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La mediazione familiare come strumento di superamento della crisi coniugale: origini, evoluzione e prospettive di riforma

autore: F. Ferrandi

Sommario: 1. Sulle origini della mediazione familiare: brevi considerazioni storiche e comparatistiche. - 2. La mediazione familiare: qualificazione giuridica dell’istituto. - 3. La mediazione familiare nell’ordinamento giuridico italiano: il quadro normativo di riferimento. - 4. I modelli di mediazione familiare. - 5. Il ruolo del mediatore familiare. - 6. Riflessioni conclusive.



1. Sulle origini della mediazione familiare: brevi considerazioni storiche e comparatistiche



La culla della mediazione familiare sono stati gli Stati Uniti ed il Canada. Agli inizi anni ’70 del secolo scorso, infatti, l’avvocato e terapeuta familiare americano O.J. Coogler, reduce dalla sua personale ed infelice esperienza coniugale, cominciò a considerare la necessità di regolare la separazione coniugale in un modo più razionale e civile rispetto al procedimento contenzioso, attraverso un metodo “strutturato”, volto a valorizzare l’aspetto fisiologico della crisi coniugale all’interno del ciclo di vita di una coppia al fine di superare le reciproche animosità. Poco dopo, l’istituto si diffuse anche in altre città americane1 , fino ad arrivare, nel 1981, nello Stato della California, all’emanazione della prima legge in materia di mediazione familiare2 . Coogler, a metà degli anni settanta, fondò, così, la Family Mediation Association, al fine di fornire un ausilio ai coniugi chiamati ad affrontare la separazione coniugale o il divorzio, oppure determinati a rinegoziare uno o più accordi, così da addivenire ad una soluzione dei problemi derivanti, inevitabilmente, dalla disgregazione coniugale, attraverso la loro diretta responsabilizzazione nell’assunzione delle decisioni che andranno ad incidere sulla loro vita futura. Secondo l’avvocato e terapeuta americano, la maggior parte delle persone vuole comportarsi in modo responsabile ed essere trattata con rispetto, ma, il più delle volte, quando sono chiamate ad affrontare la loro separazione o il loro divorzio, sono in preda ad uno scompenso emotivo tale, per cui, da un lato, ritengono di aver già trovato la soluzione soddisfacente alla loro crisi e, dall’altro, non riescono a ponderare con lucidità l’opinione del coniuge. Si trattava, quindi, di aiutare i coniugi ad affrontare insieme i problemi derivanti dalla crisi del loro rapporto di coniugio, così che ciascuno di essi potesse conoscere il modo in cui l’altro li vede e soprattutto li vive, al fine di giungere ad una soluzione comune dei problemi ad esso connessi ed alla scelta di un accordo il più soddisfacente possibile per entrambi, duraturo e improntato alla fiducia e al rispetto reciproco. Dagli Stati Uniti, la sperimentazione delle nuove tecniche di mediazione familiare si diffuse rapidamente in tutto il mondo occidentale. Anche in Europa, infatti, fin dai primi anni ’70, si assiste alla comparsa di una serie di istituti ed associazioni private, aventi l’obiettivo di raggruppare gli operatori del settore, in modo da mettere a disposizione le neonate tecniche di negoziazione nell’ambito dei servizi di consulenza forniti alle coppie che stavano affrontando la separazione3 .

Negli anni a seguire, anche i legislatori nazionali iniziano a mostrare interesse per la mediazione familiare, provvedendo alla sua positiva regolamentazione. Il primo legislatore europeo ad intervenire fu quello inglese, nel 1996, con l’emanazione del Family Law Act (FLA)4 : le novità principali di tale legge sono, da un lato, l’abolizione dell’uso dell’attribuzione della colpa dell’altro coniuge per la richiesta di divorzio e, dall’altro, l’obbligo da parte degli avvocati di informare le parti della possibilità di attivare servizi volti alla conciliazione, tra cui la consulenza matrimoniale e la mediazione. E proprio con riguardo al tema oggetto di attenzione, la normativa distingue l’attività c.d. di “automediazione”, da riferirsi alla regolamentazione dei reciproci rapporti liberamente concordata dai coniugi, da quella di “eteromediazione”, vale a dire la mediazione familiare propriamente intesa, consistente nell’opera di ausilio e consulenza prestata da un soggetto terzo ed estraneo al rapporto matrimoniale, la quale può essere attivata su impulso delle parti o con provvedimento del giudice, il quale, ricevuta la dichiarazione con cui i coniugi manifestano l’intenzione di porre fine al loro rapporto, può sollecitarli a partecipare ad un incontro esplorativo presso un servizio di mediazione. Anche la Francia è stata da sempre molto attiva nella pratica e nella promozione della mediazione familiare, grazie all’azione, già negli anni ’80, di organismi ed istituzioni dediti alle questioni familiari5 . Tale istituto è stato dapprima inserito in un percorso legislativo sul diritto delle persone e della famiglia attraverso la legge del 22 luglio 1987 sull’autorità genitoriale e la legge 8 gennaio 1993 relativa alla famiglia, mentre, qualche anno più tardi, ha trovato un primo vero riscontro normativo con l’approvazione della Loi n. 95-125 dell’8 febbraio 1995 (concernente l’organizzazione giurisdizionale e il processo civile, penale e amministrativo), venendo poi ripreso dalla Loi 2002-305 del 4 marzo 2002 (sull’esercizio dei diritti dei genitori) e dalla quella 2004-439 del 26 maggio 2004 (legge di divorzio). Dal mese di marzo 2015, la mediazione familiare viene applicata al diritto di famiglia ed è un prerequisito per il rinvio al giudice di famiglia. Per quanto riguarda, invece, la Germania la mediazione familiare prese campo solo a partire dagli anni ’90 quando fu inserita nella mediazione delle controversie in generale, esercitata in prevalenza da avvocati ed applicata fin da subito alle coppie omosessuali le quali disposero di una base giuridica nella c.d. legge sulla convivenza registrata del 16 novembre 2000. Accanto alla peculiarità della co-mediazione, a seconda del tipo di conflitto, oltre ai coniugi, agli incontri potevano partecipare anche altri componenti della famiglia, come i figli6 . Peculiare nel quadro europeo è la situazione della Spagna, dove l’opzione per la risoluzione consensuale per la crisi di coppia fu introdotta, per la prima volta, dai Tribunali ecclesiastici, nella specie quello di Barcellona, che in tema di separazione dei coniugi aveva instaurato la possibilità di dar vita ad una separazione per mutuo consenso. Successivamente grazie alla Ley de Divorcio del 7 luglio 1981 si sono introdotti alcuni principi che hanno anticipato la mediazione familiare come, per esempio, la possibilità per le parti di chiedere, in qualunque momento del procedimento contenzioso, che esso continui in modo consensuale e quello secondo cui il giudice può decidere di non omologare l’accordo di separazione laddove esso sia pregiudizievole per i figli. Sarà, però, a partire dagli anni Novanta che anche nella penisola iberica si parlerà espressamente di mediazione familiare in occasione dell’approvazione da parte del Ministerio de Asuntos Sociales del programma di mediazione per la separazione e il divorzio seguito, due anni dopo, dall’istituzione del Servizio di Mediazione familiare di Barcellona (SMFB) alle dipendenze dell’Institut de Treball Social y Servesi Socials (INTRESS). Dal 2001 in poi, si segnala come in materia di mediazione familiare nell’ordinamento spagnolo si rinviene una pluralità di testi normativi, tra le varie comunità autonome spagnole, caratterizzati, seppur in diversa misura, dal richiamo ai princìpi postulati dalle fonti sovranazionali in materia7 . Da ultimo, per completare il quadro delle fonti rilevanti in materia di mediazione familiare si ricorda che nel 1992 venne siglata a Parigi la Charte européenne de formation des médiateurs familiaux dans les situation de divorce et separation8 con lo scopo di garantire ordine, coerenza, omogeneità e professionalità in un panorama ancora caratterizzato da un continuo proliferare di iniziative: essa offre la prima nozione condivisa di mediazione familiare quale “processo in cui un terzo neutrale viene sollecitato dalle parti per fronteggiare la riorganizzazione resa necessaria dalla separazione nel rispetto del quadro legale esistente. La mediazione familiare opera per ristabilire la comunicazione tra i coniugi; il suo obiettivo concreto è la realizzazione di un progetto di organizzazione delle relazioni che rispetti i bisogni di ogni membro della famiglia”. È nel 1996, poi, che, a livello europeo, si ha il suo primo riconoscimento ufficiale, quando a Strasburgo viene siglata la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti del fanciullo, il cui art. 13 (rubricato “Mediazione e altri metodi di soluzione dei conflitti”) impegna espressamente le parti a incentivare “il ricorso alla mediazione e a qualunque altro metodo di soluzione dei conflitti atto a concludere un accordo, nei casi in cui le parti lo riterranno opportuno”; un primo, timido invito ai Paesi aderenti alla Convenzione a incoraggiare pratiche di mediazione familiare al presentarsi delle crisi familiari coinvolgenti i minori, ma che, tuttavia, focalizza la finalità della mediazione nella “soluzione dei conflitti”. Tale riconoscimento è stato confermato, qualche anno dopo dalla Risoluzione n. 616 del 21 gennaio 1998, del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, contenente la Raccomandazione n. R (98) sulla mediazione familiare, in cui si afferma la necessità di incrementare l’utilizzo della mediazione quale “metodo nell’ambito del quale un terzo imparziale e neutrale aiuti le parti a negoziare, ponendosi al di sopra del conflitto, e a raggiungere un accordo comune”. La Raccomandazione appena ricordata non solo individua nella mediazione familiare lo strumento più idoneo per affrontare i conflitti familiari, ma invita i governi degli Stati membri ad “introdurre o promuovere la mediazione familiare anche attraverso la predisposizione di programmi informativi, o, dove necessario, potenziare l’opera di mediazione già esistente”.



2. La mediazione familiare: qualificazione giuridica dell’istituto



Negli ultimi anni, nel nostro ordinamento, è andata crescendo l’attenzione da parte del legislatore e degli operatori sociali e giuridici verso le tecniche di risoluzione non giudiziale delle controversie anche nell’ambito della materia familiare. A fronte, infatti, dei sempre più frequenti alti livelli di litigiosità nei giudizi di separazione e divorzio, con il conseguente disagio per i figli (ove presenti) si è cercato di prevedere, anche in questo ambito così delicato, strumenti alternativi di gestione delle controversie che fossero di ausilio ai coniugi al fine di riappropriarsi della gestione del loro conflitto, attraverso un dialogo, il più possibile costruttivo, volto all’autoregolazione degli interessi in gioco. Peraltro, la ricerca di metodi di risoluzione delle controversie paralleli al giudizio deriva anche dalla constatazione della non sempre adeguata struttura del processo civile al fine di gestire i conflitti familiari, stante la lungaggine dei tempi della giustizia, i costi elevati e il significativo formalismo ed antagonismo che lo connotano. Ragion per cui, nella prassi, gli operatori del diritto di famiglia cercano di perseguire, ove possibile, la strada della composizione negoziale del conflitto di coppia, in modo da evitare la separazione giudiziale o il divorzio contenzioso, al fine di giungere ad un accordo tra le parti, in modo da restituire alle stesse la capacità di risolvere in prima persona il conflitto, senza delegarla, formulando esse stesse una soluzione soddisfacente. E ciò perché il conflitto, se elaborato come interazione, appartiene ad una più ampia teoria del mutamento sociale, in quanto non si manifesta solo quale fattore di disordine, ma funge altresì da apportatore di ordine, e, dall’altro lato, in quanto apportatore di mutamento, può essere visto come un elemento di ribaltamento dell’equilibrio sociale9.

Al fine di comprendere l’istituto della mediazione familiare e coglierne le relative peculiarità, è necessario darne una definizione. Sebbene, ad oggi, nel nostro ordinamento sia ancora assente una disposizione avente carattere definitorio, possiamo richiamare quella a cui fa riferimento lo Statuto della Società Italiana di Mediazione Familiare (S.I.Me.F.), secondo cui essa si sostanzia in un “un percorso per la riorganizzazione delle relazioni familiari in vista o in seguito alla separazione o al divorzio: in un contesto strutturato, il mediatore, come terzo neutrale e con una formazione specifica, sollecitato dalle parti, nella garanzia del segreto professionale in autonomia dall’ambito giudiziario, si adopera affinché i genitori elaborino in prima persona un programma di separazione soddisfacente per sé e per i figli in cui possano esercitare la comune responsabilità genitoriale”10. La mediazione familiare ha, quindi, lo scopo di ristabilire la comunicazione fra le parti al fine di raggiungere una pluralità di obiettivi relazionali, diretti ed indiretti, in termini di padronanza delle decisioni da prendere e di capacità di riorganizzare la vita personale e familiare a seguito della rottura dell’affectio maritalis. Simile obiettivo è perseguibile in quanto il mediatore, a differenza del difensore, del giudice o del conciliatore, non si sostituisce alle parti in conflitto in merito alla definizione dell’assetto dei loro rapporti (personali ed, eventualmente, patrimoniali) derivanti dalla crisi della coppia, ma, per contro, stimola il dialogo in modo che possano essere le stesse ad elaborare, in prima persona, accordi corrispondenti ai loro bisogni e a quelli della loro famiglia, avuto particolare riguardo all’interesse dei figli. Il fatto stesso che il mediatore non si ponga in una posizione valutativa della lite, consente di innescare un circolo virtuoso di collaborazione e di stemperare conseguentemente i toni del conflitto che, per contro, durante il procedimento tendono ad acuirsi in modo esponenziale. Profilo quest’ultimo che si pone in stretta relazione con l’applicazione e la gestione dell’affidamento condiviso dei figli.



3. La mediazione familiare nell’ordinamento giuridico italiano: il quadro normativo di riferimento



In Italia le prime significative esperienze si registrano alla fine degli anni Ottanta e più precisamente nel 1989 anno in cui vede la luce il primo centro GeA (Genitori Ancora), fondato da Fulvio Scaparro e Irene Bernardini con la finalità di offrire un sostegno ai genitori e figli coinvolti nella separazione e di promuovere la mediazione familiare, come strumento volto a prevenire il maltrattamento dell’infanzia dovuto a separazioni e divorzi connotati da una forte conflittualità. Gli anni che seguirono furono decisivi per il suo sviluppo, in quanto nacquero associazioni specializzate che riuniscono al proprio interno mediatori familiari professionisti, quali la SIMEF (Società Italiana di Mediazione Familiare), l’AIMS (Associazione Italiana Mediatori Sistemici) e l’AIMeF (Associazione Italiana Mediatori Familiari). Dopo un’iniziale titubanza, ma soprattutto a fronte dell’ingente produzione normativa europea in materia, anche il nostro legislatore ha iniziato, a dare riconoscimento all’istituto della mediazione familiare in alcune testi legislativi. Innanzitutto, con la l. 28 agosto 1997, n. 285, nel dettare “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza”11, introduce il primo riferimento normativo esplicito di diritto interno alla mediazione: in particolare, all’art. 4, si prevede espressamente, tra le misure adottabili per realizzare le finalità della legge, “i servizi di mediazione familiare e di consulenza per famiglie e minori al fine del superamento delle difficoltà relazionali”, mentre, all’art. 6, lo sviluppo di “servizi volti a promuovere e a valorizzare la partecipazione dei minori a livello propositivo, decisionale e gestionale in esperienze aggregative, nonché occasioni di riflessioni sui temi rilevanti per la convivenza civile e lo sviluppo delle capacità di socializzazione e inserimento nella scuola, nella vita aggregativa e familiare”. In questo iniziale riferimento alla mediazione, la l. n. 285 del 1997 si caratterizza per promuovere diritti ed opportunità per minori raggiungibili mediante un approccio integrato tra le politiche sociali, assistenziali ed educative, nonché tramite la messa a punto di un sistema di monitoraggio delle attività svolte, tale da garantire efficacia ed efficienza. Il secondo richiamo all’istituto in esame lo troviamo, poi, nel d.P.R. 13 giugno 200012, che, nell’approvare il piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva per il biennio 2000/01, riconosce la necessità “di sostenere lo sviluppo e la creazione di servizi di mediazione familiare generalizzando le esperienze positive già compiute in alcuni comuni”, mentre, nello stesso anno, il Consiglio di Giustizia e Affari interni dell’UE sottolineava l’importanza di promuovere la mediazione familiare come metodo di risoluzione delle controversie familiari, in conformità a quanto stabilito nel regolamento “Bruxelles II”. Un ulteriore richiamo all’istituto della mediazione familiare, sia pure riferita ad uno specifico ambito applicativo, lo si ha con la l. 5 aprile 2001, n. 154, recante norme in tema di “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari”13, che introduce, nel codice civile l’art. 342-ter, nel quale si prevede espressamente che il giudice, adito per l’emanazione di un ordine di protezione, possa “altresì” disporre “l’intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione familiare”14. La successiva entrata in vigore, il 19 aprile 2003 (con l. 20 marzo 2003, n. 7715) della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli di Strasburgo, segna una fase fondamentale nel percorso di diffusione e valorizzazione della mediazione familiare: infatti, da un lato, all’art. 7, si prevede che quando bisogna risolvere delle controversie in materia di relazioni personali, le autorità giudiziarie devono adottare tutte le misure appropriate per incoraggiare, i genitori e le altre persone che hanno dei legami familiari con il fanciullo, a raggiungere degli accordi amichevoli relativi alle relazioni personali con quest’ultimo, in particolare facendo ricorso alla mediazione familiare e ad altri metodi di risoluzione delle controversie e, dall’altro, all’art. 13, la mediazione viene indicata come uno dei principali strumenti a tutela dei minori dei quali si vuole evitare il coinvolgimento nelle liti giudiziarie a garanzia della loro serenità. È però solo grazie alla l. n. 54 del 2006, recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”16 che si ha, nel porre in essere la più ampia riforma del diritto di famiglia dopo quella del 1975, l’introduzione dell’istituto dell’affidamento condiviso e il riconoscimento della mediazione familiare17: se il primo si fonda sul principio che il fallimento di due individui come coppia non debba comportare necessariamente il loro fallimento come genitori, il secondo istituto si inserisce perfettamente nella logica di evitare al minore il trauma legato alla perdita di un genitore, facendo in modo che durante la separazione i coniugi riescano a differenziare i problemi legati alla conflittualità della coppia da quelli relativi al proprio ruolo di genitore. La novella appena richiamata ha introdotto l’art. 155-sexies c.c.18, norma in seguito abrogata e sostituita dall’odierno art. 337-octies c.c.19 (rubricato “Poteri del giudice e ascolto del minore”), che la riproduce integralmente. In particolare, il secondo comma dell’articolo in commento dispone che: “Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 337-ter per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”20. Il legislatore ha, quindi, scelto di affidare, alla sensibilità e alla cultura del giudice la possibilità di suggerire un percorso alternativo alla lite giudiziaria, lasciandogli altresì la valutazione circa l’opportunità di rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’art. 337 c.c. ss. al fine di consentire un tentativo di accordo tra i coniugi al di fuori del palazzo di giustizia, con specifica attenzione per le possibilità di accordo sulla tutela dei figli e del loro benessere morale e materiale.

L’istituto è definibile come l’attività svolta da un soggetto professionalmente qualificato, terzo rispetto ai coniugi separandi o divorziandi, o rispetto ai genitori che hanno cessato la convivenza more uxorio, attraverso una serie di incontri, finalizzati a far ritrovare ai soggetti coinvolti una serena capacità comunicativa ed inter-relazionale, in modo da addivenire ad una migliore regolazione dei loro rapporti di ordine economico-patrimoniale e degli aspetti relativi alla cura dell’eventuale prole, in vista ed in conseguenza della separazione o del divorzio. Si tratta, quindi, di un’attività esercitabile in epoca contestuale o successiva all’insorgere della crisi coniugale, con la quale si cerca di eliminare, o quantomeno di ridurre, ove possibile, i motivi di conflitto al fine di giungere ad una regolamentazione condivisa delle questioni afferenti la responsabilità genitoriale e le questioni patrimoniali. È, infatti, risaputo che l’animosità del momento, correlata ai molteplici risvolti ed alle difficoltà scaturenti dalla disgregazione del rapporto di coppia, ostacola il raggiungimento di un accordo in punto di affidamento della prole, di esercizio del diritto di visita, nonché in merito ai profili sottesi alla suddivisione dei cespiti patrimoniali. In tale contesto, il mediatore familiare è quindi chiamato a mettere in relazione le parti in lite, tentando di ripristinare, fra le stesse, un dialogo il quanto più possibile sereno e costruttivo, che permetta loro di giungere a delle condizioni che andranno a definire la loro nuova vita stante la rottura della relazione di coppia. In mediazione, dunque, vi è una totale assenza di etero-determinazione delle soluzioni adottate nel corso della procedura, essendo le stesse frutto della volontà delle parti, limitandosi, il mediatore, a favorirne il processo decisionale. Durante i procedimenti di separazione o di divorzio, prima dell’emanazione dei provvedimenti, anche provvisori, riguardo ai figli, può, quindi, entrare in gioco la figura del mediatore, a fronte di quanto previsto dalla disposizione di cui all’art. 337-octies, secondo comma, c.c., (la quale rappresenta il ponte tra il procedimento giudiziale e la mediazione familiare), al quale spetterà il compito di accompagnare la coppia in crisi verso la composizione ottimale degli interessi coinvolti, operando nell’ottica di perseguire prioritariamente l’interesse dei figli. Infatti, la disposizione in esame, nel prevede che le parti “tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”, sottende, in realtà, che la tutela del suddetto interesse costituisca il fine principale dell’istituto. Tuttavia, sebbene la l. 54 del 2006 abbia avuto il merito di avere previsto per la prima volta la mediazione familiare e di averla relazionata direttamente al processo civile, la norma di cui all’art. 337-octies c.c., solleva non pochi dubbi interpretativi dal momento che non individua né le modalità di raccordo tra i due procedimenti, né quelle operative con cui si svolge tale procedura, né, tantomeno, l’iter attraverso il quale, una volta effettuato il percorso di mediazione, proseguire il giudizio. Inoltre, essa si riferisce soltanto alla mediazione c.d. endoprocessuale, vale a dire quella che si svolge in pendenza del giudizio di separazione allorquando il giudice, acquisito il consenso delle parti, differisce l’emanazione dei provvedimenti di propria competenza per favorire un accordo conciliativo, mentre, al contrario, non viene presa in alcuna considerazione la mediazione familiare preventiva rispetto all’instaurazione del giudizio contenzioso.

Altrettanto vaga rimane, come vedremo, la figura del mediatore, la quale non viene identificata, poiché si parla genericamente di “esperti”, né tantomeno riguardo alla sua scelta viene precisato se debba essere fatta direttamente dalle parti, le quali, peraltro, non solo si trovano in una fase particolarmente delicata della loro vita, ma il più delle volte non hanno mai sentito parlare di mediazione. In assenza di perspicue regole, occorre ancorarsi su alcuni presidi ricavabili dalla norma. In primo luogo, l’attivazione della mediazione familiare è subordinata alla verifica dell’esistenza di tre presupposti: – il compimento, da parte del giudice investito della controversia, di una valutazione concernente l’opportunità di rinviare l’emanazione dei provvedimenti riguardo ai figli di cui all’art. 337-ter c.c., al fine di consentire ai coniugi di intraprendere il percorso di stragiudiziale, secondo una prognosi riguardante non le sorti della mediazione, ma il livello di conflittualità tra le parti, in relazione alla fattibilità del tentativo di mediazione; – l’audizione delle parti, termine quest’ultimo da intendersi in senso sostanziale, non potendo il difensore sostituirsi al proprio assistito nell’espletamento di tale attività, attraverso la quale l’organo giudicante assicurando il rispetto del principio del contradditorio, può esprimere quel giudizio di opportunità di cui sopra; – la necessità che entrambi i coniugi (ovvero i genitori non coniugati) manifestino al giudice il proprio consenso all’iniziativa, potendo, così. risultare produttivo un rinvio che, altrimenti, costituirebbe un mero rallentamento della procedura. La norma attribuisce al giudice un ampio potere discrezionale nel predetto vaglio di opportunità, potendo quest’ultimo decidere per il rigetto della richiesta congiuntamente avanzata dalle parti di sottoporsi alla mediazione, laddove ritenga che tale scelta possa essere pregiudizievole per l’interesse dei figli, ovvero laddove la procedura di mediazione sia incompatibile con la situazione della coppia come, ad esempio, nelle ipotesi di violenza familiare. Nel silenzio della legge si deve ritenere che l’attivazione della mediazione possa avvenire in qualunque stato e grado del procedimento di separazione e divorzio giudiziale, non potendosi escludere, peraltro, una sua attivazione anche nell’ambito di procedimenti di separazione consensuale, ovvero di divorzio su domanda congiunta dei coniugi. Nell’udienza successiva alla mediazione, in relazione alla rete costruita tra magistrati, avvocati e mediatori, tre sono i possibili scenari che si possono verificare: l’accordo viene raggiunto, pertanto il giudice provvede alla sua omologazione; l’accordo non viene raggiunto, nel qual caso il giudice provvede ai sensi degli artt. 337 c.c. e ss.; l’accordo è in fase di completamento, pertanto il giudice, rilevato che le parti necessitano altro tempo per la sua formazione, acquisito nuovamente il loro consenso, dispone un ultimo rinvio. Tale forma di comunicazione non comporta ulteriori elementi di precisazione sul conflitto o sui confliggenti, non dovendo in alcun modo prestarsi ad una qualunque forma di valutazione. In tal modo, da una parte il giudice si fa garante della sospensione dell’udienza presidenziale e dell’invio dei coniugi presso esperti, con i quali tenteranno una mediazione, e dall’altra, le attività svolte dagli esperti mediatori acquistano carattere di riservatezza essendo completamente autonome rispetto al procedimento giudiziario. Negli ultimi anni, poi, l’interesse del legislatore nei confronti dei metodi di risoluzione stragiudiziale delle controversie anche nell’ambito dei conflitti relativi alla disgregazione della famiglia, quali la mediazione familiare ed il divorzio collaborativo21, ha portato all’introduzione di ulteriori disposizioni normative e progetti di riforma in fase di elaborazione, che nonostante la rilevanza pubblicistica del rapporto di filiazione22 e l’esigenza della tutela dell’interesse dei minori coinvolti nella crisi coniugale, mirano ad affidare a strumenti alternativi alla giurisdizione la definizione di tali conflitti. Il riferimento è alla legge 10 novembre 2014, n. 16223 sulla negoziazione assistita da uno o più avvocati, mutuata dall’esperienza francese della c.d. convention de procédure participative par advocat, attraverso la quale il legislatore ha accentuato il carattere privatistico del rapporto coniugale, consentendo ai coniugi di separarsi e di divorziare, evitando così, lo stress e l’esito incerto della giurisdizione ordinaria anche quando abbiano figli minori o maggiorenni disabili o privi di autonomia economica. Quindi, mentre finora separazione e divorzio potevano avvenire soltanto in sede giudiziale, con l’introduzione di questo nuovo strumento, diventa possibile scegliere di separarsi e di sciogliere il matrimonio anche soltanto con strumenti negoziali e, in particolare, con l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita da “almeno un avvocato per parte” (art. 6)24 o stipulato davanti all’ufficiale dello stato civile (art. 12)25.

Venendo, ora, al raccordo tra il procedimento de quo e l’istituto della mediazione familiare, la disposizione d’interesse è rappresentata dall’art. 6, terzo comma, della normativa in esame, secondo cui: “nell’accordo si deve dare atto, fra l’altro, che gli avvocati hanno informato le parti della possibilità di esperire la mediazione familiare”. La formulazione di quest’ultima disposizione ha fatto emergere una criticità nota agli operatori della mediazione familiare: molti avvocati hanno, infatti, interpretato tale dettato normativo ritenendo che spettasse proprio a quest’ultimi “mediare” i propri clienti, sebbene la norma de qua assegnasse loro solo il compito di tentare di “conciliare le parti”. A fugare ogni dubbio in merito alla presunta possibile sovrapponibilità del ruolo di avvocato con quella di mediatore, è intervenuto l’Ufficio Studi del Consiglio Nazionale Forense il quale ha precisato che “è possibile esperire la mediazione familiare, al fine di essere coadiuvati da esperti nella individuazione dei canali comunicativi per la migliore gestione della crisi”26. Non solo, ma tale richiamo all’istituto della mediazione familiare potrebbe far pensare che esso sia incompatibile con il procedimento di negoziazione assistita27. In realtà, credo, che anche in tale ipotesi, l’articolo 337-octies, secondo comma, c.c., in cui la mediazione familiare è teleologicamente connessa al procedimento giudiziale, si potrebbe considerare quale strumento integrativo alla negoziazione assistita e promuoverne un utilizzo finalizzato a dipanare eventuali profili inerenti alla regolamentazione della responsabilità genitoriale, da recepirsi, poi, nell’accordo di negoziazione. La cooperazione, quindi, tra mediatori e avvocati può rivelarsi fondamentale per la promozione di una “cultura della bigenitorialità”, specie nelle situazioni che appaiono meno conflittuali, fermo restando, anche in questi casi, l’esigenza di sensibilizzare i genitori in merito all’importanza di garantire una presenza attiva di entrambi nella vita dei figli. Infine, per quanto attiene invece alle differenze che intercorrono tra negoziazione assistita mediazione familiare, esse possono essere rintracciate nel diverso coinvolgimento e nelle diverse attività dei vari soggetti protagonisti. Nel primo caso il legale assume un’importanza determinante nella gestione del conflitto, in quanto si fa portavoce della volontà del suo assistito dialogando direttamente con il collega che assiste la controparte, mentre nel caso della mediazione familiare, assolute protagoniste del procedimento sono le parti, in quanto essa è basata sulla loro autodeterminazione, avendo gli avvocati, se del caso, il semplice compito di fornire assistenza meramente legale per la redazione dell’accordo.



4. I modelli di mediazione familiare



Sebbene esistano differenti modelli di mediazione familiare28, riconducibili, a loro volta, ad altrettante scuole di pensiero, le due principali modalità di lavoro sono rappresentate da quella definita di tipo strutturato e da quella di tipo terapeutico. James Coogler, nel 1978, pubblicò Structured Mediation in Divorce Settlement: an Handbook for Marital Mediators, in cui formulò le “marital mediation rules”, le regole di mediazione matrimoniali, gettando così le basi del primo modello teorico di mediazione familiare, finalizzato all’ambito del divorzio ed estensibile, successivamente, anche alla separazione coniugale. Oggi, tale approccio è conosciuto come modello strutturato globale29 e prevede un percorso a fasi successive con il rigoroso rispetto di numerose regole ed un’attenta pianificazione. Secondo questo modello l’atteggiamento con cui ci si deve rapportare alla separazione e al divorzio deve essere sostanzialmente positivo: in quest’ottica, essi rappresenterebbero un fenomeno sociale da collocare nel contesto della “normalità” dell’evoluzione della vita familiare, della sua fisiologia, così da dover essere concepiti come una fase o stadio del ciclo di vita riscontrabile in un numero sempre più elevato di persone30. Del resto, non può negarsi un dato di comune esperienza ovvero il rilievo che le concezioni sociali e culturali della separazione e del divorzio hanno subìto una costante evoluzione nel tempo, su cui, peraltro, non sembra essere stata ancora scritta la parola fine. Il pensiero risalente agli anni Sessanta, fermo nel considerare questi fenomeni come eventi altamente traumatici per tutte le persone coinvolte, in quanto indicatori dell’aumento della disorganizzazione sociale, è stato criticato nel decennio successivo, sulla scia dell’apertura all’istituto del divorzio, inteso come manifestazione della volontà personale di ciascun coniuge volta a recidere il legame matrimoniale, allorquando siano venuti a mancare i presupposti che avevano portato alla sua formazione31. E, pertanto, secondo questa prospettiva, i fenomeni in questione non conducono necessariamente alla disgregazione della famiglia in quanto innesterebbero profondi e complessi mutamenti nella sua struttura e nella sua organizzazione, mediante una nuova definizione dei ruoli e delle relative responsabilità dei coniugi. Il modello di mediazione familiare strutturato si pone, quindi, quale obiettivo quello di aiutare i coniugi a guardare al futuro in modo che essi possano affrontare insieme tutte le questioni che li riguardano: affidamento dei figli, esercizio del diritto di visita, assegni di mantenimento, divisione del patrimonio comune, tempo libero e vacanze, scelta della religione, scelte scolastiche, eventuale trasferimento di un coniuge per motivi di lavoro, incidenza degli eventuali nuovi legami affettivi e così via in modo che nulla venga trascurato. Tale modello, dunque, prevede una mediazione di tipo “globale”32, in quanto abbraccia tutte le questioni che originano dalla disgregazione del nucleo familiare e che sono a questo connesse, differenziandosi da altri modelli volti, al contrario, a sviluppare una mediazione di tipo “parziale”33, tesa a ridurre la distanza tra le parti esclusivamente in punto di affidamento dei figli e della conseguente disciplina del diritto di visita del genitore non affidatario. Il quest’ottica il mediatore, dovrà attenersi al principio dell’equidistanza e della parità dei clienti, mantenere sotto controllo la situazione di sofferenza della coppia attraverso un’evidenziazione dei reali interessi delle parti, cercando di superare le rispettive posizioni apparenti, sostenere la coppia affinché mantenga la propria dignità attraverso la riconquista del rispetto di sé e dell’altro. Altrettanto importante sarà, poi, convincere le coppie ad adottare una capacità di pensare e negoziare soluzioni adeguate, riallacciando uno spirito collaborativo pur mantenendo i giusti spazi di auto considerazione. Il mediatore sarà, quindi, chiamato a creare un setting facilitante in modo da condurre le parti all’elaborazione di opzioni e soluzioni, il tutto finalizzato al raggiungimento di una mediazione di tipo globale. Tra le metodologie appartenenti al modello strutturato si ricordano: la formulazione di obiettivi chiari e predefiniti, la neutralità del mediatore, il porre in evidenza gli interessi comuni che esistono oltre il conflitto, con definizioni win-win (vincitore-vincitore) e il condurre gli incontri esclusivamente alla presenza di entrambe le parti. In considerazione, poi, del clima di fiducia che connota questo primo modello, i coniugi si impegneranno a palesare apertamente e completamente le loro situazione economiche finanziarie, nonché a mantenere confidenziali i contenuti delle discussioni avvenute nell’ambito del processo di mediazione. Nel caso in cui il processo di mediazione familiare, si concluda positivamente e quindi abbia raggiunto lo scopo di aiutare i coniugi a negoziare le disposizioni da essi liberamente raggiunte, sulla base delle loro esigenze, il mediatore predispone un memorandum dell’accordo, avente carattere informale, contenente tutti i dettagli dell’intesa ed esplicitante le motivazioni al riguardo. L’accordo così formatosi verrà, poi, sottoposto all’attenzione di un legale, in modo da avviare l’iter giudiziario per la definitiva separazione. Il secondo modello di mediazione familiare, ossia quello di tipo terapeutico, centrato sui processi relazionali, nasce in Canada a metà degli anni Settanta ad opera di Howard Irving, psicoterapeuta e docente universitario per poi essere revisionato, in un secondo momento, con l’aiuto del collega Michael Benjamin34. Questo approccio si sviluppa a partire da alcune considerazioni in merito all’efficacia della mediazione strutturata applicata presso i servizi sociali: secondo i due docenti, infatti, il percorso di mediazione, in determinate situazioni, può avere effetti durevoli nel tempo soltanto laddove vengano risolte problematiche di tipo emotivo e relazionale, diventando fondamentale lavorare sulla soluzione degli aspetti affettivi legati alla crisi coniugale, all’accoglimento e alla gestione dell’intera gamma di variazioni relazionali e di interazione presenti nelle coppie. Particolare attenzione, dunque, viene posta sugli aspetti emotivi delle crisi nelle relazioni affettive, in modo da risolvere, fin da subito, i nodi di digressione comunicativa e di tutte le variazioni prodotte dalle possibili interazioni della coppia. E ciò in quanto, si potrà arrivare ad un dialogo di tipo cooperativo tra le parti, solo dopo aver prima eliminato i sentimenti di ostilità, rabbia, di rivendicazione e vendetta che ostacolano ogni possibile e duratura condizione di equilibrio tra le stesse. La cornice teorico-metodologica di riferimento è la lettura clinica della relazione all’interno della coppia genitoriale. Una volta raggiunto questo obiettivo la coppia potrà intraprendere con fiducia il percorso di mediazione, durante il quale particolare attenzione sarà data ai risvolti emotivi, piuttosto che al contenuto dell’accordo vero e proprio, come invece nel modello strutturato. Essenziale sarà, pertanto, il focus sui sentimenti disgreganti che impediscono eventuali e possibili cambiamenti, l’individuazione dei modelli d’interazione relazionale, gli stili di comunicazione, gli schemi insiti nei diversi codici familiari che caratterizzano le famiglie (coppie, figli, parenti) e l’eliminazione dell’induzione da parte di terze parti sulle dinamiche relazionali della coppia. In questo tipo di modello, il mediatore dovrà cercare di neutralizzare oppure modificare gli atteggiamenti disfunzionali che sono di ostacolo alla mediazione, in modo da condurre la coppia a ristrutturare le proprie competenze relazionali e comunicative e successivamente, giungere ad un accordo tramite l’ausilio di un avvocato. Essenziale sarà effettuare una valutazione di tipo psicologico sulle parti coinvolte al fine di verificarne la predisposizione emotiva all’intervento: tale fase è di particolare importanza, in quanto utile a evidenziare come rendere adatte al processo anche coppie spesso ritenute inadatte per l’elevata litigiosità o distorsione comunicativa, ancorché non patologiche. Nel caso, quindi, del modello di mediazione terapeutico, il mediatore dovrà avere una formazione specifica attinente alle professioni psicologiche, in modo da agire e modificare le disfunzioni relazionali delle coppie ritenute adatte o adattabili al percorso de quo anche se momentaneamente in blocco emotivo.



5. Il ruolo del mediatore familiare



La mediazione familiare, come abbiamo visto, si presenta come uno spazio e un tempo messo a disposizione della coppia nel periodo successivo alla rottura del loro rapporto, caratterizzato, quasi sempre, da una elevata conflittualità.

Questo periodo particolare che i coniugi si trovano a dover affrontare, pieno di silenzi o di sprezzanti commenti, rende indispensabile l’intervento di una terza persona qualificata e competente, il mediatore familiare, chiamato a riorganizzare le relazioni familiari sperimentando soluzioni il più possibile confacenti alle loro specifiche esigenze al fine di raggiungere una stabile e duratura cogenitorialità. Spesso, infatti, ai genitori in crisi manca un luogo neutro, diverso dalle aule del tribunale, in cui potersi confrontare, parlare, ritrovarsi come genitori, senza alcuna interferenza o strumentalizzazione. Di fronte a questa necessità importante diventa, quindi, il mediatore familiare, una categoria professionale da valorizzare in quanto richiede non soltanto competenze giuridiche, ma anche una visione globale delle cause che frequentemente conducono alla crisi coniugale anche sotto il profilo sociologico, psicologico e pedagogico. Il mediatore familiare è un soggetto terzo, neutrale ed imparziale in quanto non ha interessi in comune alle due parti né motivi di ostilità nei loro confronti e non dà giudizi. Attraverso la sua formazione ed esperienza nella gestione dei conflitti e proponendo una modalità relazionale basata sulla triangolazione, tale professionista cerca di guidare la parti verso una stabilità ed un equilibrio psicoaffettivo di fronte alla crisi della affectio maritalis. Durante la sua attività di facilitazione della comunicazione della coppia in crisi, il mediatore familiare coadiuva il processo di negoziazione invitando i coniugi al tavolo del confronto, illustra loro le regole necessarie per giungere in modo costruttivo alla fine del percorso, disciplina i tempi dello scambio comunicativo intervenendo nei momenti di tensione e aiuta le parti a formulare tutte le possibili soluzioni. Compito del mediatore familiare è, quindi, quello di creare il contesto più adatto alla discussione e alla negoziazione in modo che le parti possano esprimersi liberamente e collaborare nel rispetto reciproco. L’importanza di saper ascoltare il vissuto personale dei partners ha il doppio significato di far dire all’altro e di ascoltare sé stessi, consentendo al mediatore di individuare le ragioni primordiali della crisi coniugale, agevolando la comunicazione utilizzando il concetto psicologico secondo cui “il dare è un anticipo del ricevere”35. In questo modo le parti, stimolate dal mediatore, agiscono in prima persona nel cercare tutte le loro soluzioni per ripristinare la comunicazione che si era interrotta, assumendosene, quindi, la relativa responsabilità36. Guardando ai procedimenti di separazione e divorzio, il collegamento tra il procedimento giudiziale e quello mediativo è sancito, come già anticipato, nella disposizione di cui all’art. 337-octies, secondo comma, c.c., laddove prevede che “Qualora ne ravvisi l’opportunità, il giudice, sentite le parti e ottenuto il loro consenso, può rinviare l’adozione dei provvedimenti di cui all’articolo 337-ter per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell’interesse morale e materiale dei figli”37. A fronte, quindi, di tale collocazione sistematica, il mediatore familiare dovrà far in modo di favorire la composizione degli interessi in gioco, avuto particolare riguardo agli interessi dei figli e indirizzare le parti verso il raggiungimento di un accordo, anche parziale, in tempi brevi. Uno dei punti nevralgici della disposizione sopra richiamata è, poi, quello relativo al corretto inquadramento della figura del mediatore familiare38. Al riguardo, infatti, si registrano due diverse posizioni. Un primo orientamento valorizza l’indipendenza del mediatore rispetto al giudice del procedimento in corso e conduce gli operatori della materia a prediligere un’interpretazione della norma che affermi l’autonomia del percorso di mediazione, in modo da attestare la creazione di una nuova categoria professionale, svincolata dal processo e dai suoi protagonisti. La seconda posizione, invece, ritiene che il mediatore familiare sia da ricomprendere nell’alveo delle figure processuali già esistenti, stante il suo carattere endoprocessuale: in questo modo la mediazione familiare, una volta attivata su impulso del giudice, non può essere configurata dal legislatore come un’attività estranea al giudizio, indi per cui il mediatore deve essere qualificato alla stregua di un ausiliario atipico del giudice, ascrivibile alla disciplina di cui all’art. 68, primo comma, c.p.c., rubricato “altri ausiliari”39. Al mediatore viene, infatti, richiesto di svolgere un’attività che il giudice non è in grado di compiere da solo, ovverosia supportare le parti nella negoziazione del conflitto senza, tuttavia, essere tenuto, a differenza del consulente tecnico, a riferire al giudice e non ponendosi in alcun rapporto strumentale rispetto alla decisione. Quest’ultima tesi appare maggiormente in linea con la ratio dell’istituto, con la sua funzione e con la sua collocazione sistematica dal momento che non vi sono motivi per ritenere che il legislatore, con l’introduzione dell’art. 337-octies, c.c., abbia inteso creare ex novo un’ulteriore categoria professionale (ovviamente ai fini processuali e limitatamente al processo). La rubrica, poi, dell’art. 337-octies, c.c., intitolata “Poteri del giudice e ascolto del minore”, iscrivendo la facoltà di attivare la procedura di mediazione nel novero delle scelte discrezionali dell’organo giudicante, richiama immediatamente la facoltà (rectius: potere) di ricorrere all’assistenza di organi d’ausilio. Inoltre, sempre la disposizione in esame, si riferisce a “esperti che tentano una mediazione”, e non già di “mediatori che tentino una composizione”, facendo così emergere il carattere oggettivo dell’attività di mediazione (gli esperti tentano una mediazione), e non, invece, quello soggettivo (i mediatori tentano una composizione). Da ultimo, si rileva come l’accoglimento della tesi endoprocessuale non pregiudicherebbe l’indipendenza del mediatore, in quanto nel silenzio della norma circa le disposizioni regolanti la modalità di svolgimento della mediazione, il mediatore familiare rimane libero di seguire la metodologia da lui preferita. Il mediatore è, dunque, ausiliario del giudice e la mediazione familiare, così come richiamata dall’art. 337-octies, secondo comma, c.c., costituisce una fase incidentale ed eventuale, sub-procedimentale, al cui esito le parti possono raggiungere un accordo globale o solo su alcune delle questioni oggetto del processo, cosicché il giudice possa emettere i provvedimenti ritenuti più opportuni tenendo conto di tale risultato. Di qui, la configurazione della mediazione quale strumento integrativo delle controversie, che si pone in stretta connessione col processo di famiglia quale metodo di risoluzione della crisi coniugale, di cui il giudice non può non tener conto ai fini della decisione finale. In questo scenario, sussiste una connessione tra il sistema giudiziario e quello integrativo, al fine di salvaguardare i diritti delle parti e la tutela del primario interesse dei minori.

6. Riflessioni conclusive A quindici anni di distanza dall’entrata in vigore della legge sull’affidamento condiviso, nessuno dubita ormai del fatto che lo spirito di tale riforma sia stato disatteso e le sue disposizioni saltuariamente attuate, stante la prassi registrata nella maggior parte dei tribunali di continuare a preferire per la figura materna rispetto a quella paterna nell’affidamento dei figli40. A questa tendenza socio-culturale peculiare del nostro Paese, un ulteriore elemento che, a mio modesto parere, ha impedito un’effettiva attuazione della legge n. 54/2006, è stata la scarsa diffusione di strumenti in grado di aiutare i partners nella definizione della loro crisi, passando da un piano di scontro e rivendicazioni, da una logica vincitori-vinti e in cui i figli diventano inevitabilmente le vittime, ad uno di confronto collaborativo, al fine di attenuare la conflittualità scaturita dalla separazione e ricercare soluzioni in linea con l’interesse dei figli. In quest’ottica, dunque, un limite della legge sulla disciplina dell’affidamento condiviso è rappresentato dall’accenno soltanto superficiale alla mediazione familiare, istituto, al contrario, che andrebbe incentivato, in quanto si configura come uno strumento elaborato come buona pratica per la realizzazione della bigenitorialità, specie nelle situazioni che apparentemente si presentano come meno conflittuali. Recentemente, poi, nel corso della XVIII legislatura, si è materializzata un’intensa attività parlamentare volta ad introdurre importanti modifiche alla disciplina della crisi familiare, avuto particolar riguardo al rapporto genitori-figli, segnatamente, realizzando un’inversione di rotta in rapporto alle modalità di applicazione dell’istituto dell’affidamento condiviso41.

Uno dei temi che aveva suscitato molte polemiche riguardava l’introduzione dell’obbligatorietà della mediazione familiare, da intraprendersi a pena di improcedibilità42, per i coniugi con figli minorenni che intendevano separarsi o divorziare. Tale riformulazione si inseriva in una disciplina completa della mediazione familiare contenuta in altra parte del progetto, dove essa veniva regolata da una legge speciale nonché da appositi albi organizzati e alla quale potevano accedere anche gli avvocati, molti dei quali, oggi, sono anche mediatori; veniva, dunque, finalmente proposta una regolamentazione ex lege della professione del mediatore familiare43, dandone un crisma di professionalità, attraverso l’iscrizione all’albo nazionale, le verifiche necessarie e fissando regole per lo svolgimento dell’attività di mediazione. Al riguardo, pur riconoscendo che l’accesso volontario alla mediazione familiare, nel corso degli ultimi anni, non ha certamente condotto ad una svolta culturale relativamente alla definizione delle crisi familiari, ritengo che esso debba continuare a rimanere tale, in quanto tale istituto per poter funzionare non deve essere obbligatorio. Al massimo si potrà pensare, in futuro, di renderne obbligatorio solo ed esclusivamente il primo incontro informativo, in modo da salvaguardarne tanto la funzionalità dell’istituto quanto la libertà da condizionamenti, potendo i genitori decidere di proseguire o meno tale percorso, riconoscendo agli stessi la facoltà di porvi fine in qualsivoglia momento. Credo, infatti, che solo l’autodeterminazione delle parti possa essere precondizione veramente essenziale per la riuscita di qualsiasi intervento di sostegno alla bigenitorialità, in quanto la riattivazione del dialogo genitoriale, che passi per un percorso di mediazione, deve, necessariamente, essere il frutto di un processo interiore delle parti. Invero, esse devono essere convinte e non obbligate a credere nell’utilità di esperire la mediazione familiare. Così come, altrettanto importante, è che la mediazione familiare sia assolutamente preclusa nelle ipotesi in cui, alla base della crisi della coppia vi siano stati casi di violenza intrafamiliare, ponendosi, peraltro, una diversa soluzione in contrasto con la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica44.

NOTE

1 Ad esempio, a New York, dove J. Haynes, esponente della Social Work Faculty della State University, fonda la Accademy of Family Mediators, istituto dedito alla formazione di assistenti sociali e consulenti familiari. Per un approfondimento v. M. Passalacqua, Mediazione familiare, in www.personaedanno.it (consultato il 15 febbraio 2021).

2 Ciò se si esclude il precedente contenuto nella Sec. 1730 del California’s Code, in virtù del quale la Los Angels County Conciliation Court iniziò ad operare nell’intento di “favorire il bene della famiglia tramite la prevenzione dei conflitti e la protezione dell’istituto familiare, anche attraverso l’utilizzo di strumenti idonei alla riconciliazione ed alla predisposizione di accordi amichevoli volti alla soluzione pacifica delle controversie familiari”. Sul punto v. M. Marzario, Mediazione familiare e dintorni, Roma, 2012.

3 In Inghilterra, nel 1978, fu Lisa Parkinson, assistente sociale presso il Servizio per la tutela dell’infanzia del Tribunale di Bristol, a creare il primo servizio privato di conciliazione familiare: i suoi fruitori vi si recavano volontariamente per trovare un accordo sulla custodia dei figli e sulle visite del genitore non affidatario; quasi contemporaneamente, fu introdotto un sistema di “conciliazione giudiziaria” presso il Tribunale di Bristol (in Court).

4 Il testo della legge è consultabile sul sito www.hsph.harvard.edu/population/ domesticviolence/uk.family.96.htm (consultato il 15 febbraio 2021).Tale intervento normativo è stato, dapprima, rafforzato dall’Access to Justice Act del 1999 e, in seguito al suo inserimento nelle successive Children and Adoption Act del 2006, nel Legal Aid Sentencing and Punishment of Offenders Act del 2012 e nel Children & Families Act del 2014.

5 In particolare, degna di nota è l’Association pour la Promotion de la Mediation Familiale (APMF), sorta a Parigi nel 1988, rappresentante un caso emblematico di integrazione interdisciplinare, in quanto, con riferimento alle varie conoscenze e professionalità coinvolte nella risoluzione delle crisi familiari, raggruppa esponenti di molteplici categorie professionali quali avvocati, magistrati, educatori, assistenti sociali e psicologi. L’importanza dell’azione dell’APMF è apprezzabile anche a livello europeo, avendo promosso l’istituzione della Commissione sulla Formazione del Mediatore Familiare, redattrice, a sua volta, della “Charte Européenne de la formation des médiateurs familiaux dansles situations de divorce et separation”, venuta alla luce nel 1992. La Carta, frutto della collaborazione di operatori appartenenti a diversi Paesi europei, fra cui il nostro, ha dettato una serie di linee guida e generiche indicazioni volte a salvaguardare la professionalità dei mediatori, nella prospettiva di tutelare i genitori in piena crisi familiare. Per un approfondimento cfr. M. Marzario, Gli esordi della mediazione familiare in Francia e differenze (e non diversità) con l’Italia, in Diritto civile e commerciale, 2011.

6 Tra le organizzazioni principali di mediazione familiare si ricordano la BAFM (Associazione Federale per la Mediazione Familiare), che certifica coloro che seguono un corso di formazione di 200 ore e le Associazioni federali degli avvocati (DAV, BRAK), che offrono corsi più brevi. Il servizio di mediazione familiare è offerto prevalentemente da professionisti privati e da soggetti convenzionati con l’Ufficio di Assistenza di Minorenni e da associazioni senza scopi di lucro.

7 Mi riferisco, più precisamente, alle leggi redatte dalla Catalogna (Ley 15 marzo 2001, n. 1 e successivo regolamento 14 marzo 2002, n. 139), dalla Galizia (Ley 31 maggio 2001, n. 4 e regolamento 31 gennaio 2003, n. 159), dalla Valencia (Ley 26 novembre 2001, n. 7), dalle Canarie (Ley 8 aprile 2003, n. 15, poi modificata con la Ley 23 giugno 2005, n. 3), dalla Castiglia-La Mancha (Ley 24 maggio 2005, n. 4) e dalla Castiglia e Leon (Ley 6 aprile 2006, n. 1).

8 Alla quale aderiscono numerosi Paesi tra i quali Germania, Belgio, Francia, Gran Bretagna e Italia.

9 Cfr. fra i tanti, V. Tomeo, Il diritto come struttura del conflitto. Una analisi sociologica, Catanzaro, 2013; M. Allari, G. Guerzoni, B. Riccio, Culture e conflitto, Rimini, 2005 e C. Mongardini, Aspetti della sociologia di George Simmel, Roma, 1976.

10 Definizione, questa, in perfetta linea con quanto espresso nella Charte européenne pour la formation à la médiation familiale del 1992, che fissa i criteri principali del profilo professionale, della formazione e della deontologia del mediatore familiare in campo europeo.

11 L. 28 agosto 1997 n. 285, Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza. Pubblicata nella Gazz. Uff. 5 settembre 1997, n. 207. Sul punto v. M. Curini, M. Simonelli, C. Torlai, S. Zerbato, Pianificazione strategica dei servizi socio-assistenziali a livello distrettuale, in Azienditalia, 2003, 39, 1.

12 D.P.R. 13 giugno 2000, Approvazione del Piano nazionale di azione e di interventi per la tutela dei diritti e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva per il biennio 2000/2001. Pubblicato nella Gazz. Uff. 21 agosto 2000, n. 194.

13 L. 4 aprile 2001 n. 154, Misure contro la violenza nelle relazioni familiari. Pubblicata nella Gazz. Uff. 28 aprile 2001, n. 98

14 La norma non precisa se tale misura sia alternativa all’ordine di protezione o si cumuli con questa; tuttavia, dal tenore della disposizione la soluzione più corretta parrebbe la seconda, ancorché ciò comporti un depotenziamento dell’utilità del percorso di mediazione, dal momento che l’ordine di protezione, una volta emanato, può in concreto esacerbare gli animi, specie quello del responsabile della condotta violenta e, quindi, rendere quanto meno improbabile il buon esito della mediazione.

15 L. 20 marzo 2003 n. 77, Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996. Pubblicata nella Gazz. Uff. 18 aprile 2003, n. 91, S.O. Per un approfondimento v. C. Fioravanti, I diritti del bambino tra protezione e garanzie: l’entrata in vigore, per la Repubblica Italiana, della Convenzione di Strasburgo, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2006, 561, 3.

16 L. 8 febbraio 2006 n. 54, pubblicata nella Gazz. Uff. 1 marzo 2006, n. 50. Per un approfondimento ex multis: M. Dell’utri, L’affidamento condiviso nel sistema dei rapporti familiari, in Giur. It., 2006, 329, 3; C. Murgo, Affido congiunto e condiviso: vecchio e nuovo confronto in tema di affidamento della prole, in Nuova Giur. Civ., 2006, 20547, 11, e L. Salvaneschi, I procedimenti di separazione e divorzio, in Fam. e dir., 2006, 356, 4.

17 Il riferimento espresso alla mediazione familiare, tuttavia, non è stato previsto né nell’art. 708 c.p.c., sul procedimento di separazione, né nell’art. 4 della l. 898/1970, relativo al procedimento di divorzio.

18 Per un approfondimento della norma si rinvia a E. Zanetti Vitali, La separazione personale dei coniugi [artt. 154-155-sexies c.c., artt. 708-709-ter c.p.c., artt. 3-4 1. 8 febbraio 2006, n. 54], nel Commentario Schlesinger, Milano, 2006 e V. Iori, Separazioni e nuove famiglie. L’educazione dei figli, Milano, 2006.

19 Aggiunto dall’art. 55 d.lgs. 28 dicembre 2013 n. 154 a decorrere dal 7 febbraio 2014.

20 Tale disposizione è applicabile, ai sensi dell’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, ai procedimenti di scioglimento ovvero di cessazione degli effetti civili del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.

21 Negli ultimi anni, accanto alla mediazione familiare, si sta diffondendo anche il c.d. diritto collaborativo: in questo caso, la procedura consensuale viene favorita dal lavoro degli avvocati delle parti coinvolte e delle parti stesse, le quali, in un contesto caratterizzato dalla collaborazione reciproca, cercano di addivenire ad una definizione globale e il più possibile duratura dei loro rapporti. I soggetti chiamati a prendere parte a tale procedura sottoscrivono un accordo volto al rispetto delle regole relative al suo svolgimento, al rispetto della riservatezza, alla trasparenza e alla cooperazione sistematica. Tuttavia, benché a differenza della mediazione familiare, la pratica collaborativa non lasci alle parti la piena competenza nella definizione del conflitto, tale strumento può essere comunque utile laddove non sia possibile ricorrere alla mediazione come, per esempio, nell’ipotesi di maltrattamenti, procedimenti giudiziari pendenti o abusi di sostanze psicotrope, dal momento che esse non consentono al mediatore di considerare le parti come mediabili.

22 Mi riferisco all’art. 29 della Costituzione e alla visione ivi contenuta della famiglia come “società fondata sul matrimonio” e al fatto che solo una sentenza poteva modificare l’assetto di quei rapporti, riconducibili nell’ambito di quelli etico sociali

23 L. 10 novembre 2014 n. 162, Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 132, recante Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile. Pubblicata nella Gazz. Uff. 10 novembre 2014, n. 261, S.O. Per un approfondimento ex multis v. F. Danovi, I nuovi modelli di separazione e divorzio: una intricata pluralità di protagonisti, in Fam. e dir., 2014, 12, 1141; G.A. Parini, La negoziazione assistita in ambito familiare e la tutela dei soggetti deboli coinvolti, in Nuova Giur. Civ., 2015, 10, 20602, e A. Trinchi, Negoziazione assistita per la separazione o il divorzio: tutela dei figli minori e poteri del presidente, in Fam. e dir., 2017, 3, 267.

24 La negoziazione prende avvio con la stipula di una convenzione conclusa tra i coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione e di divorzio.

25 Lo strumento di cui all’art. 12, comma 3, riguarda, invece, la separazione, il divorzio o la modifica delle relative condizioni davanti al sindaco nella qualità di ufficiale dello stato civile, il quale “riceve da ciascuna delle parti personalmente, con l’assistenza facoltativa di un avvocato, la dichiarazione che esse vogliono separarsi ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio o ottenerne lo scioglimento secondo condizioni tra esse concordate. Allo stesso modo si procede per la modifica delle condizioni di separazione e divorzio. L’atto contenente l’accordo è compilato e sottoscritto immediatamente dopo il ricevimento delle dichiarazioni di cui al presente comma”.

Tale procedura semplificata non trova applicazione in presenza di figli minori o portatori di handicap o economicamente autosufficienti e neppure laddove i coniugi dovessero regolare tra loro questioni economiche comportanti trasferimenti patrimoniali.

26 Espressione, questa, contenuta nel fac-simile di modello di negoziazione assistita elaborata dal Consiglio Nazionale Forense e consultabile in www.consiglionazionaleforense.it (consultato il 15 febbraio 2021).

27 Cfr. M. Maglietta, Le controversie familiari sono davvero escluse dalla media-conciliazione, in www.osservatoriofamiglia.it, (consultato il 15 febbraio 2021) in cui si legge che: “Espressione di dubbia concretezza: a posteriori, dopo che l’accordo è stato raggiunto e la mediazione è inutile, si dichiara che si è ‘tentata’ la conciliazione (e poi perché ‘tentata’, visto che la conciliazione è riuscita?); ovvero essendo fallita la negoziazione, neppure esisterà il documento di ratifica dell’accordo, quindi l’informativa sulla mediazione non risulterà attestata da alcuna parte. Come dire che nulla cambia ove non sia stata fornita affatto”.

28 Per i modelli di mediazione familiare cfr. (a cura di), R. Ardone, S. Mazzoni, La mediazione familiare per una regolazione della conflittualità nella separazione e nel divorzio, Milano, 1994 e P. Ronfani, Giustizia e famiglia. Modelli formali e modelli informali di trattamento del conflitto familiare nei paesi occidentali, in Sociologia dir., 1994, 3, 129-146.

29 Si avvicinerebbe alle procedure di negoziazione e gestione dei conflitti nelle organizzazioni di lavoro, tanto che, in alcuni testi, viene denominato anche come modello di mediazione diretta all’accordo (settlement-directed mediation), in quanto fa riferimento alle tecniche della negoziazione ragionata.

30 Sulle fasi del ciclo di vita si rinvia a F. Walsh, Stili di funzionamento familiare, Milano, 1988.

31 Cfr. S. Haller, Separazione, divorzio e affidamento dei figli, in Quadrio-de Leo, Manuale di psicologia giuridica, Milano, 1994, 348.

32 Un altro esempio di modello di tipo “globale” è rappresentato da quello negoziale, fatto risalire a John Haynes, esperto negoziatore del mondo socio-assistenziale e del lavoro, il quale utilizzò nelle situazioni di conflitto familiare molte delle pratiche usate nella gestione dei conflitti nelle organizzazioni d’impresa, come ad esempio il brainstorming, il problem-solving, le tecniche della negoziazione ragionata, la costruzione di un percorso a fasi ben delineato, la neutralità del mediatore, la partecipazione volontaria, la riservatezza, il pragmatismo ed infine l’aiutare i clienti a definire problemi risolvibili.

33 Un modello di mediazione familiare di tipo parziale è, per esempio, quello integrato, fatto risalire a Lenard Marlow e, in Italia, a Irene Bernardini e al GeA di Milano, nel quale ampio spazio viene dato alla dimensione emotivo-affettiva e la mediazione si adatta alle necessità delle parti. Il termine “integrato” si riferisce al rapporto che si viene ad instaurare tra il mediatore e il consulente legale chiamati a collaborare di concerto alla gestione del conflitto: il primo aiutando la coppia nella negoziazione relativa alle responsabilità genitoriali, residenza principale dei figli, modalità delle decisioni da prendersi nei riguardi di questi ultimi, l’altro facendosi carico della negoziazione relativa agli aspetti economici.

34 M. Irving, H. Benjamin, Family Mediation-Theory and practice of dispute resolution, Toronto, 1987.

35 Cit. M. Martello, Mediazione dei conflitti e Counselling umanistico, in Prospettive di psicologia giuridica, collana fondata da Assunto Quadrio, Milano, 2006.

36 Sul punto cfr. P.F. Cuzzola, La Mediazione Familiare, vol. 1. Padova, 2013.

37 Per quanto attiene al rapporto tra mediazione familiare e processo giurisdizionale, come già anticipato nel § 3 del presente articolo, sebbene il nostro legislatore, con la novella del 2006, abbia scelto di richiamare solo la mediazione c.d. endoprocessuale, nulla impedisce ai coniugi di intraprendere autonomamente questo percorso prima di adire la via giudiziale, potendo i suoi risultati entrare, comunque, nel processo. In tale ipotesi, gli accordi raggiunti da una coppia coniugata saranno oggetto di omologazione nel caso di separazione consensuale o di una domanda congiunta di divorzio.

38 La norma in questione nulla dice, inoltre, in merito a come debba avvenire il raccordo extraprocessuale, né tantomeno offre indicazioni circa le modalità operative per l’espletamento della procedura, specie nell’ipotesi in cui la mediazione sia suscettibile di incardinarsi di nuovo nel giudizio.

39 Ai sensi dell’art. 68 c.p.c. “Nei casi previsti dalla legge o quando ne sorge la necessità il giudice si può far assistere da esperti in una determinata arte o professione e, in generale, da persona idonea al compimento di atti che egli non è in grado di compiere da sé solo”.

40 Cfr. Corte di Appello di Napoli, 27 luglio 2019, in www.osservatoriofamiglia.it (consultato il 15 febbraio 2021); Cass. civ., sez. I., 14 settembre 2016, n. 18087, in Guida al diritto, 2016, 41, 36, con nota di M. Fiorini, Necessario preservare la continuità delle relazioni; Cass. civ., sez. I., 18 giugno 2008, n. 16593, in www.leggiditalia.it (consultato il 15 febbraio 2021) e Trib. Nicosia 22 aprile 2008, in Foro it., 2008, 1, 1914.

41 Il riferimento è al d.d.l. S/735, “Norme in materia di affido condiviso, mantenimento diretto e garanzia di bigenitorialità”, meglio conosciuto come disegno di legge Pillon, dal nome del senatore primo firmatario. Per un approfondimento v. C. Rimini, Sul disegno di Legge Pillon e sugli altri D.d.l. in materia di responsabilità genitoriale in discussione in Senato, in Fam. e dir., 2019, 67; F. Auletta, Prospettive di riforma dell’affidamento condiviso, in Familia, 2018, 581, e U. Salanitro, Il diritto del minore alla bigenitorialità e il d.d.l. Pillon, in Nuova Giur. Civ., 2019, 2, 33.

42 Peraltro, nulla si chiarisce in merito alle conseguenze del mancato espletamento della mediazione familiare nonostante l’invito del giudice.

43 Ad oggi, infatti, nonostante sia da più parti caldeggiata, manca l’istituzione di un albo nazionale per la professione di mediatore familiare, che ne cristallizzi definitivamente la specifica funzione sociale e relative regole deontologiche a cui attenersi.

44 Sul punto v. R. Biancheri, Violenza alle donne e trasformazioni sociali, in G. Giusti, S. Regazzoni, Mi fai male, Venezia, 2009.