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Considerazioni psicoforensi in tema di quesito sulle “capacità genitoriali”

autore: G. B. Camerini, M. Pingitore

Sommario: 1. Introduzione. - 2. Scienze psicologiche e diritto. - 3. Eccessiva delega al CTU? - 4. I criteri di valutazione delle “capacità genitoriali” e la loro utilizzazione. - 5. La determinazione dei tempi di frequentazione. - 6. Il regime di affidamento. - 7. Verso una formulazione standard del quesito.



1. Introduzione



Il quesito relativo alla valutazione delle “capacità genitoriali” sembra essere divenuto ubiquitario, una sorta di must sottoposto sempre e comunque all’esperto psicologo o neuropsichiatra infantile ed “indispensabile” al giudice per assumere le decisioni del caso. Di conseguenza, la CTU tende ad essere disposta quasi di default ogniqualvolta vi sia un conflitto tra i genitori riguardo il regime di affidamento dei figli e le modalità di frequentazione. Le CTU appaiono essere notevolmente aumentate negli ultimi venti anni e, parallelamente, vengono assegnate all’esperto deleghe e mansioni sempre più ampie con quesiti onnicomprensivi che giungono ad includere aspetti di pertinenza squisitamente giuridica. Proponiamo alcuni esempi. Primo caso: due fratelli gemelli di dieci anni domiciliati presso la madre, impegnata in una professione sanitaria, in un paese alle pendici di una montagna alpina; il padre, imprenditore, risiede in una città medio-grande dell’Italia settentrionale. Entrambi i genitori si sono sempre dimostrati molto attaccati ai figli. Il padre chiede che i figli (da lui sempre regolarmente frequentati in loco dopo la separazione, essendo tutti accomunati dalla passione per lo sci) possano frequentare le scuole medie nella sua città, considerata in grado di offrire maggiori opportunità. La madre invece ritiene che tale scelta potrà operarsi in occasione dell’entrata dei figli alla scuola superiore, lasciando loro la possibilità di trascorrere i tre anni delle medie in un luogo a contatto con le bellezze naturali e dove la pratica sportiva risulta estremamente accessibile. Il giudice dispone CTU sulle “capacità genitoriali” ed alla “capacità decisionale congiunta delle parti, alla loro capacità educativa, alla loro capacità progettuale, alla capacità di ciascuna parte di preservare i minori dal conflitto e alla capacità di ciascuna parte di garantire una equilibrata compresenza dell’altra figura genitoriale nella vita dei minori”. Il quesito include quale sia il regime di affidamento più indicato. Secondo caso: una coppia di fatto si separa; la figlia ha sedici anni. Il padre esprime l’intenzione di vendere la dimora coniugale, assegnata a madre e figlia, in quanto troppo grande e costosa da mantenere. La figlia, accusando il padre di volerle “cacciare di casa”, si rifiuta di incontrarlo per molti mesi. Il giudice dispone CTU sulle “capacità genitoriali” e sui “profili di personalità” di entrambi i genitori. Il quesito include quale sia il regime di affidamento più indicato. Terzo caso: il padre scopre che la moglie ha una relazione con un altro uomo ed i figli (il maggiore ha 19 anni, l’altro 16) ne sono messi al corrente. I due si separano. Il primogenito non ha un buon rapporto con la madre ed il minore, pur relazionandosi positivamente con entrambi i genitori, predilige una collocazione prevalente presso il padre. La dimora coniugale viene assegnata al padre ma la madre non intende uscire di casa non disponendo della possibilità di trovare una sistemazione alternativa. Il giudice dispone CTU sulle “capacità genitoriali”. Il quesito include un parere circa il regime di affidamento. Vi è da chiedersi in queste situazioni se vi sia congruità tra le problematiche in gioco e la valutazione inerente le “capacità genitoriali”.

– Nel primo caso, nessuno dei due genitori presenta problematiche personali di rilievo, né si rivolgono accuse di incapacità a svolgere il loro ruolo; i figli si sono sempre mostrati attaccati ad entrambi e bene adattati all’ambiente in cui vivono. La scelta tra le due soluzioni (meglio trascorrere la preadolescenza in un luogo isolato ma a contatto con la natura o in una città più ricca di stimoli?) sembrerebbe più riguardare un sociologo che uno psicologo e risulta comunque riguardare in misura solo “tangenziale” le competenze in capo all’uno e all’altro genitore.

– Nel secondo e nel terzo caso l’oggetto del contendere appare essere in primo luogo la casa: nell’uno, per l’impossibilità della madre di reperire una dimora alternativa stante la preferenza espressa dai figli; nell’altro, per lo stretto rapporto esistente tra madre e figlia e l’identificazione di quest’ultima nelle ragioni del genitore presso il quale vive. La valutazione delle rispettive capacità genitoriali sembra influire molto relativamente sulle scelte in questione, anche in considerazione dell’età dei figli già in grado di autodeterminarsi. Può sorgere il legittimo dubbio di un eccessivo ricorso alla CTU per dirimere le problematiche che insorgono tra i genitori per questioni che chiamano in causa sia la frequentazione dei figli sia, molto spesso, gli aspetti economici ad essa connessi. In questa prospettiva, la valutazione delle rispettive competenze legate all’esercizio delle responsabilità può risultare superflua. Parimenti, ci si può chiedere quali siano le competenze richieste al CTU per esprimere un giudizio riguardo il regime giuridico dell’affidamento, ovvero se sia indicato un affidamento condiviso, esclusivo, superesclusivo o al Servizio sociale. È pacifico chiedersi se può essere ancora condivisibile che il Tribunale chieda al CTU di trattare questioni di natura eminentemente giuridica. In questi ultimi anni, infatti, si è assistito ad un investimento probabilmente eccessivo sulla funzione della consulenza tecnica d’ufficio sempre più determinante in un contenzioso civile di separazione e affidamento. Il consulente “nel supremo interesse del minore” viene autorizzato dal giudice ad esprimere il proprio parere su questioni giuridiche fino ad arrivare a redigere una proposta di frequentazione figlio-genitori nei periodi festivi o in merito agli orari di “consegna” e di “riconsegna”, oppure al numero dei pernottamenti in ogni settimana. A parte gli aspetti economici legati al mantenimento sembra che il consulente, longa manus del Giudice, debba farsi carico dell’intero nucleo familiare diviso.



2. Scienze psicologiche e diritto



Occorre preliminarmente chiedersi in quale misura le scienze psicologiche siano in grado di corroborare attendibilmente le decisioni giudiziarie, ed in quali ambiti. Numerose sono le considerazioni che si possono proporre in merito ai rapporti tra le scienze (e gli esperti che a vario titolo sono chiamati a veicolarne i contributi) ed il mondo del diritto. La questione riguarda due aspetti:

– l’ambito dell’esperto, il quale è chiamato ad adeguare le proprie conclusioni al più aggiornato patrimonio di conoscenze della propria disciplina. Se la giustizia ricorre alla scienza per ricercare un aiuto nell’interpretazione di un dato, l’aiuto in questione non potrà essere fornito al di fuori di alcuni precisi canoni in grado di rispettare le leggi scientifiche esistenti. La nota sentenza Daubert negli Stati Uniti (1993)1 , i cui principi sono stati più recentemente ribaditi nella nostra giurisprudenza dalla sentenza Cozzini2 , stabiliva come debbano accompagnarsi alla competenza decisionale del giudice alcuni elementari canoni di verifica epistemologica relativi al contributo dell’esperto ed ai suoi standard minimi di qualità: la verificabilità e la falsificabilità della teoria, il controllo della comunità scientifica e la generale accettazione della teoria stessa;

– l’ambito del giudice, le cui decisioni non possono prescindere dai costrutti scientifici inerenti la materia in esame. A partire da queste premesse, che fissano i confini entro i quali il diritto è tenuto a prendere in considerazione le leggi scientifiche “generalmente accettate” che regolano la materia oggetto di decisioni giudiziarie, occorre analizzare più approfonditamente i punti di contatto che devono necessariamente attuarsi tra i due ambiti riguardo le valutazioni che si rendono necessarie nell’ambito delle decisioni da assumere in tema di affidamento dei figli. Gli specialisti medici e psicologi possono in definitiva offrire al Giudice un contributo positivo quando sanno essere trasparenti nell’indicare il tipo di cultura e di background di conoscenze ai quale fanno riferimento e sono consapevoli e sanno dichiarare il grado di “validità” scientifica del loro apporto e rifiutano l’assunto tacito per cui qualunque affermazione esca dalla loro penna sia, per definizione, “scientifico”3 . È necessario che il parere dell’esperto sia sostenuto e suffragato dal rispetto delle leggi di copertura che accreditino la validità delle sue affermazioni. L’ingresso di nozioni psicologiche non supportate sul piano scientifico all’interno del processo può rappresentare una seria minaccia all’efficienza del ragionamento giudiziario. Se il giudice è il garante scientifico dell’intervento della psicologia nel processo tuttavia, nella pratica, può non avere gli strumenti per valutare la scientificità di un dato psicologico. Così, l’errore più comune è porre sullo stesso piano evidenze scientificamente sostenute ed osservazioni validate dal senso comune. L’errore consiste, infatti, nel considerare entrambi gli elementi come dotati di pari dignità scientifica, laddove il processo che li ha condotti all’evidenza del tribunale è completamente diverso. Si osserva assai spesso nelle CTU in tema di affidamento dei figli l’irruzione di teorie e di contenuti non suffragati da “evidenze” tali da poter attendibilmente corroborare la decisione giudiziaria; si avverte sempre di più la necessità di ricondurre il ruolo dell’esperto entro un alveo coerente con le indicazioni e con le evidenze che il patrimonio di conoscenze della comunità scientifica mette a disposizione.



3. Eccessiva delega al CTU?



All’interno della complessa dialettica tra scienze e diritto si possono facilmente verificare “fughe in avanti”: sia da parte dell’esperto, il quale non dovrebbe pronunciarsi su ambiti che non lo coinvolgono, sia da parte del giudice, per il quale la tentazione consiste nel delegare indirettamente e surrettiziamente all’esperto una risposta a questioni che dovrebbero invece rimanere di sua esclusiva competenza. In tema di genitorialità, il Tribunale ha bisogno non già di valutazioni astratte ma di risposte concrete in termini di comportamenti: nello specifico su come agiscono i genitori nei confronti del figlio, in riferimento al rispetto dei suoi diritti e del suo interesse. Ciò che dovrebbe interessare il Tribunale non è tanto chi e che cosa i genitori sono, ma ciò che fanno. Attualmente, si assiste spesso ad una eccessiva “clinicizzazione” delle consulenze tecniche d’ufficio in cui gli esperti si perdono nei meandri della personalità dei genitori, anche attraverso la somministrazione di una talvolta inutile batteria di test psicologici, impostando il ragionamento attraverso una visione adultocentrica. Tuttavia, sarebbe necessario iniziare a modificare l’impostazione metodologica privilegiando il punto di vista del figlio: dal figlio ai genitori e non viceversa. Troppo spesso nelle CTU ampio spazio è dato ai genitori e all’esame dei loro tratti di personalità piuttosto che dedicarsi alla valutazione della capacità di discernimento del figlio ed ai suoi bisogni. Il cambiamento culturale auspicato va nella direzione di domandarsi non tanto se le capacità genitoriali sono conservate, ma come i figli percepiscono i genitori fino a giungere ad una eventuale valutazione di incapacità del padre e/o della madre di tutelare i diritti-bisogni dei figli.

Il punto di partenza deve essere necessariamente il figlio, non i genitori.



4. I criteri di valutazione delle “capacità genitoriali” e la loro utilizzazione



In riferimento al quesito posto al CTU, la questione centrale è che cosa si intenda per capacità genitoriale e per idoneità riguardante l’esercizio delle responsabilità genitoriali. L’art. 6 comma 2 della l. 184 del 1983 (e successive modificazioni) utilizza la nozione di idoneità nel suo significato potenziale ed astratto in relazione ai compiti genitoriali che eventualmente la coppia di coniugi che intende adottare un minorenne dovrà svolgere: i coniugi devono essere affettivamente idonei e capaci di educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare. Va sottolineato che tale disposizione si riferisce anche ad un’idoneità affettiva astrattamente valutata, dunque a un profilo psicologico che assicura una buona prospettiva relazionale tra i potenziali genitori ed i futuri figli adottivi, posto che la genitorialità non è limitata allo svolgimento materiale dei compiti educativi, di mantenimento ed istruzione, ma comprende anche la capacità relazionale ed affettiva come specificamente descritto dal comma 1 dell’art. 315-bis c.c.: il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Mentre quella dell’idoneità genitoriale è una valutazione generale ed astratta da effettuare nei confronti di una coppia coniugata in vista di un’eventuale e futura loro esperienza adottiva, la capacità dei genitori di assolvimento dei loro compiti verso i figli nati dalla loro unione può essere valutata solo per verificare l’effettivo e soddisfacente assolvimento dei compiti genitoriali attraverso i comportamenti concretamente attuati nella relazione con il figlio. Sino al 2006 sussisteva nel nostro Paese un vuoto normativo in merito alla regolamentazione delle condizioni di affidamento (distinte rispetto ai provvedimenti de potestate). Come scrive Sergio4 , la disciplina dei rapporti e delle responsabilità dei genitori con i figli minori in occasione della rottura dell’unità familiare introdotta dalla l. 54/2006 e le successive modifiche ed integrazioni ha comportato importanti novità anche per le valutazioni psicogiuridiche dell’esperto chiamato dal giudice (e dalle parti) a fornire un contributo tecnico utile per le decisioni previste dalla legge. La scelta del regime di affidamento è compiuta dal legislatore per soddisfare il diritto del figlio minore alla bigenitorialità, che si ricollega al suo più generale diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia riconosciuto dalla legge 149/2001. Vengono così superate le connotazioni accentuatamente potestative e autoritarie dell’istituto ed al contempo è finalmente riconosciuto il diritto del figlio di essere mantenuto, educato, istruito ed assistito moralmente da parte dei genitori nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Al diritto relazionale del bambino corrisponde il diritto relazionale di ciascun genitore all’esercizio della genitorialità, dovere-diritto riconosciuto dall’art. 30 della Costituzione, che tuttavia prevede nel comma 2 che nei casi d’incapacità dei genitori la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. Il compito dell’esperto chiamato dal giudice a compiere accertamenti e valutazioni dunque è divenuto più complesso, poiché la decisione giudiziaria non si limita più a stabilire discrezionalmente con esclusivo riferimento all’interesse del minore a quale dei coniugi i figli sono affidati, come previsto dal testo precedente dell’art. 155 c.c., ma è diretta a garantire il soddisfacimento e l’esercizio dei diritti dei soggetti coinvolti, genitori, figli in età minore, ed eventualmente ascendenti e parenti di ciascun ramo genitoriale interessati alla regolazione dei rapporti personali e patrimoniali nella nuova situazione esistenziale. La valutazione psicoforense in tema di genitorialità si deve quindi rivolgere non già alle capacità (competenze) di base e/o specifiche parametrandole rispetto ad uno standard ritenuto ideale, quanto ad eventuali incapacità ed incompetenze che si riflettono in comportamenti i quali risultano o possono risultare dannosi per il figlio in considerazione dei suoi bisogni e delle sue risorse e che producano violazioni dei diritti personali e relazionali del figlio minorenne, dunque pregiudizi, carenze, ed ogni altra negativa conseguenza contraria al suo interesse (cfr. Camerini, Sabatello e Sergio, 20185 ). La capacità genitoriale, analogamente ad altre competenze di valenza giuridica (capacità di intendere e di volere, capacità di stare in giudizio, capacità di rendere testimonianza, capacità di agire…), va sempre parametrata in relazione ad uno specifico compito e ad un determinato contesto relazionale. Pare utile precisare infatti, attraverso una definizione ad hoc, che la capacità genitoriale che il CTU prende in considerazione è una valutazione legata ad una specifica relazione ed agli specifici comportamenti che la connotano, come per esempio la valutazione della imputabilità non è mai fatta in astratto ma sempre legata alla particolare tipologia di comportamento del quale si vuole giudicare il tasso di possibile autodeterminazione (la capacità, appunto di intendere e di volere legata al fatto e al momento del fatto). In analogia con l’imputabilità possiamo dunque affermare che la valutazione utile al giudice è sempre quella “specifica”, ossia articolata alle specificità del caso concreto: capacità di rispondere ai bisogni del figlio legati al suo stadio evolutivo, alla sua condizione psico-fisica, alla sua partecipazione allo specifico momento del ciclo di vita della famiglia, a particolari life events che colpiscono il figlio o l’intera famiglia. La capacità “generica” è piuttosto un presupposto concettuale di quella “specifica”, una condizione necessaria ma non sufficiente (come nella imputabilità in cui una incapacità a determinarsi per qualsiasi reato – esempio un grave schizofrenico – rende superflue particolari valutazioni legate al caso concreto, mentre un funzionamento anche sufficiente adeguato in senso generico potrebbe non escludere che, nel caso concreto, per particolari ragioni si sia comunque manifestata una incapacità specifica di intendere e di volere). L’“incapacità” genitoriale è quindi declinata dalla marcata difficoltà di rispettare l’interesse del figlio, ovvero i suoi diritti sanciti dall’art. 337-ter comma 1 c.c. Nello specifico:

– mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori

– ricevere cura

– educazione – istruzione

– assistenza morale

– conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.



5. La determinazione dei tempi di frequentazione



Come detto poc’anzi, nella prassi comune la determinazione delle modalità e delle tempistiche relative alla collocazione presso la madre ed il padre viene infatti delegata al CTU, il quale si trova spesso coinvolto in interminabili discussioni e “trattative” riguardo il numero e la distribuzione dei pernottamenti, gli orari di “consegna”, i giorni e le settimane spettanti all’uno e all’altro genitore durante le vacanze estive. Le richieste possono essere non infrequentemente legate all’entità dell’assegno di mantenimento da corrispondere o da ricevere e/o dall’assegnazione della dimora familiare. È legittimo domandarsi quanto sia necessario investire un esperto in queste scelte e in quale misura la scienza psicologica possa disporre di “evidenze” sufficienti per accreditarle come valide. Può capitare, ad esempio, che dopo la separazione ogni genitore accentui le proprie disposizioni a livello educativo e la madre si proponga più in senso protettivo ed il padre più in senso normativo. Funzioni che nella convivenza si integravano in misura complementare mentre dopo si sono contrapposte secondo una diversa visione dei principi e delle responsabilità in gioco. Quale genitore è meglio privilegiare in termini di tempo e di presenza, sulla base di quali criteri? Entra in questi casi in gioco l’ascolto del minore, ovvero la raccolta delle sue opinioni e dei suoi orientamenti. Non si può però, almeno al di sotto dei dodici anni, fare assumere al figlio un potere decisionale a riguardo, scaricando su di lui le scelte inerenti la frequentazione dei genitori e generando inevitabilmente conflitti di lealtà più o meno gravi verso l’uno o verso l’altro. Assumono dunque inevitabilmente un ruolo primario i personali orientamenti del CTU, magari la sua storia e le sue vicende, le sue credenze: alcuni possono sostenere che la custodia paritetica rappresenti la soluzione migliore mentre altri sono convinti del contrario, ovvero che un bambino debba far riferimento ad una residenza principale senza trasferirsi troppo spesso da una casa all’altra. Oppure, c’è chi è convinto che debbano essere privilegiati gli aspetti legati alla cura ed all’accudimento e che invece ritiene che abbiano maggior valore la spinta verso l’autonomia ed il rispetto delle regole. Il tutto senza che si possa fare riferimento ad una dottrina certa: il “dosaggio” dei tempi di frequentazione e la “distribuzione” dei pernottamenti presso l’uno o l’altro genitore rispondono più ad una logica mediativa e di conciliazione delle diverse richieste che ad una criteriologia scientificamente fondata. Sotto questo punto di vista l’unico punto di riferimento oggettivo e riconosciuto è rappresentato dall’art. 337-ter c.c., nel comma in cui stabilisce che al figlio minore venga riconosciuto il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascun genitore dopo la loro separazione6 . Spetterà quindi al giudice declinare più precisamente, in caso di conflitto, i termini temporali di questo rapporto e la distribuzione dei giorni da trascorrere presso l’uno e presso l’altro. A meno che, ovviamente, non siano rilevate incapacità ed incompetenze a carico di un genitore che consiglino una collocazione predominante.



6. Il regime di affidamento



Non infrequentemente il quesito posto al CTU include anche la determinazione del regime di affidamento. Come è noto, l’affidamento condiviso, che presuppone la capacità per i genitori di instaurare un’ottimale e prolungata sintonia sulle scelte educative relative ai figli, costituisce il regime ordinario/ prioritario di affidamento, alla luce del principio di bigenitorialità. L’affidamento esclusivo costituisce soluzione eccezionale, consentita esclusivamente ove risulti, nei confronti di uno dei genitori, una condizione di manifesta carenza o inidoneità educativa o comunque tale da rendere l’affidamento condiviso in concreto pregiudizievole e contrario all’interesse esclusivo del minore. L’affidamento esclusivo deve essere inoltre particolarmente motivato, in ordine non soltanto al pregiudizio potenzialmente arrecato ai bambini da un affidamento condiviso, ma anche all’idoneità del genitore affidatario ed all’inidoneità educativa o alla manifesta carenza dell’altro. Sarà quindi il giudice, attraverso i mezzi di prova tipici (interrogatorio delle parti, testimonianze, documenti, precedenti decisioni) e specifici della materia (ascolto del minore, relazioni dei servizi sociali e psicologici territoriali o delle aziende sanitarie, CTU), a dover stabilire il regime di affidamento più consono a partire da carenze rilevate nell’uno o nell’altro genitore, anche legate ad inadempienze nel mantenimento dei figli. Non è opportuno né congruo chiedere al CTU di effettuare una scelta su aspetti prettamente giuridici: qualora siano presenti in uno dei genitori caratteristiche che costituiscano motivo anche potenziale di pregiudizio per i figli occorre lasciare al giudice il compito di valutare quale sia il tipo di provvedimenti da adottare in simili circostanze.



7. Verso una formulazione standard del quesito



Il problema che si pone è, come rileva Donzelli7 , “se sia possibile tracciare una distinzione tra i provvedimenti de potestate e le decisioni assunte ai sensi degli artt. 337-bis ss. c.c. […] Abbiamo già detto che i doveri ed i poteri tradizionalmente riconducibili alla responsabilità genitoriale sono funzionali al soddisfacimento dei diritti previsti dall’art. 315-bis c.c. Pertanto, quando si incide sulla responsabilità, inevitabilmente e contestualmente si incide sui diritti del figlio. […] Intesa, infatti, la responsabilità genitoriale come formula riassuntiva e concentrata l’attenzione sui diritti dei figli che a questa si ricollegano, ci si avvede che tali diritti vanno in crisi, non tanto perché un genitore nega di essere titolare dei correlativi doveri, bensì quando i poteri ed i doveri genitoriali vengono esercitati o adempiuti non correttamente o quando si verificano altre circostanze che comunque impongono l’intervento giudiziale per garantire la piena realizzazione dei diritti dei figli. Il coordinato disposto degli artt. 330 e 333 c.c. ben rappresenta la violazione in senso proprio di tali doveri. […] Nel caso dei provvedimenti nell’interesse dei figli ex artt. 337-bis ss. c.c., invece, è la crisi familiare ad imporre una ridefinizione dei doveri genitoriali, ma la sostanza del fenomeno non cambia. Molto chiari sono i primi due commi dell’art. 337-ter c.c., posto che il primo – come già evidenziato – afferma il ‘diritto’ del figlio minore di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione, assistenza morale da entrambi, ed il comma 2 ben chiarisce che i provvedimenti e l’attività giurisdizionale resi nei relativi procedimenti hanno come scopo proprio la realizzazione di tale diritto nonostante la disgregazione del nucleo familiare”. I provvedimenti in questione sono quindi diretti alla tutela di diritti soggettivi posti in una condizione di crisi causata dalla condotta genitoriale e/o dalla disgregazione del nucleo familiare. Conclude Donzelli: “Tanto i provvedimenti de potestate, quanto i provvedimenti sull’affidamento sono diretti a determinare in concreto le regole di esercizio della responsabilità genitoriale, ovvero, più correttamente, la sussistenza e/o il modo d’essere dei diritti-doveri riconducibili alla c.d. responsabilità genitoriale […] L’attività cognitiva che prelude alla determinazione di tale regola comprende, in effetti, un momento propriamente cognitivo, di accertamento, ed un momento valutativo, di apprezzamento delle circostanze di fatto accertate in ordine alla tutela dell’interesse del minore. […] Come visto, infatti, l’adempimento dei doveri genitoriali e con esso la realizzazione dei diritti del figlio postula un’opera complessa, articolata, e mutevole nel tempo, che deve essere compiuta dai genitori stessi in ordine alla migliore realizzazione in concreto dell’interesse del minore, tenendo conto delle sue opinioni, capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni. Ecco, dunque, che quell’attività valutativa che costituisce la necessaria premessa del corretto adempimento dei doveri genitoriali, è rimessa nel processo al giudice, che si trova a determinare la regola di diritto maggiormente rispondente all’interesse del figlio minore”. In tale prospettiva, affidare al CTU una valutazione sul regime di affidamento secondo un quesito sulle “capacità genitoriali” pone di fronte ad un bivio: qualora non emergano rilevanti problematiche o criticità relazionali tra figli e genitori il parere del CTU non può fondarsi su criteri metodologici validi e riconosciuti; nel caso in cui invece esse vengano individuate la valutazione chiama inevitabilmente in gioco la responsabilità ed i provvedimenti de potestate. Sino al che non verrà posta maggiore chiarezza in merito alla differenziazione tra le competenze del CTU e quelle del giudice il ruolo delle consulenze tecniche d’ufficio resterà inevitabilmente ambiguo e confuso. I quesiti oggi tendono ad essere estremamente ampi, a differenza di quanto avviene in altri ambiti consulenziali e peritali contraddistinti da una maggiore “asciuttezza” e pertinenza. È parere degli scriventi che il momento sia propizio per ristrutturare la funzione della consulenza tecnica d’ufficio e riportarla alla sua naturale condizione. Il quesito dovrebbe vertere solo ed esclusivamente su un’istruttoria tecnica di tipo psicoforense nei confronti della famiglia divisa, esonerando il consulente dall’esprimere pareri su aspetti giuridici di pertinenza di magistrati e avvocati. Oggetto della consulenza dovrebbe essere la valutazione dell’incapacità genitoriale partendo da una premessa di idoneità presunta di entrambi i genitori e declinata attraverso il punto di vista del figlio. Occorre quindi che il parere richiesto all’esperto rientri nell’alveo di una maggiore pertinenza psicologica, potendo corroborare attendibilmente la decisione giudiziaria secondo enunciati sorretti da un adeguato rigore metodologico. Al CTU non competono inoltre responsabilità di intervento in una dimensione educativa o “terapeutica”, non potendo questi interventi prescindere dal consenso informato delle persone interessate. Né al CTU dovrebbero essere delegate mansioni in questa direzione. Una proposta di un quesito, pertanto, dovrebbe collocare al centro non tanto le “capacità” genitoriali quanto il best interest dei figli ed i loro diritti, senza coinvolgere il CTU in insidiosi e debordanti pareri su questioni che non competono prettamente la materia psicoforense e che comportano risposte prive dei necessari requisiti di fondatezza scientifica. Per esempio: Valuti il CTU le dinamiche relazionali dei soggetti coinvolti e i comportamenti eventualmente contrari al diritto della persona minore d’età di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale. Il momento storico necessita di un cambiamento culturale e metodologico intorno al tema delle CTU relative alle separazioni e affidamento dei figli. Anche se è sempre il Giudice, peritus peritorum, ad avere l’ultima parola, il rischio concreto è che le consulenze siano diventate ormai il fulcro dell’intero contenzioso civile, mentre dovrebbero avere solo una funzione istruttoria di supporto al procedimento giudiziario. È fondamentale iniziare a discutere del ridimensionamento della CTU fissando un preciso perimetro entro cui il consulente possa esser chiamato a muoversi.

NOTE

1 Nella legge federale degli Stati Uniti lo standard Daubert è una norma di prova relativa all’ammissibilità delle testimonianze di esperti. Le linee guida a riguardo sono le seguenti: il giudice è custode: il compito di gatekeeping è di assicurare che la testimonianza di esperti scientifici provenga realmente da conoscenze scientifiche; rilevanza e affidabilità: ciò richiede che il giudice del processo assicuri che la testimonianza dell’esperto sia pertinente al compito da svolgere e che si fondi su una base affidabile; metodologia scientifica: una conclusione si qualificherà come conoscenza scientifica se il proponente può dimostrare che è il prodotto di una solida metodologia scientificamente fondata. La Corte ha definito la metodologia scientifica come il processo di formulazione di ipotesi per provare a falsificare l’ipotesi iniziale ed ha fornito una serie di fattori illustrativi nel determinare se questi criteri sono soddisfatti: 1. se la teoria o la tecnica impiegata dall’esperto è generalmente accettata nella comunità scientifica; 2. se è stata sottoposta a peer review e pubblicazione; 3. se può essere ed è stata testata; 4. se il tasso di errore noto o potenziale è accettabile; 5. se la ricerca è stata condotta indipendentemente dal particolare contenzioso o dipende dall’intenzione di fornire la testimonianza proposta.

2 Cass. pen., sez. IV, 17 settembre 2010-23 dicembre 2010, Cozzini: “si tratterà di appurare: 1. se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi una legge scientifica in ordine all’effetto [...]; 2. nell’affermativa, occorrerà determinare se si sia in presenza di legge universale o solo probabilistica in senso statistico; 3. nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica occorrerà chiarire se l’effetto [...] si sia determinato nel caso concreto, alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali”.

3 Si vedano in tal senso le Linee Guida in tema di abusi sul minore, Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Erickson, 2007.

4 G. sergio, introduzione al libro di G.B. caMerini, L. volPini, G. loPez, Manuale di valutazione delle capacità genitoriali. APS-I: Assessment of Parental Skills Interview, 2a ed., Bologna, 2019.

5 G.B. caMerini, U. saBatello, G. sergio, Separazione dei genitori ed affidamento dei figli: criteri, metodi e strumenti di valutazione nelle consulenze tecniche, in G.B. caMerini, R. di cori, U. saBatello, G. sergio (a cura di), Manuale Psicoforense dell’età evolutiva, Milano, 2018, 1121-1162.

6 Resta da stabilire come siano concretamente da intendersi i tempi di questo rapporto. Il documento prodotto dalla Società di Psicologia Giuridica nel maggio 2018 così si esprimeva a riguardo: “Nella realtà di tutti i giorni, purtroppo, tale previsione viene disattesa. Nelle decisioni dei Giudici si registrano tempi di frequentazione dei due genitori valutati in misura molto sbilanciata. Sul tema è peraltro intervenuto il 2 ottobre 2015 il Consiglio d’Europa il quale, dopo mesi di studio e di audizioni di esperti internazionali, ha invitato gli Stati membri con la risoluzione 2079 a promuovere affidamenti con tempi di permanenza equipollenti (compresi comunque nel range 35%-65%) tra i due genitori. Le esperienze di altri Paesi stanno dimostrando poi che uno standard minimo di frequentazione dell’uno e dell’altro genitore riduce la conflittualità. Le ricerche stanno documentando, da un lato, i benefici di un affidamento concretamente condiviso e, dall’altro, i danni derivanti da un affidamento nella sostanza monogenitoriale. Uno standard bilanciato nei tempi risulta inoltre un modello in grado di prevenire e contrastare il fenomeno in cui uno o più figli, attraverso comportamenti espliciti e/o impliciti di uno dei due genitori (e solitamente quello collocatario), possano essere indotti a rifiutare l’altro genitore. [...] La Società di Psicologia Giuridica, che al suo interno annovera studiosi ed esperti di elevato profilo scientifico, auspica che anche nel nostro Paese si possa pervenire ad una regolamentazione sulle modalità di affidamento, ispirata al principio secondo cui ciascun genitore possa partecipare alla quotidianità dei figli. Auspica altresì che venga superata nelle prassi giudiziarie l’obsoleta distinzione tra genitore accudente e genitore ludico, per dare ai figli pari opportunità di stare assieme con l’uno e l’altro genitore, in ragione delle loro esigenze, all’interno di un modello di frequentazione mediamente paritetico”.

7 R. donzelli, I provvedimenti nell’interesse dei figli minori ex art. 709-ter c.p.c., Torino, 2018.