla bocca.

14 Cass. pen., sez. III, 15 novembre 2005 n. 549, in CED Cass. pen., 2006; idem, 1° luglio 2002, n. 34297, in Dir. e prat. lav., 2002, 2957.

15 È doveroso rammentare che la sentenza di prime cure è stata impugnata dall’imputato dinanzi alla corte del distretto competente.

16 Verbo che, anche se non particolarmente gradito, nella fattispecie appare molto calzante.

17 Censimento permanente delle Imprese 2019, 7 febbraio 2020, su ‘istat.it’.