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Art. 614-bis c.p.c. e diritto-dovere di visita del genitore non collocatario alla luce dei recenti sviluppi giurisprudenziali

autore: S. U. De Simone

Sommario: 1. Il revirement della Cassazione e l’ordinanza del Tribunale di Bari. - 2. Le motivazioni di un (inatteso) overruling. - 3. Un’innovazione che nasconde un “passo indietro”. - 4. Criticità e aporie di un “dovere” non coercibile. - 5. Le misure “sollecitatorie” nel diritto di famiglia. - 6. L’art. 614-bis c.p.c.: una novità assoluta? - 7. La difficile sintesi fra responsabilità e libertà



1. Il revirement della Cassazione e l’ordinanza del Tribunale di Bari L’occasione di riflessione in merito al rapporto fra l’istituto processuale dell’art. 614-bis c.p.c. (declinazione italiana delle astreintes francesi) e il diritto-dovere del genitore non collocatario di intrattenere rapporti con la prole e, in particolare, di esercitare il proprio diritto di “visita”, è legata ad una recente e già nota ordinanza della I Sezione Civile della S. Corte, pubblicata il 6 marzo scorso (Cass. n. 6471/2020), che ha sancito il seguente principio di diritto: “Il diritto-dovere di visita del figlio minore che spetta al genitore non collocatario non è suscettibile di coercizione neppure nella forma indiretta di cui all’art. 614-bis c.p.c. trattandosi di una potere-funzione che, non sussumibile negli obblighi la cui violazione integra, ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c., una ‘grave inadempienza’, è destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte che rispondono, anche, all’interesse superiore del minore ad una crescita sana ed equilibrata”.

Si tratta di un revirement di notevole entità che non ha mancato di suscitare vivaci reazioni, anche apertamente critiche, da parte dei primi commentatori perché oblitera, se non addirittura ribalta, la dimensione puerocentrica delle relazioni familiari così com’è stata delineata dalla legge 8 febbraio 2006 n. 54, che ha introdotto l’istituto dell’affido condiviso come regime “ordinario” ed ha posto il minore al centro dell’universo familiare quale “soggetto” e non più “oggetto” di diritti. Nell’ambito di tale animato dibattito, su alcuni siti specializzati si è dato rilievo anche a una recente ordinanza ex art. 4, comma 8, l. div., della I Sezione Civile del Tribunale di Bari (pubblicata il 30/05/2020, r.g. n. 1586/2020), coerente alla prassi di quella Sezione e definita di “interesse” “per l’applicazione dell’art. 614-bis c.p.c.… vieppiù in relazione alla recentissima Cass. civ. 6471/2020” (in tali termini cfr. la segnalazione di M. Lanzellotto, 20 giugno 2020, in Osservatoriofamiglia.it). La fattispecie oggetto d’esame in quest’ultima, invero, era evidentemente diversa da quella vagliata dalla Corte di Cassa zione, pur essendo entrambi i provvedimenti relativi al diritto di visita del genitore non collocatario e alla possibilità, in tali casi, di ricorrere allo strumento delle misure coercitive indirette ex art. 614-bis c.p.c. Questa, in sintesi, la vicenda sottoposta all’esame della S. Corte: la madre di un soggetto minore adiva il Tribunale di Chieti instaurando un giudizio ex art. 269 c.c., all’esito del quale, accertata la paternità, si imponevano al soggetto dichiarato padre “tempi e modalità” degli incontri con il minore che tuttavia il padre violava, innescando così un nuovo giudizio innanzi al Tribunale, che lo sanzionava ex art. 614-bis c.p.c., prevedendo, in particolare, un versamento alla madre del minore di € 100,00 per ogni futuro inadempimento all’obbligo di incontrare il figlio. Il provvedimento, reclamato, veniva confermato dalla Corte d’Appello con decreto oggetto del ricorso per Cassazione, poi esitato con la decisione pubblicata il 6 marzo 2020. Nel caso di specie, quindi, il padre aveva scelto di non esercitare il proprio diritto-dovere di incontrare il figlio e, a fronte di ciò, l’altro genitore agiva affinché lo stesso fosse “sollecitato” (o “indotto”: B. Ficcarelli, Misure coercitive) all’adempimento attraverso il sistema di versamenti successivi di cui all’art. 614-bis c.p.c. (una vera e propria “spada di Damocle”: B. Ficcarelli, L’esecuzione dei provvedimenti). Differente era il caso sottoposto all’esame del Tribunale di Bari: il padre si doleva infatti non di “dover” far visita alla prole, ma, al contrario, dell’impossibilità di esercitare pienamente il proprio ruolo genitoriale e di non poter incontrare e tenere con sé i suoi figli, lamentando una compressione del proprio “diritto”, in termini quindi esattamente antitetici all’ipotesi vagliata dalla Corte di legittimità.



2. Le motivazioni di un (inatteso) overruling

La radicale diversità dei due casi consente, nondimeno, di porre in rilievo uno dei passaggi della motivazione della S. Corte che la sintesi del principio di diritto non consente di apprezzare pienamente. Il diritto-dovere di visita del genitore non collocatario, rammenta la I Sezione della Corte di legittimità, è “posizione” giuridica dai “plurimi contenuti”, essendo, al contempo, un “diritto” e “un dovere” che si raccorda, in particolare, alla responsabilità ex art. 316 c.c., la quale deve essere esercitata “di comune accordo” dai due genitori e, alla stregua di un “munus pubblico”, ha una finalizzazione esterna, dovendo i genitori agire in modo da garantire “l’attuazione del diritto dei figli minorenni di essere mantenuti, educati, istruiti ed assistiti moralmente nel rispetto delle loro inclinazioni naturali ed aspirazioni”. Ribadita tale (condivisibile) distinzione, la Corte poi aggiunge che, in quanto “diritto, e quindi nella sua declinazione attiva”, la posizione del genitore non collocatario risulta “tutelabile rispetto alle violazioni ed inadempienze dell’altro genitore, su cui incombe il corrispondente obbligo di astenersi con le proprie condotte dal rendere più difficoltoso o dall’impedire l’esercizio dell’altrui diritto”, mentre, “in quanto dovere, e quindi nella sua declinazione passiva, resta invece fondata sulla autonoma e spontanea osservanza dell’interessato e, pur nell’assolta sua finalità di favorire la crescita equilibrata del figlio integrativa dell’indicato munus, non è esercitabile in via coattiva dall’altro genitore, in proprio o quale rappresentante legale del minore” (cfr. “Ragioni della decisione”, § 5, Cass. n. 6471/2020).

Lo snodo centrale della motivazione, poi approfondito in altri punti, si coglie proprio in questo ultimo passaggio: il “dovere” di visita, secondo la Cassazione, è fondato “sulla autonoma e spontanea osservanza dell’interessato”, “è espressione della capacità di autodeterminazione del soggetto e deve, come tale, essere rimesso, nel suo esercizio, alla libera e consapevole scelta di colui che ne sia onerato”: in definitiva, si tratterebbe di un obbligo non “coercibile”, né ad iniziativa dell’altro genitore né dello stesso figlio minore, poiché ciò “urterebbe con la qualificazione adottata” e con la stessa “finalità di quel dovere”, teso a realizzare l’”interesse superiore del minore, inteso come crescita ispirata a canoni di equilibrio ed adeguatezza”. In ragione di tale osservazione, continua la Corte, l’art. 614- bis c.p.c. è inapplicabile al caso di specie in quanto:

1) non v’è alcun “provvedimento di condanna” cui ottemperare (art. 614-bis, co. 1, c.p.c.), considerando che il dovere di visita, pur potendo essere regolamentato nei tempi e nei modi, “non può mai costituire l’oggetto di una condanna ad un facere sia pure infungibile”;

2) il provvedimento di astreinte colliderebbe con “l’interesse del minore”, riducendo “un dovere essenziale del genitore nei suoi confronti”, di rilievo costituzionale (30 Cost.), a “una monetizzazione preventiva e [a] una conseguente grave banalizzazione”;

3) la misura coercitiva indiretta non potrebbe poi fondarsi sull’art. 709-ter c.p.c., in quanto quest’ultima norma prevede, nel solo contesto “di una rivalutazione delle condizioni di affidamento”, alcune “ipotesi di risarcimento a fronte di un danno già integrato dalla condotta di uno dei genitori” e non anche “una coercizione preventiva e indiretta di un dovere nel caso della sua inosservanza futura”, potendo il giudice adito, ma solo pro futuro, esclusivamente “ammonire il genitore inadempiente” (ex art. 709-ter c.p.c., co. 2, n. 1), c.p.c.).

La “non coercibilità”, conclude poi la Corte, non esclude che l’ordinamento preveda alcuni “effetti” a fronte del “mancato… esercizio” del diritto-dovere di visita, costituiti dall’”eccezionale applicazione dell’affidamento esclusivo in capo all’altro genitore (art. 316 c.c., comma 1)”, dai provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., dall’eventuale responsabilità penale ex art. 570 c.p. (cfr. “Ragioni della decisione”, §§ 5 e 7-8, Cass. n. 6471/2020).



3. Un’innovazione che nasconde un “passo indietro”



La pronuncia della Corte, sottoposta a serrata critica da diversi Autori, è stata invece condivisa, pur senza particolari approfondimenti, da alcuni commentatori (A. Di Lallo; M.L. Pesando; G. Vassallo; R. Trezza; più articolata l’analisi di F. Pirozzi). Anche fra le voci favorevoli all’arresto della Corte, peraltro, si è osservato che il principio di diritto enunciato (nel quale si afferma, come visto, l’inapplicabilità tout court delle misure ex art. 614-bis c.p.c. nel caso di diritto-dovere di visita del genitore non collocatario) debba essere temperato sulla base dello stesso apparato motivazionale di Cass. n. 6471/2020, che ricorda che la posizione del non collocatario è “tutelabile rispetto alle violazioni ed inadempienze dell’altro genitore” (cfr. ancora “Ragioni della decisione”, § 5). E infatti, se tale posizione rimane pienamente “tutelabile”, si deve concludere che “in materia di diritto di visita […] l’articolo 614-bis c.p.c. è comunque utile ed è applicabile” nelle ipo tesi, non dissimili da quelle affrontate nella citata ordinanza del 30 maggio 2020 della I Sezione del Tribunale di Bari, in cui “non si tratti di sanzionare indirettamente il mancato esercizio di questo diritto-dovere, quali che ne siano le ragioni, bensì al contrario di favorire la rimozione degli ostacoli che venissero posti illegittimamente dal genitore collocatario rispetto all’esercizio del diritto-dovere. In questi casi, infatti, a venire sanzionato è un comportamento che già è stato considerato preventivamente nell’interesse del minore, e quindi la situazione è ben diversa” (M. Fiorini). Un principio di diritto più elaborato, più aderente alla motivazione e, in definitiva, più circoscritto e meno assertivo avrebbe, allora, agevolato il futuro distinguishing; tecnica (o “arte”: R. Rordorf) che, come noto, pur senza “eliminare il precedente”, valorizza “le inevitabili differenze di fatto” per sostenere che la decisione invocata “non è precedente nel nuovo caso di specie” (U. Mattei). Al di là del (poco condivisibile) dictum conclusivo, però, è l’intero apparato motivazionale dell’ordinanza qui in commento a risultare non convincente, rischiando di segnare un vero e proprio “passo indietro” della “giurisprudenza” (M. Finocchiaro). Guardando agli effetti di tale pronuncia rispetto al minore, infatti, non può non osservarsi che le visite costituiscono, “principalmente”, “un diritto del figlio che deve essere adeguatamente tutelato” e che “lasciare ‘libero’ il genitore non collocatario di decidere se frequentare o meno i figli potrebbe risultare di pregiudizio per il diritto del minore, oltre che arrecare problemi all’altro genitore con oneri economici aggiuntivi a suo carico”, osservandosi che “è indiscutibile che non si può obbligare fisicamente il genitore non collocatario a vedere i figli” e che quindi “si dovrebbe comunque ricercare un rimedio funzionale a indurre il genitore assenteista a ‘responsabilizzarsi’, tenuto conto che la mancanza di affetto implica sempre uno scompenso nella crescita di un minore”. E infatti, “il genitore che non esercita il diritto di visita viola… i diritti fondamentali dei figli, non contribuendo alla loro cura ed istruzione, aspetti fondamentali per il corretto sviluppo di una psiche che è ancora in formazione”, con un preciso vulnus, ritenuto suscettibile anche di risarcimento, per il c.d. danno da privazione genitoriale, riconosciuto da Trib. Lecce, Sez. I, 1 ottobre 2019, n. 3024; Trib. Roma, 19 maggio 2017 (P.S. Colombo). Su tale voce di danno, nonché, per ipotesi di “danno da mancate visite”, con responsabilità del genitore non collocatario verso i figli e verso l’altro genitore, si segnalano diverse pronunce, come:

– Trib. Roma, Sez. I civ., 13 settembre 2011, per il caso di una genitrice collocataria condannata ai sensi dell’art. 709-ter c.p.c. al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. nella misura di € 50.000 a favore dell’altro genitore, per avere ostacolato il suo diritto ad avere regolari rapporti con il figlio;

– Trib. Novara, 21 luglio 2011 (in Fam. dir., 2012, 6, 612 ss.), ove si afferma che la “condanna al risarcimento del danno nei confronti del minore del genitore inadempiente agli obblighi inerenti il diritto di visita” deve essere ricostruita “in termini di danno punitivo”, con la conseguenza che la valutazione del giudice prescinde dall’accertamento dell’effettiva sussistenza degli elementi richiesti dall’art. 2043 c.c. e deve essere improntata a criteri equitativi;

– Trib. Pavia, 23 ottobre 2009 (in Fam. dir., 2010, 149, con nota di A. Arceri).

Nella giurisprudenza di legittimità, poi, va segnalata una risalente pronuncia (v. Cass. civ., 8 febbraio 2000, n. 1365, in Giur. it., 2000, 1802, con nota di V. Corriero; in Dir. fam., 2000, 1036; in Guida dir., 2000, 8, 62; in Dir. giust., 2000, 6, 14; in Fam. dir., 2000, 576) nella quale la Cassazione afferma (al § 2.2. dei “Motivi della decisione”) che “l’esercizio della c.d. visita del non affidatario non è solo facoltà ma anche dovere”, verso il figlio e verso l’altro affidatario, quale “espressione della solidarietà negli oneri per i figli”. Seguendo le coordinate di Cass. n. 6471/2020, invece, “è lecito chiedersi cosa accada in caso di minori in tenera o tenerissima età nei cui confronti l’esercizio del potere-funzione di visita sia intermittente tanto da non integrare gli estremi di una totale assenza che possa incidere su profili di affidamento o sulla responsabilità genitoriale, ma con presumibile negativa incidenza dei diritti del figlio ad una crescita sana ed equilibrata sotto il profilo del suo corretto equilibrio psico-fisico”, osservando, conclusivamente, che “la ricostruzione odierna che la Cassazione fa del diritto-dovere di visita improntandolo alla più ampia libertà, pare scardinare anche un sistema che pareva ormai, sul punto, consolidato” (B. Ficcarelli, Misure coercitive). A ciò si è aggiunto che “la tesi prospettata [da Cass. n. 6471/2020] finisce per risolversi in un inaccettabile vuoto di tutela in tutte le ipotesi non coperte dal disposto dell’art. 709-ter, qual è appunto quella del genitore non convivente che rifiuti di frequentare il figlio minore”. La stessa Cass. 2020, infatti, riduce il perimetro di applicazione dell’art. 709-ter c.p.c. alle sole misure “a carattere repressivo” (inflitte a posteriori, per punire “pregresse condotte illecite”) e tale espressa reductio, in uno con l’espunzione dalla piattaforma rimediale dell’art. 614-bis c.p.c., fa sì che, seguendo la tesi della Corte, nulla sarebbe oggi previsto a fine dissuasivo ed ex ante, in radicale difformità con quanto previsto nell’ordinamento francese ove le astreintes sono state ideate, costituiscono un rimedio generale, e da sempre sono adoperate proprio “per l’attuazione dei provvedimenti relativi alla prole, anche con riguardo al diritto-dovere di visita”, conseguendo “elevati livelli di efficienza” (A. Di Bernardo). Nell’ordinamento d’oltralpe, in effetti, il problema dell’attuazione degli obblighi (in particolare di “consegna”) dei minori è affidato prevalentemente a tale istituto, oltre che a una tutela penale specifica nei confronti del genitore che ostacoli l’altrui esercizio del diritto di visita (art. 227-5 del Nouveau Code Pénal; fattispecie ritenuta peraltro applicabile anche a fronte dell’eventuale resistenza del minore, imponendo la Cour de Cassation un vero e proprio “obbligo” in capo al genitore tenuto a “consegnare il minore”, anche usando la propria autorità per vincere la resistenza del minore stesso – “si supera pertanto la concezione puramente passiva del reato (l’astenersi dalla consegna) e si punisce una vera ‘obligation par omission’. Ciò anche per sanzionare il comportamento dei genitori che incitano segretamente i figli alla resistenza”: B. Ficcarelli, L’esecuzione dei provvedimenti). V’è poi da chiedersi se un tale “sacrificio” rimediale (compressione che, se non un “passo indietro”, certo implica un decremento di tutela, una “perdita secca” in termini di effettività della risposta giurisdizionale) si rendesse veramente necessario; quesito che, com’è evidente, impone di esaminare le ragioni (processuali, sostanziali o di policy) innanzi sinteticamente compendiate, che secondo la Corte impedirebbero in quest’ambito l’operatività delle astreintes. Quanto al rischio che le misure ex art. 614-bis c.p.c. implichino per il minore “una monetizzazione preventiva e una conseguente grave banalizzazione di un dovere essenziale del genitore nei suoi confronti, come quello alla sua frequentazione” (cfr. “Ragioni della decisione”, § 8), non può sfuggire la debolezza di un siffatto argomento, richiamato dalla Corte senza particolari approfondimenti, quasi ad colorandum. A tal riguardo è sufficiente osservare che, a voler seguire fino in fondo le suggestioni della tesi della “monetizzazione banalizzante”, dovrebbero essere neutralizzate, con una reductio ad absurdum, anche le misure ex art. 709-ter c.p.c. – nelle quali si risarcisce o si punisce proprio la violazione dei doveri genitoriali –, ovvero, allargando la prospettiva, si dovrebbe espellere dall’ordinamento l’intero ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale in quanto, notoriamente, pretium doloris, essendo agevole osservare che “il contrasto tra non patrimonialità dell’obbligo originario e natura monetaria della sanzione conseguente alla violazione è un fenomeno piuttosto diffuso nell’ordinamento” (A. Di Bernardo), Al di là di tale irragionevole conseguenza, che svela l’aporia delle premesse, non si vede come la previsione delle astreintes potrebbe mortificare e addirittura “banalizzare” il rapporto genitori-figli: proprio in virtù del suo meccanismo, che si regge su una comminatoria solo eventuale, essa non è necessariamente destinata alla “monetizzazione”; al contrario, si è osservato che “se l’obbligato non viola la prescrizione, allora la astreinte non troverà applicazione; se invece l’obbligato cadrà nell’inadempimento, si avrà retrospettivamente la conferma che ben si è fatto a pronunciare l’astreinte” (A. Mondini; A. Ronco, che conclude, quindi, che sotto tale profilo l’applicazione delle astreintes “male non fa”). Sul piano strettamente processuale, poi, non persuade l’affermazione, perentoria e tranchant, secondo cui “il diritto (e il dovere) di visita costituisce una esplicazione della relazione fra il genitore e il figlio che può trovare regolamentazione nei suoi tempi e modi, ma che non può mai costituire l’oggetto di una condanna ad un facere sia pure infungibile” (§ 8 delle “Ragioni in diritto”). A tal proposito, la prevalente giurisprudenza (v. Corte App. Aquila, decr., 9 ottobre 2018), ha da tempo chiarito la portata del “provvedimento di condanna” ex art. 614-bis c.p.c., quale nozione che comprende “qualsiasi ordine o comando con cui il giudice individui una condotta dovuta” (A. Di Bernardo), ovvero “qualsiasi provvedimento che abbia un contenuto condannatorio”, potendosi ivi “includere tutti gli obblighi civili (inclusi quelli afferenti alla responsabilità genitoriale), salve le eccezioni espressamente dettate dalla norma” (S. Matteini Chiari; contra: Trib. Mantova, sez. I, decr. 12 luglio 2018, in Redaz. Giuffrè 2018, anche citata da G. Vassallo, ove si è ritenuto che i provvedimenti riguardo al regime di affidamento, alla regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale e alla determinazione dei tempi e delle modalità di presenza dei figli presso ciascun genitore, non comportano statuizioni di condanna a carico dell’uno o dell’altro genitore e non integrano quindi il presupposto di applicabilità delle astreintes). Al di là di quest’unico precedente di segno contrario, tuttavia, già sul piano letterale è chiaro che il “provvedimen to” di condanna (cui fa espresso riferimento l’incipit dell’art. 614-bis c.p.c.) include ogni possibile atto del giudice ex art. 131 c.p.c., non essendovi alcun dato positivo che consenta di restringere il perimetro di applicabilità delle astreintes (per la loro utilizzabilità anche nel caso di provvedimenti ex art. 700 c.p.c., ad es., v. Trib. Cagliari, 19 ottobre 2009, in Giur. merito, 2010, 2). Abbandonando le strettoie di un vuoto formalismo, al contrario, la giurisprudenza e la più attenta dottrina hanno da tempo concluso che è irrilevante che “i provvedimenti utilizzino il lemma ‘condanna’, ove comunque dispongano sull’affidamento e sulla consegna del minore da un genitore all’altro”, sottolineando che le misure ex art. 614-bis c.p.c. ben possono accedere a tutti i possibili provvedimenti del processo di famiglia, anche interinali (v. Trib. Roma, 10 maggio 2013, in Giur mer., 2013, 2100) e che, in particolare, “l’astreinte può essere disposta così in un decreto (quale quello ex art. 710 c.p.c. o quello ex art. 9 l. div.) come in un’ordinanza (quale quella presidenziale ex art. 708 c.p.c. o ex art. 4 l. div., quella adottata ex art. 333 c.c.…, quella emessa ex art. 709-ter, comma 2, n. 1, c.p.c.) come in una sentenza (di separazione o divorzio)” (A. Mondini). I provvedimenti che possono essere “assistiti” da sanzione ex art. 614-bis c.p.c., ad oggi, sono quindi tutti quelli in cui “si tratti di un ordine o comando con il quale il giudice delinei un comportamento dovuto” (A. Ronco), essendosi poi rilevato che l’udienza presidenziale potrebbe “essere la sede privilegiata per chiedere la pronuncia di questa misura coercitiva indiretta, giacché di solito è proprio questo il momento più delicato della separazione [o del divorzio], il momento di massimo conflitto ed attrito tra le parti, apparendo dunque logica l’adozione di un’ordinanza che, oltre a dettare i provvedimenti temporanei ed urgenti nell’interesse della prole, tenda a dissuadere il genitore obbligato rispetto a condotte ostruzionistiche” (A. Graziosi). Nel caso qui in esame, poi, non occorre alcuna forzatura interpretativa, essendo sufficiente osservare, già sulla scorta dell’esegesi letterale, che il “provvedimento” che consente e impone al genitore non collocatario di svolgere appieno il suo ruolo genitoriale, assumendone tutte le conseguenze, ha valore e forza di vera e propria “condanna”, imponendosi quale dictum al quale tutte le parti sono tenute ad ottemperare. Se così non fosse, il diritto del genitore non collocatario non sarebbe mai “tutelabile rispetto alle violazioni ed inadempienze dell’altro genitore” (come pure afferma la stessa pronuncia della S. Corte nel § 5 della “Ragioni della decisione”), in quanto, in assenza di una “condanna”, non si vede a quale titolo il figlio e il genitore non collocatario potrebbero pretendere l’osservanza dei tempi e dei modi di visita da parte dell’altro genitore né per quale ragione il genitore oppositivo e inadempiente potrebbe venire sanzionato, se a quest’ultimo non potesse imputarsi la violazione di un precetto giudiziale. Negando il presupposto della “condanna”, la Corte tratteggia quindi la relazione genitore-figlio nei termini di un rapporto fra due sfere di libertà, nelle quali entrambi i soggetti potrebbero agire come meglio ritengono, senza alcun vincolo giuridico, con una pronuncia che, in definitiva, sembra “voler riportare” il diritto di famiglia “a quel precedente sistema che vedeva la famiglia impermeabile o solo lambita dal diritto” (B. Ficcarelli, Misure coercitive).



4. Criticità e aporie di un “dovere” non coercibile



Fermo quanto già rilevato, è evidente che il profilo di maggior criticità dell’arresto qui in commento è la qualificazione della posizione soggettiva del genitore non collocatario. E infatti, ribadita la natura, composita e polivalente, di un diritto che è al contempo un dovere (come suggerisce l’espressione, apparentemente ossimorica, di “diritto-dovere”, richiamata dalla Corte ai §§ 3, 5, 8 e 11 delle “Ragioni della decisione”), gli ermellini scindono le componenti di tale posizione, frantumandone l’unitarietà, e affermano che meritevole di tutela è esclusivamente l’ipotesi in cui il genitore non collocatario voglia esercitare il proprio diritto di visita, incontrando e tenendo con sé il figlio minore, ed in ciò risulti ostacolato dal genitore collocatario. In tale fattispecie, infatti, il diritto di visita è “tutelabile rispetto alle violazioni ed inadempienze dell’altro genitore”, ribadendosi che “qualora la posizione del genitore non collocatario venga in rilievo in quanto portatrice del ‘diritto’ di visita del figlio minore, essa riceve tutela dal sistema rispetto alle condotte pregiudizievoli poste in atto dall’altro genitore che, di ostacolo all’esercizio dell’altrui diritto ed integrative di inadempimenti gravi, divengono ragione di risarcimenti e sanzioni secondo il sistema modulare e flessibile voluto dal legislatore all’art. 709-ter c.p.c.” (§§ 5 e 7 delle “Ragioni della decisione”). La Cassazione, tuttavia, precisa in un altro passaggio della motivazione che “deve ritenersi che i poteri di intervento del giudice, previsti dall’art. 709-ter cit., siano circoscritti al presente e quanto alle conseguenze future di un possibile successivo protrarsi del comportamento sanzionato si limitino al potere di ammonimento” (§ 8.2 delle “Ragioni in diritto”), sostanzialmente riducendo l’ambito di operatività concreta dell’istituto; cosicché, a parere della S. Corte, unica condanna pro futuro ammissibile in questi casi sarebbe l’ammonizione ex art. 709-ter, co. 2, n. 1), c.p.c., implicitamente escludendo sia l’art. 614-bis c.p.c. sia la possibile valorizzazione, a titolo di astreintes, dell’ipotesi sub 4) dell’art. 709-ter, co. 2, n., c.c. mediante la comminatoria di una sanzione amministrativa pecuniaria a carico del genitore che ostacoli l’altrui diritto di visita (in tal senso, in particolare, Trib. Roma, ord., 12 ottobre 2006, ove, per la violazione di disposizioni relative alle modalità dell’affidamento del minore da parte della madre collocataria, ai sensi dell’art. 709-ter, co. 2, n. 4), c.c., si è ritenuto di infliggere, al contempo, una sanzione pecuniaria per la violazione già commessa e un’altra sanzione pecuniaria, di € 500,00, per ogni giorno di ritardo nella riconsegna del minore al padre, sino ad un massimo di € 4.500,00; sul tema v. anche Cass. civ., Sez. I, 25 febbraio 2015, n. 3810, in Giur. it., 2015, 12, 2589, fattispecie nella quale la Corte d’Appello aveva applicato una sanzione di € 1.000,00 a carico del genitore, già ammonito e comunque renitente ad agevolare l’altrui diritto-dovere di visita). Nessuna tutela, invece, avrebbe il caso opposto, ossia quello del genitore non collocatario che non eserciti il proprio dovere di visita, sulla base del rilievo che il complesso prisma del diritto-dovere, colto nel suo versante attivo, è “incoercibile”, trattandosi di un “potere-funzione”, “destinato a rimanere libero nel suo esercizio quale esito di autonome scelte” (come riportato nel principio di diritto, § 11 delle “Ragioni della decisione”). E tuttavia, un tale dovere, rimesso alla piena discrezionalità del suo titolare e neanche indirettamente “coercibile”, non sarebbe più né un munus, a differenza di quanto riferisce, a più riprese, la stessa S. Corte (v. § 5 “Ragioni della decisione”), né tantomeno un “dovere giuridico”, in quanto la sua violazione non sarebbe assistita da sanzione alcuna. Si tratterebbe, in definitiva, di una posizione giuridicamente irrilevante, considerando che i maestri del diritto civile hanno insegnato a generazioni di studenti che “la giuridicità consiste in ciò, che al soggetto attivo del rapporto è accordata azione per l’adempimento e nel senso (talvolta, solo nel senso) che dall’inadempimento derivano conseguenze rilevanti per il diritto” e che “la regola di diritto (cioè, a dire, la norma giuridica) è dunque caratterizzata dal fatto che la sanzione è prevista astrattamente ed è imposta concretamente mediante strumenti coercitivi in danno di colui che viola la regola stessa. In tal senso si distingue da quella religiosa o sociale o genericamente morale” (P. Rescigno; F. Gazzoni). Non avrebbero fondamento giuridico, quindi, neanche gli ulteriori rimedi – che la S. Corte, per non cadere in contraddizione, definisce “effetti” –, diversi dal 614-bis c.p.c. e che l’ordinamento comunque appresterebbe a fronte dell’”inerzia” del genitore non collocatario (menzionati al § 8.3 delle “Ragioni in diritto”): se, infatti, quest’ultimo è pienamente libero di esercitare o meno il proprio diritto di visita e, addirittura, potrebbe allo stesso “abdicare” (§ 5, sub a), delle “Ragioni in diritto”), non si vede per quale ragione egli potrebbe essere sanzionato con l’affidamento esclusivo, con i provvedimenti decadenziali o limitativi ex art. 330-333 c.c. e persino con la pena (comunque “mite”: B. Ficcarelli, Misure coercitive) dell’art. 570 c.p. Delle due l’una: o tali istituti non dovrebbero più trovare applicazione o si dovrebbe ammettere che l’ordinamento, negando sé stesso, in tali casi reprime l’esercizio di una libertà di posizione comunque “incoercibile”, quindi senza che possa imputarsi all’agente, così irragionevolmente punito, alcuna violazione di un precetto primario, alcuna condotta contra ius. A seguire la tesi dei supremi giudici, quindi, non si vede proprio come potrebbero giustificarsi, per un verso, l’intero apparato rimediale avverso il padre che si disinteressa del figlio minore (anche ex art. 2043 c.c.: cfr., da ultimo, precisamente in tema di prescrizione del diritto, Cass. civ., Sez. III, ord., 18 novembre 2019, n. 11097) e, per altro verso, le acquisizioni in tema di illecito c.d. endo-familiare, ivi compreso il citato “danno da privazione genitoriale”, non avendo il padre alcun “dovere” di farlo essendo, a tal riguardo, pienamente libero. E ancora, portando alle sue estreme conseguenze logiche tale ragionamento, si dovrebbe anche sostenere che, a fronte di un (simulacro di) “dovere”, il minore non potrebbe vantare alcun “diritto” nei suoi confronti, non potendo “pretendere” alcunché da quest’ultimo in termini giuridicamente rilevanti: essendo infatti il rapporto giuridico modellato sulla dialettica di posizioni giuridiche soggettive, nel “sacrificio… dell’uno” cui corrisponde “la soddisfazione dell’interesse dell’altro” (come insegna ancora P. Rescigno), è evidente che il tramonto della prima polarità (i.e. del “dovere” genitoriale) trascina con sé, rendendolo parimenti inconsistente, anche il “diritto” del minore e, in particolare, il suo diritto alla bi-genitorialità, oggi sancito nell’art. 337-ter, comma 1, c.c. E tuttavia, fin dalla (celebre) Convenzione ONU sui diritti del fanciullo, è sancito il diritto del minore, pieno e assoluto, “di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori” (art. 9, par. 2, Conv. di N.Y. del 1989), diritto che è “azionabile” (e di cui va anzi “facilit[ato] l’esercizio”, nei termini della Convenzione Europea sull’esercizio dei diritti dei minori del 1996, art. 1, par. 2) e che trova concreta attuazione in quello del “bambino”, di “trascorre[re] un… periodo di tempo” con il genitore “con cui… non abita abitualmente” (art. 2 Convenzione di Strasburgo 15 maggio 2003). La Corte Europea, condannando l’Italia (v. sent. CEDU, 2 novembre 2010, Piazzi c. Italia, ric. n. 36168/09, in Fam. dir., 2011, 653), ha ricordato poi che la tutela di tale posizione giuridica implica l’adozione di tutte le “misure idonee a permettere l’esercizio del diritto di visita” da parte delle autorità dello Stato membro, ed in particolare di quelle giurisdizionali, infliggendosi altrimenti un significativo vulnus al diritto alla “vita familiare” (di cui all’art. 8, par. 1, CEDU). Il diritto del minore a conservare un significativo rapporto affettivo con il genitore non collocatario prevalente, così come emerge dalle norme succitate e dall’interpretazione che ne dà la Corte EDU, rischia quindi di venire vanificato di fatto dalla “volatilizzazione” del dovere di quel genitore, il cui esercizio, privato di ogni cogenza, è rimesso alla sua mera discrezionalità, fino al punto di giustificarne persino la totale inerzia. In tale quadro, essendo rimesso l’esercizio o meno di tale posizione giuridica alla discrezionalità del suo titolare, il (nominalistico) dovere del genitore non sarebbe più, in definitiva, un “ufficio di diritto privato”, un munus o un potere-dovere, il cui proprium sta nel carattere obbligatorio del suo esercizio, ma l’”espressione di un diritto potestativo” a fronte del quale il minore verserebbe in una condizione di “soggezione”, potendo solo subire l’altrui scelta, senza poter far nulla per imporre all’altro soggetto di esercitare il proprio (libero) potere e, fuor di metafora, senza poter chiedere al genitore di comportarsi come tale, assumendosi le proprie “responsabilità” (arg. ex art. 316 c.c.). L’interesse del minore, che pur dovrebbe essere “preminente”, viene così sostanzialmente neutralizzato, reso “irrilevante” a fronte dell’altrui libero (e incondizionato) potere; e ciò in palese contrasto con il dato normativo (artt. 147, 316, 337 ter, comma 2, c.c.), dal quale invece emerge che tale posizione è da qualificarsi “semplicemente, ed unicamente, come ‘dovere’, come vero e proprio ‘obbligo’… al fine di realizzare l’interesse superiore del minore” (S. Matteini Chiari). Proprio in termini di “dovere”, del resto, si è di recente espressa la S. Corte (con una pronuncia successiva a quella qui in commento), ribadendo che i genitori hanno il comune “dovere di cooperare” per garantire “l’assistenza, [l’] educazione e [l’] istruzione del minore”, il cui “interesse” è (e deve sempre essere) “criterio esclusivo di orientamento delle scelte affidate al giudice” (v. Cass. civ., sez. I, ord., 19 maggio 2020, n. 9143, § 3.1. dei “Motivi della decisione”, ove si richiamano, ex multis, Cass., Sez. I, 8 aprile 2019, n. 9764; 23 settembre 2015, n. 18817; 22 maggio 2014, n. 11412). L’aporia non sfugge alla Corte, che tuttavia si limita a rimarcare, in termini tralatici, tale “interesse superiore” quale “fondamento e, se del caso, limite” (cfr. “Ragioni della decisione”, § 3) della posizione del genitore non collocatario, senza però riferire, neanche in via ipotetica o esemplificativa, in quali situazioni (rinvenibili nella prassi, ma evidentemente residua li) non l’inadempimento, ma l’esercizio della responsabilità potrebbe pregiudicare l’interesse del minore. Anche la posizione di quest’ultimo, peraltro, è ricostruita dalla S. Corte “in via speculare” a quella del genitore non collocatario, tratteggiandola come situazione di piena libertà, tanto che il suo diritto di frequentare il genitore è descritta come “l’esito di una sua scelta, libera ed autodeterminata, per caratteri tanto più obiettivamente inverabili quanto più vicina sia la maggiore età e che, in quanto tali, possono spingersi fino al rifiuto stesso (Cass. 13 agosto 2019 n. 21341)” (§ 8 delle “Ragioni in diritto”). La questione, invero, era stata approfondita in termini più compiuti in altri precedenti della Corte, menzionati nella citata ordinanza presidenziale del 30 maggio 2020 del Tribunale di Bari (precisamente al punto sub 5.1) e relativi ai soli casi di figli adolescenti adulti, con una personalità già strutturata ed in grado di spiegare motivatamente le ragioni del rifiuto (Cass. Civ. Sez. I, 23 aprile 2019 n. 11170; Cass. Civ. sez. I, 13 agosto 2019, n. 21341; Cass. Civ. Sez. VI, 7 ottobre 2016, n. 20107), non potendosi invece estendere, sic et simpliciter, a minori di età inferiore, per i quali non può ragionevolmente ipotizzarsi una aprioristica negazione dell’idea di avere un genitore, essendo più aderente alla realtà (e alla prassi giudiziaria) ritenere che gli stessi, il più delle volte, siano costretti a vivere un ruolo di rifiuto nei suoi confronti, spesso faticoso da sostenere per la loro equilibrata crescita psicologica, che costituisce l’espressione più sintomatica del conflitto di lealtà in atto: in definitiva i minori non vogliono incontrare l’altro genitore non per libera e consapevole scelta ma per non venir meno al patto di fedeltà, per non urtare la sensibilità, per non offendere il genitore con il quale attualmente vivono. La Corte non svolge invece alcuna precisazione in tal senso, formulando solo un rapido accenno al profilo, invero dirimente, dell’età del minore, senza neanche menzionare il “dovere” di rispetto gravante sul figlio e operante nei confronti di entrambi i genitori (non solo di quello collocatario, come prescrive l’art. 315-bis co. 4, c.c., richiamato nell’ordinanza presidenziale del 30 maggio 2020). La ricostruzione dei giudici di legittimità fa invece perno solo sul piano dell’incontro/scontro tra due libertà individuali, così non ponendo in risalto un dato (giuridico ed esperienziale) che è invece ineludibile: costituire una famiglia e, soprattutto, generare un figlio, rappresentano scelte elettive dei genitori, ma che, al contempo, sono gravide di conseguenze giuridiche, considerando che alle stesse l’ordinamento ricollega tutta una serie di doveri che, specie in caso di procreazione, perdurano quantomeno fino a che il figlio non si sia reso economicamente autosufficiente. La scelta ermeneutica della S. Corte, inoltre, non solo oblitera completamente le conseguenze – morali prima ancora che giuridiche – gravanti sul genitore e scaturenti dalla vicenda procreativa, ma eleva la libertà ad arbitrio, non considerando che ogni libertà individuale può trovare tutela giuridica solo se e nei limiti in cui il suo esercizio non violi la libertà altrui. Al contrario, il genitore che, pur essendovi obbligato, trascura di incontrare il figlio minorenne, così esercitando la sua asserita “libertà”, viola congiuntamente due sfere giuridiche: egli, infatti, lede non soltanto il diritto del minore alla bi-genitorialità ma anche la sfera di libertà del genitore collocatario, titolare, nei confronti dell’altro, non solo del diritto (ex artt. 316 e 316-bis c.c.) a pretendere un’equa ripartizione della responsabilità parentale, così da poter organizzare in maniera ordinata la sua vita contando sulla doverosa collaborazione dell’altro genitore, ma anche a non subire gli esborsi economici ulteriori collegati all’incremento (contra legem) del suo dovere di mantenimento diretto del figlio minore, consequenziali all’inadempimento altrui.



5. Le misure “sollecitatorie” nel diritto di famiglia



In un passaggio preliminare della stessa motivazione la S. Corte precisa di intendere per “coercibile” solo l’obbligazione e, in particolare, solo quella che, se inadempiuta, può essere eseguita “senza la cooperazione del debitore e contro la volontà di questi” (§ 4 delle “Ragioni in diritto”). Decodificando il linguaggio della Cassazione, quindi, quest’ultima sembra voler intendere che il diritto-dovere di visita non è suscettibile di esecuzione in forma specifica, non potendosi materialmente impiegare la forza per obbligare il genitore a esercitarlo, senza e persino contro la sua volontà; si tratta, infatti, di un tipico obbligo di facere infungibile, peraltro connotato peculiarmente dalla dimensione esistenziale ed affettiva dei soggetti coinvolti. Tale assunto, invero, è pacifico e costituisce, a ben guardare, la stessa ratio dell’impiego in quest’ambito delle misure ex art. 614-bis c.p.c., i.e. di “misure che non si concretizzano (come quelle di esecuzione diretta) nella sostituzione di un terzo all’obbligato, per il compimento della condotta dovuta, ma si sostanziano nella prospettazione, rivolta all’obbligato, di una conseguenza negativa per l’ipotesi in cui questi non tenga la condotta dovuta”, funzionando come “meccanismi di coercizione psicologica, finalizzati a ché l’obbligato adempia personalmente” (A. Mondini). Sotto tale prospettiva, giurisprudenza e dottrina hanno rimarcato la particolare utilità ed efficacia del ricorso a tali provvedimenti, che nelle controversie familiari, a ben guardare, oltre alla funzione dissuasiva e special-preventiva, possono anche assolvere a un peculiare scopo “pedagogico”, rendendo i genitori consapevoli della gravità delle condotte ostruzionistiche assunte per indurli ad un corretto adempimento delle disposizioni relative ai reciproci rapporti personali ed alle modalità di affidamento e frequentazione dei figli (così anche la contro-ricorrente nel giudizio innanzi alla Corte: cfr. § 2 delle “Ragioni in diritto”). Si è così rilevato che “le misure in esame presentano evidente utilità su tre piani distinti:

1) quello della effettività”, perché “operano ex ante rispetto alla relativa violazione e sono tendenzialmente in grado di prevenirla”;

2) “quello della universale utilizzabilità per ogni obbligo, fungibile o non”;

3) “quello, infine, della assenza di profili di costringimento fisico e psichico a carico del minore, da parte di terzi estranei” (A. Mondini).

Al generale favor della dottrina (e.g. F. Tommaseo; M. Paladini; F. De Stefano; D. Amram; G. Morani; E. Canavese; B. Ficcarelli) è poi seguita l’applicazione da parte della prevalente giurisprudenza di merito (ad eccezione, come visto, dalla citata Trib. Mantova 2018), che ha richiamato l’art. 614-bis c.p.c. affrontando e risolvendo diversi problemi, fra i quali, ad esempio:

a) l’applicabilità officiosa, ammessa in deroga all’art. 614- bis c.p.c. (“su richiesta di parte”), considerando il peculiare regime delle pronunce in tema di affidamento e purché venga garantito il contraddittorio fra le parti (Trib. Roma 2016; Trib. Milano 2018; A. Mondini);

b) il rapporto fra le astreintes e l’art. 709-ter, con particolare riferimento alle misure risarcitorie di cui al co. 2, nn. 2) e 3), c.p.c., ammettendosi, in via prevalente, la possibilità di un loro utilizzo cumulativo (nei termini di un “concorso elettivo”: Graziosi; Trib. Salerno 2009; Trib. Firenze 2011; Trib. Roma 2013 e 2016; Trib. Milano 2018; in dottrina, a favore del cumulo: Donzelli; Graziosi; Nascosi; nonché Ficcarelli, sottolineando anche la competenza esecutiva rimessa al giudice del merito ex art. 337-ter, comma 2, c.c., competente, quindi, sia ex art. 709-ter c.p.c. sia ex art. 614-bis c.p.c.; in senso contrario Vullo, valorizzando la specialità dell’art. 709-ter c.p.c.).

Le astreintes sono state quindi applicate in una serie di casi, fra i quali possono citarsi, senza pretesa di esaustività:

1. Trib. Salerno, 22 dicembre 2009 (in Fam. e dir., 2010, 931 ss.), ove si è ritenuta astrattamente ammissibile la pronuncia delle astreintes nell’ambito del procedimento di cui all’art. 709-ter c.p.c., salvo ritenere, nel caso, sufficiente l’ammonimento e la condanna risarcitoria per le violazioni già accertate e riservandosi la possibilità di applicare l’art. 614-bis c.p.c. nel caso di ulteriori futuri inadempimenti; 2. Trib. Firenze, ord. 10 novembre 2011 (in Danno e resp., 2012, 781 ss. e in Foro it., 2012, 6, I, 1941), che ha invece applicato una astreinte pari ad € 50,00 per ogni giorno di violazione per incentivare all’adempimento un padre che, nei giorni in cui aveva con sé il figlio undicenne, non lo accompagnava a scuola (precisando che l’obbligo in questione veniva meno solo nel caso di malattia attestata da un certificato redatto da un pediatra scelto concordemente dai genitori); 3. Trib. Roma, 10 giugno 2011 (in Dir. fam., 2012, 298 ss.), poi 10 maggio 2013 (in Giur mer., 2013, 2100), 27 giugno 2014 (in Personaedanno.it), 8 settembre e 16 dicembre 2016 (in Ilfamiliarista.it), che ha affermato l’applicabilità delle misure coercitive indirette nelle situazioni di elevata conflittualità di coppia, nelle quali il comportamento non collaborativo di entrambi i genitori rischiava di pregiudicare l’interesse del figlio minore; 4. Trib. Minorenni Trieste, 23 agosto 2013 (in Nuova giur civ. comm. 2012, 41); 5. Trib. Minorenni Genova, 26 settembre 2012 (in Nuova giur. ligure, 2012, 3, 44), che ha ritenuto tali misure ammissibili in astratto ma inique nel caso di specie, in difetto di elementi che facessero presumere futuri inadempimenti dell’obbligato; 6. Tribunale Milano, 07 gennaio 2018, sez. IX (in Ilfamiliarista.it), che ha previsto il cumulo delle misure ex artt. 614-bis e 709-ter c.p.c.; 7. Trib. Lecce, 1° luglio 2019 (in Osservatoriofamiglia.it), ove, in termini antitetici a quanto poi deciso da Cass. n. 6471/2020, è stata pronunciata la condanna pro futuro del genitore non collocatario ex art. 614-bis c.p.c., quantificando l’importo di € 30,00 (considerato il costo medio di una baby-sitter) per ogni violazione degli orari di visita del figlio; nella pronuncia si rimarca che “ciascuno dei genitori deve trovare il modo per occuparsi del figlio anche se ciò accade nel suo orario lavorativo, delegando altra persona della famiglia o personale a pagamento (baby-sitter). Tale incombenza infatti non può ricadere solo sul genitore affidatario” e che la misura mirava ad evidenziare al padre che il ruolo di non collocatario non gli consentiva di dismettere i suoi obblighi verso il figlio, delegando la soluzione di ogni problema di gestione del minore alla madre. A tale orientamento ha aderito da tempo anche la I Sezione civile del Tribunale di Bari con una serie di provvedimenti, ultimo dei quali è la più volte citata ordinanza presidenziale del 30 maggio 2020 (ma, in precedenza, anche le ordinanze emesse nei sub procedimenti n. 6401-2/2019 r.g.a.c. del 26 maggio 2020, n. 6264-1/2017 r.g.a.c. del 9 luglio 2018 e n. 15335-1/2017 del 20 luglio 2019).



6. L’art. 614-bis c.p.c.: una novità assoluta?



L’istituto dell’art. 614-bis c.p.c., del resto, non costituisce né un’assoluta novità, né un unicum nel diritto di famiglia (o, con definizione più aderente al suo attuale assetto, nel “diritto delle relazioni familiari”). Tale settore ordinamentale, infatti, già da tempo conosce e utilizza istituti che espressamente mirano a “sollecitare” l’adempimento dell’obbligato, prefigurando l’inottemperanza alle statuizioni giudiziali e, quindi, creando degli strumenti di reazione a tale eventualità. Rilevanti in tal senso sono, ex aliis, le diverse misure poste a presidio dell’assegno di mantenimento e di quello divorzile (complessivamente ascritte alle “garanzie” del suo pagamento: C.M. Bianca): – dalla “garanzia reale o personale” (artt. 156, comma 4, c.c., e 8, comma 1, l. div.) che il giudice può disporre, anche in via officiosa, nel caso di “pericolo” che l’obbligato “possa sottrarsi all’adempimento”, senza che egli “abbia già manifestato la propria intenzione di non adempiere, o che abbia già posto in essere atti potenzialmente pregiudizievoli”, essendo sufficiente e necessario “il ragionevole sospetto che egli possa sottrarsi all’adempimento”, od anche il solo “pericolo di insolvenza derivante da una gestione disordinata o rischiosa” (G. Oberto, C.M. Bianca); – al c.d. “versamento diretto” delle somme ai sensi degli artt. 156, comma 6, c.c., e 8, commi 3-6, l. div. (nonché, per un’applicazione peculiare, l’art. 342-ter, comma 2, c.c.), concedibile nel caso di “fondati dubbi sulla tempestività dei futuri pagamenti” (in questi termini già Cass. civ., 14 febbraio 1990, n. 1095); – fino a una delle misure alle quali più frequentemente si ricorre nella prassi, cioè il sequestro dei beni del coniuge (o ex coniuge) obbligato ex artt. 156, comma 6, c.c., e 8 l. div., che costituisce un vincolo atipico (C. Grassetti) che offre una “tutela aggiuntiva” (Trib. Perugia, sez. I, 1 agosto 2016, in RedazioneGiuffré.com), non riconducibile alla misura conservativa ex art. 671 c.p.c., richiedendo, in luogo del fumus e del periculum, un credito già dichiarato, sia pure in via provvisoria, nonché l’inadempimento dell’obbligato, pur non grave (cfr. Cass. civ., 15 novembre 1989, n. 4861), ed è notoriamente finalizzato, in termini non dissimili dalle astreintes dell’art. 614-bis c.p.c., “ad una funzione di coazione, anche psicologica, all’a dempimento degli obblighi di mantenimento posti a carico di uno dei coniugi” (secondo un dictum costante, prima della giurisprudenza di merito e di legittimità – Trib. Roma, sez. I, 3 ottobre 2014; Corte App. Reggio Calabria, 8 giugno 2006, in Dejure; Cass. civ., 19 febbraio 2003, n. 2479; Cass. civ., 28 gennaio 2000, n. 944, in Fam. dir., 2000, 222, con nota di B. Lena; Cass. civ., sez. I, 12 maggio 1998, n. 4776; Cass. civ., 20 febbraio 1989, n. 4861; Cass. civ., 5 febbraio 1988, n. 1261 –, e poi anche della Consulta – Corte cost., 19 luglio 1996, n. 258, par. 5 del “Considerato in diritto”). Il fil rouge che allora lega queste misure, tipiche del diritto di famiglia e da tempo note agli operatori, all’art. 614-bis c.p.c., disposizione dall’ampio perimetro applicativo (a seguito, in particolare, della novella del 2015, con la legge n. 132) e “scoperta” di recente anche nell’ambito delle controversie familiari, è la comune necessità di garantire l’effettività della tutela (come imposto dal sistema costituzionale – artt. 24 e 111 Cost. –, europeo – art. 47 CDFUE – e convenzionale – art. 13 CEDU). E ciò anche nell’ambito dell’annoso tema dell’esecuzione dei provvedimenti in tema di affidamento e collocamento genitoriale (che comprende, com’è ovvio, l’attuazione dei precetti giudiziali anche per il rapporto con il genitore non collocatario o persino, eccezionalmente, non affidatario), ove sono note “le difficoltà da lungo tempo emerse nella prassi applicativa rispetto alla possibilità di assicurare l’effettività del diritto della prole ad un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori” ed è pacifica la “sostanziale inidoneità del modello dell’esecuzione forzata delineato dal Terzo libro del codice di procedura civile per l’attuazione delle decisioni giudiziarie in tema di affidamento e responsabilità genitoriale nei confronti dei figli minori (o maggiorenni portatori di handicap) – inidoneità riconosciuta, pur incidentalmente, da questa Corte (ordinanza n. 68 del 1987) – almeno per tutti gli aspetti diversi dalle questioni di carattere economico” (cfr. § 4, “Considerato in diritto”, di Corte Cost., 25 maggio 2020, n. 145, che ha ritenuto non fondata la q.l.c. in tema di art. 709-ter, comma 2, n. 4), c.p.c.). La sentenza della Consulta da ultimo citata, in particolare, ha evidenziato che l’art. 709-ter c.p.c. è stato introdotto proprio per “colmare oggettive lacune che si erano registrate nell’assicurare una tutela effettiva dei diritti della prole di una coppia genitoriale disgregata, correlati a obblighi di natura infungibile pur consacrati in provvedimenti giudiziari”, introducendo, “al fine di superare il problema derivante dall’inidoneità dell’esecuzione forzata”, un istituto “che si svincola da moduli rigidi come quelli esecutivi, per sfruttare pienamente la maggiore flessibilità della tutela giurisdizionale di cognizione” (cfr. sempre § 4, “Considerato in diritto”, di C. Cost. n. 145/2020). La Corte ha poi osservato, recependo quanto già affermato da giurisprudenza e dottrina, che l’art. 709-ter, co. 2, n. 4), c.p.c., costituisce “una forma di indiretto rafforzamento dell’esecuzione delle obbligazioni di carattere infungibile”, creando “un sistema di compulsione all’adempimento spontaneo” che “si accosta nella finalità – pur divergendo nel meccanismo processuale – alle misure di attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare introdotte successivamente dall’art. 614-bis c.p.c.” (cfr., ancora, § 4, “Considerato in diritto”, di C. Cost. n. 145/2020). Le osservazioni svolte in tale recente pronuncia della Corte Costituzionale, a ben guardare, assestano un colpo esiziale alla tesi propugnata nell’ordinanza della S. Corte qui in commento e segnano il definitivo avallo della prassi, già consolidata nella giurisprudenza di merito, che ha riconosciuto nell’art. 614-bis c.p.c. una misura particolarmente utile ed efficace nel diritto delle relazioni familiari, idonea a colmare (o almeno a ridurre) le altrimenti molto rilevanti “lacune” alla “tutela effettiva dei diritti della prole di una coppia genitoriale disgregata” (secondo l’espressione, ancora una volta, di C. Cost. n. 145/2020).



7. La difficile sintesi fra responsabilità e libertà



Si impone, in conclusione, un’ultima annotazione: la S. Corte, nel delineare la “cornice” del diritto-dovere di visita, si richiama ai principi di “auto-responsabilità, autonomia e consapevole libertà di scelta” (§ 10 delle “Ragioni in diritto”), chiarendo, con tale rilievo finale, che anche il principio di diritto da essa enunciato dovrebbe leggersi alla luce di tali fondamentali precetti, specie ove si consideri la peculiarità della fattispecie concreta sottoposta al suo esame (nei limiti in cui può essere ricostruita dalla sua motivazione): si trattava, infatti, di un padre riconosciuto tale all’esito di un giudizio ex art. 269 c.c. e che si rifiutava di esercitare il proprio diritto-dovere di visita del figlio “per un periodo temporaneo e a causa di uno stato di ansia derivante dalla difficile relazione genitoriale” (§ 8 della “Ragioni in diritto”). A fronte di un tale stato di fatto, suggerisce la Corte, più che meccanismi coercitivi, sia pure nelle modalità indirette ed eventuali dell’art. 614-bis c.p.c., avrebbero dovuto e potuto essere seguiti “percorsi condivisi di rielaborazione e miglioramento dei rapporti affettivi, in accordo tra genitori e minore” (§ 12 della “Ragioni in diritto”). In tal senso, anche i commentatori più critici verso l’arresto di Cass. n. 6471/2020 hanno osservato che l’”indicazione odierna della Corte dovrà essere valutata caso per caso dal giudice del merito ex art. 337-ter c.p.c.” (Ficcarelli). È allora evidente che l’intero sforzo motivazionale della S. Corte, anche nei suoi punti meno condivisibili, risulta teso nel suo complesso ad evitare un irrigidimento dei rapporti genitori-figli, così dovendosi leggere anche i numerosi richiami alle pronunce della Corte EDU e al costante invito di quest’ultima, in questa materia, “ad un’opera di ‘grande prudenza’” (CEDU, Reigado Ramos c. Portogallo, n. 73229/01, § 53, 22 novembre 2005), evitando che le modalità del diritto di visita siano regolate con eccessive “restrizioni supplementari”, che, pur essendo “garanzie giuridiche destinate ad assicurare la protezione effettiva del diritto dei genitori e dei figli al rispetto della loro vita familiare”, rischiano invece di “troncare le relazioni familiari tra un figlio in tenera età e uno dei genitori o entrambi, pregiudicando il preminente interesse del minore” (così il § 7 delle “Ragioni in diritto”, riprendendo la motivazione di CEDU, 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia, pronuncia relativa a un provvedimento di interruzione del diritto di visita del padre, poi ricorrente, accusato dall’ex coniuge di abusi nei confronti della figlia, accuse rivelatesi poi infondate, senza considerare l’importanza fondamentale che il rapporto con quel genitore rivestiva per lo sviluppo psico-fisico del minore). Sebbene proprio la “prudenza” avrebbe suggerito, forse, un diverso epilogo decisionale, teso, più che a porre in discussione, a valorizzare l’art. 614-bis c.p.c. quale ulteriore (e spesso unico) strumento di tutela del preminente interesse del minore, l’ordinanza della S. Corte. può essere “salvata” valorizzando il richiamo alla dimensione della “libertà” che, fra le pieghe del composito diritto-dovere di visita del genitore non collocatario, può e deve essere letto quale invito, rivolto a tutti gli operatori (avvocati, giudici, autori di dottrina) di un settore così delicato qual è il diritto di famiglia, a tenere sempre in debito conto le peculiarità del caso concreto e, per quanto possibile, a preferire comunque “percorsi condivisi di rielaborazione e miglioramento dei rapporti affettivi”, stigmatizzando la conflittualità esasperata che è sempre e comunque nociva per l’equilibrata crescita del minore, il cui best interest deve essere in ogni caso perseguito, costituendo la stella polare di ogni decisione che lo riguardi.

NOTE

Riferimenti bibliografici

Dottrina

D. Amram, Cumulo dei provvedimenti ex artt. 709-ter e 614-bis c.p.c. e

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Giurisprudenza

(1) Di legittimità

Cass. civ., sez. I, ord., 19 maggio 2020, n. 9143.

Cass. civ., sez. I, 5 marzo 2020, n. 6471.

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2589.

Cass. civ., 23 settembre 2015, n. 18817.

Cass. civ., 22 maggio 2014, n. 11412.

Cass. civ., 19 febbraio 2003, n. 2479.

Cass. civ., 20 febbraio 1989, n. 4861.

Cass. civ., 8 febbraio 2000, n. 1365.

Cass. civ., 28 gennaio 2000, n. 944, in Fam. dir., 2000, 222.

Cass. civ., sez. I, 12 maggio 1998, n. 4776.

Cass. civ., 15 novembre 1989, n. 4861.

Cass. civ., 5 febbraio 1988, n. 1261.

(2) Di merito

Trib. Bari, sez. I, pubb. il 30 maggio 2020, r.g. n. 1586/2020.

Trib. Bari, sez. I, pubb. il 26 maggio 2020, n. 6401-2/2019.

Trib. Bari, sez. I, pubb. il 9 luglio 2018, r.g. n. 6264-1/2017.

Trib. Bari, sez. I, pubb. il 20 luglio 2019, n. 15335-1/2017.

Trib. Lecce, Sez. I, 1 ottobre 2019, n. 3024.

Trib. Lecce, 1 luglio 2019, in Osservatoriofamiglia.it.

Trib. Mantova, sez. I, decr. 12 luglio 2018, in Redaz. Giuffrè 2018.

Trib. Bari, sez. I, pubb. il 20 luglio 2019, r.g. n. 15335-1/2017.

Corte App. Aquila, decr., 9 ottobre 2018.

Trib. Milano, 7 gennaio 2018, sez. IX, in Ilfamiliarista.it.

Trib. Roma, 19 maggio 2017.

Trib. Roma, 8 settembre 2016, in Ilfamiliarista.it.

Trib. Perugia, sez. I, 1 agosto 2016, in RedazioneGiuffré.com.

Trib. Roma, 16 dicembre 2016, in Ilfamiliarista.it.

Trib. Roma, sez. I, 3 ottobre 2014.

Trib. Roma, 27 giugno 2014, in Personaedanno.it.

Trib. Minorenni Trieste, 23 agosto 2013, in Nuova giur civ. comm.

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Trib. Roma, 10 maggio 2013, in Giur mer., 2013, 2100.

Trib. Minorenni Genova, 26 settembre 2012, in Nuova giur. ligure,

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Trib. Firenze, ord. 10 novembre 2011.

Trib. Roma, Sez. I civ., 13 settembre 2011.

Trib. Novara, 21 luglio 2011, in Fam. dir., 2012, 6, 612 ss.

Trib. Roma, 10 giugno 2011, in Dir. fam., 2012, 298 ss.

Trib. Salerno, 22 dicembre 2009, in Fam. e dir., 2010, 931 ss.

Trib. Pavia, 23 ottobre 2009, in Fam. dir., 2010, 149.

Trib. Cagliari, 19 ottobre 2009, in Giur. merito, 2010, 2.

Trib. Roma, ord., 12 ottobre 2006.

Corte App. Reggio Calabria, 8/06/2006, in Dejure.

(3) Sovranazionale

CEDU, Piazzi c. Italia, ric. n. 36168/09, 2 novembre 2010, in Fam.

dir., 2011, 653.

CEDU, Reigado Ramos c. Portogallo, ric. n. 73229/01, 22 novembre

2005.

CEDU, 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia.

(4) Costituzionale

Corte Cost., 25 maggio 2020, n. 145.

Corte cost., 19 luglio 1996, n. 258.