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“His majesty the baby”. Il minore (s)oggetto (narcisistico) di diritto nel conflitto familiare

autore: B. Fantini

“Le coppie nel ‘divorzio interminabile’, sebbene consciamente possono volere l’intervento ordinatore della legge, inconsciamente cercano di ribadire i loro ideali narcisistici. Ogni udienza giudiziaria rischia di diventare una sorta di ripetizione di situazioni della vita familiare, nelle quali si ‘mettono in scena’ i giochi collusivi, con i conseguenti rimproveri, le vendette, ecc. I magistrati si trovano di fronte a ripetuti sabotaggi degli accordi che si credevano riusciti, a trasgressioni delle norme, al continuo inadempimento o disconoscimento di mediazioni che si credevano risolte, con conseguente cronicizzazione del litigio”1 .



La lettura di alcune sentenze, ovvero degli atti di causa, di alcuni procedimenti di separazione e divorzio, le modalità con le quali vengono condotte alcune CTU, induce a pensare che l’unica garanzia di difesa e tutela dei diritti del minore oggetto della controversia stia innanzitutto nella raggiunta maturità psicologica di tutte le parti in causa di poterlo riconoscere compiutamente come Soggetto/Altro da sé. È ben noto che, nel momento in cui agli operatori del diritto – siano essi magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, educatori – venga richiesto di intervenire per risolvere la vicenda separativa conflittuale, essi siano contestualmente immersi in una trama relazionale familiare nella quale è facile rimanere intrecciati e colludere inconsapevolmente con il (dis)funzionamento delle parti. Come noi psicoterapeuti di formazione psicoanalitica sappiamo molto bene, tanto più le parti sono inclini a utilizzare meccanismi difensivi inconsci primitivi (vale a dire propri di organizzazioni narcisistiche della personalità o di funzionamenti narcisistici focali) tanto più sarà probabile per chi si immergerà nel contenzioso separativo essere oggetto di proiezioni2 e di identificazioni proiettive3 tanto forti da rendergli assai difficoltoso utilizzare la propria risposta controtransferale per pensare e comprendere quello specifico contesto familiare. Al contrario, si rischierà di “agire” (coattivamente, senza poter pensare) comportamenti da questo indotti4 ; oppure essere vittima del blocco del pensiero oggetto del patto denegativo (vedi oltre) su cui si fondava la coppia e/o su cui si fonda il conflitto interminabile in atto. È fondamentale in questi casi avere ben chiaro che alla base del conflitto che conduce le parti (o una di esse) a richiedere l’intervento degli operatori del diritto per risolvere la controversia separativa vi è proprio la lotta che le loro menti fanno per poter mantenere questo assetto difensivo, da cui esse sentono dipendere il proprio equilibrio psichico. Il concetto psicoanalitico di patto denegativo, esposto nel 1985 dallo psicoanalista francese René Kaës, illustra molto bene le motivazioni profonde (inconsce) che legano le persone allo scopo di garantirne la stabilità psichica attraverso l’uso dell’altro e del legame familiare. Secondo l’autore il patto denegativo è un tipo particolare di alleanza inconscia: si tratta di un patto a carattere difensivo su cui si fonda il legame di una coppia, di un gruppo o di una o più famiglie, avente lo scopo di negare, denegare, rigettare o disconoscere percezioni o rappresentazioni psichiche inaccettabili a uno o più membri del nucleo familiare. Scrive l’autore: “Come tutte le altre alleanze inconsce […] il patto denegativo si situa al punto di annodamento dei rapporti che intrattengono i soggetti singoli e gli insiemi ai quali sono legati e di cui sono parte interessata e parte costitutiva. La specificità di tale patto è che viene concluso per assicurare i bisogni difensivi dei soggetti quando formano un legame e per mantenere tale legame. […] È dunque da considerare come una modalità di risoluzione dei conflitti intrapsichici e dei conflitti che attraversano una configurazione di legame”5 . Alla luce di questo concetto possiamo più chiaramente comprendere quali sono i meccanismi e le motivazioni inconsapevoli che mantengono vivo il contenzioso nei cosiddetti “divorzi interminabili” e che rischiano di trascinare gli operatori del diritto coinvolti, inconsapevolmente e coattivamente: finché il patto denegativo viene mantenuto, la realtà psichica inaccettabile e inelaborabile non fa parte della realtà condivisa e la mente è salva. Mantenere questo assetto difensivo interpersonale o transpersonale (vedi oltre) comporta però una notevole riduzione della possibilità di soggettivazione e di riconoscimento autentico del Sé dell’altro (coniuge e/o prole); perciò quando l’Altro decide di rompere il patto, la mente che si sente in pericolo reagisce tentando in tutti i modi di mantenerlo. Non solo la crisi coniugale, il tradimento, la richiesta di separazione da parte di uno dei coniugi possono essere il segnale che vi è un’esigenza di sciogliere il patto denegativo, anche i sintomi psichici o psicosomatici manifestati da uno dei coniugi o dai figli lo sono. E questo è ciò che osserviamo e trattiamo quotidianamente noi psicoterapeuti dell’età evolutiva, della coppia e della famiglia nella nostra pratica clinica, al di là e al di fuori del contenzioso giudiziario. Un minore che fa sintomi psichici offre al proprio nucleo familiare la possibilità di intraprendere un percorso di diagnosi e cura che per essere efficace dovrà avere per oggetto dolori psichici che attraverso le generazioni sono giunti fino a lui. Lo stesso si può affermare di un coniuge che fa sintomi o di una coppia che fa sintomi. Per questo motivo, a proposito dei casi di separazione e divorzio, ciò che desidero porre in evidenza in questo articolo, è che in presenza di simili assetti difensivi familiari, ascoltando le parti, si può facilmente cadere vittima della loro infantile e/o patologica richiesta di attenzione e di giustizia – che a volte ha molto a che fare con la storia dell’individuo e molto poco con la realtà fattuale della storia coniugale in sé6 – a tal punto che il minore, nel cui supremo interesse ci si dovrebbe adoperare, non vede garantito, neppure all’interno del procedimento giudiziario, il suo riconoscimento quale Soggetto (anche di tutela). Nelle situazioni altamente conflittuali, nelle quali gli aspetti narcisistici ed infantili della personalità delle parti prendono il sopravvento, gli operatori del diritto rischiano di perdere di vista il minore e i suoi bisogni, proprio come fanno le parti in causa, offuscati dalle richieste di soddisfacimento dei bisogni infantili di queste. Sono quei casi nei quali si osserva il minore divenire “oggetto” di una controversia all’interno della quale anche gli operatori del diritto non riescono a garantire un adeguato spazio mentale favorente il processo evolutivo di soggettivazione del minore (a volte anche perché si tratterebbe di doverlo addirittura costruire), riproponendo coattivamente e inconsapevolmente proprio ciò che caratterizza il funzionamento delle strutture vincolari internalizzate (vedi oltre) dei coniugi. Per comprendere meglio la co-costruzione, intersoggettiva e intrasoggettiva, operata dai membri di una coppia e di una famiglia, del complesso intrecciarsi dei mondi interni e delle rappresentazioni di relazioni internalizzate in cui sono immerse e funzionano le parti, è particolarmente illuminante la teoria del vincolo (da vinculum, vincire) sviluppata nel 1971 dallo psicoanalista argentino Enrique Pichon Rivière. Egli intende il vincolo “una struttura complessa che include il soggetto, l’oggetto [della pulsione] e la loro mutua interazione, attraverso processi di comunicazione e apprendimento in una cornice intersoggettiva, in una relazione diadica che permette l’internalizzazione della struttura vincolare, che acquista così una dimensione intrasoggettiva. […]. In ogni struttura vincolare il soggetto e l’oggetto agiscono ri-alimentandosi mutuamente in una relazione dialettica. Nel corso di questa interazione la struttura vincolare si internalizza acquistando una dimensione intrasoggettiva. Ciò che era interpsichico diventa intrapsichico. Le relazioni intrasoggettive, o strutture vincolari internalizzate, articolate in un mondo interno, integrano quello che Pichon ha chiamato gruppo interno (modificazione del concetto Kleiniano di mondo interno), il quale rappresenta lo scenario interno dove si cerca di ricostruire la realtà esterna. Il gruppo interno si costituisce a partire dall’internalizzazione dei vincoli esterni, distorti per i bisogni dell’individuo, nel corso di un processo che va dall’intersoggettività all’intrasoggettività. Il gruppo interno è, all’inizio, fondamentalmente l’internalizzazione dei vincoli familiari: quello che Laing ha chiamato la ‘famiglia’. Il modo in cui si integra questo gruppo interno condizionerà le caratteristiche dell’apprendimento della realtà, che sarà più o meno facilitato o distorto a seconda che il confronto tra l’intersoggettivo e l’intrasoggettivo sia dialettico o dilemmatico”7 . Nel momento in cui lo scenario familiare è fortemente caratterizzato da richieste di tipo narcisistico agite dai genitori e proiettate sul minore, che diventa oggetto della controversia in quanto veicolo delle richieste inconsapevoli di soddisfacimento di bisogni primari dei genitori, la vicenda separativa può esitare in un divorzio interminabile nel quale la lotta per il mantenimento del patto denegativo “fa fuori”, per così dire, sia il minore con i suoi bisogni sia la capacità di pensare degli attori in scena, senza che essi ne abbiano coscienza. Sono quei contesti nei quali lo specialista dell’età evolutiva e delle dinamiche relazionali di coppia e di famiglia, può riconoscere una situazione, più o meno grave, di pregiudizio per lo sviluppo psico-fisico del minore. Pregiudizio che paradossalmente il clinico, qualora sia chiamato a svolgere una CTU, ha spesso l’obbligo di refertare, stando ben attento, da un lato, a non dare indicazioni terapeutiche e, dall’altro, a trovare comunque il modo di suggerirle, al fine di non contravvenire ai propri obblighi deontologici. Sono quei casi nei quali, da un punto di vista clinico, maggiormente sarebbe necessaria una valorizzazione nella fase consulenziale della possibilità di avvio di un processo trasformativo della trama vincolare osservata, benché, da un punto di vista giuridico, la finalità della consulenza sia di ordine conoscitivo e non terapeutico8 . È in questi casi che tentare di liberare il minore dal peso della controversia, per restituirgli uno spazio autentico di soggettivazione, significa poter prevedere la possibilità di attuare percorsi trasformativi della trama familiare. Sono questi l’unico strumento attraverso il quale si può provare a s-vincolarlo dalla pressione delle richieste narcisistiche genitoriali, tentando di modificare l’assetto difensivo transpersonale (vedi oltre) causa della sofferenza e del conflitto coniugale. Diversamente appare difficile poter affermare che in simili circostanze si stia tutelando il diritto del minore alla salute. Non si tratta semplicisticamente di individuare il genitore più malato e quello più sano presso cui collocarlo (anche perché, come vedremo più oltre, nella trama vincolare osservata il più sintomatico potrebbe essere il paziente designato, il depositario di un dolore psichico dell’altro genitore che si ammala in lui e che un domani, rimasto single, si ammalerà nel figlio), e di sostenerli entrambi nell’espletamento delle rispettive e reciproche funzioni genitoriali, attraverso percorsi affidati a servizi territoriali inadeguati con sedute dilatate nel tempo e aventi una funzione prettamente psicoeducativa, pedagogica, o soprattutto di monitoraggio per il Tribunale. In questi casi è invece necessario, nel supremo interesse del minore, avviare e rendere possibile un lavoro di cura che non può prescindere dall’enunciato freudiano “la psiche è estesa”9 . Scrive Anna Maria Nicolò: “La possiamo considerare estesa nel tempo se osserviamo le modalità di trasmissione intergenerazionale e transgenerazionale. Ma anche al proprio interno la psicoanalisi contemporanea ne ha osservato vari livelli. Si è parlato di inconscio rimosso e di inconscio non-rimosso. […] ma possiamo anche considerarla estesa nello spazio, se crediamo nella possibilità di traslocare, trasporre nell’altro la sofferenza psichica. L’altro può essere usato come depositario (Bleger, 1967), porta-parola (Anzieu, 1975; Kaës, 2007) o portavoce (Pichon Rivière, 1980)”10. L’utilizzo del metodo psicoanalitico nella terapia delle coppie e delle famiglie ha mostrato infatti, oltre ai bisogni difensivi intrapsichici e interpersonali alla base della creazione dei legami, che per la loro costituzione e il loro mantenimento si utilizzano meccanismi inconsci che consentono di curarsi nell’altro e di ammalarsi al posto dell’altro. È esperienza comune, non solamente del clinico, osservare nelle persone i cambiamenti conseguenti allo scioglimento, per eventi della vita o grazie al lavoro terapeutico, di legami particolari che li imprigionavano; si osserva comunemente la comparsa o la scomparsa di gravi quadri depressivi o sintomi claustro-agorafobici in seguito alla rottura di legami significativi, che erano stati costruiti evidentemente attraverso un patto collusivo della coppia, un’alleanza inconscia, che aveva lo scopo di compensare il funzionamento fragile di uno dei membri. La scoperta dei neuroni specchio, attivi sia quando vengono eseguite azioni finalizzate sia quando si osservano le stesse azioni eseguite da altri, comprova questa “capacità innata preprogrammata di internalizzare, incorporare, assimilare, imitare, ecc., lo stato di un’altra persona, e i neuroni specchio costituiscono la base di questa capacità. Ma per il raggiungimento della piena espressione questa predisposizione ha bisogno di avere come complemento un adeguato comportamento del caregiver che lo rispecchi, interagendo con lui in modo coerente o prevedibile. […] concettualizzazioni, molto diverse l’una dall’altra e provenienti da diversi orientamenti teorici, sottolineano l’importanza dell’oggetto (esterno o internamente rappresentato che sia) nel rispecchiare il Sé come modalità fondamentale di ristrutturare il mondo interno”11. A proposito di trasmissione interpersonale/transpersonale di contenuti psichici, di internalizzazione della struttura vincolare quale fondamento narcisistico costitutivo l’apparato psichico dell’individuo e il suo funzionamento intrapsichico e intersoggettivo, già S. Freud in Introduzione al narcisismo (1914) fece una fondamentale precisazione rispetto al doppio statuto, individuale e gruppale (intrapsichico e intersoggettivo), del soggetto quando scrisse: “L’individuo conduce effettivamente una doppia esistenza: una in cui egli è fine a se stesso e l’altra come membro di una catena a cui è assoggettato contro la sua volontà o almeno senza la partecipazione di questa”12. Egli già delineava i fondamenti narcisistici della trasmissione intersoggettiva di contenuti psichici, della strutturazione dell’appoggio reciproco del narcisismo genitoriale e del bambino quando scriveva: “His majesty the baby […] deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori” (ibidem); desideri che, come lui stesso suggeriva, contengono a loro volta le rappresentazioni provenienti dai loro antenati. Nel 1975 Piera Aulagnier definisce contratto narcisistico quello che si realizza, grazie al pre-investimento narcisistico che la famiglia e il gruppo sociale fanno sul futuro soggetto, a cui è affidato il compito di mantenere la continuità della stirpe e dell’insieme sociale, e che occuperà il luogo sociale assegnatogli, significato dalle altre generazioni con ideali, valori e modalità di lettura della realtà. Il contratto narcisistico induce così ad occupare un posto e ad avere un senso nella catena generazionale cui si appartiene. Da un lato, quindi, il soggetto sarà investito narcisisticamente dal suo gruppo famigliare, dall’altro dovrà servire a soddisfare i bisogni narcisistici dello stesso. René Kaës chiama patto narcisistico il contratto narcisistico che si stipula nel caso in cui l’alleanza inconscia necessaria per stabilire e mantenere il legame familiare sia un patto denegativo rigido, che richieda, come detto sopra, di preservare la rimozione, il diniego, il rigetto, l’incistamento di certi contenuti psichici nella mente di uno o più soggetti, e lo faccia non tollerando alcuna separazione psichica tra i membri dell’alleanza. È altresì possibile mettere in relazione il concetto di patto narcisistico con quello di ingranamento di Paul Claude Racamier: “una forma di organizzazione psichica particolare, dotata di una prospettiva interattiva [che] si instaura tra almeno due persone, per le quali ogni cosa provata, fantasticata, pensata, desiderata, voluta da una di esse, trova immediata risonanza nell’altra […] una fantasia propria di una delle due persone che si esprime direttamente nell’agire dell’altra. Ciò che l’una immagina (senza dirlo, e forse senza aver nemmeno dentro di sé lo spazio per immaginarlo veramente) sarà direttamente messo in atto dall’altro”13. Tutti questi meccanismi di trasmissione di contenuti psichici caratterizzano la formazione e il mantenimento del legame della coppia coniugale, così come dei legami di questa con le rispettive famiglie di origine, con i figli, i figli dei figli, e così via. Ogni famiglia trasmette al nuovo nato la sua modalità di conoscere il mondo esterno e di organizzare quello interno. Se questa trasmissione ha per oggetto dei contenuti psichici elaborati dalla generazione precedente, perciò pensabili e quindi trasformabili dalla generazione successiva, che può così farli propri in una dinamica intersoggettiva differenziante, allora la trasmissione psichica sarà intergenerazionale e sarà foriera di processi identificatori soggettivanti. Se la trasmissione avrà invece per oggetto vissuti non pensabili e non inscrivibili in una catena di senso, allora essa sarà transgenerazionale e obbligherà a incorporare, anziché interiorizzare, contenuti potenzialmente patogeni, e a stringere un legame fondato sul negativo, un patto denegativo, che obbliga i suoi membri all’utilizzo di meccanismi di difesa primitivi. Scrive Anna Maria Nicolò: “A differenza dello spazio interpersonale che è il luogo ove avvengono gli scambi con l’altro, diverso da sé, spazio perciò definito dalla differenziazione e dove si operano processi trasformativi ed elaborativi del gruppo familiare in una dimensione creativa ed evolutiva, il transpersonale è il luogo delle comunicazioni inconsce primitive, agite o somatizzate, è anche il luogo del transgenerazionale e delle difese transpersonali. […] Nelle famiglie psicotiche falliscono i processi di elaborazione, e si opera un attacco al pensiero proprio perché lo spazio interpersonale si riduce e viene sostituito dalla fusione con l’altro o dal controllo o dall’evacuazione delle emozioni nell’altro. […] Nelle dimensioni transpersonali osserviamo anche legami difensivi, creati appositamente come difese transpersonali che la famiglia organizza di fronte alle angosce condivise prodotte dagli eventi del ciclo vitale o da traumi occasionali. Ci sono famiglie, ad esempio, dove la somatizzazione diventa una risposta privilegiata, trasmessa anche transgenerazionalmente e usata da più membri della famiglia. […] le difese transpersonali sono un prodotto collettivo e abbastanza stabile nel tempo, spesso attivate da quel contesto specifico. Sono un prodotto collettivo nella misura in cui ‘vengono incontro’ al bisogno dei partecipanti alla relazione, come si vede in modo incontrovertibile nella folie à deux e nelle relazioni perverse. Non si esercitano se il partner della relazione non si presta o sfugge o non ha bisogno di quella relazione”14. Le difese transpersonali coinvolgono l’uso dell’altro, vanno al di là dei meccanismi inconsci di difesa dell’Io che agiscono a livello intrapsichico (individuale), attuano la dislocazione15, il deposito, nella psiche dell’altro di contenuti dolorosi non pensabili e inelaborabili, attraverso legami che attivano livelli di funzionamento mentale, di stati del Sé, che si attualizzano concordemente a quel legame. Possiamo affermare che sono questi meccanismi inconsci, che travalicano la dimensione intrapsichica, a dare vita a uno spazio psichico condiviso e co-costruito che nutre in modo sano o malato chi lo abita. Scrive Donald Meltzer: “Ognuno di noi ha molteplici relazioni: alcune collegate con la parte sana della personalità. Altre con quella malata o addirittura psicotica. Per questo quasi tutte le persone presentano una certa instabilità nel funzionamento della personalità, a seconda degli incontri che fanno in determinati momenti”16 (ibidem). Dopo questa breve disamina di alcuni concetti psicoanalitici propri della ricerca con le coppie e le famiglie, possiamo meglio comprendere ciò che accade nella creazione del legame di coppia e quali meccanismi inconsci co-costruiscono un legame familiare patologico, collusivo. Abbiamo visto che ognuno dei membri proietta (vedi nota n. 2) e trasferisce sull’altro i propri oggetti infantili e le modalità di legarsi ad essi interiorizzati (attraverso trasmissione interpersonale) o incorporati (attraverso trasmissione transpersonale) dalle proprie famiglie di origine e dalla proprie passate esperienze di coppia, amicali e gruppali (vedi nota n. 6). Questi “transfert laterali” creano l’aspettativa che l’altro si immedesimi nel personaggio di cui ogni membro ha bisogno. Se l’uno però si sottrae all’assunzione del ruolo desiderato dall’altro, quest’ultimo dovrà farsi carico di quanto depositato nel partner attraverso il transfert; ma se non vuole o non può prendersi questo carico allora cercherà di indurre il partner ad assumere quel ruolo attraverso l’utilizzo delle difese transpersonali e a costruire un legame basato su un’alleanza inconscia fondata sul negativo (patto denegativo), dove predomina l’uso di difese primitive massicce (transpersonali) attraverso le quali “una persona tenta di regolare il mondo interno degli altri, agendo sull’esperienza degli altri, per poter conservare il proprio”17. Se in questi casi la coppia non si rompe è perché entrambi accettano di giocare il ruolo attribuitogli dall’altro, senza uscire da esso, ma modificando reciprocamente la trama della commedia che entrambi hanno necessità di mettere in scena, per poter giocare contemporaneamente anche il ruolo desiderato da ognuno. Quando le parti raggiungono una sintesi di entrambe le tematiche da rappresentare, una soluzione di compromesso, allora sarà rappresentata una commedia inedita, creazione della coppia, che i coniugi Losso chiamano “dramma collusivo della coppia. […] la risultante di due scene infantili che si potenziano mutuamente, costituendo una scena nuova, con modi attuali di rappresentarsi. Si rappresenta una commedia in epoca contemporanea, anche se in realtà il tema appartiene al passato. La scena che sta dietro è un’altra, ed è sempre una scena inconscia, collusiva, infantile, regressiva. Chiamiamo scene chiave, le scene centrali che esprimono la collusione. Sono anche dette scene patogene, nel senso che sono ripetitive ed incrementano il malessere, l’insoddisfazione, i malintesi e il risentimento attraverso un costante rinforzo positivo. Esse contribuiscono così a riprodurre in modo stereotipato i meccanismi collusivi. […] Ci sono anche identificazioni con oggetti transgenerazionali dove ognuno può cercare di fare all’altro quello che è stato fatto a lui. Hanno quindi inizio rimproveri interminabili (rimproveri vendicativi), in realtà diretti all’oggetto primario. D’altra parte questo implica anche un gioco di lealtà verso gli oggetti primari ‘Non c’è niente di meglio della mia famiglia’ (di origine). In questo gioco sadomasochista distruttivo, l’oggetto deve essere mantenuto al servizio delle difese transpersonali, per poter così essere attaccato e divenire oggetto di rimproveri, vendette, ecc.”18. Ora è semplice comprendere quali reazioni possa scatenare la rottura di un legame al quale era affidato il compito di contenere angosce inelaborabili, ereditate per via transgenerazionale dalla propria famiglia d’origine e/o co-costruite per via transpersonale dal rapporto di coppia stesso. Sofferenze psichiche, parti del Sé con un funzionamento primitivo, narcisistico, celate alla coscienza attraverso la complicità della collusione di coppia, negate, denegate, rimosse o depositate nell’altro, riemergono con forza in cerca di un contenitore che possa incorporarle. Emerge ciò che faceva parte del patto denegativo ed era silente. Il soggetto che avverte la minaccia alla propria integrità psichica (seppur fosse precedentemente mantenuta attraverso un legame che dall’esterno poteva apparire fonte di dissapori, malumori, litigi, dolori, frustrazioni, ecc.) e non può contare sulla presenza di uno spazio transizionale19, elaborativo, dentro di sé oppure all’interno di un rapporto terapeutico, può reagire in modo molto violento, accusatorio e recriminatorio nei confronti dell’altro, della sua famiglia, degli operatori chiamati a dirimere la controversia, e adoperarsi con ogni mezzo per contrastare lo scioglimento del legame e la sua trasformazione. Mantenere un legame che implica sofferenza, spesso molto intensa, può essere vissuto come meno pericoloso e disorganizzante rispetto all’irruzione degli aspetti più primitivi e indifferenziati dei soggetti della coppia, tenuti a bada dal patto denegativo. Può così accadere che lo spazio psichico del legame di coppia sia occupato da un conflitto permanente, che può essere funzionale alla negazione delle rispettive angosce di separazione delle parti. Sono quei casi, definiti dai coniugi Losso di “divorzio interminabile”, nei quali “c’è la persistenza di un tipo di legame che impedisce la condivisione della elaborazione del lutto, un peculiare tipo di legame con prevalenza spesso delle difese transpersonali. Gli ex coniugi continuano a rimanere legati dal risentimento, dal rancore, dai desideri di vendetta. Rimangono invischiati nei legami collusivi. La rottura degli accordi inconsci (patti denegativi), scatena a volte, come si è detto, un’intensa violenza”20. Il processo del lutto che la psiche deve svolgere di fronte alla morte di un oggetto significativo differisce infatti da quello richiesto nel caso di divorzio: qui le persone coinvolte sono almeno due (a cui si aggiungono i figli, le famiglie di origine, la rete sociale della coppia e chiunque si trovi invischiato nelle dinamiche collusive agite dai membri della coppia incapaci di affrontare la trasformazione del legame, avvocati, magistrati, operatori dei servizi sanitari e sociali compresi) e ognuna di esse può condizionare la possibilità dell’altro di elaborarlo. Nei casi di divorzio, affinché il lutto possa essere elaborato, è necessario un lavoro psichico intersoggettivo, non solamente intrapsichico “Il processo [del lutto] subisce interferenze anche perché l’oggetto vivo può stimolare fantasie consce od inconsce di riunione e fantasie relative ai desideri di possesso: ‘questo(a) non è più mio(a), ma non tollero che appartenga ad un altro(a)’. Si alimentano fantasie di rivincita e vendetta, con idee di distruggere il soggetto abbandonato o abbandonante. L’esperienza clinica mostra che spesso tali fantasie sono canalizzate nei figli. […] i comportamenti dell’uno possono far sentire all’altro che i figli sono lasciati alla mercé dell’oggetto abbandonato o abbandonante. Si riattivano anche – e questo è molto importante per il lavoro terapeutico – i lutti non elaborati delle rispettive famiglie d’origine [e trasmessi per via transgenerazionale]. […] I figli devono viversi il lutto della coppia dei genitori e per loro la situazione può essere ancora più difficile: la separazione irrompe come una realtà che viene loro imposta e che non possono controllare. Questo riattiva in loro fantasie e/o comportamenti regressivi a diversi livelli di profondità e spesso presentano sintomi – quali ‘portavoce’ (Pichon Rivière) – dell’ansia del gruppo (ovviamente questo succede non solo quando si separano i genitori)”21.

In conclusione, appare chiaro che tanto più un figlio è piccolo, tanto più è carente il suo processo di soggettivazione, di differenziazione psichica dalle figure genitoriali – in conformità con lo stadio di sviluppo psicoaffettivo promosso o inibito dall’assetto difensivo transpersonale familiare – tanto più facilmente agirà “per procura” (pensiamo ad esempio ai comportamenti dei figli nei casi di alienazione genitoriale e mettiamoli in relazione con i concetti psicoanalitici di patto narcisistico e di ingranamento sopra esposti) in un processo di continuo rinforzo dei funzionamenti collusivi con la patologia del legame della coppia. Poiché immerso nelle dinamiche difensive transpersonali proprie della famiglia, il figlio consente infatti di tenere attive le scene chiave attraverso le quali un genitore ingaggia l’altro nella continuità del legame, nel mantenimento e nella ripetizione del dramma collusivo della coppia. In questi casi un lavoro psicoterapeutico individuale con il minore, scevro di un lavoro trasformativo della struttura vincolare della coppia genitoriale, non ha gli strumenti per s-vincolarlo da un simile assetto difensivo familiare. Tanto meno potrà proteggere lui, e i successivi discendenti, dall’eredità transgenerazionale di questo ulteriore trauma separativo. Alla luce di tutto quanto qui esposto, ritengo non si possa sostenere che il diritto alla salute del minore prevalga su quello dell’adulto ogniqualvolta non si sia in grado di risponde alla domanda di cura, quanto meno di corretta diagnosi, implicitamente posta dalle coppie che si rivolgono alla giustizia per dirimere il conflitto separativo. In questi casi l’acceso e irrisolvibile conflitto che porta la famiglia dinanzi agli operatori della giustizia assegna al Giudice, agli avvocati e ai consulenti la possibilità di incarnare, per le parti e per i loro figli, quello spazio psichico di soggettivazione negato dalle eredità transpersonali ricevute e dalla co-costruzione della struttura vincolare in crisi. La complessità delle dinamiche familiari e dei funzionamenti difensivi che le sottendono richiede, a mio avviso, che gli operatori che se ne occupano abbiano un’approfondita e specifica formazione, un’adeguata maturità psichica, la consapevolezza delle proprie fragilità narcisistiche e del proprio assetto difensivo. Per quanto concerne i consulenti, diversamente non avranno gli strumenti per osservare e comprendere la complessità dell’intera struttura vincolare e il funzionamento difensivo transpersonale che caratterizza la famiglia. Solo in questo modo è infatti possibile fare una corretta diagnosi e quindi una valutazione prognostica attendibile circa il comportamento che le parti e le loro famiglie d’origine assumeranno in seguito alla sentenza del Giudice. Solo sapendo osservare e comprendere la “psiche estesa” ritengo sia davvero possibile operare quale clinico nel supremo interesse del minore.

NOTE

* “Se consideriamo l’atteggiamento dei genitori particolarmente teneri verso i loro figli, dobbiamo riconoscere che tale atteggiamento è la reviviscenza e la riproduzione del proprio narcisismo al quale i genitori stessi hanno da tempo rinunciato. [...] Si instaura in tal modo una coazione ad attribuire al bambino ogni sorta di perfezioni di cui non esiste indizio alcuno se lo si osserva attentamente, nonché a dimenticare e coprire ogni sua manchevolezza (a questo fatto si riallaccia altresì il misconoscimento della sessualità infantile). Al tempo stesso esiste nei genitori anche la tendenza a sospendere in favore del bambino tutte le acquisizioni della civiltà al cui rispetto essi stessi hanno costretto il proprio narcisismo, e a rinnovare per lui la rivendicazione di privilegi a cui da tempo hanno rinunciato. La sorte del bambino dev’essere migliore di quella dei suoi genitori; egli non deve esser costretto a subire le necessità da cui, come i genitori sanno, la vita è dominata. Malattia, morte, rinuncia al godimento, restrizioni imposte alla volontà personale non devono valere per lui, le leggi della natura al pari di quelle della società devono essere abrogate in suo favore, egli deve davvero ridiventare il centro e il nocciolo del creato, quel ‘His Majesty the Baby’, che i genitori si sentivano un tempo. Il bambino deve appagare i sogni e i desideri irrealizzati dei suoi genitori: il maschio deve diventare un grand’uomo e un eroe in vece del padre, la femmina deve andar sposa a un principe in segno di riparazione tardiva per la madre. Nel punto più vulnerabile del sistema narcisistico – l’immortalità dell’Io che la realtà mette radicalmente in forse – si ottiene sicurezza rifugiandosi nel bambino. L’amore parentale, così commovente e in fondo così infantile, non è altro che il narcisismo dei genitori tornato a nuova vita; tramutato in amore oggettuale, esso rivela senza infingimenti la sua antica natura”; S. Freud (1914), Introduzione al narcisismo (OSF7, 461-462).

1 R. loSSo, Psicoanalisi della famiglia. Percorsi teorico-clinici, Milano, 2000, 154.

2 Desidero qui sottolineare questo aspetto del meccanismo difensivo inconscio: “La proiezione trova il suo principio più generale nella concezione freudiana della pulsione. È noto che, per Freud, l’organismo è sottoposto a due tipi di eccitamenti generatori di tensioni: quelli che esso può fuggire e da cui può proteggersi, e quelli che non può fuggire e contro i quali non esiste all’inizio uno scudo antistimolo; è questo il primo criterio della distinzione tra interno ed esterno. La proiezione appare quindi come il mezzo di difesa originaria contro gli eccitamenti interni che sono troppo spiacevoli a causa della loro intensità: il soggetto li proietta all’esterno, il che gli permette di fuggirli (illusione fobica per esempio) e di proteggersi da essi: ‘si instaura la propensione a considerarli come se non agissero dall’interno, ma dall’esterno, al fine di poter usare contro di essi gli stessi mezzi di difesa con cui il sistema si protegge contro gli stimoli esterni è questa l’origine della proiezione’ (S. Freud, Al di là del principio di piacere, 1920, OSF vol. 9, 215). La contropartita di tale beneficio è, come nota Freud, che il soggetto si trova costretto ad accordare piena fiducia a ciò che ormai è sottoposto alle categorie del reale” (J. laplanChe, J.B. pontaliS, Enciclopedia della psicoanalisi, Roma-Bari, 2007, 443).

3 Il concetto di identificazione proiettiva è stato introdotto dalla psicoanalista inglese Melanie Klein nel 1932 per designare un meccanismo difensivo arcaico attraverso il quale il soggetto “introduce la propria persona totalmente o parzialmente all’interno dell’oggetto per danneggiarlo, possederlo e controllarlo” (J. laplanChe, J.B. pontaliS, Enciclopedia della psicoanalisi, cit., 236).

4 Léon Grinberg, psicoanalista argentino, con il suo concetto di controidentificazione proiettiva ha dato un importante contributo alla teoria generale del controtransfert, rilevando gli “effetti reali prodotti nell’oggetto dall’uso peculiare dell’identificazione proiettiva proveniente da personalità regressive” (L. GrinberG, Pasado, presente y futuro de una trayectoria psicoanalìtica, in Revista de Psicoanàlisis, 1974, 31, 179). “Mentre è caratteristica della risposta controtransferale che l’analista prenda coscienza del tipo di reazione che si forma in lui e la utilizzi come strumento tecnico, nel fenomeno della controidentificazione proiettiva l’analista reagisce come se realmente e concretamente avesse assimilato gli aspetti che gli vengono proiettati” (R.H. etCheGoyen, I fondamenti della tecnica psicoanalitica, Roma, 1990, 325).

5 R. kaëS, Le alleanze inconsce, Roma, 2010, 140-141.

6 Scrive Roberto Losso, psicoanalista argentino, a proposito del meccanismo del transfert quale agente che produce l’intreccio delle scene infantili che si verifica nella coppia: “è impossibile non attribuire all’oggetto (al partner) le caratteristiche del rapporto con gli oggetti infantili, cioè della situazione edipica. In questo senso, quando l’individuo costituisce una coppia, i desideri, le speranze, le fantasie, le proibizioni, le colpe, la rabbia, ecc. della situazione edipica sono in qualche misura attivati. [...] Inevitabilmente l’individuo trasferirà in maggior o minor grado i propri modelli relazionali infantili (o clichés, Freud) nell’attuale relazione di coppia, attraverso una coazione a ripetere. L’attivazione delle fantasie infantili porta ad attribuire all’altro caratteristiche di personaggi della storia del soggetto (della ‘famiglia’ – Laing-ossia del suo ‘gruppo interno’ – Pichon Rivière)” (R. loSSo, Psicoanalisi della famiglia, cit., 74 e77).

7 R. loSSo, Psicoanalisi della famiglia, cit., 48-49.

8 M. Gennari, M. MoMbelli, L. pappalardo, G. taManZa, L. tonellato, La

consulenza tecnica familiare nei casi i separazione e divorzio, Milano, 2014: “Anche nel contesto della consulenza tecnica, infatti, l’intervento psicologico, anche laddove fosse limitato a finalità puramente diagnostiche, non può che conformarsi alla sua propria identità che consiste, per l’appunto, nel promuovere cura attraverso la conoscenza. Cfr. art. 3 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani. È tale elemento identitario che conferisce alla consulenza un carattere irriducibilmente clinico (ancorché non terapeutico)”.

9 S. Freud, 1938, OSF 11, 566.

10 A.M. niColò, Dov’è collocato l’inconscio? Riflessioni sui legami nella famiglia e nella coppia, in Famiglie in trasformazione, a cura di A.M. niColò, P. benGhoZi, D. luCarelli, Milano, 2015.

11 V. GalleSe, P. MiGone, M.N. eaGle, La simulazione incarnata: i neuroni specchio, le basi neurofisiologiche dell’intersoggettività ed alcune implicazioni per la psicoanalisi, in Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 3 544.

12 OSF 7, 460-461.

13 P.C. raCaMier, À propos de l’engranèment, in Gruppo, 1990, 6. Trad. it. A

proposito dell’ingranamento, in Interazioni n. 0.

14 A.M. niColò, I legami soggettuali e il loro funzionamento nella coppia e nella famiglia, in Ricerca Psicoanalitica, 2007, XVIII, 1, 105-121.

15 Già Donald Meltzer nel 1979, a proposito dell’eziologia delle psicosi, ipotizzava che il dolore mentale, oltre che rimosso, negato o rigettato, potesse anche essere “dislocato su un altro accanto a noi” (D. MeltZer, Un approccio psicoanalitico alla psicosi, in Quaderni di psicoterapia infantile, 1979, 2, 31-49).

16 Ibidem.

17 R. lainG, 1967, citato da R.C. Muir in International Review of Psychoanalysis, 1982, 9, 317.

18 R. loSSo, Psicoanalisi della famiglia, cit., 80.

19 Donald W. Winnicott definisce lo spazio transizionale “un’area intermedia

di esperienza a cui contribuiscono sia la realtà interna sia la vita esterna” che

consente di distinguere tra oggetti interni e soggetti differenziati, che consente di

cogliere e accogliere le differenze e le somiglianze tra Sé e Altro, di promuovere

lo sviluppo di un’area terza anche nella mente dell’Altro (D.W. winniCott, 1951,

Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Dalla pediatria alla psicoanalisi, 1958, 275-290).

20 R. loSSo, Psicoanalisi della famiglia, cit., 153.

21 R. loSSo, Psicoanalisi della famiglia, cit., 149, 151, 152.