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Dinamiche del processo romano e impegni matrimoniali. Riflessioni su un passo dei digesta di Celso

autore: L. Ingallina

Sommario: 1. Cenni introduttivi. - 2. La fase pregiudiziale: editio actionis, editio instrumentorum e logiche difensive che precedono il giudizio. - 3. Davanti al pretore: le prove e la denegatio actionis. - 4. Libertà matrimoniale quale fondamento di una denegatio actionis: D. 45.1.97.2, Cels. 26 dig



1. Cenni introduttivi



Il processo formulare romano, che dapprima affianca1 e poi sostituisce2 la procedura per legis actiones, è bifasico e a formazione progressiva: la prima fase si svolge sotto la direzione di un magistrato, in iure, di solito il praetor, o un altro magistrato giusdicente; la seconda parte del procedimento si svolge con la guida di un giudice privato, che non è un pubblico funzionario, ma appunto un cittadino romano privato, connotato da prestigio morale e non necessariamente esperto in materia giuridica3.

Il magistrato imposta la causa e compie valutazioni preliminari; al cospetto del giudice privato si svolge invece la fase istruttoria e viene dunque emessa la sentenza. Il fatto che il iudex possa non essere un esperto di diritto può, prima facie, destare perplessità, se non si considera che questi agisce e governa la seconda fase – nella quale si svolge appunto anche l’istruzione probatoria – con pochi margini tecnico-processuali di scelta: egli è infatti tenuto a portare a termine il iussum iudicandi, ovvero il dovere di addivenire ad una sentenza di condanna o di assoluzione, dietro le precise direttive del magistrato4 . La sentenza del giudice privato viene emessa all’esito di un’istruttoria retta dal principio dispositivo ed il cui dinamismo dipende quindi dalle istanze e dalle attività delle due parti; la sentenza è il risultato di un prudente apprezzamento del materiale probatorio idoneo a determinare un libero convincimento del giudicante, sulla base della fondatezza o meno della pretesa dell’attore: il iudex può infatti condannare o assolvere il convenuto, ma l’an così come il quantum debeatur sono rimessi all’onere di prova che incombe su chi agisce in giudizio5 (e sul convenuto, nel caso sia autore di qualche affermazione contraria, che viene generalmente dedotta in forma di exceptio)6 . L’accertamento dei fatti presuppone le previe direttive del pretore, impartite nella fase in iure, mentre la valutazione degli stessi si svolge con la piena discrezionalità da parte del giudice, nel corso della fase istruttoria7 . Se, con sicurezza, al giudice privato si può riconoscere la discrezionalità sullo svolgimento del procedimento e sulla valutazione delle prove8 , nello stesso tempo si deve ammettere che il iudex fosse vincolato alle indicazioni del magistrato, alle specifiche soluzioni suggerite dai giuristi, nonché alle loro direttive o regole generali, da ritenersi giuridicamente vincolanti9 . Che qualcosa sia dovuto e quanto sia dovuto è sovente già “individuato” nella prima fase del procedimento, davanti al magistrato e viene formalizzato nel giudizio sotto forma di intentio, ovvero quella parte della formula che ha il compito di esprimere la pretesa attorea10.

Sono le parti a produrre le prove in giudizio e il giudice privato decide sulla base di esse, senza tuttavia avere l’onere della motivazione della sentenza; è celebre la formulazione di Paolo11 – ei incumbit probatio qui dicit, non qui negat –, applicabile già alla procedura per legis actiones, ma che trova efficace esplicazione anche nel processo per formulas12; all’attore spetta certamente l’onere della prova, ma si tratta tuttavia di una regola che in primis non suppone l’esclusione di una probatio negativa e che più semplicemente, in secundis, ripartisce l’onere della prova sulla base di un principio generale: “la prova tocca a chi fa un’affermazione, non a chi la contesta”13; la discussione, che avveniva davanti al pretore (e che poi veniva eventualmente replicata al giudice privato), comportava una molteplicità di affermazioni, tra le quali, col tempo – e con metodo casistico –, si individuarono quelle rilevanti per la loro portata giuridica e quindi assoggettabili all’onere di prova. Di fatto però l’“attore continuava a sopportare il peso maggiore della prova, giacché egli doveva dimostrare che il diritto fatto valere era stato da lui acquistato nei confronti del convenuto, ossia che era avvenuto a suo favore un fatto costitutivo o acquisitivo del diritto, che sussistevano pure gli eventuali presupposti necessari a conferire al fatto tale efficacia, che infine ricorrevano le altre condizioni, perché il diritto potesse venire fatto valere da lui e contro il convenuto (legittimazione attiva e passiva), se, come era possibile, ma non normale, queste condizioni erano indipendenti dal fatto costitutivo o acquisitivo”14.



2. La fase pregiudiziale: editio actionis, editio instrumentorum e logiche difensive che precedono il giudizio



La prova gioca un ruolo chiave già a partire dalla fase che precede l’avvio del procedimento formulare. Prima di effettuare la in ius vocatio15, che avrebbe determinato l’immediata comparsa delle parti davanti al magistrato, o prima di differire nel tempo la comparsa ad una udienza prefissata mediante una promessa vincolante16, l’attore aveva l’onere di informare il convenuto circa l’azione processuale di cui intendeva fruire (editio actionis) e sugli elementi di prova che avrebbe utilizzato a fondamento della sua pretesa (editio instrumentorum). La causa poteva considerarsi già intentata al momento della editio actionis e della in ius vocatio17, ad essa contestuale. Nel Digesto di Giustiniano rinveniamo alcuni frammenti dai quali si ricavano importanti informazioni sull’editto generale de edendo18, che, appunto, sancisce gli oneri informativi dell’attore nei riguardi del convenuto; nel commento edittale ulpianeo leggiamo che



D. 2.13.1 pr. Ulp. 4 ad ed. Chi voglia agire in giudizio con un’azione processuale deve renderla nota, infatti appare assai equo che colui che agirà renda nota l’azione, affinché dunque il reus sia messo nelle condizioni di sapere se debba cedere (alle richieste) oppure continuare a contendere e, qualora pensi sia necessario contendere, giunga (al procedimento) preparato ad agire processualmente, consapevole dell’azione con la quale è convenuto19.



E, con riferimento al contenuto dell’editio instrumentorum20, viene precisato che



D. 2.13.1.3, Ulp. 4 ad ed. Devono essere resi noti tutti i documenti che si è intenzionati a produrre davanti al giudice, tuttavia non si può essere costretti ad esibire quei documenti dei quali non si intende far uso21.



L’Editto dispone quindi che, prima della in ius vocatio, l’attore comunichi al convenuto, in via stragiudiziale, l’azione processuale con la quale intende far valere la sua pretesa in giudizio, nonché gli strumenti probatori di carattere documentale in base ai quali pensa di fondarla22. Chi è chiamato in giudizio, non ha nessun onere di informazione, ma deve invece essere messo nelle condizioni di conoscere il tipo di azione processuale che l’attore presenterà in giudizio contro di lui e quali siano gli elementi posti a fondamento della richiesta. L’ordinamento aveva così imposto che entrambe le parti giungessero al procedimento pienamente consapevoli; l’attore doveva avere ben presente l’azione processuale da chiedere al magistrato e il convenuto doveva esserne messo opportunamente a parte; a questo era funzionale la “pubblicità” garantita all’Editto del pretore, entro il quale si trovavano espressi tutti i rimedi processuali che i cittadini avrebbero potuto chiedere al magistrato per il soddisfacimento dei propri interessi23. L’editio actionis poteva consistere nella consegna diretta di un supporto che recasse il testo scritto dell’azione processuale, oppure nell’indicazione a voce del rimedio giudiziale, anche attraverso l’individuazione dello stesso nell’ambito dell’editto del pretore, collocato entro l’albo pretorio. Lo stesso Labeone, giurista di epoca classica, riferisce infatti che l’attore, al fine di erudire il convenuto sull’azione che gli avrebbe intentato contro, lo poteva condurre presso l’albo per ivi indicargli la formula24. L’onere imposto all’attore soddisfa una duplice finalità: una maggiore protezione del convenuto, da considerarsi parte più esposta all’alea di causa25, proprio in quanto inconsapevole dell’azione processuale e delle prove a disposizione di colui che agisce; ma anche un principio di economia processuale26; se infatti non venissero effettuate l’editio actionis e l’editio instrumentorum, il pretore, al momento dell’udienza, secondo principi equitativi, dovrebbe differirne la data, per consentire al convenuto un lasso minimo di tempo per riflettere sul proprio comportamento processuale, da porre in essere all’esito della valutazione del tipo di azione utilizzata e del supporto probatorio esibito a sostegno della pretesa attorea. Secondo l’interpretazione di Fernandez Barreiro l’editio actionis e l’editio instrumentorum, per concretizzare la doppia finalità, debbono essere contestuali, essendo la seconda complementare rispetto alla prima27.

L’attore deve dunque mettere il convenuto nelle condizioni di operare principalmente delle scelte; quest’ultimo, proprio sulla base delle informazioni svelate dalla controparte, pondererà infatti se ammettere le ragioni attoree, anche in via stragiudiziale, oppure se affrontare il giudizio e, soprattutto, in che modo affrontarlo, dovendo pensare, per tempo, alle proprie allegazioni e controdeduzioni, alle eccezioni processuali ed alle prove necessarie per confutare la pretesa attorea. Nel tempo che intercorre tra la in ius vocatio e la comparizione davanti al pretore, il convenuto avrà tutto il tempo anche per consultare un giurista28, che possa suggerirgli le scelte più opportune, la condotta processuale più vantaggiosa e gli strumenti processuali più efficaci per difendere la propria posizione, al fine di evitare la sentenza di condanna. Nel caso in cui l’onere informativo posto a carico dell’attore non fosse stato rispettato, si ipotizza che fosse prevista una sanzione, che probabilmente si concretizzava in azioni penali in factum, all’esito di una delle quali, la sentenza di condanna sarebbe equivalsa ad una sorta di ‘multa’29. Restando sul tema delle “scelte” opzionabili dal convenuto, va qui ricordato che il processo formulare romano non conosce la domanda riconvenzionale; chi è convenuto in giudizio non potrà pertanto avanzare una propria domanda processuale; egli potrà essere condannato al pagamento di una somma di denaro, richiesta e quantificata dall’attore o, comunque, determinata in iudicio, o, in alternativa, essere semplicemente assolto. Né la sentenza potrà prevedere una condanna che determini un quantum che esorbiti dal petitum attoreo, ma neppure che riduca la somma pretesa: se l’attore chiede di condannare il convenuto al pagamento di cento sesterzi, il giudice, previa istruttoria, potrà condannare il reus al pagamento di “quei” centum sesterzi, oppure assolverlo. Tertium non datur. Se dunque i fatti, le circostanze di causa e le prove dedotte, all’esito dell’istruttoria, avessero dimostrato una incongruenza tra quanto chiesto dall’attore e quanto effettivamente dovuto dal convenuto, si sarebbe verificato infatti un caso di pluris petitio re che, come noto, avrebbe determinato da sé sola l’assoluzione del convenuto30. È plausibile ritenere che l’auspicio dell’attore consistesse nell’effetto persuasivo stragiudiziale dell’editio actionis e dell’editio instrumentorum; l’attore poteva cioè sperare che il convenuto, a fronte dell’indicazione del tipo di azione e delle prove a disposizione della controparte, spontaneamente adempisse, senza necessità di ricorrere al giudizio31; come accennato, nel procedimento formulare, qualora si fosse giunti ad una sentenza di condanna, essa avrebbe comportato il pagamento di una somma di denaro. Poteva quindi verificarsi il caso che un attore, pur interessato a riottenere un bene, ricevesse – mediante la condanna del convenuto – la somma che ne corrispondeva il valore, con evidente pregiudizio per i suoi personali interessi, apprezzabili sì sotto il profilo giuridico, ma governati da logiche strettamente connesse anche ad elementi emotivi32. Occorre dunque guardare agli effetti del procedimento formulare con una logica radicalmente diversa da quella che governa il procedimento civile attuale, all’interno del quale il convenuto ha dinnanzi a sé più opzioni e molteplici esiti. Nel processo formulare romano infatti la pretesa attorea, di qualunque natura sia, in caso di “vittoria” della causa, viene tradotta in corrispettivo pecuniario e, dunque, il convenuto è consapevole che una pretesa fondata gli comporterà un esborso in denaro che, con variabili dipendenti dal tipo di giudizio, corrisponderà alla richiesta dell’attore; in alternativa, qualora la pretesa attorea risultasse infondata, il convenuto potrebbe ottenere (soltanto) l’assoluzione. Diversamente, le logiche del processo civile vigente sono – come noto – più complesse; ad esempio il convenuto che resiste può sperare in una vittoria che riconosca l’infondatezza della pretesa attorea, così come in un ridimensionamento del petitum ed inoltre può – come detto – formulare, nel contesto del procedimento radicato dall’attore, la propria domanda riconvenzionale33. Dal punto di vista dell’attore, il procedimento civile attuale è la sede per ottenere specificamente quanto preteso ed è inoltre possibile che la richiesta sia ridimensionata dalla sentenza che, pur riconoscendo la fondatezza dell’an debeatur, ne ridefinisce il quantum. Riprendendo le fila del processo formulare romano, va detto che le informazioni fornite al convenuto prima della in ius vocatio potevano quindi costituire un disincentivo a resistere in giudizio e un incentivo a confessare, ma potevano altresì rappresentare un concreto rischio per l’attore, in quanto, oltre che fondare le vantate sue pretese, potevano anche fornire spunti per l’impianto difensivo del convenuto, suggerendo a quest’ultimo la strategia da adottare. Si pensi, ad esempio, ad una promessa avente ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, sottoposta ad una condizione sospensiva, positiva o negativa: questa stipulatio, pronunciata oralmente, in presenza di testimoni, veniva poi registrata per iscritto su un instrumentum, dal quale risultava chiaramente non solo la promessa, ma anche la condizione espressa convenzionalmente dalle parti.

L’attore che avesse illegittimamente agito in giudizio per ottenere la somma di denaro prima dell’avveramento della condizione, disvelato l’instrumentum alla controparte mediante l’editio instrumentorum, si sarebbe poi visto eccepire nel procedimento proprio il mancato avveramento della condizione, corredato dal supporto probatorio stesso, disvelato e prodotto dall’attore, con ovvia successiva assoluzione del convenuto. L’esempio è di scuola ma basta a comprendere come la gestione delle prove, in tutte le fasi del procedimento (compresa quella pregiudiziale), risultasse essenziale: nel caso esposto, all’attore sarebbe convenuto provare per mezzo di testimoni la sola sussistenza della stipulatio, senza allusione alcuna alla condicio, il cui onere probatorio si sarebbe quindi spostato sul convenuto, il quale non necessariamente poteva disporre di una copia dell’instrumentum. La questione avrebbe potuto svilupparsi così in fase istruttoria, allorché il convenuto, sprovvisto di un elemento che confortasse la propria exceptio, tentasse ad esempio di controinterrogare i testimoni, per fornire così la prova di esistenza della condicio.



3. Davanti al pretore: le prove e la denegatio actionis



Al cospetto del magistrato viene replicata, in iure, l’editio actionis34, ma si deve supporre che venisse replicata anche l’editio instrumentorum, da ritenersi operazione non più finalizzata a fornire strumenti di informazione e di scelta per il convenuto, ma preziosi elementi di valutazione per il magistrato, funzionali all’impostazione della causa. L’attore, dimostrando al pretore di avere assolto agli oneri dell’editio actionis e dell’editio instrumentorum, avrebbe così disvelato allo stesso non soltanto il tipo di azione che intendeva chiedere, ma anche i supporti probatori che fondavano la sua pretesa. Sulla base di questi elementi instava per la concessione del giudizio. Sotto la direzione del magistrato giusdicente, le parti litigabant per formulas35, avviando la discussione sul tipo di azione richiesta, sui fatti, sulle circostanze e sulle prove che si intendevano utilizzare in giudizio. Era infatti essenziale che il pretore fosse messo nelle condizioni in primis di concedere il rimedio processuale individuato dall’attore e in secundis di farsi almeno un’idea circa la verosimiglianza del diritto, ovvero circa la fondatezza della pretesa attorea. A questo era orientata la discussione delle parti che, molto probabilmente, investiva tutti gli elementi della fattispecie: il diritto soggettivo sostanziale e dunque anche la causa petendi, il petitum, i fatti e le circostanze e, naturalmente, le prove. Va qui ricordato che la valutazione del merito dei fatti e delle prove era di competenza del giudice privato e che, quindi, si svolgeva in iudicio, ovvero, nella seconda fase del procedimento; al magistrato non era tuttavia preclusa una valutazione che fosse funzionale alle decisioni intra-procedimentali: egli infatti poteva concedere il giudizio e quindi consentire che le parti giungessero davanti al giudice privato, che dava luogo all’istruzione probatoria; il pretore poteva altresì precludere la possibilità che la causa proseguisse, quando ravvisava la sussistenza di qualche impedimento formale o – col tempo – nel caso di qualche preclusione attinente al merito.

Detto in modo più appropriato, il magistrato non poteva entrare nel merito della fondatezza delle asserzioni di parte36, sebbene avesse come obbiettivo quello di farsi almeno un’idea generale sulla fattispecie, talvolta mediante una causae cognitio, ossia una sommaria conoscenza del caso, che gli consentisse di assumere decisioni già nella fase in iure. Con gli elementi messi a disposizione dalle parti, il pretore possedeva infatti le conoscenze per decidere se far proseguire il giudizio o arrestarlo, mediante la c.d. denegatio actionis37; quest’ultima – che poteva anche essere sollecitata dal convenuto38 – impediva che si giungesse alla fase istruttoria e chiudeva il giudizio (forse) con un decreto39 che ne sanciva l’improcedibilità per vizi di forma o – col tempo40 – anche per manifesta infondatezza o iniquità; in questi ultimi casi si trattava comunque di una valutazione discrezionale, frutto di un esame – pur sommario – delle circostanze descritte dalle parti41; è plausibile ritenere che, in alcuni casi, il magistrato pervenisse ad una denegatio actionis dopo aver meditato (anche) sulla richiesta di una exceptio da parte del convenuto e, comunque, causa cognita42; in tal caso, sarebbe più corretto parlare di denegatio iudicii, in quanto il provvedimento che interrompe il procedimento sarebbe il risultato della valutazione non soltanto delle istanze attoree, ma anche delle exceptiones del convenuto e delle replicationes dell’attore43. Viceversa, il provvedimento con cui il pretore concedeva di proseguire apud iudicem e che ricomprendeva tanto la parte pro actore, quanto quella pro reo, assume più correttamente il nome di datio iudicii44. Come noto, la discussione tra le parti sfociava nella composizione del iudicium, da intendersi qui con l’accezione di ‘formula’, che, espressa per iscritto mediante un periodo ipotetico, esponeva schematicamente l’intera questione: esplicitava in primis la nomina del giudice privato, scelto di comune accordo tra le parti e competente sulla seconda fase del procedimento; traduceva in intentio la pretesa dell’attore, in exceptio la difesa del convenuto, e, quindi, conteneva le direttive che il pretore dava al giudice privato ai fini della conduzione della fase in iudicio e dunque per l’emanazione della sentenza. Va accennato che ancora prima della c.d. codificazione dell’Editto45, tale fonte aveva progressivamente acquisito una certa stabilità46, che imponeva al magistrato di attenersi al proprio impegno programmatico; pertanto la denegatio actionis talvolta costituiva un’eccezione alla stessa promessa edittale, talora era invece prevista da qualche fonte autoritativa ed infine poteva essere predeterminata dal pretore all’interno dell’Editto stesso; nei casi che il magistrato reputava più complessi si riservava di concedere (o di non concedere) il giudizio, previa causae cognitio, ossia previa conoscenza sommaria della fattispecie concreta, resa possibile dagli elementi introdotti dalle parti. Detto altrimenti, talora il pretore poteva essere in grado di assumere una decisione in iure, valutando ad esempio l’opportunità di denegare actionem o denegare iudicium; altre volte riteneva necessaria una più approfondita valutazione e affidava quindi questo incarico al giudice privato, che, nel corso dell’istruttoria, procedeva al vaglio della pretesa attorea e dell’exceptio del convenuto, opportunamente richiesta, concessa ed inserita nella formula47.



4. Libertà matrimoniale quale fondamento di una denegatio actionis: D. 45.1.97.2, Cels. 26 dig.



Vi fu un’epoca – almeno sino all’età classica – in cui non era neppure possibile pensare ad un principio di libertà matrimoniale; da un lato la potestà del pater familias si spingeva sino alla scelta del marito e della moglie del proprio sotto posto; i patres stringevano tra loro accordi vincolanti con i quali, di fatto, obbligavano i propri figli a contrarre matrimoni da questi (spesso) non voluti; il meccanismo prevedeva lo scambio di promesse solenni che, col tempo, ebbero ad oggetto non soltanto il matrimonio in sé, ma anche il pagamento di una somma di denaro per l’ipotesi in cui il proprio sottoposto non avesse poi contratto le nozze48. Dall’altro lato, indipendentemente dall’ingerenza paterna, le parti potevano scegliere di vincolarsi spontaneamente a relazioni matrimoniali future, impegnandosi a sposare, sotto la minaccia del pagamento di una somma di denaro, o a non divorziare, se non dietro il pagamento di sanzioni. Tali promesse potevano essere fatte valere in giudizio mediante un’actio ex stipulatu, con la quale l’attore chiedeva il pagamento della somma di denaro pattuita. Vi erano casi in cui questa somma era prevista a titolo di penale per l’ipotesi in cui la promessa di matrimonio fosse stata disattesa, nonché casi nei quali il pagamento era promesso come incentivo alla decisione stessa di sposarsi: è l’esempio di un tale che si fosse fatto promettere del denaro per il caso in cui avesse accettato una promessa matrimoniale. Solo col tempo si attenuò in primis il potere di assoluta ingerenza del pater familias, mediante la rivalutazione del consenso dei diretti interessati ad opera dell’interpretazione giurisprudenziale; in secundis venne progressivamente sancito un generale principio di libertà matrimoniale a scapito di qualsivoglia costrizione giuridica. Veniamo ora ad un caso concreto, che riguarda proprio la situazione di una promessa di denaro finalizzata all’accettazione di una proposta matrimoniale: facendo leva sull’interesse matrimoniale dimostratale da un uomo, una donna si fa promettere del denaro in cambio della sua accettazione della proposta nuziale. Il parere del giurista riguarda dunque l’ipotesi in cui la destinataria della promessa, avvenute le nozze, agisca in giudizio per ottenere la somma di denaro. La fonte è costituita da un frammento tratto dai digesta di Celso49, giurista di età adrianea.



D. 45.1.97.2, Cels. 26 dig50. “Se ti sposerò, prometti di darmi dieci?” Ritengo che, previa causae cognitio, l’azione non debba essere concessa e “neppure in un raro caso il motivo di tale contratto è buono”51. E allo stesso modo qualora sia un uomo a chiedere una simile promessa alla donna, quando non sia stato a causa di dote.



Il giurista sta esemplificando un caso di stipulatio sottoposta a condizione sospensiva52. In particolare, riporta il caso di una promessa di denaro condizionata all’avveramento di un matrimonio: in base all’opinione personale (puto) di Celso, nel caso in cui il destinatario della promessa che non ha ricevuto il denaro si dovesse rivolgere al pretore, questi, effettuata una valutazione sommaria delle circostanze del caso, dovrebbe non concedere l’azione. L’esito processuale sarebbe il medesimo (item) anche nel caso in cui la promessa di denaro l’avesse rivolta una donna ad un uomo, senza però che l’oggetto di tale impegno fosse la dote53, anche in questo caso, per l’acquisto del consenso matrimoniale54. È quindi sufficiente soffermarsi qui sulla prima parte del frammento, che dunque propone chiaramente un caso di stipulatio in base alla quale il pagamento della somma promessa viene subordinato all’avveramento di una condicio. Il negozio a cui si riferisce Celso subordina quindi l’impegno del promissor all’accadimento di un evento proiettato in un futuro incerto55; l’obbligazione di pagamento sorge infatti solo in caso di avveramento della condicio ed un eventuale adempimento che lo precedesse costituirebbe un’ipotesi di pagamento di indebito56: nel caso descritto dal giurista, stando alla volontà delle parti, il promittente dovrebbe quindi pagare la somma solo nell’ipotesi in cui il matrimonio avvenga; al momento della conclusione della stipulatio, ma prima dell’avveramento della condizione, le due parti sono già uno stipulator ed un promissor, sebbene non si sia ancora formato il rapporto obbligatorio57; mediante una stipulazione sottoposta a condizione viene infatti in essere “la (sola) speranza di un rapporto obbligatorio futuro”58. Diverso è il caso di una ‘stipulazione penale’59, con la quale viene promessa una somma di denaro che lo stipulator si fa promettere dal promissor per il caso che non avvenga (o avvenga) qualcosa che allo stipulator interessa che avvenga (o non avvenga), ed il cui non verificarsi (o verificarsi) dipende in qualche modo dal promissor60; si pensi alla vicenda di un soggetto che promette di pagare una somma di denaro nell’ipotesi in cui la figlia non sposi lo stipulator o il di lui figlio: in quest’ultimo caso si configura una ipotesi di stipulazione penale; è al proposito emblematico l’esempio riportato nei libri responsorum di Paolo61, nel quale Tizia, sposatasi con Gaio Seio, gli promette il pagamento di una somma di denaro per il caso in cui il proprio figlio non sposi la figlia di Gaio Seio (nata da precedente unione); simmetricamente Gaio Seio promette a Tizia di corrispondere una somma di denaro per l’ipotesi in cui la propria figlia non contragga matrimonio con il figlio di Tizia. Si tratta di una doppia stipulazione penale connotata da perfetta simmetria, che viene registrata per iscritto entro un instrumentum, ossia un supporto probatorio. La vicenda si sviluppa negativamente, in quanto, alla morte di Gaio Seio, la figlia di costui si rifiuta di sposare il figlio di Tizia; il giurista è interpellato sulla possibilità di agire contro gli eredi di Gaio Seio, in quanto la sua promessa non è stata mantenuta, benché ciò sia avvenuto per una causa imputabile alla sua sottoposta. La risposta di Paolo non si limita a fornire una soluzione per il caso concreto, bensì detta principi generali di libertà matrimoniale, sancendo che “fu reputata cosa riprovevole costringere con il vincolo di una pena i matrimoni da contrarre e già contratti”; per questo stesso motivo, in quanto la stipulazione penale posta in essere dalle parti “era contraria alla morale”, sotto il profilo processuale, il giurista ritiene utilizzabile l’exceptio doli62, reputando quindi che il caso sia risolvibile all’esito di una istruzione probatoria da compiersi apud iudicem; dal punto di vista del convenuto la soluzione di Paolo è particolarmente favorevole, poiché l’eventuale sentenza assolutoria del giudice, nella sua definitività, renderebbe improponibile un nuovo giudizio, tra le stesse parti, sulla medesima questione, in virtù del principio del ne bis in idem. Diversamente, nei digesta di Celso, viene descritto un caso in cui la condizione a cui è subordinato il pagamento dello stipulator dipende dallo stipulator stesso: se questi sposerà il promissor, costui gli darà la somma di denaro. Rispetto al caso descritto qualche tempo dopo da Paolo, diversa è la fattispecie sostanziale, così come è diversa la reazione processuale che il giurista ipotizza.

Secondo Celso il magistrato deve poter meditare, operando una causae cognitio, ossia quella valutazione sommaria dei fatti e delle circostanze che sia in grado di fornirgli un quadro completo della situazione, idoneo a rappresentargli quanti più elementi possibili per assumere le decisioni intra-procedimentali. Stando al giurista, il suo provvedimento dovrebbe consistere in una denegatio actionis: non è necessario quindi che la causa proceda davanti al giudice privato; nel caso in questione è evidentemente chiaro come la pretesa dell’attore sia manifestamente iniqua e/o infondata63. Proviamo a immaginare dunque cosa sarebbe avvenuto se il matrimonio dell’esempio di Celso fosse poi realmente accaduto. Secondo lo schema ipotizzato dal giurista – “Se ti sposerò, prometti di darmi dieci?” – il matrimonio fa avverare l’evento futuro ed incerto e fa sorgere l’obbligazione tra promissor e stipulator; da un punto di vista del ius civile, il contratto, valido ed efficace, obbliga il promittente al pagamento della somma di denaro pattuito sotto condizione. A fronte dell’inadempimento volontario da parte del promissor, lo stipulator avrà di fronte a sé solo il rimedio del ricorso al pretore, mediante l’esperimento di un’actio ex stipulatu. Tuttavia l’oggetto del negozio giuridico è un matrimonio, un evento che quindi riguarda la sfera individuale affettiva di un individuo. Cogliendo lo spunto fornito da Celso, occorre dunque interrogarsi sulla equità del negozio giuridico posto in essere dalle parti: secondo la classificazione di Voci64 pare che il negozio in questione non rappresenti una fattispecie in cui l’atto illecito costituisce il contenuto del rapporto, ma che si tratti di un caso in cui “è solo guardando alla funzione del negozio che si scopre l’illiceità”. Detto in altre parole, la prestazione dedotta nell’accordo non è in sé illecita, quindi non è ‘nulla’; e neppure lo è la condicio astrattamente considerata – se ti sposerò – atteso che il matrimonio è un atto perfettamente lecito; tuttavia la funzione del negozio costituisce una palese iniquità, tenendo conto anche del fatto che “l’ambito entro il quale ricorrono le stipulazioni con funzione illecita è quello […] della libertà matrimoniale”65. A ben vedere il caso descritto da Celso non rappresenta un’ipotesi di stipulazione penale, ma descrive un negozio idoneo a coartare la volontà e quindi la libertà matrimoniale66; in effetti il vizio della volontà riguarda non solo chi promette, ossia chi, pur di coronare il suo desiderio nuziale, è disposto ad impegnarsi in un negozio vincolante, ma anche il destinatario della promessa, che subordina il suo assenso matrimoniale al ricevimento di una somma di denaro.

Al momento dell’editio actionis e dell’editio instrumentorum stragiudiziali l’attore avrebbe assolto ai suoi oneri indicando al convenuto il rimedio processuale che avrebbe utilizzato, ossia l’actio ex stipulatu, evidenziando alla controparte che, a fondamento della pretesa, avrebbe esibito l’instrumentum, ovvero il supporto probatorio ove – con buona probabilità – era stata registrata la stipulatio condizionata. L’editio actionis e l’editio instrumentorum, come sopra più volte ricordato, avrebbero messo il convenuto, in questo caso il marito, nelle condizioni di conoscere gli elementi della causa, a tal punto dal consentirgli di elaborare la propria strategia difensiva, magari con l’ausilio di un giurista. In età classica comincia ad affermarsi un principio di libertà matrimoniale, che svincola gli interessati da obblighi limitativi di una libera scelta individuale; il risvolto processuale di questa evoluzione si traduce in provvedimenti che negano l’esercizio dell’azione processuale67 o che assolvono chi venga convenuto in giudizio per l’adempimento di un obbligo matrimoniale, previa valutazione di una exceptio doli. In altri termini, quelle stipulazioni con funzione illecita, tra le quali spiccano proprio quelle limitative della libertà matrimoniale, incontrano l’intervento del pretore che agisce in base al ius honorarium, con un duplice esito: talora il magistrato si convince immediatamente della manifesta iniquità o infondatezza della pretesa dell’attore e non concede l’azione, come nel caso descritto da Celso; talvolta invece il pretore ritiene che la causa debba passare per il vaglio dell’istruzione probatoria, all’esito della quale il giudice privato, ritenuta fondata l’eccezione del convenuto, avrebbe pronunciato la sua assoluzione68. Secondo le osservazioni di Voci69, il caso descritto da Celso non configura infatti un illecito perseguibile ex iure civili, bensì un’ipotesi di manifesta iniquità censurabile solo sulla base del diritto onorario; la stipulazione è perfettamente legittima sotto il profilo del ius civile, ma l’evoluzione dei costumi consente ai magistrati di “discostarsi” dalla mera applicazione delle prescrizioni del ius civile stesso, per intervenire sulla base del diritto loro proprio, ovvero quello honorarium; i costumi e la morale considerano infatti iniqua la limitazione della libertà matrimoniale e il diritto pretorio costituisce una difesa di tali principi. Dobbiamo tuttavia presumere che, ai tempi di Celso, gli interventi pretorii, posti a tutela della libertà matrimoniale, non costituissero una prassi affermata e che dunque la soluzione suggerita da Celso non rappresentasse affatto una regola assoluta70. A seguito dell’editio actionis e dell’editio instrumentrum il pretore avrebbe avuto modo di conoscere l’azione richiesta dall’attore71, ovvero l’actio ex stipulatu72, nonché gli elementi probatori di cui si sarebbe avvalso l’attore, ossia l’instrumentum dal quale avrebbe ricavato la sussistenza effettiva della stipulatio e della relativa condizione sospensiva. Come detto, dinnanzi al pretore, non si effettuava solo l’editio actionis, ma si svolgevano anche le discussioni e il convenuto, in questo caso lo ‘sposo debitore’, avrebbe di certo lamentato l’iniquità della pretesa attorea. Tutti questi elementi avrebbero consentito al magistrato una piena cognizione della causa, comprensiva di una valutazione di tutte le circostanze del caso. È parere di Celso che il procedimento, a seguito di causae cognitio da parte del pretore, non debba neppure giungere alla fase istruttoria, poiché la pretesa dell’attore è – probabilmente – da valutarsi come manifestamente iniqua. E infatti “il denegare actionem è sempre testimoniato come possibile sbocco della causae cognitio discrezionale del magistrato giusdicente”73, ma è presumibile che il medesimo risultato si sarebbe raggiunto anche qualora il convenuto avesse fatto istanza per inserire nel iudicium una exceptio doli74, elemento sul quale il pretore avrebbe ulteriormente meditato, per poi denegare iudicium75.

Va detto che una sentenza assolutoria, emanata dal iudex privato, all’esito dell’istruttoria, avrebbe garantito maggiormente il convenuto. Infatti, mentre la sentenza assolutoria si giova dell’effetto preclusivo che impedisce all’attore di radicare nuovamente un giudizio sulla medesima questione contro il medesimo convenuto, lo stesso non può dirsi riguardo al provvedimento di denegatio actionis76. Infatti l’attore avrebbe potuto riproporre l’azione processuale all’infinito, presso lo stesso magistrato o un suo successore. Si suppone che siano esistiti rimedi volti a scongiurare tale eventualità, come ad esempio la cautio amplius non peti, ovvero una promessa solenne effettuata davanti al magistrato, mediante la quale l’attore si sarebbe impegnato a non riproporre l’azione già ‘denegata’77. E dunque, dalla primigenia tendenza a limitare, in ambito matrimoniale, una piena libertà individuale, si passa poco alla volta a disincentivare ogni forma di coercizione della libera volontà e questo attraverso eterogenei meccanismi processuali. Ma, si sa, il tempo e la storia ridisegneranno altri scenari e lo stesso principio di libertà matrimoniale dovrà nuovamente confrontarsi con una realtà sociale ed una morale in continuo divenire

NOTE

1 Gai. 4.30; con più cautela deve leggersi Gell. 16.10.8, che non evidenzia la fase di coesistenza delle due procedure (per legis actiones e per formulas). La lex Aebutia de formulis, emanata intorno al 130 a. C. (cfr. però G. rotondi, Leges publicae populi Romani, Hildesheim, Zurich, New York, 1990 (rist.), 304-305), diede ai cittadini romani la possibilità di servirsi dell’una o dell’altra procedu- ra; effettuata la scelta, nessuno avrebbe potuto ricorrere all’altro procedimento, motivato ad esempio dal fatto di avere perduto la lite (electa una via non datur recursus ad alteram); cfr. in proposito e per le linee istituzionali a. lovato, S. puliatti, l. Solidoro, Diritto privato romano, 2a ed., Torino, 2017, 63; forse la legge sopprime la legis actio per condictionem, sostituendola con la condictio certae pecuniae e la condictio certae rei, finalizzate al recupero giudiziale di una somma di denaro certa o del valore di una cosa determinata; dà conto anche di questa ipotesi l. FaSCione, Storia del diritto privato romano, 3a ed., Torino, 2012, 182.

2 Gai. 4.31; la lex Iulia iudiciorum privatorum, del 17 a.C. (cfr. rotondi, Leges publicae, cit., 448-450), rese unicamente possibile ricorrere al procedimento for- mulare, eccezion fatta per la legis actio damni infecti (poi comunque sostituita con la cautio damni infecti – entrambe finalizzate ad offrire tutela avverso un danno temuto promanante dal fondo del vicino) e per la procedura che si svolgeva davanti al tribunale dei centumviri, competente per le rivendicazioni di eredità o per l’impugnazione del testamento inofficioso; per l’aspetto istituzionale basti FaSCione, Storia del diritto privato romano, cit., 182-183; per un quadro più esau- stivo si veda C.a. Cannata, Profilo istituzionale del processo privato romano. II: Il processo formulare, Torino, 1982, 46-67.

3 Il giudice non è infatti un giurista; cfr. Cannata, Profilo istituzionale, cit., 183; ma si vedano anche l. GaGliardi, La figura del giudice nel processo civile romano. Per un’analisi storico-sociologica sulla base delle fonti letterarie (da Plauto a Macrobio), in Diritto e teatro in Grecia e a Roma, a cura di E. Cantarella, L. Ga- Gliardi, Milano, 2007, 198 ss. e b. CorteSe, L’onere della prova nella elaborazione della giurisprudenza romana classica, in Il giudice privato nel processo civile romano. Omaggio ad Alberto Burdese I, a cura di L. GaroFalo, Padova, 2012, 393-430, in particolare 398.

4 Si veda anche CorteSe, L’onere della prova, cit., 396-398. È significativo il passo di Quint. 2.17.27.

5 Rectius, su chi afferma qualcosa in giudizio; cfr. nota seguente.

6 Qui si semplifica il tema – complesso e discusso – dell’onere della prova, per cui si rinvia, per tutti, a l. de Sarlo, ‘Ei incumbit probatio qui dicit, non qui negat’, in AG., 1935, 114, 3 ss. estr.; e. levy, Beweislast im klassischen Recht, in Iura, 1952, 3, 155 ss.; M. kaSer, Beweislast und Vermutung im römischen Formu- larprozess, in ZSS, 1954, 71, 221 ss.; G. lonGo, ‘Onus probandi’, in AG., 1955, 149, 61 ss.; G. puGlieSe, L’onere della prova nel processo romano “per formulas”, in RIDA, 1956, 3a ser., 3, 349-422, ora in Scritti giuridici scelti I. Diritto Romano, Napoli, 1985, 179-252; id., Per l’individuazione dell’onere della prova nel processo romano ‘per formulas’, in Studi in onore di G.M. De Francesco, I, Milano, 1957, 533 ss., ora in Scritti giuridici scelti I., cit., 177 ss.; G. lonGo, Nuovi contributi in tema di ‘onus probandi’, in Iura, 1957, 8, 43 ss.; G. puGlieSe, Regole e direttive sull’onere della prova nel processo romano ‘per formulas’, in Scritti giuridici in me- moria di P. Calamandrei, Padova, 1958, 579 ss.; G. lonGo, L’onere della prova nel processo civile romano, in Iura, 1960, 11, 149 ss.; v. GiuFFrè, ‘Necessitas probandi’. Tecniche processuali e orientamenti teorici, Napoli, 1984; CorteSe, L’onere della prova, cit., 393-430.

7 Si vedano per tutti GiuFFrè, ‘Necessitas probandi’, cit., 178 e CorteSe, L’onere della prova, cit., 403.

8 Al giudice privato era infatti rimessa la facoltà di stabilire l’andamento e l’ordine delle attività processuali relative alla fase apud iudicem, come fissare la data e il numero delle udienze istruttorie, pronunciare interlocutiones, attenersi alle argomentazioni logiche e alle considerazioni morali quando erano carenti le prove, nonché giurare il sibi non liquere, ovvero ‘il fatto che la causa non gli fosse chiara’; in tale ipotesi il giudice veniva manlevato dall’incarico e, al suo posto, ne veniva nominato un altro; in relazione al potere discrezionale del giudice ed al tipo di ragionamenti e valutazioni che questi possa svolgere nella seconda fase di giudizio, si ritiene emblematica la testimonianza di Gellio (14.2), così come risulta fondamentale la ricostruzione di puGlieSe, L’onere della prova, cit., 233-234, che, in proposito, considera il lungo passo tratto dalle Notti Attiche “la più sicura attestazione della discrezionalità del iudex privatus”. Sul punto riflette però CorteSe, L’onere della prova, cit., 399: “non è del tutto chiaro [...] se tali notizie possano essere considerate indicative dell’attività del giudice in generale o se riguardino, invece, il solo Aulo Gellio, personaggio certamente di raffinata cultura ed elevata statura morale; non a caso le letture avanzate dalla dottrina di alcuni passaggi dell’opera sono per certi versi del tutto contrastanti”.

9 puGlieSe, L’onere della prova, cit., 242; sul punto si veda anche CorteSe, L’onere della prova, cit., 398-399.

10 La formula si può ritenere una “esposizione schematica del giudizio” (Fa- SCione, Storia del diritto privato romano, cit., 190), che riassume l’intera vicenda sostanziale e la traduce in linguaggio processuale; essa si costituisce nella fase in iure, per effetto della discussione che le parti conducono davanti al magistrato giusdicente; la formula ha una struttura sintattica ben definita, espressa con un periodo ipotetico in cui la protasi è costituita dalla pretesa dell’attore – che sarà oggetto di accertamento giudiziale – e l’apodosi esprime la conseguenza dell’ac- certamento della protasi (della pretesa attorea) e si tradurrà in una condanna o una assoluzione del convenuto. Mettiamo il caso che Tizio debba a Caio cento sesterzi; dopo la discussione che avverrà davanti al pretore, verrà assemblata una formula che traduce la situazione sostanziale in criteri direttivi processuali: se risulta che Tizio debba dare a Caio cento sesterzi, il giudice condanni Tizio a dare a Caio cento sesterzi. Se non risulta assolva. Con queste direttive, schematizzate in formula nella fase in iure, le parti si recavano presso il giudice privato, dinnanzi al quale avveniva l’istruttoria e, nel caso fittizio in esame, Caio avrebbe dovuto dimostrare l’esistenza del proprio credito nei confronti di Tizio; assolto l’onere probatorio, al giudice, persuaso della fondatezza della pretesa dell’attore, non restava altro che condannare il convenuto al quantum dedotto nella formula e, dunque, al pagamento di cento sesterzi. Mi si consenta qui questa evidente sem- plificazione, finalizzata a bilanciare l’esigenza di una economia dell’esposizione con la necessità di aver ben chiara la struttura base del procedimento per formu- las. Per una trattazione istituzionale si rinvia senz’altro a FaSCione, Storia del dirit- to privato romano, cit., 187 ss.; lovato, puliatti, Solidoro, Diritto privato romano, cit., 66 ss.; essenziali sono G. puGlieSe, Il processo civile romano. II. Il processo formulare, Milano, 1963; Cannata, Profilo istituzionale, cit., 69-86; si veda anche M.l. biCCari, Dalla pretesa giudiziale alla narratio retorica (e viceversa). Spunti di riflessione sulla formazione dell’avvocato romano e la sua azione, Torino, 2017, in particolare 121-210 con fonti e bibliografia.

11 D. 22.3.2, Paul. 69 ad ed.

12 Cfr. kaSer, Beweislast, cit., 226; puGlieSe, L’onere della prova, cit., 186; si vedano D. 22.3.18 pr., Ulp. 6 disp. e D. 37.10.6.6, Paul. 41 ad ed.

13 puGlieSe, L’onere della prova, cit., 219, ove l’Autore si riferisce a D. 22.3.2, Paul. 69 ad ed.

14 puGlieSe, L’onere della prova, cit., 221; ma si veda anche Cannata, Profilo istituzionale, cit., 181-186.

15 Sull’istituto si vedano ad es. puGlieSe, Il processo formulare, cit., 370 ss. e Cannata, Profilo istituzionale, cit., 136-137.

16 Sul punto si veda Cannata, Profilo istituzionale, cit., 137-139. Probabil- mente, dal sistema della ductio, che consisteva nella conduzione forzata del convenuto davanti al magistrato, si passa alla predisposizione di un vindex, un garante che prometteva la comparizione del convenuto davanti al praetor ad una data stabilita; si afferma poi, con maggiore frequenza, il vadimonium extraiudi- ciale, che consisteva nel promettere personalmente, da parte del convenuto, la propria futura comparizione in giudizio, in un giorno prestabilito, mediante una stipulatio condizionata, ossia con una promessa di pagamento di una somma di denaro subordinata al caso in cui il convenuto non fosse poi comparso in giudi- zio; sono qui sufficienti questi cenni istituzionali; si rinvia comunque a lovato, puliatti, Solidoro, Diritto privato romano, cit., 66-67. Cicerone (pro Quinct. 5.22), attesta l’impiego del vadimonium stragiudiziale: [...] Itaque ex eo tempore res esse in vadimonium coepit. Cum vadimonia saepe dilata essent et cum aliquantum tempo- ris in ea re esset consumptum neque quicquam profectum esset, venit ad vadimonium Naevius; trad.: “così, fin da quel tempo, cominciarono a sussistere ingiunzioni ed impegni a comparire in tribunale. Essendo stati spesso differiti tali vadimonia, essendosi perso in queste discussioni parecchio tempo e non essendosi risolto nulla, Nevio si presentò in tribunale”. L’arpinate riferisce anche (6.23) di vadi- monia giudiziali, necessari nel caso – frequente – in cui la causa necessitasse di ulteriori udienze, in relazione alle quali, il convenuto si impegnava nuovamente a comparire, con ulteriori promesse condizionate: [...] hic cum rem Gallicanam cuperet revisere, hominem in praesentia non vadatur; ita sine vadimonio disceditur. Deinde Romae dies XXX fere Quinctius commoratur; cum ceteris quae habebat vadi- monia differt ut expeditus in Galliam proficisci posset; proficiscitur; trad.: “volendo riesaminare la questione della Gallia, costui, per il momento, non intende ef- fettuare il vadimonium. Si esce così (dal Tribunale) senza vadimonium. Quindi Quinzio rimane a Roma circa trenta giorni; differisce i vadimonia che aveva in corso con altri, in modo da poter partire per la Gallia velocemente; così parte”.

17 Cfr. M. ZabloCka, La costituzione del “cognitor” nel processo romano classico, in Index, 1983-1984, 12, 145; i. buti, Il “praetor” e le formalità introduttive del processo formulare, Napoli, 1984, 203 nt. 52.

18 Fonte prescrittiva del dovere di editio tanto con riferimento all’azione processuale, quanto con riguardo al materiale probatorio; nello stesso titolo ri- scontriamo l’esistenza di un editto speciale, rivolto ai banchieri, tenuti al dovere di esibizione del contenuto dei libri bancari nei confronti dei loro clienti; D. 2.13.4 pr., Ulp. 4 ad ed. Si veda per tutti a. FernandeZ barreiro, Los principios “dispositivo” e “inquisitivo” en el proceso romano, in SDHI, 1975, 41, 125-158, in particolare 126 ss.

19 Qua quisque actione agere volet, eam edere debet: nam aequissimum videtur eum qui acturus est edere actionem, ut proinde sciat reus, utrum cedere an contendere ultra debeat, et, si contendendum putat, veniat instructus ad agendum cognita actione qua conveniatur; sul passo si vedano puGlieSe, Il processo formulare, cit., 354 ss.; a. biSCardi, Lezioni sul processo romano antico e classico, Torino, 1968, 302; a. FernandeZ barreiro, La previa información del adversario en el proceso privado ro- mano, Pamplona, 1969, 35 ss.; Cannata, Profilo istituzionale, cit., 139-142; buti, Il “praetor”, cit., 203 ss.; M. kaSer, k. haCkl, Das Römische Zivilprozessrecht, 2a ed., München, 1996, 220 nt. 1; S. SCiortino, Denegare iudicium e denegare actio- nem, in AUPA, 58, 2015, 197-238, in particolare 206, con bibliografia nt. 29.

20 D. 2.13.1.3, Ulp. 4 ad ed.: edenda sunt omnia, quae quis apud iudicem edi- turus est: non tamen ut et instrumenta, quibus quis usurus non est, compellatur edere. 21 Traduco liberamente ma comunque in modo fedele rispetto a quanto affermato da Ulpiano; Cannata (Profilo istituzionale, cit., 141-142) ricorda che, anche quando l’attore agiva per ottenere solo una parte della somma che gli spettava in forza di una stipulatio, doveva produrre l’intera stipulazione; cfr. D.2.13.1.4, Ulp. 4 ad ed.

22 FernandeZ barreiro, Los principios “dispositivo” e “inquisitivo”, cit., 126.

23 D. 1.2.2.10, Pomp. l.s. ench.

24 D. 2.13.1.1, Ulp. 4 ad ed.: edere est etiam copiam describendi facere: vel in

libello complecti et dare: vel dictare. Eum quoque edere Labeo ait, qui producat ad- versarium suum ad album et demonstret quod dictaturus est vel id dicendo, quo uti velit; trad.: “edere significa anche dare la possibilità di trascrivere o di includere nel libello e consegnarlo, oppure dettare. Labeone dice che per edere si intende inoltre l’atto con cui taluno conduce il suo avversario all’albo e gli indica quello che gli detterà, o gli dichiara l’azione della quale intende far uso”; cfr. per tutti Cannata, Profilo istituzionale, cit., 139-142; d. Mantovani, L’editto come codice e da altri punti di vista, in “La codificazione del diritto dall’antico al moderno”. Incon- tri di studio, Napoli, gennaio-novembre 1996. Atti, Napoli, 1998, 129-178, in particolare 158.

25 Gai. 4.57: facilius enim reis praetor succurrit quam actoribus: il pretore viene più facilmente incontro ai convenuti che agli attori; si vedano M. wlaSSak, Die klassische Prozessformel, I, 5. Ber. Ak. Wien, 202, 3, 1924, 105 ss.; FernandeZ barreiro, Los principios “dispositivo” e “inquisitivo”, cit., 127.

26 D. 12.1.21, Iul. 48 dig.: [...] cum ad officium eius [praetoris] pertineat lites deminuere; trad.: “dal momento che rientra tra i doveri del pretore diminuire le controversie”.

27 FernandeZ barreiro, Los principios “dispositivo” e “inquisitivo”, cit., 129; l’Au- tore in particolare si riferisce a D. 2.13.1.3, Ulp. 4 ad ed. Si veda anche id., La previa información, cit., 72 ss.; stando a Cannata (Profilo istituzionale, cit., 141), con riferimento alla pretesa in giudizio di diritti relativi, l’attore consegnava al convenuto una copia dei documenti che sarebbero stati prodotti in giudizio, laddove degli stessi ne fosse esistito un unico esemplare, senza che la medesima dovesse indicare la data del documento originale (D. 2.13.1.2, Ulp. 4 ad ed., salvo che non si trattasse di un estratto dei libri contabili), o la firma dell’attore (D. 2.13.11, Mod. 3 reg.).

28 FernandeZ barreiro, Los principios “dispositivo” e “inquisitivo”, cit., 127-128.

29 Così FernandeZ barreiro, Los principios “dispositivo” e “inquisitivo”, cit., 131

e nt. 18; più cauto Cannata (Profilo istituzionale, cit., 142 e nt. 12), il quale desu- me la sanzionabilità da D. 2.13.1.5, Ulp. 4 ad ed., ove si esplicitano le “cause di giustificazione” per l’omessa produzione: il pretore apprestava rimedi a coloro che, per età, per rusticità, per sesso, o per altra giusta causa, per errore non produssero i documenti.

30 Gai. 4.53; la pluris petitio re si verificava nel caso in cui la richiesta dell’at- tore risultasse superiore rispetto a quanto gli fosse effettivamente dovuto; basti per ora il cenno istituzionale di lovato, puliatti, Solidoro, Diritto privato romano, cit., 88-89; per un approfondimento, si veda per tutti G. provera, La pluris pe- titio nel processo romano, I. La procedura formulare, Torino, 1958; G. SaCConi, La “pluris petitio” nel processo formulare. Contributo allo studio dell’oggetto del proces- so, Milano, 1977; Cannata, Profilo istituzionale, cit., 144-145; sotto una diversa prospettiva, t. dalla MaSSara, La domanda parziale nel processo civile romano, Padova, 2005.

31 Cfr. FaSCione, Storia del diritto privato romano, cit., 216.

32 Gai. 4.48. Più precisamente, l’attore poteva ottenere la restituzione della res solo indirettamente, qualora il convenuto avesse volontariamente provve- duto dietro invito del giudice e prima della sentenza di condanna. Il giudice privato, accertata la fondatezza della pretesa attorea, invitava infatti il convenu- to alla restituzione; se questa era divenuta impossibile per causa imputabile al convenuto, o se il convenuto si rifiutava di restituire, l’attore, sotto giuramento, determinava l’ammontare del valore della res, al pagamento del quale il giudice poi condannava il convenuto. È qui sufficiente questo cenno istituzionale; si rin- via per tutti a FaSCione, Storia del diritto privato romano, cit., 207-208; G. niCoSia, Profili istituzionali di diritto privato romano, Catania, 2017, 135.

33 Artt. 36, 167 e 418 c.p.c.

34 Si veda Cannata, Profilo istituzionale, cit., 143.

35 Gai. 4.30.

36 Affermazione che meriterebbe un approfondimento, atteso che, talora, il praetor poteva denegare actionem, in limine litis, anche per questioni di merito. Sul punto si veda G. puGlieSe, Actio e diritto subiettivo, Milano, 1939, 159 nt. 2; a. Metro, La “denegatio actionis”, Milano, 1972, 156 ss.

37 D. 50.17.102.1, Ulp. 1 ad ed.: eius est actionem denegare, qui possit et dare; trad.: “a colui che può anche concedere l’azione spetta il potere di negarla”.

38 Cfr. Cannata, Profilo istituzionale, cit., 144.

39 Sul tema, rinvio, per tutti, al cenno istituzionale di lovato, puliatti, So-

lidoro, Diritto privato romano, cit., 71 ed a S. SCiortino, “Denegare actionem”, decretum e intercessio, in AUPA, 2012, 55, 659-703.

40 Metro, La “denegatio actionis”, cit., 79 ss., ove l’Autore si occupa anche del rapporto tra denegatio actionis ed exceptio.

41 Si veda ad esempio D. 45.1.97.2, Cels. 26 dig.: “Si tibi nupsero, decem dari spondes?” causa cognita denegandam actionem puto, nec raro probabilis causa eiu- smodi stipulationis est. Item si vir a muliere eo modo non in dotem stipulatus est; trad.: “‘Se ti sposerò prometti di darmi dieci?’ Ritengo che, previa causae cogni- tio, l’azione non debba essere concessa, e neppure in un raro caso il motivo di tale stipulazione è apprezzabile. Lo stesso valga nell’ipotesi in cui un uomo si sia fatto promettere da una donna non a titolo di dote”. Sulla fonte si vedano p. voCi, Le obbligazioni romane. (Corso di pandette). Il contenuto dell’obligatio, I.1, Milano, 1969, 174; Metro, La “denegatio actionis”, cit., 97; G. SaCConi, Ricerche sulla stipulatio, Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino, Napoli, 1989, 135-136; r. aStolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova,1994, 46-50; id., Esegesi e traduzione di D. 45,1,97,2, in ZSS, 1994, 111, 444 ss.; a.S. SCarCella, Libertà matrimoniale e stipulatio poenae, in SDHI, 2000, 66, 147-164, in particolare 151 e nt. 17; r. aStolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Padova, 2014, 54-55; p. Ferretti, Le forme costrittive della libertà matrimoniale tra mos e ius, in AUPA, 2018, 61, 97-122, in particolare 104-105 nt. 25; per un’analisi più specifica della fonte si veda di seguito, nel prosieguo della disamina, ove si propone un’altra ipotesi di resa del testo.

42 Si rinvia a G. puGlieSe, s.v. Cognitio, in NNDI, 3, Torino, 1964, 430-435; l’osservazione mi sembra compatibile anche con la ricostruzione di Metro (La “denegatio actionis”, cit., 76-83), per cui il pretore, in via alternativa, concedeva il iudicium che conteneva una exceptio, oppure quest’ultimo non concedeva l’a- zione all’attore. Tuttavia, dal momento che l’exceptio veniva richiesta dal conve- nuto, poteva accadere che questi ne facesse istanza ed il magistrato, dopo aver meditato su tutti gli elementi a disposizione, compresa la richiesta dell’exceptio stessa, decidesse di non concedere il giudizio, anche – e forse soprattutto in questo caso – causa cognita.

43 kaSer, haCkl, Das Römische Zivilprozessrecht, cit., 288 s.; si veda SCiortino, Denegare iudicium, cit., 208: “crediamo che le espressioni denegare (non dare) actionem ovvero denegare iudicium siano impiegate nelle fonti giuridiche in modo tecnico: viene impiegata la locuzione denegare iudicium in contesti incompatibili con la concessione di un programma di giudizio munito di exceptio; compare la locuzione denegare actionem allorquando il magistrato veniva posto di fronte ad una alternativa: rifiutare la concessione dell’azione ovvero concedere un pro- gramma di giudizio munito di exceptio”.

44 Cfr. buti, Il “praetor”, cit., 100.

45 Che avvenne, per volere di Adriano, intorno al 130 d.C., ad opera del

giurista Salvio Giuliano; cfr. per tutti G. Giliberti, Elementi di storia del diritto ro- mano, 2a ed., Torino, 1997, 168; p. CeraMi, M. MiCeli, Storicità del diritto. Strutture costituzionali, fonti, codici. Prospettive romane e moderne, Torino, 2018, 446-447.

46 Si vedano le osservazioni di F. wieaCker (Römische Rechtsgeschichte 1, München, 1988, 468): “In der frühen Kaiserzeit wurde das Edikt nur mehr ihm Detail fortgebildet” e di G. Gallo, L’officium del pretore nella produzione e applica- zione del diritto, Torino, 1997, 38: la “reiterata pubblicazione nell’albo pretorio non rientrava nell’arbitrio dei magistrati che si succedevano nella carica, bensì nel loro officium”; considerazioni ben evidenziate nella ricostruzione di Manto- vani (L’editto come codice, cit., 159 e nt. 87), quando l’Autore osserva che, forse già dall’ultimo secolo della fase repubblicana, il testo dell’editto era divenuto stabile, e quindi già prima del Principato di Adriano. È plausibile ritenere che ad una stabilità del testo corrispondesse una maggiore conformità tra le linee programmatiche della fonte ed i concreti provvedimenti giurisdizionali del pre- tore, a scapito della sua piena discrezionalità, sulla base della quale il magistrato giusdicente avrebbe potuto discostarsi dalle promesse edittali; tra i risvolti pro- cessuali del fenomeno si può registrare il consolidamento dell’accertamento in iudicio di una exceptio, contrapposto alla denegatio actionis per questioni di meri- to, a fondamento della quale, sovente, sta un’ampia discrezionalità del pretore.

47 Si vedano Metro, La “denegatio actionis”, cit., 77 e SCiortino, Denegare iu- dicium, cit., 208 e nt. 40.

48 Le fonti e la letteratura in materia di fidanzamento sono sterminate; cfr. bibliografia in l. inGallina, Vincoli potestativi, libertà matrimoniale e responsabilità nel fidanzamento romano, in l’Osservatorio sul diritto di famiglia, a.n. 2, f. 3, settem- bre-dicembre 2018, 2019, 113-119, in particolare 113 nt. 1, a cui adde Ferretti, Le forme costrittive, cit., 97-122 e r. aStolFi, Il matrimonio nel diritto della Roma preclassica, Napoli, 2018, 125-138.

49 Sulla figura di Celso si vedano per tutti v. SCarano uSSani, Valori e storia nella cultura giuridica fra Nerva e Adriano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli, 1979, 101 ss.; p. CeraMi, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali e implicazioni metodologiche. 1. L’interpretazione degli atti autoritativi, in AUPA, 1985, 38, 5-250; F. Gallo, Sulla definizione celsina del diritto, in SDHI, 1987, 53, 7 ss.; v. SCarano uSSani, Empiria e dogmi. La scuola proculiana fra Nerva e Adriano, Torino, 1989; a. SChiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino, 1994; Giliberti, Elementi di storia del diritto romano, cit., 264-265; a. Cenderelli, b. biSCotti, Pro- duzione e scienza del diritto: storia di un metodo, Torino, 2005, 220-223; CeraMi, MiCeli, Storicità del diritto, cit., 33-34; aa.vv., Pensiero giuridico occidentale e giuri- sti romani. Eredità e genealogie, a cura di P. bonin, N. hakiM, F. naSti, A. SChiavone, Torino, 2019, 15, 17-18, 130.

50 “Si tibi nupsero, decem dari spondes?” causa cognita denegandam actionem puto, nec raro probabilis causa eiusmodi stipulationis est. Item si vir a muliere eo modo non in dotem stipulatus est.

51 Così aStolFi (Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 46 nt. 84) rende l’e- spressione nec raro probabilis causa eiusmodi stipulationis est.

52 Ovvero una promessa di pagamento rivolta da un promissor ad uno stipu- lator, a cui è stato apposto un elemento accidentale.

53 È significativo un frammento tratto dal commento di Ulpiano a Sabino, D. 23.3.21, Ulp. 35 ad Sab.: stipulationem, quae propter causam dotis fiat, constat habere in se condicionem hanc “si nuptiae fuerint secutae”, et ita demum ex ea agi pos- se (quamvis non sit expressa condicio), si nuptiae, constat: quare si nuntius remittatur, defecisse condicio stipulationis videtur; trad.: “è chiaro che la promessa in forma di stipulatio, fatta a causa di dote, contiene dentro di sé questa condizione ‘se ne fossero seguite le nozze’, ed è chiaro come si possa agire soltanto così, in base ad essa, sebbene la condizione non sia esplicitamente espressa; di conseguenza se le nozze poi non avvengono, si ritiene che sia venuta a mancare la condizione della stipulazione”. In questo caso dunque la stipulatio sarebbe perfettamente lecita; si tratta della promessa formale e solenne avente ad oggetto proprio la costituzione della dote subordinata alla celebrazione del matrimonio.

54 Si veda la ricostruzione di aStolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 46-49.

55 C.a. Cannata, Corso di istituzioni di diritto romano. II,1, Torino, 2003, 240.

56 D. 12.6.16 pr., Pomp. 15 ad Sab.: sub condicione debitum per errorem solu-

tum pendente quidem condicione repetitur, condicione autem exsistente repeti non po- test; trad. “quanto è stato pagato per errore, per estinguere un debito sottoposto a condizione può essere richiesto indietro sino a che pende la condizione, ma non può essere richiesto indietro allorché la condizione si sia avverata”; cfr. Cannata, Corso di istituzioni, II.1, cit., 244.

57 Cito quasi testualmente da Cannata, Corso di istituzioni, II.1, cit., 249.

58 I. 3.15.4: [...] ex condicionali stipulatione tantum spes est debitum iri [...]; cfr.

Cannata, Corso di istituzioni, II.1, cit., 249.

59 Ipotizziamone la formulazione: se non mi sposerai, prometti di darmi cento? Oppure, prometti di darmi cento se tua figlia Mevia non sposerà mio figlio Sempronio? In questo caso la condizione, il cui avveramento interessa lo stipulator, dipende dal comportamento di chi promette o del suo sottoposto; ma anche nel caso in cui il matrimonio non avvenisse per causa imputabile al sottoposto la responsa- bilità ricadrebbe in ogni caso sul promittente, ossia sul di lui pater.

60 Così, efficacemente, si esprime Cannata, Corso di istituzioni, II.1, cit., 255-256.

61 D. 45.1.134 pr., Paul. 15 resp., che riporto direttamente nella traduzione di aStolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 43: “Tizia, che aveva avuto un figlio da un altro, sposa Gaio Seio, padre di una figlia, e al momento del matri- monio convennero di fidanzare la figlia di Gaio Seio con il figlio di Tizia e fu redatto un documento e stabilita una penale, nel caso che uno di loro si fosse op- posto alle nozze. Poi Gaio Seio, durante il matrimonio morì e sua figlia non volle più sposare. Chiedo se gli eredi di Gaio Seio debbano essere tenuti responsabili a causa della stipulazione. Rispose che si doveva opporre l’eccezione di dolo a chi agiva in forza della stipulazione riferita, poiché essa era contraria alla morale. Infatti fu reputata cosa riprovevole costringere con il vincolo di una pena i ma- trimoni da contrarre e già contratti”. Sulla fonte ex multis: voCi, Le obbligazioni romane, cit., 170-175; SaCConi, Ricerche sulla stipulatio, cit., 136-138; aStolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 43-45; SCarCella, Libertà matrimoniale, cit., 152-153 nt. 18; u. bartoCCi, ‘Spondebatur pecunia aut filia’. Funzione ed efficacia arcaica del dicere spondeo, Torino, 2012, 56 e 65-66; aStolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 53 e nt. 83; Ferretti, Le forme costrittive, cit., 105-107.

62 Eccezione richiesta dal convenuto ed inserita nel testo della formula in periodo ipotetico, dietro concessione del pretore.

63 La dottrina discute sulla riproponibilità di una causa conclusasi con una denegatio actionis, ma in un caso come quello descritto da Celso, l’eventuale ripro- posizione avrebbe analogamente esitato in un’ulteriore denegatio actionis, atteso che il quadro fornito al magistrato sarebbe stato il medesimo; al massimo potrem- mo solo ipotizzare che un eventuale nuovo magistrato, succeduto al precedente, avrebbe potuto ritenere necessaria un’ulteriore valutazione da parte del giudice istruttore, da compiersi quindi nella seconda fase del giudizio; accertata la fonda- tezza delle eventuali eccezioni del convenuto, il giudice privato lo avrebbe assolto in modo definitivo, questa volta senza possibilità che il giudizio venisse ripetuto.

64 Le obbligazioni romane, cit., 171.

65 voCi, Le obbligazioni romane, cit., 173; anche aStolFi (Il fidanzamento nel

diritto romano, cit., 46-47) riflette sul negozio e sulla possibilità di classificarlo come stipulazione con scopo illecito, mentre SaCConi (Ricerche sulla stipulatio, cit., 136), si esprime in termini di “stipulazione sottoposta a condizione illeci- ta”; sulla classificazione del tipo di stipulatio si veda anche Metro, La “denegatio actionis”, cit., 97.

66 Cfr. anche Ferretti, Le forme costrittive, cit., 104 nt. 25; e, già prima, SCar- Cella, Libertà matrimoniale, cit., 151, nt. 16.

67 Rectius, la “concessione” dell’azione processuale.

68 Come si può evincere dal frammento di Paolo, D. 45.1.134 pr., Paul. 15 resp. 69 Le obbligazioni romane, cit., 171 e 173.

70 Così aStolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 48 e, poi, SCarCella,

Libertà matrimoniale, cit., 151 nt. 17.

71 In questo caso presumibilmente una donna; l’esemplificazione di Celso si

conclude infatti con una seconda ipotesi: che sia un uomo a farsi promettere del denaro da una donna e non a titolo di dote, a contrario si deduce che l’esempio che apre il frammento del giurista riguardi il caso di una donna che si fa promet- tere del denaro da un uomo per l’ipotesi in cui essa decida di sposarlo.

72 Cfr. ad es. aStolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 46 e SCarCella, Libertà matrimoniale, cit., 151 nt. 17.

73 SCiortino, Denegare iudicium, cit., 236.

74 Un’eccezione di dolo. Come accennato, molto tempo dopo, per un caso

di stipulazione penale sottoposta a condizione illecita, il giurista Paolo (D. 45.1.134 pr., Paul. 15 resp.) suggerì l’inserimento dell’exceptio doli, con la possi- bile conseguenza che la causa sarebbe stata trattata nella fase istruttoria con pos- sibile esito definitivamente assolutorio per il convenuto; fatto salvo ovviamente il caso in cui il magistrato non avesse ritenuto di denegare iudicium, dopo aver comunque meditato anche sulla richiesta di exceptio doli.

75 In questo caso è effettivamente più corretto parlare di denegatio iudicii, da intendersi quale “rifiuto di concedere il programma di giudizio in base al quale si sarebbe formato il giudizio del giudice”, così, efficacemente, SCiortino, Denegare iudicium, cit., 234; si rinvia anche a puGlieSe, s.v. Cognitio, cit., 430-435.

76 Cfr. ad es. Metro, La “denegatio actionis”, cit., 172 s. e SCiortino, Denegare iudicium, cit., 210, ove l’Autore dà conto anche (210, nt. 46) della bibliografia a sostegno dell’effetto preclusivo della denegatio actionis.

77 Così ad es. M. talaManCa, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 329, nella ricostruzione di SCiortino, Denegare iudicium, cit., 210-211 e nt. 48; sulla riproponibilità dell’azione denegata si rinvia anche a id., “Denegare actionem”, cit., 673.