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La violenza di genere in Italia: un problema culturale. L’esperienza del Laboratorio Genere, Cultura, Società della Sapienza Università di Roma

autore: R. Lombardi - G. Peruzzi

Sommario: 1. Lo scenario politico e socio-culturale. - 2. La ricerca-azione: obiettivi e metodi. - 3. I risultati dell’indagine. 4. Conclusioni.



1. Lo scenario politico e socio-culturale1



Negli ultimi anni sembrano essere cresciute, almeno nelle società occidentali, sia la coscienza pubblica che la mobilitazione contro le molestie sessuali e le altre forme di violenza femminile (stupro, violenza domestica, stalking), anche grazie all’attivismo digitale e all’attenzione dei media di informazione. Ciononostante, la violenza di genere continua a rappresentare una delle violazioni più gravi e più diffuse dei diritti umani a livello mondiale, una “pandemia globale” che, secondo le stime più recenti pubblicate dalla World Bank2 (analoghe a quelle di altre istituzioni sovranazionali, quali l’Unione Europea e la Pan American Health Organization, ma inferiori a quelle denunciate per esempio dalla sezione Asia-Pacifico del Fondo per le Nazioni Unite) tocca direttamente, almeno una volta nella vita, una donna su tre. La violenza di genere non conosce confini geografici, né di classe, né culturali: essa è profondamente radicata nella vita quotidiana, in tutte le sfere della società, e impregna il linguaggio, tanto quello comune quanto quelli della scienza e della politica. Inoltre, essa è più diversificata di quanto comunemente non si tenda a credere: la violenza di genere infatti non è diretta solo contro donne e ragazze, ma anche contro gli uomini e le minoranze di identità e di orientamento sessuale. In pratica, contro chiunque non rientri nella categoria dominante nell’ordine di genere delle società patriarcali: l’uomo (bianco) eterosessuale, nella sua versione più esclusiva, virilmente maschile, se non maschilista. La violenza di genere è anche una delle forme più difficili da indagare, sia da parte delle forze di polizia che dei ricercatori, perché il setting è spesso l’ambiente domestico, o comunque familiare, dove le relazioni tra vittima e autore del sopruso, fisico e/o psicologico, sono un mix ambiguo di sentimenti, paura, potere e pregiudizi (Hirigoyen, 2005; Porro, 2014). Molte violenze rimangono dunque sommerse, per la vergogna, o per il timore delle vittime di coinvolgere, con la denuncia, anche figli e familiari. La situazione italiana si iscrive perfettamente nel quadro che abbiamo appena abbozzato. Secondo i dati più recenti pubblicati dall’Istituto Nazionale di Statistica (Istat)3 , oltre il 30% delle donne italiane dai 16 ai 70 anni ha subito nel corso della propria vita una violenza fisica o sessuale, il 26% una violenza psicologica ed economica, e il 21% una forma di persecuzione classificabile come stalking. Le forme di violenza più gravi sono sempre perpetrate dai partner, quando la relazione è ancora in vita o dopo una rottura, e a seguire da altri familiari o conoscenti. Non fanno eccezione i casi di violenza estrema, cioè gli omicidi volontari: 8 donne su 10 sono uccise da un conoscente, che in oltre la metà dei casi è il compagno o l’ex, nei restanti di nuovo un familiare (compresi genitori e figli), un amico o un collega. Colpisce, nell’analisi degli omicidi, anche il dato della serie storica distribuita per genere: in 25 anni (dal 1992 al 2016), gli omicidi volontari sul territorio nazionale sono nettamente calati; ma tale diminuzione è da imputarsi pressoché esclusivamente ai crimini che hanno per vittima un uomo (passati da 4 a 0,8 ogni 100.000 uomini), perché nello stesso periodo il numero delle vittime donne è rimasto pressoché stabile (da 0,6 a 0,4 ogni 100.000). Fuori casa, dichiara di aver subito molestie o ricatti nell’ambiente di lavoro il 7,5% delle donne italiane; di queste, l’80% ha preferito passare il fatto sotto silenzio con i colleghi. In generale, per quanto alcune categorie possano emergere come più vulnerabili rispetto a una forma specifica di violenza, i dati non lasciano dubbi: la violenza di genere può toccare tutte, giovani e adulte, single o sposate, separate e divorziate, diplomate e laureate, autoctone e migranti. L’unico dato incoraggiante che emerge dalle rilevazioni è quello della minor percentuale di violenze denunciate dalle giovani che studiano e dalle donne con occupazione autonoma. Comunque, nel complesso si può affermare che ad oggi in Italia la violenza contro le donne rimane un fenomeno diffuso e trasversale alle società e ai territori, radicatissimo nei contesti familiari e nelle pratiche delle routine quotidiane, dove persistono mentalità e stereotipi fertili alla riproduzione delle diseguaglianze e delle violenze. Sulla violenza di genere perpetrate agli omosessuali e alle altre minoranze di identità e orientamento sessuale non disponiamo ad oggi in Italia di ricerche comparabili a quelle sulla violenza contro le donne. Le cronache e gli episodi di brutalità continuamente denunciati dalle organizzazioni della società civile, che di recente sembrano conoscere una fase di recrudescenza, inducono però a supporre che il sostrato di discriminazioni e di violenze subito da queste persone sia analogo, se non addirittura più grave, appesantito da un clima di omertà e di vergogna ancor più antico. Entro la cornice appena abbozzata, l’obiettivo di questo saggio è quello di offrire un contributo per la promozione della consapevolezza contro la discriminazione e la violenza di genere, basato sulle principali evidenze che su questo tema sono emerse da una ricerca-azione realizzata per due anni consecutivi nel Laboratorio Genere, cultura, società della Sapienza Università di Roma.



2. La ricerca-azione: obiettivi e metodi



In questo paragrafo descriveremo gli obiettivi e il metodo di intervento del caso studio che ha fornito il materiale empirico da cui sono tratte le analisi illustrate nel prossimo paragrafo. L’idea del Laboratorio Genere, cultura, società fu ispirata a chi scrive pochi anni or sono da una duplice considerazione di natura politico-scientifica. In Italia un dibattito culturale vero sui temi in questione non c’è, almeno a livello pubblico e popolare; si accendono voci ed interventi intorno a singoli fatti di cronaca, ma l’attenzione rimane legata all’onda dell’emotività (seppure comprensibilissima e opportuna, di fronte ai femminicidi e ad altri drammi troppo frequenti), e le posizioni raramente riescono ad affondare oltre il buonsenso dei luoghi comuni. Ma soprattutto, questa mancanza appare grave se si concentra l’attenzione sulla scuola e l’università: lo scarso livello di istituzionalizzazione dei gender studies è un dato acclarato da tempo, anche da posizioni che ne hanno fornito interpretazioni diverse (Pravadelli, 2010; Saraceno, 2010). A distanza di qualche anno la situazione non sembra però essere cambiata di molto: anche ai nostri giorni non è infrequente (forse si potrebbe dire che è molto probabile!) che uno studente italiano approdi alla laurea senza mai essersi imbattuto nel suo percorso formativo in un corso, o almeno in un modulo, dedicato alle questioni di genere, seppure queste siano riconosciute, come si è visto, una delle priorità nella lotta mondiale alle diseguaglianze. Se ciò può essere ancora plausibile nel campo delle cosiddette scienze “dure”, si tratta di un fatto ormai decisamente inattuale per un candidato alle professioni delle scienze umane e sociali. Sulla base di queste considerazioni prende dunque forma il progetto in questione, che sin dalle origini si caratterizza per un duplice obiettivo, didattico e scientifico4 . Sul piano formativo, l’intenzione è quella di creare un’occasione per introdurre gli studenti universitari allo studio delle questioni di genere, al fine di promuovere una prima consapevolezza, scientificamente fondata, della rilevanza e della complessità del tema, e fornire delle competenze di base per analizzare situazioni sociali e problemi di attualità. Sul piano della ricerca, lo scopo è quello di indagare in profondità i processi di costruzione delle identità e delle opinioni, in materia di differenze di genere, dei giovani italiani. L’intreccio dei due propositi, l’attenzione all’esperienza pratica e la fiducia nel fatto che il percorso possa attivare dei cambiamenti nei partecipanti conferiscono all’esperimento il carattere di una ricerca-azione. Formalmente, il Laboratorio viene attivato all’interno del corso di Sociologia dei processi culturali, tenuto da chi scrive nel Corso di Laurea triennale in Comunicazione, media e culture digitali della Sapienza Università di Roma, e si configura come un modulo caratterizzante l’attività dei frequentanti. L’approccio è dunque sociologico, e la sociologia della cultura è interpretata nell’accezione di cultural sociology introdotta da Jeffrey Alexander (2003), intesa come quella dimensione simbolica, fatta di idee e di significati profondi, pervasivi, veicolati da discorsi, miti, narrazioni, che non solo è autonoma dalla sfera materiale, ma che è capace di influenzarne azioni e abitudini concrete, e di illuminarne i meccanismi. Nello specifico del nostro caso, le culture di genere sono proposte come una declinazione della sociologia della cultura: un campo per sperimentare l’applicazione di concetti sociologici fondamentali nell’analisi e nella comprensione di fatti di vita quotidiani, pubblici e privati, con particolare attenzione alla dimensione simbolica dei medesimi e ai processi mediali. Le questioni di genere, che hanno nella tensione natura-cultura – uno dei clivage fondanti della prospettiva sociologica – un fronte politico perennemente caldo5 , si prestano benissimo all’esercizio, che mira alla decostruzione e alla comprensione della natura artificiale delle norme informali e date per scontate su cui si fonda la vita in società (Bourdieu, 1992). Narrare il genere è dunque un modo per fare sociologia e promuovere il cambiamento. Operativamente, il Laboratorio funziona come segue. Nella prima parte, l’insegnante introduce i gender studies, mediante alcune lezioni e letture mirate a far comprendere la rilevanza delle questioni di genere e ad offrire una panoramica sugli strumenti concettuali e sulle competenze di cittadinanza fondamentali legate al tema. L’approccio privilegia la prospettiva sociologica relazionale (Connell, 2009), che interpreta le questioni di genere come problemi che coinvolgono tanto le donne quanto gli uomini, e pone attenzione anche alle minoranze di identità e di orientamento sessuale (omosessuali donne e uomini, transessuali e queer). Sulla base di questo stimolo, si chiede poi agli studenti di redigere un’autobiografia sociale focalizzata sulle proprie esperienze di genere, lungo l’arco della propria vita. L’invito è quello di provare ad analizzare la costruzione sociale della propria identità innanzitutto nella sfera privata e poi in quella pubblica: dunque, le regole di genere che essi hanno conosciuto, le aspettative e le pressioni relative al genere che hanno patito, le ineguaglianze che hanno visto o vissuto. La scrittura diviene l’occasione per avviare un percorso di auto-riflessività che, nella migliore delle ipotesi, dovrebbe non esaurirsi nel compito. Al contempo, tutti i testi confluiscono in un archivio a disposizione del team del Laboratorio, che comprende, oltre ai due autori del presente paper, giovani ricercatori e ricercatrici del Dipartimento. Le attività hanno avuto inizio nell’anno accademico 2017- 2018 e sono ancora in corso. Attualmente, il corpus è costituito da circa 250 autobiografie6 disponibili per l’analisi. Un sintetico profilo degli autori che costituiscono il nostro campione: trattasi di studentesse e di studenti (la proporzione di genere è perfettamente bilanciata) tra i 19 e i 25 anni, residenti nella regione Lazio, nella stragrande maggioranza originari di questo territorio o provenienti dalle regioni del Centro-Sud7 dell’Italia. Circa il dieci per cento dei testi è stato scritto da giovani cresciuti in famiglie migranti, provenienti da diverse regioni del mondo. Benché si tratti di un campione evidentemente non rappresentativo, quello a disposizione è un corpus comunque notevole, che consente di aprire uno squarcio importante sulle culture di genere e sulla consapevolezza dei giovani italiani, da cui è possibile ricavare indicazioni empiriche per comprendere il terreno e i meccanismi dove si producono e si rinnovano le identità di genere, le dinamiche che favoriscono il persistere delle mentalità patriarcali, le condizioni e le situazioni che consentono di fare breccia negli stereotipi e nelle abitudini più rigide. La natura estremamente eterogenea del materiale ha fatto sì che nelle analisi condotte sino ad oggi si sia adottata una strategia qualitativa concentrata sulla ricerca e l’analisi tematica, definita come “il metodo per identificare, analizzare e descrivere delle configurazioni di significati trasversali al corpus” (Braun, Clark, 2006: 6). Lo sguardo dei ricercatori si applica dunque a rintracciare nelle singole storie i processi di costruzione dei significati, per provare a ricostruire i trend più ricorrenti, plausibili di generalizzazione, e al contempo i casi emblematici, che nella loro pregnanza possono rivelarsi suggestivi di percorsi o processi. In un circuito ideale, il risultato delle analisi è restituito sotto forma di prodotti scientifici e divulgativi, in tutti i formati che le circostanze suggeriscono come potenziali occasioni di diffusione8 . Il primo pubblico che si è ricercato è ovviamente quello degli studenti, per poter restituire loro, insieme alle evidenze emerse dalla ricerca, il valore delle proprie esperienze, trasformate in storie.

3. I risultati dell’indagine



Le forme di violenza che emergono con forza dai racconti del nostro corpus, e sui quali abbiamo deciso di concentrare l’attenzione sono principalmente due: la violenza verbale e il bullismo omofobico. Ciò non esclude, nella nostra società, la presenza di altre forme di violenza, ma i racconti autobiografici raccolti mettono in luce un’inattesa diffusione della violenza verbale, anche reiterata nel tempo. Essa appare collegata alla presenza di caratteristiche che, per i più, rappresentano una diversità, ovvero una differenza che causa un problema nella relazione tra le persone: può trattarsi della statura, del peso, della corporatura o semplicemente dei tratti somatici. È una condizione che colpisce per due motivi: anzitutto il ricorso a forme di violenza e di scherno basate su elementi molto semplici ma che hanno un forte impatto sulla vita personale e sociale dei giovani; in secondo luogo perché queste forme di violenza, nei racconti raccolti, sembrano essere caratterizzate anche da una differenza di genere. Sono infatti soprattutto le ragazze a denunciare queste forme di violenza verbale basate su caratteristiche fisiche che hanno, nell’immaginario collettivo, delle peculiarità di genere così ben definite da essere percepite come naturali. Quando le caratteristiche vengono percepite come una diversità e si discostano dai canoni che i più ritengono adatti al corpo femminile, in alcuni casi, divengono anche il presupposto per innescare relazioni violente o di sopraffazione dell’altro. La seconda forma di violenza su cui si è deciso di concentrarsi è il bullismo omofobico che, di contro, caratterizza nello specifico il racconto dei ragazzi. Episodi di discriminazione e sopraffazione vengono infatti raccontati anche dai compagni del sesso opposto ma sono legati per lo più ad esperienze di omofobia e di atti di bullismo tra i giovani. Alcuni elementi accomunano le due forme di violenza e anche le esperienze raccontate sia dai ragazzi che dalle ragazze. La violenza descritta è infatti raramente domestica, ma avviene per lo più in contesti di parità, tra amici, compagni di scuola o di squadra. I luoghi che emergono dai racconti sono, quindi, soprattutto istituti scolastici, centri sportivi o semplicemente luoghi pubblici di ritrovo per bambini e adolescenti. In secondo ordine emergono i contesti familiari ma non come luoghi dove la violenza viene esercitata. Possiamo ipotizzare una certa reticenza nel raccontare la violenza domestica e i contesti familiari appaiono, nei racconti, spesso come luoghi di rifugio, dove nascondersi e attuare forme di auto-emarginazione dalla società violenta. Come racconta una ragazza di 21 anni, cresciuta a Roma, che descrive i cambiamenti del suo corpo e come questi siano stati oggetto di violenza verbale ed emarginazione durante il periodo dell’adolescenza:



E così nella mia bolla c’ero io, sola con le mie insicurezze e le mie paure, entro in un circolo vizioso in cui se ti trattano da brutta, tu ti senti brutta e ti comporti come tale. Quindi inizi a comportarti da brutta, da grassa. Quei chili di troppo iniziano a diventare tanti e i chili che prendevo erano direttamente proporzionali alle prese in giro che subivo ogni giorno. Umiliata, derisa e messa da parte, così mi sentivo. [M, 21 anni].



La violenza verbale, spesso definita in letteratura come violenza invisibile proprio perché non si caratterizza per l’uso della forza fisica e perché le conseguenze non sono immediatamente visibili e riconoscibili, è una forma di abuso che può avere effetti importanti sulle persone che ne sono vittime (Appadurai, 2005), al punto da esercitare su di esse una vera a propria forma di controllo sociale (Orsini, 2014). Queste ultime possono scaturire da una pluralità di motivazioni e, sebbene la violenza fisica sia più facilmente riconosciuta e denunciata, non è da sottovalutare la forza dirompente dell’abuso verbale, le cui cicatrici, proprio perché invisibili, sono più facilmente trascurate e le conseguenze per la vittima spesso minimizzate. È lo scenario descritto soprattutto dalle studentesse che hanno partecipato alla ricerca: una violenza verbale che ha prodotto disagi e conseguenze sulle capacità relazionali di alcune giovani ragazze. La violenza verbale e le sue conseguenze sono raccontate soprattutto dalle ragazze ad opera di coetanei appartenenti al sesso opposto. Ciò che ha colpito, infatti, è un quadro di insieme che resta ancora fortemente caratterizzato da un rapporto uomo-donna di sopraffazione maschile nei confronti delle coetanee e, soprattutto, giocata quasi esclusivamente sull’aspetto fisico e sulla presunta inadeguatezza delle ragazze al modello di genere femminile percepito e considerato come naturale. Questi possono costituire, di fatto, i presupposti per probabili azioni violente più estreme. Non è scontato che la violenza verbale sia l’anticamera della violenza fisica e sessuale, anche se spesso le due forme sono strettamente legate (Giomi, Magaraggia, 2017). È certo però, che il clima di sopraffazione e di pressione psicologica viene alimentato non solo dalla violenza fisica, ma anche dalla violenza verbale. Non a caso, le ragazze che hanno partecipato alla ricerca raccontano dettagliatamente le conseguenze, tutt’altro che invisibili, di questo clima di violenza così diffusa da apparire quasi una costante.

La mancata conformità a degli standard fisici che sono il prodotto di una costruzione sociale è un passaggio particolarmente importante perché sembra produrre anche un atteggiamento di auto-colpevolezza da parte delle vittime di violenza (Porro, 2014). Nei racconti viene spesso fatto ricorso, da parte delle ragazze, ad atteggiamenti di giustificazione nei confronti di amici e compagni violenti e la ricerca delle colpe da attribuire è evidente nel racconto di molte delle ragazze che sottolineano l’inadeguatezza del proprio corpo agli standard di femminilità considerati dai più come tali. Ne emerge un quadro problematico in cui le ragazze, invece di denunciare gli accaduti, ad esempio ai genitori o agli insegnanti, si rifugiano in atteggiamenti di solitudine ed emarginazione rendendosi colpevoli degli insulti subiti. Riportiamo, a titolo di esempio emblematico, la storia di l., 22 anni, trasferita a Roma con tutta la famiglia proprio negli anni dell’adolescenza: anni in cui il suo aspetto fisico è mutato profondamente al punto da generare malessere e insicurezza. In diversi passaggi del racconto la ragazza rovescia le responsabilità dei compagni violenti su se stessa e sul proprio corpo:



Il mio corpo è ciò che impedisce di sentirmi a mio agio e che mi rende insicura; per me è fonte di imbarazzo, disagio e insoddisfazione. Questo mi tormenta da sempre perché in ogni circostanza e in ogni litigio si finisce sempre con degli insulti sul mio aspetto fisico. E io non riesco a reggere il confronto di una discussione perché su un punto hanno ragione: il mio corpo [L., 22 anni].



In effetti, l’abuso emotivo è tale proprio perché provoca emozioni e sentimenti che accentuano la situazione di disagio della vittima. Nel caso specifico delle autobiografie esaminate i sentimenti più ricorrenti sono “paura, colpa, vergogna, senso di inadeguatezza” e i racconti esplicitano chiaramente che questi sentimenti vengono alimentati nel tempo dall’essere oggetto di derisione da parte degli altri. È interessante notare come alcune autrici dei testi, rileggendo la propria storia, collegano comportamenti e atteggiamenti che, a loro parare, sono il frutto stesso delle violenze verbali subite. Tra tutte le esperienze raccolte, riportiamo quella di B., una ragazza di 21 anni, cresciuta nella periferia sud di Roma e che riflette sui cambiamenti del proprio comportamento nel corso dell’adolescenza:



Le cattiverie e gli insulti degli altri mi hanno portato ad essere irascibile e antipatica. Ero talmente diffidente che ho iniziato io stessa ad allontanare gli altri. Ero sola, ma sembrava che lo volessi io. Sentivo di non essere così, quel carattere non era il mio ma era il modo migliore per far vedere a tutti che stavo bene, anche se non stavo bene per niente [B., 21 anni].



Causata da persistenti insulti, umiliazioni e critiche, la violenza verbale influenza la percezione che la persona che la subisce ha di sé, il suo senso di sicurezza e la sua capacità di proteggersi. Non a caso, dalle autobiografie emerge come il “silenzio” sia la principale reazione alle offese. L’assenza di una qualsiasi replica, che può essere legata anche al sentimento di paura, nei casi esaminati sembra essere più connessa a una svalutazione di sé. Il contesto della violenza è infatti la disparità, ovvero la differenza negata nel suo valore e coltivata come fosse una diseguaglianza (Giomi, Magaraggia, 2017). Queste differenze, rimarcate da una violenza verbale che pubblicamente esalta il problema, vengono raccontate da ragazzi e ragazze anche come la causa scatenante di disagi e problemi fisici e comportamentali. Si tratta evidentemente di una lettura che avviene a distanza di alcuni anni, perché le autobiografie selezionate sono scritte da studenti che hanno un’età compresa tra i 20 e il 25 anni e le esperienze narrate sono per lo più ambientate negli anni dell’adolescenza (14-18). Le conseguenze riconosciute ed esplicitate nei racconti sono per lo più riconducibili ad “mal di stomaco; attacchi di ansia; incubi notturni; sonnambulismo; agitazione9 “. In alcuni casi queste situazioni sono riconducibili, per ammissione stessa degli autori dei testi, ad altri problemi e disagi vissuti durante l’adolescenza. A titolo emblematico riportiamo la storia di una ragazza di 24 anni che collega esplicitamente le violenze verbali e l’emarginazione subite durante l’adolescenza da parte dei suoi compagni, soprattutto maschi, a disturbi alimentari e comportamentali che hanno caratterizzato gli anni delle scuole superiori in una piccola città in provincia di Roma:



Il mio essere grassa era sottolineato in ogni occasione, alcune volte i ragazzi si divertivano rompendo o nascondendo i miei oggetti personali, facendo dispetti per poi ridere di me. Entrai in un tunnel senza via di uscita; più mi sentivo giudicata e presa di mira e più mi sentivo non accettata dai ragazzi della mia età e più nascondevo il mio corpo negli abiti oversize maschili e sfogando tutto il mio malessere nel cibo. Mi preoccupavo sempre meno del mio corpo e della mia alimentazione perché tanto io ero sempre il “il maschiaccio in sovrappeso”. Ci ho messo degli anni per recuperare fiducia in me stessa e per reagire a quelle offese [M., 24 anni].



Il ruolo degli adulti, nelle autobiografie raccolte, diventa centrale solo in casi come quello appena riportato: ovvero quando il disagio diventa evidente e le problematiche psico-fisiche vengono riconosciute da genitori e insegnanti. Alcune tra le giovani studentesse identificano nella mamma, ma anche nelle altre donne della famiglia, a partire dalla sorella maggiore fino ad arrivare alla nonna, un supporto riconosciuto, a distanza di anni, come fondamentale. Non solo, il racconto delle ragazze è spesso caratterizzato dal ruolo di un’altra figura, non adulta ma comunque centrale: un’amica, spesso definita come “la migliore amica”, ovvero una ragazza coetanea che condivide alcune delle attività quotidiane con la protagonista del racconto. Se, quindi, l’inadeguatezza delle ragazze è legata a una fisicità considerata difforme dai canoni di bellezza e femminilità ma senza necessariamente essere ricondotta a uno specifico orientamento sessuale, l’elemento di diversità nei compagni maschi è sempre legato a un (presunto) orientamento omosessuale. Non a caso, nel racconto delle ragazze ricorrono spesso parole quali “brutta; grassa; bassa; goffa”. Il racconto dei ragazzi, nel descrivere la propria inadeguatezza fisica è sempre collegato a caratteristiche non considerate dai più come maschili. Si nota, infatti, che i ragazzi descrivono le caratteristiche fisiche che sono oggetto di scherno e violenza senza entrare nel dettaglio di quello che viene considerato un difetto, ma si esprimono con parole quali: “fisico poco maschile; mi muovevo come una femminuccia; mi dicevano che avevo una voce da ragazza; correvo come una femmina”. Nei racconti dei ragazzi compare raramente la figura di un coetaneo “amico” dello stesso sesso. Anzi, il gruppo dei pari, “gli altri maschi” compagni di scuola o di attività sportive, sono i soggetti autori delle violenze descritte. Una figura amicale, per i ragazzi, è spesso una coetanea del sesso opposto e questo elemento accentua ancora di più la presunta omosessualità del soggetto e inasprisce le forme di scherno e di violenza. Il quadro che si delinea acuisce i ruoli di genere nelle esperienze di violenza. I ragazzi sembrano essere i maggiori autori delle violenze sia nei confronti delle ragazze che nei confronti dei coetanei maschi “accusati” di una eccessiva femminilità negli atteggiamenti. Un ragazzo di 22 anni, cresciuto in un contesto provinciale di piccole dimensioni, nel sud della Regione Lazio evidenzia anche un altro elemento interessante, ovvero il carattere inconsapevole degli atteggiamenti che sono oggetto di derisione:



Sin dalle scuole medie, a causa di alcuni miei inconsapevoli comportamenti troppo “femminili”, venivo spesso preso di mira e costretto a subire prepotenze e offese, sia verbali che fisiche. Questo perché non rispecchiavo pienamente i cosiddetti stereotipi di genere, “come ci si dovrebbe comportare” o meglio “come si dovrebbero comportare i maschi” [A., 22 anni]



Non è possibile stabile se questa dichiarata inconsapevolezza, all’epoca dei fatti narrati, fosse reale o se la valutazione dei propri atteggiamenti del passato venisse appiattita su una linea temporale che usa come discrimine il momento in cui i ragazzi hanno preso coscienza della propria omosessualità (Mauceri 2015; Tirocchi 2008). Quest’ultima interpretazione sembra prevalere nei racconti dei ragazzi, come se si sentissero “vittime” di un giudizio non giustificato fino al momento in cui accettano e riconoscono che il proprio orientamento sessuale è diverso da quello che i più considerano come scontato, ovvero eterosessuale. Questo elemento è ricorrente nei racconti delle violenze subite, facendo emergere due elementi in particolare: da un lato, il ruolo degli altri nel far luce su atteggiamenti e comportamenti che vengono prontamente interpretati ed etichettati prima ancora di essere compresi dal protagonista; dall’altro, il ruolo delle norme culturalmente imposte che spingono gli autori delle esperienze raccontate a “soffocare” aspetti della propria personalità. Riportiamo a titolo di esempio due casi in cui sono evidenti questi atteggiamenti di confusione e di smarrimento in una fase adolescenziale caratterizzata da inconsapevolezza, o addirittura rifiuto del proprio orientamento sessuale e della propria caratterizzazione di genere:



Non avevo ancora fatto i conti con la mia omosessualità, non mi ero ancora posto il problema e me lo hanno fatto notare gli altri [A., 22 anni]. Ogni tanto nella mia testa balenava l’idea che magari potevo essere davvero gay, ma non lo sapevo in quel periodo, e comunque avevo soffocato quella parte di me. Avevo imparato a ignorare e nascondere [M., 21 anni].



L’ultima differenza che possiamo tracciare tra ragazzi e ragazze è proprio nel ricorso a strategie di “soffocamento” del proprio malessere interiore in relazione alle esperienze di violenza. Se le ragazze, come abbiamo detto, considerano il contesto familiare come un luogo di sostegno, per i ragazzi è spesso il luogo dove non poter far emergere i disagi delle violenze subite per paura, vergogna e confusione. Probabilmente gioca un ruolo importante quella che in letteratura viene definita come omofobia interiorizzata (Lingiardi, Falanga, D’Augelli 2005) ovvero il frutto dell’accettazione passiva (consapevole o inconsapevole) da parte delle persone omosessuali, di tutti i pregiudizi, i comportamenti e le opinioni discriminatorie in cui sono immersi. Di fronte alla consapevolezza interiorizzata del giudizio negativo, la scelta più consona per molti risulta infatti l’auto-esclusione, anche dalla famiglia stessa, in favore di una crescita solitaria che sembra essere caratterizzata soprattutto da attese: aspettare di avere più autonomia per poter scegliere le persone da frequentare; aspettare di poter essere più grandi e uscire dal contesto circoscritto del paese o della piccola città in cui si è cresciuti; aspettare di finire gli studi obbligatori per cogliere l’opportunità di iscriversi all’Università in città lontane dalla propria realtà. Il problema delle forme di violenza sembra essere legato alla riconoscibilità stessa della violenza e la sua arbitrarietà. Quanto più queste situazioni di disagio sono state date per scontate e relegate sotto l’etichetta di “problemi dei giovani”, tanto più sembra che siano state trascurate dagli adulti. La relazione tra giovani, genere e violenza è un complesso sistema che può essere indagato da molteplici punti di vista, ma quello che emerge con forza da questa esperienza di ricerca è che, aldilà della prospettiva di indagine che viene utilizzata, l’ascolto di ragazzi e ragazze e l’analisi delle loro esperienze liberamente riportate in un testo autobiografico aiuta a conoscere il mondo dei giovani e i percorsi di costruzione delle identità di genere.



4. Conclusioni



Il Laboratorio Genere, cultura, società è un’esperienza in progress: una nuova edizione è in partenza proprio nelle settimane in cui si scrive questo saggio, all’interno dell’edizione 2019-2020 del corso ospitante, e l’intenzione è quella di replicarlo nei prossimi anni, per consolidarne la presenza sia sul piano didattico che su quello della ricerca. Nonostante la giovane età, l’esperienza ha già mostrato importanti potenzialità. Sul fronte della ricerca, la ricchezza dei materiali che si danno all’analisi dei ricercatori è notevole. Il paragrafo precedente ha mostrato come, solo riguardo al tema oggetto del presente contributo, la violenza di genere, il corpus sia foriero di spunti e di suggestioni, di voci ed esempi utili ad illuminare la conoscenza di un mondo ancora poco o per nulla indagato dalla letteratura nazionale. Per quanto i nostri autori non possano certo essere considerati rappresentativi dei giovani italiani (essendo tutti studenti universitari, per di più residenti solo in alcune regioni d’Italia), le storie e le esperienze che ci hanno narrato costituiscono senza dubbio, per volume e per ricchezza di elementi, un patrimonio conoscitivo di tutto rilievo. Esse aprono uno spaccato sulle modalità di percepire le identità e le relazioni di genere delle nuove generazioni, ma non solo: dalle storie emergono, dietro le voci dei ragazzi e delle ragazze che si affacciano all’età adulta, le culture di genere di un largo spaccato del Paese: le mentalità di famiglie, paesi e città; le regole e le abitudini di scuole e insegnanti; le pratiche di relazione e interazione degli adolescenti, in gruppo o in autonomia; le differenze ancora (troppo) forti tra contesti urbani semi-rurali, tra Nord e Sud, tra nativi e migranti. Il fatto che le testimonianze esprimano direttamente il punto di vista dei giovani, cioè delle generazioni nelle quali è riposta la speranza del cambiamento per il futuro, le rende particolarmente utili anche in vista della progettazione di interventi sociali. Infine, una nota di riflessione merita anche l’aspetto formativo dell’esperimento. In questo senso, l’evidenza principale è senza dubbio quella del gradimento che l’esercitazione ha riscosso presso gli studenti. Non solo i tassi di partecipazione sono stati altissimi (il compito era riservato agli studenti frequentanti, che avevano comunque l’opportunità di scegliere un’altra modalità di partecipazione al corso), ma anche i giudizi espressi sono stati tutti di pieno soddisfacimento, quando non di entusiasmo. Ancora più nello specifico, riguardo all’inserimento dei temi di genere nei curricula didattici, il lavoro del Laboratorio mostra che l’autobiografia sociale è uno strumento che si presta bene a introdurre i giovani all’analisi critica di queste questioni. I concetti e gli esempi forniti dalla sociologia si applicano facilmente all’approfondimento della tensione natura-cultura nell’esame dei meccanismi e degli stereotipi di genere, e nello svelamento e nella disamina delle diseguaglianze. Anche il meccanismo di vedere restituite le proprie narrazioni trasformate dall’analisi e dalla scrittura scientifica ha suscitato curiosità positiva e apprezzamento da parte degli studenti, offrendo un inatteso avvicinamento alla pratica della ricerca. La speranza, ovviamente, è che le competenze acquisite siano solo l’input di attivazione di un processo di consapevolezza che si protrarrà nella crescita degli studenti e delle studentesse per il loro futuro di cittadini di un mondo globale, più giusto e meno violento.

NOTE

1 Il saggio è il frutto del lavoro congiunto dei due autori. Ai fini delle valutazioni concorsuali si possono comunque distinguere le seguenti attribuzioni: Gaia Peruzzi ha scritto i paragrafi 1, 2 e 4; Raffaele Lombardi il paragrafo 3. La versione inglese di questo contributo è stata presentata al Convegno Internazionale “Género y Comunicación” dell’Università degli Studi di Siviglia, in Spagna, il 19 marzo 2020.

2 Per questa e per le altre istituzioni internazionali di seguito menzionate, si è fatto riferimento ai report periodicamente pubblicati nelle sezioni dei siti dedicate ai dati e alle statistiche sulle discriminazioni e le violenze di genere. Per esigenze di spazio ci riserviamo di non citare le singole pubblicazioni. Trattasi in genere di indagini condotte su larga scala, basate sui censimenti nazionali più aggiornati. Pur nella consapevolezza delle approssimazioni inevitabili in comparazioni di così larga scala, colpisce l’omogeneità del dato riportato.

3 L’Istituto Nazionale di Statistica italiano (Istat) è da anni impegnato nella ricerca sulla violenza sulle donne. In una sezione interamente dedicata, da qualche tempo rende immediatamente accessibile un quadro informativo “integrato”, risultante dalla sintesi delle informazioni acquisite da numerosi enti (Dipartimento delle Pari Opportunità, Ministeri, Regioni, Centri antiviolenza, Case rifugio e altri servizi sociali territoriali). I dati richiamati nella nostra introduzione fanno riferimento alle ricerche più recenti sulla violenza contro le donne perpetrate rispettivamente in famiglia (anno 2014) e sul luogo di lavoro (anni 2015-16), all’indagine sugli omicidi (anno 2017) e a quella sugli stereotipi di genere (anno 2018). All’epoca della stesura di questo testo, tutti i materiali erano consultabili all’indirizzo https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne. Per una lettura ragionata dei medesimi invece si possono vedere le analisi di Giorgio Alleva (2017) e di Linda Laura Sabbadini (2019).

4 Per una descrizione più accurata degli aspetti metodologici si veda Peruzzi, Bernardini, Lombardi (2019).

5 Si pensi, a solo titolo di esempio, al dibattito sull’omosessualità come inclinazione naturale o scelta volontaria; ai tentativi di reprimere i movimenti di emancipazione femminile richiamando la naturalità dei ruoli e della famiglia tradizionali.

6 In realtà, il numero delle autobiografie realizzate dagli studenti sarebbe maggiore. Ma si sono scartate quelle che non rispondevano al mandato, nel senso che non erano autobiografie, o che non erano pertinenti ai temi assegnati.

7 I giovani biografi del Nord Italia sono pochissimi: è un dato coerente con le iscrizioni al Corso di Studi, che è uno tra i più importanti, per prestigio e per volume, sul territorio nazionale, e ha il suo principale bacino di reclutamento nelle regioni centro meridionali, dove non ve ne sono di comparabili.

8 A solo titolo di esempio, sul tema specifico della violenza di genere, una presentazione delle prime evidenze approfondite per questo saggio è stata effettuata durante il Seminario Interfacoltà organizzato il 25 novembre 2020 dalla Sapienza per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

9 Si riportano letteralmente le parole usate da ragazzi e ragazze nel descrivere le conseguenze psico-fisiche della violenza verbale subita.