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Il valore del consenso nel matrimonio romano classico

autore: L. Ingallina

Sommario: 1. Cenni introduttivi. - 2. L’elemento della volontà. - 3. Captivitas e postliminium nella vicenda matrimoniale. - 4.1. Conventio in manum, matrimonio e consensus. La confarreatio. - 4.2. Il valore del consenso nella coemptio e nell’usus. - 5. Il rapporto tra consensus matrimoniale e deductio in domum. - 6. Il valore del consenso nelle varie tipologie di relazione. - 7. Consensus e furor: l’incidenza della pazzia sulla relazione coniugale. - 8. Il consenso dei nubendi quale approdo giurisprudenziale: interessi privati e pubblici.



1. Cenni introduttivi



Recentemente si è reso necessario introdurre nel nostro ordinamento il reato di “costrizione o induzione al matrimonio”1 ; pare quindi opportuno interrogare le fonti antiche sul valore del consensus matrimoniale, atteso che, in proposito, il mondo romano conosce un lungo percorso evolutivo, entro il quale proprio il consenso relativo ai rapporti affettivi e familiari conosce una multiforme attribuzione di significato. Nel presente lavoro si intende appunto considerare alcuni istituti e questioni tipici del matrimonio, evidenziando il valore giuridico attribuito al consenso dei nubendi. Il matrimonio romano, sovente preceduto da un periodo di fidanzamento2 , può essere validamente contratto da un uomo che abbia raggiunto i quattordici anni e da una donna almeno dodicenne3 ; presuppone l’assenza di furor4 , la capacità di contrarre le nozze, ovvero il conubium5 , e richiede che non esistano impedimenti, come, ad esempio, la sussistenza di altri legami matrimoniali o relazioni di parentela ed affinità6 . Se si tratta di nozze celebrate tra soggetti ancora sottoposti alla patria potestas è di regola necessario (anche) il consenso paterno. Ed è appunto la ‘questione’ del consenso a caratterizzare l’istituto sin dal suo presupposto naturale, il fidanzamento; nel periodo arcaico e, probabilmente, sino al I sec. a.C., esso si ‘contrae’ necessariamente mediante una sponsio, ovvero una promessa solenne e formale che il pater familias della donna rivolgeva al futuro sposo o al di lui pater qualora l’uomo fosse ancora alieni iuris, cioè sottoposto all’avente potestà; il futuro matrimonio del sottoposto costituiva oggetto della promessa e l’eventuale inadempimento era imputato al promittente, il quale rispondeva con il pagamento di una somma di denaro. La rilevanza del consenso dei diretti interessati costituisce invece una questione peculiare, che impegna i giuristi relativamente tardi; solo col tempo si giunge infatti ad un principio di libertà matrimoniale, per cui anche la promessa di una somma di denaro condizionata dall’ipotesi di mancata celebrazione delle nozze non riceve più alcuna tutela processuale e l’eventuale attore, che agisce per ottenere il pagamento, si vedrà opporre dal convenuto l’exceptio doli, idonea a paralizzarne l’iniqua pretesa7 . I giuristi arrivano così a definire il concetto di libertà nelle relazioni coniugali, non solo con riferimento ai matrimoni già in essere, ma anche alle nozze che ancora devono essere celebrate8 .



2. L’elemento della volontà



Il consenso dei nubendi è una condizione necessaria per la validità del matrimonio: si tratta di un elemento costitutivo9 che non può mancare. Inoltre, il concetto di consensus si interseca con quelli di volontà10 e di affectio maritalis, istituti dalle disparate sfumature, a seconda del contesto in cui sono descritti e che ricorrono spesso nelle fonti11. Ai fini della sussistenza del rapporto coniugale non è condizione né sufficiente né utile neppure l’unione carnale; nel commento di Ulpiano a Sabino leggiamo infatti, che […] non enim coitus matrimonium facit, sed maritalis affectio […]12; il giurista “propone un concetto di comunione di vita che trova nella coabitazione degli sposi una espressione consueta, ma non necessaria. Infatti, egli nega importanza essenziale alla consumazione del matrimonio, perché nega importanza essenziale alla coabitazione dei coniugi”13; come noto, il principio è ancora ribadito nello stesso commento a Sabino: […] nuptias enim non concubitus, sed consensus facit14. Dell’affetto coniugale l’honor matrimonii, che consiste nella manifestazione sociale del rispetto del vincolo, è una chiara espressione15 e spesso costituisce un elemento di distinzione tra un’unione matrimoniale e un altro tipo di stabile convivenza, ovvero il concubinato16. Nel matrimonio si riscontra altresì, una netta predominanza del ‘fatto’ sulla ‘prova’17; ed in effetti proprio le prove, che eventualmente venissero predisposte dalle parti, rivestono un ruolo marginale se paragonato alla funzione che invece, ha la volontà dei coniugi di (continuare a) considerarsi marito e moglie18. La prova consente di attestare la sussistenza del rapporto e il previo atto di matrimonio; i sette testimoni richiesti dalla normativa matrimoniale augustea fungono ad probationem tantum ed esclusivamente con riguardo all’applicazione di quelle leggi che ne richiedono la presenza ai fini della loro operatività19. È dunque il consenso dei nubendi, prestato inizialmente, a fondare la validità dell’atto di matrimonio20 e quindi della ‘celebrazione’; il consensus continuus, cioè quello che nella quotidianità è reciprocamente e reiteratamente manifestato, permette invece il perdurare del ‘rapporto’21. Va rilevato che parte della dottrina ritiene che sia sufficiente il consensus continuus che riguarda la continuazione del rapporto e c’è chi ritiene che il consenso iniziale sia sì una condizione essenziale, che tuttavia è postulata dalla manifestazione del consenso continuo al rapporto22. Pare quindi verosimile scindere da un lato il momento costitutivo del matrimonio, che richiede un consensus che ha ad oggetto l’atto e dall’altro il tempo successivo del rapporto, che necessita di una reiterazione continuata di volontà. In proposito, non si può che accogliere l’osservazione di Astolfi, fondata sul rilievo che il venir meno di un impedimento iniziale non osta alla prosecuzione di quel rapporto matrimoniale che sia stato in primis fondato su una volontà iniziale e in secundis consolidato attraverso la manifestazione di un consenso continuo che abbraccia anche il momento del venir meno dell’impedimento23. Il fatto che sia stata scelta una particolare forma solenne di celebrazione non assegna al matrimonio una più solida validità, né costituisce un’efficace garanzia di una sua più lunga durata; i coniugi hanno infatti la possibilità di sciogliere il loro matrimonio divorziando e quindi manifestandosi reciprocamente una volontà speculare e contraria rispetto a quella dichiarata al momento delle nuptiae; va premesso che l’intenzione di sciogliere il matrimonio produce effetto anche qualora sia unilateralmente espresso, nella forma del repudium24. Tuttavia il vincolo matrimoniale non si dissolve per una eventuale breve interruzione della convivenza matrimoniale, allorché, subito dopo, i coniugi la riprendano, come se nulla fosse25. Il giurista Paolo prende in considerazione gli impeti d’ira e quegli intensi stati d’animo che, per loro connotazione intrinseca, sono inidonei a compromettere la volontà di considerarsi marito e moglie, anche quando la veemenza delle pulsioni ingenera comportamenti incompatibili col rapporto coniugale; ad esempio, un violento litigio tra moglie e marito può portare uno dei due a manifestare la volontà di interrompere il coniugio, per poi ridimensionarsi in atteggiamento di riconciliazione26. Nel pensiero del giurista, in particolare in D. 24.2.3, bene si esprime la mentalità classica relativa al matrimonio, che si contrappone a quella giustinianea, che fa prevalere la forma sulla sostanza; nel matrimonio classico le nozze si reggono sul consenso e sulla volontà dei coniugi; e il sentimento che porti ad un divorzio effettivo deve radicarsi così nel profondo da assurgere ad un giudizio dell’animo. Ampio spazio viene dunque dato ai sentimenti ed agli stati d’animo: i vincoli matrimoniali sono liberi27 e, per questo, intrisi di volontà reale e coinvolgimento dell’intimo28. Si è anche sospettato della genuinità del testo di Paolo, proprio perché ampio spazio viene dato alla dimensione intimistica; in realtà, se si ha presente il pensiero del giurista, non ci si deve stupire del modernismo della sua posizione. In ogni caso, la volontà ed il consenso quali elementi costitutivi delle nuptiae sono, più in generale, strutture tipiche del diritto classico.



3. Captivitas e postliminium nella vicenda matrimoniale



Anche sulla base delle precedenti osservazioni, si comprende meglio il particolare regime previsto per il matrimonio nel caso in cui uno dei due coniugi venga fatto prigioniero dal nemico. È noto l’istituto del postliminium, per cui il cittadino romano, che sia stato in condizioni di captivitas ed abbia quindi perduto lo status libertatis29, ritornato in patria30, viene reintegrato di tutti i suoi diritti che, dormienti, si finge che non siano stati mai perduti; detto in altre parole, costui si riappropria delle proprie condizioni giuridiche come se non le avesse mai perdute, ma con alcune eccezioni: tra esse le questioni inerenti al possesso materiale dei beni, dal momento che si tratta di rapporti di fatto che si fondano sulla continuità materiale del rapporto sussistente con le res stesse ed il matrimonio, che, a sua volta fondato sulla continuità, necessiterà di una nuova manifestazione del consenso31. I giuristi esprimono chiaramente la differenza che intercorre tra due posizioni ben distinte: quella di figlio e quella di marito; il primo, terminata la captivitas e rientrato in patria, viene riaccolto nella familia ove riacquista immediatamente il suo status; il secondo dovrà riconfermare il consenso nuziale32, per dare nuovamente vita al matrimonio. La ragione di questo regime si rinviene nel fatto che lo stato di cattività interrompe la possibilità di manifestare la volontà e, dunque, anche il consenso che, nel matrimonio, deve essere continuato, eccezion fatta per i brevi intervalli di sospensione, imputabili a stati d’animo passeggeri o ad impeti d’ira33. La giurisprudenza romana specifica ulteriormente come non sia sufficiente una manifestazione di consenso costante espressa però unilateralmente: il desiderio continuo di una moglie che ‘attende’ il ritorno di un marito fatto prigioniero non è condizione sufficiente per la permanenza del matrimonio34, dal momento che la manifestazione di consenso di uno dei due si è interrotta e necessiterà appunto di un ripristino.

Anche Trifonino35 si occupa di un rapporto filiale condotto nel contesto di una captivitas, ma la fattispecie è differente e peculiare rispetto a quella descritta da Paolo: un pater in prigionia non ha la possibilità di manifestare il proprio consenso alle nozze del figlio – che, come sappiamo, è necessario –; il matrimonio è comunque validamente celebrato, per effetto della manifestazione del consenso del figlio nubendo36; la captivitas, se impedisce la manifestazione del consenso paterno, rende altresì impossibile l’esternazione di un ipotetico dissenso. La mentalità classica sembra dunque propendere per un favor matrimonii, ponendo come limite invalicabile di validità la sussistenza del consenso dei diretti interessati, che, come detto, ha un ruolo centrale ed essenziale37.



4.1. Conventio in manum, matrimonio e consensus.



La confarreatio È preliminarmente necessario avere ben chiara la distinzione che sussiste tra la conventio in manum e il matrimonio; con la prima iunctura si indica generalmente il fenomeno per cui una donna si aggrega ad una familia, assoggettandosi al potere38 di un pater; il matrimonio è (più semplicemente) costituito dall’unione di un uomo ed una donna, dotati di conubium, che, in assenza di impedimenti, consensualmente scelgono di considerarsi marito e moglie. Vi fu una fase storica in cui era frequente che attraverso una particolare forma matrimoniale si producessero contestualmente entrambi gli effetti, quello di convenire in manum39 e quello di celebrare l’unione nuziale. È il giurista Gaio ad informarci sui tre modi con cui la donna passava sotto la manus di un avente potestà: si tratta dell’usus, ovvero una convivenza condotta a fini matrimoniali e protratta per almeno un anno consecutivo; la confarreatio, una cerimonia religiosa formale e solenne; la coemptio, che consisteva in una sorta di vendita imaginaria con la quale il pater familias della donna alienava la stessa ad un altro pater familias40. Due furono quindi i ‘tipi’ di matrimonio – cum manu e sine manu – e tre erano le ‘forme’ previste per convenire in manum. Il matrimonio cum manu prevedeva appunto il passaggio della manus sulla donna dalla famiglia di origine alla famiglia del futuro marito; ella entrava così a far parte del nuovo nucleo rivestendo la posizione di ‘figlia’41. La manus è forse un’applicazione del ius vendendi, ovvero il diritto del pater familias di vendere il proprio sottoposto ad un altro soggetto sui iuris; è presumibile che il fine dell’istituto non fosse (solo) quello economico, ma si realizzasse (anche) nella costituzione di legami parentali e clientelari, intercorrenti tra ‘clan’ diversi42. La prassi di associare la conventio in manum al matrimonio restò in uso almeno sino alla fine dell’età repubblicana, per poi conoscere la progressiva sovrapposizione da parte del matrimonio sine manu43, fondato e costituito esclusivamente attraverso la manifestazione del consenso dei nubendi, senza ulteriori formalità e senza necessità che la donna passi da una condizione giuridica44 ad un’altra45. Almeno sino ai tempi di Gaio è in uso la confarreatio, una cerimonia religiosa con effetti giuridici mediante la quale si celebra il matrimonio, dando altresì luogo alla conventio in manum: essa consisteva in un rito durante il quale, al pronunciare di parole formali e solenni, veniva offerta a Giove una focaccia di farro, alla presenza del Pontifex Maximus, del Flamen Dialis, di dieci testimoni e di coloro che avevano la potestas sui nubendi46. In questo modo avveniva il passaggio della manus e venivano contestualmente celebrate le nozze; il consensus dei diretti interessati viene qui manifestato mediante parole e gesti simbolici, rappresentativi della volontà di contrarre il matrimonio. I nubendi si impegnano direttamente davanti alla divinità, con un rituale prestabilito; il loro consensus è necessario47, sebbene, ai fini della validità del matrimonio, sia richiesto anche l’assenso dei loro aventi potestà. Come accennato, il passaggio della manus non è sovrapponibile all’atto di matrimonio, che coincide invece con il momento in cui i nubendi decidono di dare avvio al rapporto coniugale, manifestando il loro consensus che, se continuus, consentirà al loro rapporto coniugale di perdurare nel tempo. Non v’è certezza sul termine post quem la cerimonia della confarreatio restò attiva; dopo la fine del I sec. a.C., veniva ormai impiegata saltuariamente da pochi soggetti, costituendo un presupposto necessario appartenente alla sfera del diritto sacro al fine di ricoprire legittimamente alcune cariche religiose48. A ben vedere l’effetto della confarreatio sembra essere triplice: se correttamente effettuata, realizza la conventio in manum, costituisce presupposto per ricoprire le cariche sacerdotali e perfeziona un matrimonio valido a fini religiosi. Contrariamente, una cerimonia confarreata che presenti vizi non realizza la conventio in manum, non crea il presupposto necessario per la copertura di cariche sacerdotali, ma, se il consenso nuziale è correttamente manifestato, è sufficiente per la validità delle nuptiae, che, pur non avendo valore religioso, avranno effetto per il diritto “profano”49.



4.2. Il valore del consenso nella coemptio e nell’usus



Anche la coemptio realizza la conventio in manum, mediante una sorta di vendita fittizia, ove il pater familias aliena la propria figlia ad un altro pater familias50, nella cui manus ella ricade; la donna entrerà a far parte di una nuova famiglia loco filiae51, come se fosse una figlia, passando da una condizione giuridica all’altra. La coemptio costituisce anche un atto idoneo a contrarre il matrimonio solo qualora questo sia l’intento dei diretti interessati; pure in questo caso occorre quindi separare concettualmente quella che è la conventio in manum dalla volontà nuziale dei nubendi: la coemptio, compiuta per aes et libram52, può infatti essere precedente53 o successiva54 alla celebrazione delle nuptiae; qualora invece sia contestuale alla manifestazione del consenso nuziale, eseguita matrimonii causa, realizza la conventio in manum, costituendo altresì il matrimonio. In dottrina il rapporto tra coemptio e matrimonium non è accolto in modo omogeneo; da una parte sembra doversi limitare la coemptio matrimonii causa55 al caso in cui l’atto formale e solenne sia stato preceduto dal matrimonio; dall’altro – specialmente con riferimento alla fase più risalente – si attribuisce alla coemptio il doppio effetto di realizzare la conventio in manum e costituire il matrimonio56. Così come avviene per la confarreatio, un eventuale vizio di forma rende invalida la coemptio, ma solo ai fini della conventio in manum, senza quindi pregiudicare l’efficacia del matrimonio in sé, rispetto al quale resterà valido atto di contrazione57. Usata abitualmente per tutta l’età risalente, almeno dalle Dodici Tavole in poi sino al Principato58, la coemptio si confrontò in seguito con la prevalenza del matrimonio sine manu, costituito e fondato sul solo consensus nuziale e consolidato mediante il consensus continuus e l’affectio maritalis. Nel caso dell’usus59 è la convivenza protratta per almeno un anno da parte dell’uomo e della donna a consentire la conventio in manum; fu la forma di conventio in manum più antica e, probabilmente, secondo il racconto di Gaio60, fu la prima a scomparire, in quanto fu pensata al solo scopo di realizzare l’acquisto della manus da parte dell’uomo. L’usus realizzava la conventio in manum anche allorché non vi si fosse provveduto con una confarreatio o con una coemptio; poteva altresì accadere che la conventio in manum per usum sanasse i vizi della confarreatio o della coemptio, giungendo al medesimo effetto voluto. Pare invece improbabile che fosse stato impiegato quale forma ‘per’ contrarre il matrimonio, atteso che è proprio il matrimonio protratto per un anno a costituire il presupposto per l’acquisto della manus per usum. Al proposito, venne elaborato un meccanismo che impediva l’automatica conventio in manum: le Dodici Tavole61 – inizialmente forse per ragioni di ordine economico-patrimoniale – stabilirono che, se la donna si fosse allontanata dalla casa coniugale per tre notti consecutive, non vi sarebbe stato l’acquisto della manus per usum e la relazione coniugale sarebbe quindi continuata sine manu62. È da ritenere che in un primo tempo coemptio e usus rappresentassero meccanismi di ordine economico e legati strettamente alla volontà dell’avente potestà; col passare del tempo è probabile che il consensus dei diretti interessati abbia acquisito sempre maggiore valore e che quindi l’usus sia caduto in desuetudine, per lasciare il posto al matrimonio sine manu, ovvero, quello fondato sulla volontà dei due nubendi di dare vita e continuare il loro rapporto coniugale, basandolo esclusivamente sul consensus e sull’affectio maritalis.



5. Il rapporto tra consensus matrimoniale e deductio in domum



La deductio in domum è un atto solenne idoneo a manifestare la volontà di contrarre un matrimonio del quale può costituire anche una prova. Essa prevede l’ingresso della moglie nella casa del marito63 e ha principalmente l’effetto di esteriorizzare il rapporto coniugale appena instauratosi, obiettivando, sotto il profilo sociale, l’affectio maritalis; va rilevato tuttavia come questo rituale non fosse indispensabile per la costituzione del matrimonio in sé64. Più precisamente, con la deductio in domum, è possibile costituire il matrimonio quando, mediante questo rito, gli sposi esprimono il loro consenso alle nuptiae; in altri casi, la deductio in domum può semplicemente costituire uno strumento per dare avvio in concreto al rapporto coniugale, rappresentandone anche un elemento di prova. I coniugi sono, in prima persona, protagonisti dell’atto; lo è la donna, in quanto è colei che fa ingresso nella casa dell’uomo, ove dunque si trova il domicilio coniugale; lo è anche l’uomo, che l’accoglie e le permette l’ingresso65. Da un passo di Scevola66 è deducibile che il rito possa essere contestuale al matrimonio e quindi rappresenti idonea manifestazione di consenso nuziale, oppure che l’atto sia successivo alla costituzione delle nuptiae. Come accennato67, la deductio in domum può essere essa stessa atto di contrazione del matrimonio in quanto sede di esternazione del consenso nuziale; in alternativa, può seguire la celebrazione del matrimonio, costituendo una prova di avvio del rapporto coniugale. A riprova del fatto che la deductio in domum non sia essenziale per la costituzione delle nuptiae sta quanto esemplificato da Astolfi68: una donna può trovarsi (già) nella casa dell’uomo anche in assenza di matrimonio, in posizione di concubina; ma è l’eventuale successivo mutamento di animus a modificare lo status dei soggetti. Nel matrimonio classico è infatti solo quando l’uomo e la donna iniziano a considerarsi e a trattarsi come marito e moglie, esprimendo l’honor matrimonii, che il rapporto matrimoniale viene a costituirsi, “automaticamente, senza ricorso alla deductio in domum”, dalla quale si può dunque prescindere69.



6. Il valore del consenso nelle varie tipologie di relazione



Il mondo romano conosce varie forme di relazioni di convivenza: quella coniugale, tra un uomo ed una donna liberi e dotati di capacità matrimoniale reciproca; il concubinato, che può sussistere tra un uomo ed una donna liberi70 e non intenzionati a considerarsi reciprocamente moglie e marito; la relazione stabile tra un uomo libero ed una donna schiava71, la cui condizione impedirebbe obiettivamente la contrazione del matrimonio; ed infine la relazione (stabile) tra schiavi. Più precisamente, il concubinato ha in sé il carattere della volontarietà bilaterale, della stabilità e della liceità72, ma difetta di affectio maritalis, poiché i concubini manifestano un consenso diretto alla relazione non coniugale, senza quindi volersi considerare moglie e marito. Solo il consenso che si estrinsechi in affectio maritalis fonda il matrimonium, sia esso iustum o iniustum, ovvero privo dei requisiti richiesti e dal quale non è sempre possibile differenziare il concubinato73. Sembra dunque che nel concubinato prevalga l’elemento negativo: l’uomo e la donna non intendono (o, talvolta, semplicemente non possono) considerarsi coniugi, pur facendo convergere il loro consensus verso una unione affettiva stabile.

Scorrendone l’evoluzione storica74 è possibile affermare che il concubinato è una pratica abbastanza diffusa già in epoca repubblicana; in particolare, con riferimento al III-II sec. a.C., Plauto ne rappresenta una fonte: laddove la relazione è stabile e duratura, sebbene di tipo non matrimoniale, la donna viene definita concubina. La scelta terminologica del commediografo, al di là dei meri risvolti lessicali, consente di evidenziare che l’essenza del concubinato risiede nella volontà e nel consenso reciproco da parte dei diretti interessati, i quali, in luogo del matrimonio o di altre relazioni più ‘frivole’, scelgono di dare vita ad una stabile unione duratura. In particolare, nel Miles gloriosus, l’autore usa i termini meretrix75 (prostituta), amica76 (si allude alla donna con la quale si intrattengono relazioni di tipo saltuario e furtivo, una sorta di ‘amante’) e, appunto, concubina77 (ossia la donna che conduce un rapporto stabile e continuativo con un uomo non sposato, oppure vedovo)78. Talvolta chi sceglie il concubinato manifesta anche la volontà di essere fedele nel rapporto; sembra riscontrarsene una testimonianza ancora nell’affresco plautino79, unitamente al fatto che – almeno nel Miles – non si registrano ipotesi di concubinati condotti contestualmente a unioni di tipo coniugale80. In proposito, stando ad una possibile interpretazione di un passo del De oratore di Cicerone81, si ipotizza invece un caso di coesistenza tra un rapporto matrimoniale ed uno di concubinato82. Il secolo che separa Plauto da Cicerone potrebbe far supporre che, solo sul finire dell’età repubblicana, il concubinato possa essere esclusivo, oppure possa anche coesistere con un matrimonio, per cui un uomo può volontariamente condurre una relazione coniugale, unitamente ad un rapporto stabile e duraturo con un’altra donna diversa dalla propria moglie83; tuttavia, il riferimento a tempi antichi (quod usu memoria patrum venit), contenuto in Cicerone, unitamente al tenore comico e concitato dei loci plautini, non consente di escludere con certezza – anche riguardo al III-II sec. a.C. – l’esistenza di più concubinati o, addirittura, una coesistenza tra matrimonio e concubinato. In età classica non ci si stupisce né di un rapporto coniugale coesistente con un concubinato, né di un plurimo rapporto di concubinato84, situazione probabilmente non vietata dal ius civile, anche se contraria ai boni mores85. Ma non sempre il concubinato è ben visto, anzi in alcuni casi è escluso; la relazione tenuta con la figlia della sorella è considerata incesto ed è vietata, già in età repubblicana86. Con la legislazione augustea87 viene perseguito come stuprum il rapporto sessuale non matrimoniale intrattenuto con una donna onorata e non sposata; questo comporta una limitazione dei casi in cui il concubinato si può condurre lecitamente, ovvero solo laddove non si configuri stuprum88. Nell’intento di dare impulso alla propria politica matrimoniale, Augusto arriva a disciplinare (indirettamente) il concubinato; in quest’ottica, deve essere ad esempio interpretato un frammento di Marciano89: nec adulterium per concubinatum ab ipso committitur. Nam quia concubinatus per leges nomen assumpsit, extra legis poenam est, ut et Marcellus libro septimo digestorum scripsit: al di là delle tesi che vedrebbero un intervento successivo sul testo, in particolare relativo all’espressione per leges nomen assumpsit, si può realisticamente ritenere che la disciplina del concubinato consista proprio in un effetto indiretto della legislazione augustea90; la lex Iulia de adulteriis coercendis, fornendo un elenco di categorie di donne con le quali non si commette stuprum, stabilisce indirettamente quando è ammesso il concubinato91; la lex Iulia et Papia delinea nettamente i confini tra matrimonio e concubinato; stabilendo alcuni impedimenti matrimoniali, si arrivano così a definire i casi in cui ricorrere al concubinato rimane l’unica scelta possibile per chi intenda dare vita ad un rapporto stabile e duraturo tra un uomo e una donna92. La relazione di concubinato può essere così condotta con una fanciulla di età non inferiore ai dodici anni93, in assenza di legami parentali94, tra persone fra cui intercorra una grande disparità sociale, con una donna obscuro loco nata95 – come ad esempio le figlie di attori, attrici, mezzane –, con una mezzana, con un’attrice, un’adultera96, una donna condannata in un pubblico giudizio97, una prostituta98, una liberta (da parte del suo patrono)99.

Come dimostrano i precedenti riferimenti alle fonti, il fenomeno del concubinato vide così larga diffusione da richiedere l’intervento interpretativo dei giuristi, i quali riflettono sulla natura e sulle caratteristiche di questo tipo di unione, proprio al fine di differenziarlo dal matrimonio e di regolarlo attraverso i loro commenti alla legislazione imperiale. Un testo di Paolo definisce la natura o, meglio, l’essenza della relazione di fatto: concubinam ex sola animi destinatione aestimari oportet100; è quindi l’animi destinatio (unitamente agli impedimenti obiettivi) ad essere essenziale per stabilire la sussistenza di un concubinato in luogo di una unione coniugale, sebbene la prova circa la presenza o meno dell’affectio maritalis sia una questione non semplice, tanto che Modestino sembra delineare una sorta di ‘presunzione’: in liberae mulieris consuetudine non concubinatus, sed nuptiae intellegendae sunt, si non corpore quaestum fecerit101: la relazione di una donna libera102 che ha preservato anche l’onestà dei costumi (si non corpore quaestum fecerit) si presume che consista in un matrimonio. Per trarre qualche conclusione, pare ammissibile affermare che l’animus costituisce un elemento essenziale per la configurazione di un concubinato103, ma anche che le parti sovente fanno convergere il loro consenso verso una unione non matrimoniale quando le condizioni obiettive non consentono loro una relazione coniugale. Detto in altri termini, da un lato vi è dunque l’elemento soggettivo che porta l’uomo e la donna ad optare tra relazione coniugale o convivenza non matrimoniale, dall’altro vi sono impedimenti che lasciano alle parti la sola possibilità di accontentarsi di una relazione stabile, duratura, diversa dal matrimonium e, comunque, lecita.



7. Consensus e furor: l’incidenza della pazzia sulla relazione coniugale



La rilevanza del consensus emerge simmetricamente nel fidanzamento e nel matrimonio romano anche con riferimento al furor, ossia alla pazzia, da intendersi nell’accezione di incapacità di intendere e di volere104. In generale, i giuristi sono concordi nel ritenere la pazzia come uno stato inidoneo a contrarre tanto il fidanzamento quanto il matrimonio; qualora questo stato di demenza sopraggiunga durante il rapporto, esso non costituisce però causa automatica di ripudio o divorzio. Gaio, nel suo commento all’editto provinciale, si esprime in modo chiaro con riguardo al fidanzamento: furor quin sponsalibus impedimento sit, plus quam manifestum est: sed postea interveniens sponsalia non infirmat105. Paolo, commentando l’editto del pretore, non lascia dubbi in relazione al matrimonio: furor contrahi matrimonium non sinit, quia consensu opus est, sed recte contractum non impedit106. Quanto affermato da Gaio non deve stupire, in quanto rientra in una sorta di ‘regola’ generale: furiosus nullum negotium gerere potest, quia non intellegit, quid agat107. Quando il rapporto coniugale è ormai instaurato, la pazzia sopravvenuta ha una incidenza variabile e, nella gestione delle conseguenze, i principi etici e della morale si intersecano con le ragioni e le regole giuridiche; è chiaro che il furens può non essere in grado di manifestare continuativamente il proprio consenso riguardo alla relazione nuziale e che, in alcuni casi, il suo stato è idoneo a minare le fondamenta di un rapporto che si regge proprio sulla manifestazione di volontà reciproca di considerarsi marito e moglie. Ulpiano108 affronta l’ampia casistica relativa allo stato di pazzia che sopraggiunga in costanza di matrimonio; nella consapevolezza che la questione sia da valutarsi appunto caso per caso, in modo non univoco, il giurista conferma che vi è pressoché convergenza di vedute sul fatto che la persona affetta da pazzia non possa compiere il ripudio. Ulpiano descrive poi due ipotesi in cui viene esclusa la possibilità che il pazzo possa invece subire il ripudio: ossia allorché la pazzia abbia lucidi intervalli oppure quando, anche se perpetua, risulti sopportabile per l’altro coniuge. Addirittura, in questi due casi è possibile che chi ripudia si veda attribuire la ‘colpa’ dello scioglimento del matrimonio. La motivazione addotta da Ulpiano è di grande umanità e modernità ed è posta in forma retoricamente interrogativa – quid enim tam humanum est, quam ut fortuitis casibus mulieris maritum vel uxorem viri participem esse? –: non è forse proprio dell’animo umano che il marito e la moglie debbano vicendevolmente essere compartecipi dei loro eventi fortuiti? Il giurista si occupa quindi della pazzia grave, (ferox), pericolosa tanto da far dubitare circa la speranza di guarigione; un dato sintomatico di tale gravità può essere ravvisato nel particolare accanimento contro i servi. Ebbene, in tale ipotesi, l’altro coniuge, temendo per la propria incolumità, o di rimanere senza figli desiderati, a causa delle condizioni dell’altro, può volere sciogliere legittimamente il matrimonio, senza attribuzione di colpa per nessuno. Ai nostri fini dobbiamo rilevare che consensus matrimoniale e furor possono anche coesistere, specialmente laddove vi siano lucidi intervalli di sanità mentale, nel corso dei quali viene recuperata la coscienza di considerare l’altro come coniuge e, di conseguenza, la volontà di seguitare nel rapporto. Vi sono poi certamente casi di pazzia che non escludono e non interrompono mai l’affectio maritalis, ove, ad esempio, riguardino altri aspetti della vita personale ed intima del furiosus. Quando lo stato di malattia impedisce la convergenza del consenso verso la massima esplicazione dell’affectio maritalis, ovvero la procreazione di figli legittimi, allora il giurista ammette la possibilità di un repudium. Non rilevo antinomia tra quanto affermato nel commento a Sabino (non enim coitus matrimonium facit, sed maritalis affectio109) e il quia liberos non habet110 del commento all’Editto; non si tratta neppure di una deroga o di un’eccezione: il consenso matrimoniale, di cui la maritalis affectio è pura espressione, trova la massima esplicazione nella volontà comune di procreare figli legittimi e non nel mero rapporto carnale, che, da sé solo, non costituisce e non fonda il matrimonio. Quando invece lo stato mentale è tale da compromettere il consenso, destrutturando la maritalis affectio, allora si legittima il repudium, essendo venuto a mancare l’elemento essenziale del matrimonio classico. Chi è affetto da pazzia non può porre fine al matrimonio, neppure attraverso il proprio curatore; tuttavia è possibile che sia il pater familias a notificare il repudium; lo ricorda già Giuliano, in età classica: […] et scribit […] repudiare autem non posse neque ipsam propter dementiam neque curatorem eius, patrem tamen eius nuntium mittere posse111; anche Ulpiano, in età severiana, lo conferma, in quanto il pazzo – come visto – sensum non habet112 e quindi non può ripudiare; se addirittura ad essere furentes sono entrambi i coniugi, non è detto che il matrimonio non possa continuare a fondarsi sul loro reciproco consenso e che i figli nati da questa unione non possano considerarsi legittimi e normalmente sottoposti al pater113.



8. Il consenso dei nubendi quale approdo giurisprudenziale: interessi privati e pubblici



Come accennato, sin dall’età più antica, persisteva l’uso dei patres familias di imporre ai propri sottoposti una scelta matrimoniale da questi non condivisa; sovente infatti il capo famiglia stringeva accordi giuridicamente vincolanti per mezzo dei quali garantiva il matrimonio di chi era in potestate114. Qualora il matrimonio non fosse stato celebrato per motivo imputabile al promittente, colui che aveva ricevuto la promessa aveva la possibilità di agire in giudizio per ottenere il ristoro del pregiudizio subìto attraverso una valutazione equitativa del giudice. Al fine di semplificare gli oneri probatori relativi al quantum debeatur e la conseguente valutazione discrezionale del iudex, venne introdotta la prassi di effettuare una promessa di denaro condizionata alla mancata celebrazione del matrimonio115; al verificarsi dell’elemento accidentale, l’attore poteva così agire per una somma determinata di denaro, con evidente semplificazione della fase istruttoria116. A partire dal periodo classico i giuristi discutono il problema del consenso del diretto interessato, ad iniziare da Giuliano117, il quale pone il problema dell’adesione volontaria della figlia sottoposta, per arrivare poi a Paolo118, che, durante l’età dei Severi, attesta che qualunque forma costrittiva al matrimonio (che passi attraverso la minaccia del pagamento di una somma di denaro promessa) è contraria ai buoni costumi ed alla morale, sancendo così la piena libertà di matrimonio e di divorzio119. Così come il pater poteva imporre il matrimonio al sottoposto, quest’ultimo non poteva liberamente sposarsi senza avere avuto il consenso del genitore120; qualora il sottoposto avesse contratto matrimonio in assenza di consenso paterno, le nozze sarebbero state valide solo a seguito di una ratifica da parte del genitore; va precisato però che il legame instauratosi prima dell’autorizzazione paterna non è del tutto improduttivo di effetti; se, ad esempio, prima della ratifica la donna commette tradimento, l’uomo può, a certe condizioni, esperirle contro un’azione penale, sebbene la sua legittimazione processuale attiva non sia ‘qualificata’ come se si trattasse di un matrimonio approvato e quindi valido121. Si assiste però, come visto, al progressivo divieto di obbligare altri ad una relazione matrimoniale non voluta e, più in generale, alla dichiarazione di invalidità di quei negozi idonei a viziare il libero consenso matrimoniale; l’obbiettivo si persegue attraverso vari meccanismi processuali122. Allo stesso modo – seppure per ragioni differenti – l’ingiustificato rifiuto paterno alle nozze dei sottoposti, col tempo, viene progressivamente ridimensionato; sono principalmente motivi di interesse pubblico e, in particolare, la politica matrimoniale augustea a dare rilievo al consenso nuziale degli interessati, inibendo l’illecito e ingiustificato ‘ostruzionismo’ da parte dell’avente potestà. Costui, a seguito di un ricorso al pretore da parte del suo sottoposto, potrà quindi essere costretto a prestare il proprio consenso alle nozze e persino a fornire di dote la propria figlia123. In tal modo l’ordinamento, perseguendo gli interessi pubblici, favorisce indirettamente l’autonomia dei figli, tanto con riferimento alle decisioni legate alla sfera personale ed intima, quanto riguardo alla possibilità di fruire di una dotazione economica, finalizzata ad esempio alla ricerca di un ‘buon partito’. In proposito, si propone un frammento tratto dalle Istituzioni di Marciano, tanto interessante quanto complesso: capite trigesimo quinto legis Iuliae qui liberos quos habent in potestate iniuria prohibuerint ducere uxores vel nubere, vel qui dotem dare non volunt ex constitutione divorum Severi et Antonini, per proconsules praesidesque provinciarum coguntur in matrimonium collocare et dotare. Prohibere autem videtur et qui condicionem non quaerit124; sulla base della normativa augustea, poi confermata – e forse anche ampliata – da un provvedimento di Settimio Severo e Caracalla, i padri che abbiano figli in potestà, i quali chiedano loro il permesso di sposarsi – nonché la costituzione di una dote – non possono indebitamente (iniuria) esimersi dall’assecondare i desiderata dei figli. E a questo possono essere costretti dall’intervento dei proconsules e dei praesides provinciarum. Si può supporre che, mentre in provincia la competenza a giudicare sulle richieste dei sottoposti spettava ai proconsoli ed ai presidi, nell’Urbs il magistrato competente fosse il praetor urbanus. Astolfi125 ritiene che il provvedimento degli imperatori – di cui al frammento – costituisca un approdo di un percorso storico già in atto, ed opportunamente fa riferimento ad un passo tratto dai digesta di Celso126, giurista di età adrianea, che, per quanto concerne la costituzione della dote, allude proprio ad un officium dell’avente potestà. Si assiste quindi ad un percorso evolutivo che va dall’imposizione matrimoniale da parte dell’avente potestà sino alla piena considerazione del consenso dei nubendi, anche quando si tratti di persone alieni iuris. Il giurista Giuliano127 riferisce che, nell’ambito del fidanzamento di una fanciulla, se il pater non dissente apertamente dalla scelta matrimoniale della figlia, il suo silenzio può essere interpretato come un assenso; dal tenore del passo del giurista possiamo ritenere che la medesima disciplina vada estesa anche alle nozze: tanto per il fidanzamento quanto per il matrimonio, è quindi richiesto il consenso degli stessi soggetti e, in particolare, anche quello di coloro che si fidanzano e si sposano. Lo stesso Giuliano128 esplicita ancora che il fidanzamento, così come le nozze, si pongono in essere mediante il consenso di chi li contrae; ed è pertanto necessario che anche la figlia sottoposta acconsenta tanto al proprio fidanzamento quanto al proprio matrimonio. Tuttavia, da un frammento tratto dall’opera che Ulpiano dedica agli sponsalia129, sembrerebbe dedursi che alla figlia fosse concesso di dissentire dalla scelta nuziale del padre solo in due ipotesi specifiche; più precisamente, mentre nel principium del frammento il giurista detta una ‘regola’ di carattere generale, per cui colei che non si oppone alla volontà del padre, si intende che vi acconsenta, nel successivo primo paragrafo il giurista precisa che la figlia di famiglia può opporsi alla scelta matrimoniale del padre solo qualora essa sia ricaduta su un uomo dalla morale indegna oppure deforme; è plausibile concordare con coloro che ritengono il paragrafo primo frutto di un successivo intervento da parte dei compilatori130; in effetti tra il principio di ampio respiro espresso nell’incipit del passo e la restrizione esplicitata nel prosieguo del frammento vi è una manifesta incoerenza; si può in effetti dubitare che la libertà concessa alla figlia all’epoca di Giuliano fosse stata già così limitata durante l’età dei Severi. Si pone altresì la questione se quanto affermato da Giuliano trovi applicazione per le sole figlie femmine e, di conseguenza, potrebbe dubitarsi che lo stesso trattamento possa essere esteso anche ai figli maschi, e questo forse per ragioni legate alla discendenza in linea maschile131. Solo in Paolo132, che in effetti scrive molto tempo dopo, leggiamo che filio familias dissentiente sponsalia nomine eius fieri non possunt; se dunque il figlio sottoposto dissente, non si può effettuare la promessa di matrimonio a suo nome133. Peraltro, da quanto si legge in una costituzione di Alessandro Severo134, è possibile presumere che, anche per quanto concerne il figlio maschio, almeno da un certo periodo, sussista la regola del ‘silenzio assenso’. Inoltre, è l’ipotesi di un matrimonio contratto dal figlio maschio durante la prigionia del pater a farci ulteriormente riflettere: il captivus subisce la capitis deminutio maxima, sospende l’esercizio della potestà sui figli e, dunque, per una duplice ragione, non può manifestare il consenso (né il dissenso) alle nozze del figlio; non può perché è fisicamente impossibilitato e non può perché non è giuridicamente nelle condizioni di farlo. Anche in questo caso, è il giurista Giuliano a dare maggiori segni di apertura, consentendo le nozze, purché ricorrano però alcune condizioni, ad esempio optare per una scelta che, con ogni probabilità, avrebbe compiaciuto il pater135. In età classica, se il consensus paterno conosce quindi un ridimensionamento in beneficio della scelta autonoma del sottoposto, simmetricamente, come si è visto, acquista valore la volontà dei diretti interessati, tanto con riferimento alla promessa di matrimonio, quanto con riguardo alle nuptiae in sé136. Col passare del tempo e, soprattutto, con l’avvento del Cristianesimo, tutti gli istituti discussi e trattati nella presente disamina subiscono nuovamente un profondo cambiamento; muteranno ancora i costumi, la morale, gli interventi normativi e autoritativi.

NOTE

1 Si tratta dell’art. 558-bis c.p., inserito dall’art. 7, l. 19 luglio 2019 n. 69, in vigore dal 9 agosto 2019.

2 Ovvero gli sponsalia, la promessa di matrimonio futuro con la quale ci si impegna alla celebrazione delle nozze; nel Digesto, cfr. D. 23.1.1-18, de sponsalibus.

3 Soggetti quindi capaci di avere rapporti sessuali e di procreare; cfr. Tit. ex corp. Ulp. 5.2. Si tratta di una questione che fu ampiamente discussa dai giuristi romani: da un lato i Proculiani – la cui tesi prevalse – che consideravano idonei la donna che avesse compiuto i dodici anni e l’uomo che ne avesse compiuti quattordici; dall’altro i Sabiniani, che ritenevano necessaria un’ispezione corporale da svolgersi caso per caso; basti questo cenno istituzionale, per cui si veda a. lovato, S. Puliatti, l. solidoro, Diritto privato romano, Torino, 20172, 200-201.

4 Al momento dell’atto di matrimonio; si veda infra.

5 Cfr. Tit. ex corp. Ulp. 5.2.

6 Gai. 1.58-59. Si vedano, ex multis, r. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Padova, 20142, 63 et passim; per le linee istituzionali: M. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, Torino, 20112, 204; lovato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 200-202.

7 L’ipotesi è descritta in un noto frammento tratto dai libri responsorum di Paolo, giurista di età severiana, D. 45.1.134 pr., Paul. 15 resp.

8 Rinvio ad un mio precedente lavoro: l. ingallina, Vincoli potestativi, libertà matrimoniale e responsabilità nel fidanzamento romano, in l’Osservatorio sul diritto di famiglia, a. n. 2 f. 3 settembre-dicembre 2018, 2019, 113-119, in particolare alla bibliografia contenuta alla nt. 1, a cui adde P. Ferretti, Le forme costrittive della libertà matrimoniale tra mos e ius, in AUPA 61, 2018, 97-122.

9 D. 24.1.66 pr., Scev. 9 dig.: [...] matrimonium contractum, quod consensu intellegitur [...], cfr. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 211-212, di cui la traduzione: “il matrimonio costituito, che si intende per consenso”.

10 Elemento necessario e sufficiente e che può manifestarsi in ogni modo, a prescindere dalla prova; cfr. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 63.

11 Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 211.

12 D. 24.1.32.13, Ulp. 33 ad Sab.; trad.: “non è l’unione sessuale a costituire

il matrimonio, ma l’affectio maritalis” (l’ultima iunctura possiamo tradurla anche con ‘volontà reciproca di considerarsi marito e moglie’). Sul passo si veda Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 212.

13 Così si esprime astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 77 e 114: la maritalis affectio è verosimilmente l’“affetto coniugale”, nello stesso senso anche P. voci, Istituzioni di diritto romano, Milano, 2004, 518 e nt. 27; se ne comprende il significato leggendo anche D. 48.20.5.1, Ulp. 33 ad ed.; D. 39.5.31 pr., Pap. 12 resp.

14 D. 35.1.15, Ulp. 35 ad Sab.; la fonte è ampiamente discussa sotto plurimi aspetti, ad es. sulla possibilità che la fattispecie configuri un caso di matrimonio tra assenti e su quale sia la funzione della deductio in domum, talora ritenuta elemento costitutivo del rapporto coniugale, talvolta, a mio avviso più correttamente, quale mera espressione della volontà coniugale; in questo senso cfr. r. orestano, La struttura giuridica del matrimonio romano. Dal diritto classico al diritto giustinianeo 1, Milano, 1951, 157; O. roBleda, El matrimonio en derecho romano. Esencia, requisitos de validez, efectos, disolubilidad, Roma, 1970, 89; ma si veda ancheP.giunti,Consorsvitae.MatrimonioeripudioinRomaantica,Milano,2004, 153; convergono nella direzione dell’essenzialità ad substantiam del consensus D. 20.1.4, Gai. l.s. de form. hyp., D. 22.4.4, Gai. l.s. de form. hyp., D. 24.1.66 pr., Scaev. 9 dig. (nel I sec. d.C.) e, nell’età dei Severi, D. 24.1.32.13, Ulp. 33 ad Sab. e D. 35.1.15, Ulp. 35 ad Sab.

15 D. 39.5.31 pr., Pap. 12 resp.; D. 24.1.32.13, Ulp. 33 ad Sab.



16 Vedi infra.

17 Il documento scritto, ove si registravano le nuptiae, poteva essere sostituito con altri strumenti probatori; alla confarreatio, ad esempio, cerimonia religiosa solenne, idonea a determinare il passaggio della manus, dovevano assistere anche dieci testimoni, unitamente ai patres familias, al Pontifex Maximus ed al Flamen Dialis, cioè il sacerdote di Giove; si veda infra.

18 Lo si esprime chiaramente in Quint. inst. or. 5.11.32.

19 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 84 e 102: in particolare le tre leggi augustee, la lex Aelia Sentia del 4 d. C., probabilmente anche la lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a. C., che ha un collegamento con la lex Papia Poppaea nuptialis del 9 d. C., prevedevano infatti che il matrimonio conseguisse alcuni specifici scopi, ma a tal fine prescrivevano che il matrimonio fosse supportato sotto il profilo probatorio con la presenza di sette testimoni. In assenza del requisito, il matrimonio, se non era efficace ai fini degli obbiettivi predisposti dalle leggi, era comunque in sé valido e produttivo di effetti, evidentemente poiché a questo era orientato il consenso degli sposi.

20 Si accoglie la ricostruzione di astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 84-85.

21 voci, Istituzioni di diritto romano, cit., 518; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 82.

22 Si vedano voci, Istituzioni, cit., 526; roBleda, El matrimonio, cit., 132 sub b.

23 D. 23.2.65.1, Paul. 7 resp.; D. 23.2.27, Ulp. 3 ad leg. Iul. et Pap.; D. 23.2.4, Pomp. 3 ad Sab.; cfr. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 85. Ed è altresì opportuno il riferimento che l’Autore fa al diritto canonico ed in particolare alla convalidatio simplex.



24 L’esigenza di sintesi non consente di dare conto del quadro storico relativo al tema del divorzio e del ripudio. È però doveroso riportare almeno un frammento del commento edittale di Paolo (D. 50.16.191, Paul. 35 ad ed.): inter “divortium” et “repudium” hoc interest, quod repudiari etiam futurum matrimonium potest, non recte autem sponsa divortisse dicitur, quod divortium ex eo dictum est, quod in diversas partes eunt qui discedunt, trad.: “tra divorzio e ripudio la differenza sta nel fatto che può costituire oggetto di ripudio anche un matrimonio futuro; infatti non sarebbe corretto affermare che una fidanzata abbia divorziato; poiché il divorzio è così chiamato in quanto coloro che si separano vanno verso direzioni diverse”.

25 Si ritiene particolarmente efficace un passo tratto dal commento di Marcello alla Lex Iulia et Papia (D. 23.2.33, Marcell. 3 ad leg. Iul. et Pap.): plerique opinantur, cum eadem mulier ad eundem virum revertatur, id matrimonium idem esse: quibus adsentior, si non multo tempore interposito reconciliati fuerint nec inter moras aut illa alii nupserit aut hic aliam duxerit, maxime si nec dotem vir reddiderit; trad. (per cui cfr. Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 213): “la maggioranza dei giuristi ritiene che il matrimonio sia sempre lo stesso, quando la moglie ritorni con il medesimo marito: io sono d’accordo con loro, se i due coniugi si siano riconciliati dopo un periodo di tempo non lungo e nel frattempo la donna non si sia sposata con un altro né l’uomo abbia preso un’altra moglie, soprattutto se l’uomo non abbia neanche restituito la dote”.

26 D. 24.2.3, Paul. 35 ad ed.: divortium non est nisi verum, quod animo perpetuam constituendi dissensionem fit. Itaque quidquid in calore iracundiae vel fit vel dicitur, non prius ratum est, quam si perseverantia apparuit iudicium animi fuisse: ideoque per calorem misso repudio si brevi reversa uxor est, nec divortisse videtur; trad.: “non esiste alcun divorzio se non sia effettivo e ciò si verifica solo se vi è l’intenzione (consapevole) di porre in essere un distacco definitivo. Pertanto, tutto ciò che nell’impeto dell’ira venga fatto o detto, non è efficace prima che appaia, per la sua persistenza, come un giudizio dell’animo (che riguarda la volontà interiore): perciò nel caso di una moglie, che abbia ripudiato per impeto d’ira e che dopo poco tempo sia ritornata, non si ritiene che abbia divorziato”.

27 D. 45.1.134 pr., Paul. 15 resp.: [...] quia inhonestum visum est vinculo poenae matrimonia obstringi sive futura sive iam contracta; trad.: “dal momento che apparve spregevole costringere ad un matrimonio mediante minaccia di pagare una penale, e questo tanto con riferimento ai matrimoni futuri quanto relativamente a nozze già contratte”.

28 Come rileva Brutti (Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 214), nel periodo classico, la pregnanza degli stati dell’intimo trovano giustificazione nella centralità del consenso.



29 La capitis deminutio, la perdita delle qualità giuridiche di un individuo è, in caso di cattività, maxima: ossia riguarda la libertà, la qualità di cittadino e la posizione familiare.

30 Con l’intenzione di rimanervi.

31 Si vedano, per gli aspetti istituzionali lovato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 162 e, tra i molti che del tema si sono occupati, astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 65; sul tema generale l. aMirante, Captivitas epostliminium,Napoli,1950;M.v.sanna,Capitisdeminutioecaptivitas,inDiritto@ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 6, 2007.

32 D. 49.15.14 pr.-1, Pomp. 3 ad Sab.: cum duae species postliminii sint, ut aut nos revertamur aut aliquid recipiamus: cum filius revertatur, duplicem in eo causam esse oportet postliminii, et quod pater eum reciperet et ipse ius suum. 1. Non ut pater filium, ita uxorem maritus iure postliminii recipit: sed consensu redintegratur matrimonium; trad.: “dal momento che ci sono due specie di postiliminium, cioè quando noi ritorniamo o quando recuperiamo qualcosa: quando il figlio ritorna sussiste doppiamente la causa di applicazione del postliminium, sia perché è il padre che recupera il figlio, sia perché il figlio recupera il proprio diritto. Diversamente da quello che avviene per il padre nei confronti del figlio, il marito non può recuperare la moglie in virtù del diritto di postliminium: ma (solo) con il consenso si può rinnovare il matrimonio”. Sulla fonte e sul confronto con l’innovazione giustinianea, attestata in D. 24.2.6, Iul. 62 dig. e D. 49.15.8, Paul. 3 ad leg. Iul. et Pap., si veda astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 65-66: i due frammenti, da confrontarsi con Nov. 22.7, provano come i compilatori negassero che la prigionia di guerra sciogliesse il matrimonio.

33 Vedi supra, l’esempio tratto dal commento edittale di Paolo: D. 24.2.3, Paul. 35 ad ed.

34 D. 49.15.12.4, Tryph. 4 disp.: sed captivi uxor, tametsi maxime velit et in domo eius sit, non tamen in matrimonio est, trad: “ma la moglie di colui che è stato fatto prigioniero, sebbene fortemente lo voglia ed anche se si trovi nella di lui casa, non è nella condizione matrimoniale”.

35 Giurista del II sec. d.C.; fu allievo di Cervidio Scevola e fece parte del consilium principis dell’imperatore Settimio Severo.

36 Lo specifica nel paragrafo precedente dei suoi libri disputationum (D. 49.15.12.3, Tryph. 4 disp.): medio tempore filius, quem habuit in potestate captivus, uxorem ducere potest, quamvis consentire nuptiis pater eius non posset: nam utique nec dissentire [...]: “il figlio in potestà di un padre prigioniero può sposarsi, sebbene il pater non possa acconsentire alle nozze, infatti allo stesso modo non può dissentire”.

37 Lo conferma, occupandosi di un contesto affine e finalizzato alle nozze, anche Giuliano nei suoi Digesta (D. 23.1.11, Iul. 16 dig.): sponsalia sicut nuptiae consensu contrahentium fiunt [...], trad.: “il fidanzamento, così come il matrimonio, si costituiscono con il consenso di chi li contrae”.

38 In questo caso detto manus; Gai. 1.109.

39 Tra i molti che si sono occupati di conventio in manu si veda, per appro-

fondire il tema, i. Piro, “Usu” in manum convenire, Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza di Catanzaro, Napoli, 1994.

40 Gai. 1.109-110: [...] in manum autem feminae tantum conveniunt. 110. Olim itaque tribus modis in manum conveniebant: usu, farreo, coemptione.

41 Gai. 1.111, 1.114, 2.139, 2.159; coll. 16.2.3.

42 Si veda F. laMBerti, La famiglia romana e i suoi volti. Pagine scelte su diritto e persone in Roma antica, Torino, 2014, 12.

43 Sul tema ex multis e. volterra, La conception du mariage d’après les juristes romains, Padova, 1940, passim; id. Ancora sulla manus e sul matrimonio, in Scritti giuridici 2, Napoli, 1991, 83-96; r. astolFi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, Padova, 2000, 295 ss.; Fayer, La familia romana 2, cit., 185 ss., con fonti e bibliografia; laMBerti, La famiglia romana, cit., 12-13.

44 La sottoposizione al proprio avente potestà, oppure lo stato di soggetto sui iuris.

45 La soggezione al proprio marito o al di lui avente potestà.

46 Gai. 1.112; Tit. ex corp. Ulp. 9; qualche cenno in Tac., ann. 4.16.1-2. Si rinvia a Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 183; lovato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 197; c. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari 2. Sponsalia matrimonio dote, Roma, 2005, 223-244; laMBerti, La famiglia romana, cit., 13.

47 Si veda anche astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 162.

48 Gai. 1.112.

49 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 93.

50 Gai. 1.113, per un cenno istituzionale si rinvia a Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 183-184; lovato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano2, cit., 198; si vedano ex multis Fayer, La familia romana 2, cit., 245-269; laMBerti, La famiglia romana, cit., 13-14; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 94-95; se era sui iuris, di proprio diritto, la donna poteva ‘alienare’ se stessa ad un pater familias, con l’assistenza di un tutore.

51 Così si esprime Gaio in 1.114.

52 Per bronzo e per bilancia; si tratta quindi di un gesto rituale e simbolico,

compiuto formalmente alla presenza di cinque testimoni e di un libripens, colui che reggeva la bilancia.

53 Gai. 2.139.

54 Gai. 1.114, 115 b.

55 Di cui in Gai. 1.114.

56 Per la discussione in merito si vedano roBleda, El matrimonio, cit., 32; u.

Bartocci, Le species nuptiarum nell’esperienza romana arcaica, Roma, 1999, passim; nonché la ricostruzione di astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 92-95 e nt. 56. Sul tema, si rinvia anche a Non. 852, 8 L., s.v. nubentes, e agli studi di giunti, Consors vitae, cit., 392.

57 Si accoglie così la ricostruzione di astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 94-95.

58 Ma si veda Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 183; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 94; l’Autore sottolinea che l’istituto restò in uso anche in età classica e che gli si riconobbe utilità sino al IV-V sec. d.C.

59 Pare qui opportuno solo qualche cenno istituzionale, per cui si rinvia a lovato, Puliatti, solidoro, Diritto privato romano, cit., 198.

60 Gai. 1.111.

61 Tab. 6.4.

62 Così ricaviamo da una possibile interpretazione di Gai. 1.111; qualche riferimento in Gell. 3.2.12-13.

63 Sul rito si vedano ex multis u. e. Paoli, Vita Romana, Firenze, 1962, 276278; P. griMal, L’amore a Roma (trad. it. di D. Interlandi), Milano, 1964, 57-59; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 95-96.

64 Si veda Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 220-221, con casistica e relative fonti.

65 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 95, 97.

66 D. 24.1.66 pr.-1, Scaev. 9 dig.

67 Ed accogliendo la posizione di astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., p. 100.

68 Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 100-101.

69 Cfr. D. 35.1.15, Ulp. 35 ad Sab.: cui fuerit sub hac condicione legatum “si in

familia nupsisset”, videtur impleta condicio statim atque ducta est uxor, quamvis nondum in cubiculum mariti venerit. Nuptias enim non concubitus, sed consensus facit.

70 D. 25.7.3 pr., Marcian. 12 inst.: in concubinatu potest esse et aliena liberta et ingenua et maxime ea quae obscuro loco nata est vel quaestum corpore fecit [...]; trad: “si può condurre un concubinato con una libertà altrui e con una donna libera e soprattutto quando essa è di origine dubbia o abbia fatto mercimonio del suo corpo”; il giurista elenca alcune categorie di donne con le quali è lecito condurre un rapporto di concubinato; si veda di seguito, nel prosieguo della disamina. Sul concubinato cfr. l’esaustiva ed efficace esposizione di Brutti, Il diritto privato nell’antica Roma, cit., 226-231.

71 Riconosciuta come contubernio; ma si veda il cenno alla questione che fa astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 131; per il momento basti quanto riportato in Paul. sent. 2.19.6: inter servos et liberos matrimonium contrahi non potest, contubernium potest; trad.: “tra un servo ed una persona libera non può essere contratto un matrimonio, mentre può stabilirsi un contubernio”.

72 Requisito connotato da particolare rigore in età augustea, ad es. con la lex Iulia de adulteriis del 18 a. C., che considerava illecito il rapporto sessuale con una donna libera, non sposata che abbia mantenuto sempre uno stato sociale onorevole e costumi onesti; si veda astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 130; utile è quanto riportato nel commento ulpianeo alla lex Iulia et Papia, D. 25.7.1.1, Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.: cum Atilicino sentio et puto solas eas in concubinatu habere posse sine metu criminis, in quas stuprum non committitur; trad.: “io la penso come Atilicino, e ritengo che si possano avere in concubinato solo quelle donne con le quali non si commette stuprum”.

73 Si veda astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 129.

74 Tralasciandone però la concezione che se ne ebbe in epoca più risalente, per cui si rinvia alle preziose informazioni terminologiche e concettuali contenute in un passo tratto dal commento di Paolo alla Lex Iulia et Papia, D. 50.16.144, Paul. 10 ad leg. Iul. et Pap.: libro memorialium Massurius scribit “pellicem” apud antiquos eam habitam, quae, cum uxor non esset, cum aliquo tamen vivebat: quam nunc vero nomine amicam, paulo honestiore concubinam appellari. Granius Flaccus in libro de iure Papiriano scribit pellicem nunc volgo vocari, quae cum eo, cui uxor sit, corpus misceat: quosdam eam, quae uxoris loco sine nuptiis in domo sit, quam παλλακὴν Graeci vocant; trad.: “nel libro dei memoriali Masurio così scrive: presso gli antichi veniva chiamata pellex quella donna che, pur non essendo moglie, tuttavia conviveva con qualcuno; oggigiorno la chiamiamo amica o, con un po’ più di riguardo, ‘concubina’. Granio Flacco, nel libro de iure Papiriano, così scrive: ora viene chiamata volgarmente pellex quella donna che, senza esser moglie, si unisce carnalmente con un uomo che ha moglie: quella che abita in casa con qualcuno come se fosse una moglie quando, in realtà le nozze non ci sono state, viene chiamata dai Greci παλλακή”. Cfr. l’accurata ricostruzione di s.a. cristaldi, Unioni non matrimoniali a Roma, in AA.VV., Le relazioni affettive non matrimoniali, Torino, 2014, 141-200, in particolare 143-156, con relativa bibliografia; fonti preziose sono anche Gell. 4.3.3; Fest. 248, 1 L., s.v. pelices.

75 Che compare ai vv. 93, 100, 789, 872, 881. Va però rilevato che, nel Mercator, al v. 757, il termine concubina potrebbe avere valore sinonimico rispetto a meretrix; sul locus plautino si vedano le ricostruzioni di a. watson, The Law of Persons in the Later Roman Republic, Oxford, 1967, 8; di c. castello, In tema di matrimonio e concubinato, Milano, 1940, 29 e di cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 157-158 e nt. 64.

76 Mil. glor., vv. 105, 114, 122, 263, 274, 507.

77 Mil. glor., vv. 140, 146, 336, 362, 416, 458, 470, 508, 549, 814, 937, 973, 1095, 1145. Preziosa la ricostruzione di cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 157-160.

78 Ci si può domandare se vi sia spazio per una contestualità tra un matrimonio e il concubinato con altra donna, ad esempio leggendo Stich., vv. 547 ss. (ove peraltro sembra che ci si riferisca ad una pluralità di concubine), e mil. glor., vv. 973 ss. (la causa della previa volontà di divorzio da parte del personaggio sembra doversi imputare ad una consunzione del rapporto; invece non pare potersi leggere alcuna censura al fatto che possano coesistere un matrimonio ed un concubinato; la stessa ragione potrebbe giustificare la scelta di Pirgopolinice di non avere due concubine);1094 ss. (da questi versi sembra invece potersi dedurre che è inopportuno avere a che fare contemporaneamente con due concubine); 1117 ss. (dalla narrazione si può evincere il fatto che prendere moglie sembra proprio ostare alla prosecuzione del concubinato).

79 Mil. glor., vv. 338, 364, 392, 396; si veda e. costa, Il diritto privato nelle commedie di Plauto, Torino, 1890, 184, ove l’Autore sostiene che “la concubina riconosce il dovere di mantenersi fedele all’uomo che l’ha scelta a compagna”.

80 E neppure contestualmente ad altri concubinati; cfr. cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 160.



81 Anche se il contenuto fa riferimento a ‘tempi antichi’; 1.40.183: [...] quod usu memoria patrum venit, ut paterfamilias qui ex Hispania Romam venisset, cum uxorem praegnantem in provincia reliquisset, Romae alteram duxisset neque nuntium priori remisisset, mortuusque esset intestato et ex utraque filius natus esset, mediocrisne res in contentionem adducta est, cum quaereretur de duobus civium capitibus et de puero, qui ex posteriore natus erat, et de eius matre, quae, si iudicaretur certis quibusdam verbis, non novis nuptiis fieri cum superiore divortium, in concubinae locum duceretur?; trad.: “e che cosa si può dire a proposito di ciò che avvenne al tempo dei nostri padri? Allorché un pater familias, giunto dalla Spagna a Roma, dopo aver lasciato in provincia la moglie incinta, si sposò con un’altra a Roma senza avere inviato la notifica di divorzio alla prima moglie e, padre di due figli di madre diversa, morì senza testamento. Forse si addusse come oggetto di contesa una questione di scarsa importanza poiché era in discussione lo stato civile di due cittadini, cioè del figlio nato successivamente e di sua madre, la quale sarebbe stata giudicata come una concubina se si fosse accertato che lo scioglimento di un precedente matrimonio si verifica soltanto tramite una formula giuridica precisa e non con nuove nozze sopravvenute?”. Sul testo, ex multis, e. costa, Cicerone giureconsulto, Bologna, 1927, 56; e. volterra, Per la storia del reato di bigamia, in Scritti giuridici 7, Napoli, 1999, 392; castello, In tema, cit., 48; s. treggiari, Concubinae, in PBSR, 1981, 49, 59-81, in particolare 62; r. astolFi, Sintesi della storia della bigamia in Roma, in SDHI, 2010, 76, 281-290, in particolare 282; cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 161-163.

82 cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 161-163.

83 Con riferimento all’età imperiale si veda un frammento tratto dai libri re-

sponsorum di Papiniano, D. 45.1.121.1 Pap. 11 resp., ove si attesta un accordo economico tra moglie e marito, per cui la donna si fa promettere del denaro dall’uomo per l’ipotesi in cui, durante il matrimonio, il marito avesse dato seguito all’abitudine di avere una concubina. Questa promessa (stipulatio) è valida ed effettuata secondo i buoni costumi. Si accoglie così la ricostruzione di cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 163, 171-172. Ma si rinvia anche alle osservazioni di e. volterra, Per la storia del reato di bigamia in diritto romano, in Studi in memoria di U. Ratti, Milano, 1934, 397 ss., (ora in Scritti giuridici 7, Napoli, 1999, 36 ss.); B. Biondi, Il diritto romano cristiano 3. La famiglia, rapporti patrimoniali, diritto pubblico, Milano, 1954, 127.

84 Plin., epist. 3.14; sull’argomento si veda c. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari 3. Concubinato Divorzio Adulterio, Roma, 2005, 28 nt. 72.

85 cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 172. Si deve dare conto anche di un frammento delle Pauli Sententiae, 2.20.1: eo tempore, quo quis uxorem habet, concubinam habere non potest. [...], anche se è difficile dare una collocazione temporale all’espressione ‘eo tempore’.

86 Sicuramente lo è in fase classica; cfr. D. 23.2.56, Ulp. 3 disp.: etiam si concubinam quis habuerit sororis filiam, licet libertinam, incestum committitur; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 130.

87 In particolare, con la Lex Iulia de adulteriis coercendis del 18 a. C.

88 Si riporta ancora D. 25.7.1.1, Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.: cum Atilicino sentio et puto solas eas in concubinatu habere posse sine metu criminis, in quas stuprum non committitur; con l’interpretazione di astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 130-131 e nt. 135, che collega il contenuto del commento di Ulpiano ad un passo delle Institutiones di Marciano (D. 25.7.3 pr., Marcian. 12 inst.): in concubinatu potest esse et aliena liberta et ingenua et maxime ea quae obscuro loco nata est vel quaestum corpore fecit [...]; trad: “si può condurre un concubinato con una liberta altrui e con una donna libera e soprattutto quando essa è di origine dubbia o abbia fatto mercimonio del suo corpo”.

89 D. 25.7.3.1, Marcian. 12 inst.; stando al parere concorde di Marciano e di Marcello, non sembra dunque commettersi un illecito attraverso il concubinato, che pare avere tratto “rinomanza” (cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 165) dalle leggi augustee e, per questo, non è soggetto ad una sanzione.

90 Biondi, Il diritto romano cristiano 3, cit., 126; R. astolFi, La lex Iulia et Papia, Padova, 1996, 57; g. rizzelli, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce, 1997, 238 s.; Fayer, La familia romana 3, cit., 27; cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 165; l’Autore discute anche su un sospetto di interpolazione riguardo all’espressione ‘per leges nomen assumpsit’.

91 D. 25.7.1.1, Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.

92 Cfr. cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 164.

93 D. 25.7.1.4, Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.: cuiuscumque aetatis concubinam habe-

re posse palam est, nisi minor annis duodecim sit; trad.: “è chiaro che si possa avere una concubina di qualsiasi età, purché non abbia meno di dodici anni”.

94 Come sopra ricordato, non si può condurre un concubinato con la figlia della sorella, a meno di non commettere un incesto; cfr. D. 23.2.56, Ulp. 3 disp.: etiam si concubinam quis habuerit sororis filiam, licet libertinam, incestum committitur; si commette un incesto se si ha per concubina la figlia della sorella, sebbene sia una libertà.

95 Si veda s. solazzi, Il concubinato con l’obscuro loco nata, in SDHI, 1947-48, 13-14, 269-277.

96 D. 25.7.1.2, Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.: qui autem damnatam adulterii in concubinatu habuit, non puto lege Iulia de adulteriis teneri, quamvis, si uxorem eam duxisset, teneretur; trad.: “non penso che risponda in base alla lex Iulia de adulteriis chi abbia avuto per concubina una donna condannata per adulterio, sebbene, se l’avesse presa in moglie, ne risponderebbe”.

97 D. 25.7.1.2, Ulp. 2 ad leg. Iul. et Pap.; Tit. ex corp. Ulp. 13.2.

98 D. 25.7.3 pr., Marcian. 12 inst.: in concubinatu potest esse [...] ea quae [...] quaestum corpore fecit.

99 Caso frequente, ampiamente discusso nelle fonti e dalla dottrina e per cui si rinvia ex multis a cristaldi, Unioni non matrimoniali, cit., 170-171, 173-176, con fonti e bibliografia.

100 D. 25.7.4, Paul. 19 resp.; trad.: “perché una possa considerarsi concubina è sufficiente la sola intenzione d’animo”; cfr. Paul. sent. 2.20.1: [...] concubina igitur ab uxore solo dilectu separatur; la concubina si distingue quindi dalla moglie per la sola predisposizione d’animo; si veda anche D. 24.1.3.1, Ulp. 32 ad Sab.

101 D. 23.2.24, Mod. 1 reg.; sul testo ad es. orestano, La struttura giuridica, cit., 361; voci, Istituzioni, cit., 519 nt. 34; roBleda, El matrimonio, cit., 89 nt. 88; g. longo, Diritto romano. Diritto di famiglia, Roma, 1953, 16; e. volterra, s.v. matrimonio (diritto romano), in ED, 1975, 25, 743; J. huBer, Der Ehekonsens im römischen Recht, Roma, 1977, 28 nt. 53; g. viarengo, Studi su Erennio Modestino. Profili biografici, Torino, 2009, 105 nt. 116; ead., Studi su Erennio Modestino. Metodologie e opere per l’insegnamento del diritto, Torino, 2012, 89 nt. 145 e 102-103 nt. 45; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 139-140.

102 “Che ha mantenuto la libertà”, cfr. astolFi, ibidem, 140.

103 D. 25.7.4, Paul. 19 resp.; cfr. Paul. sent. 2.20.1; D. 24.1.3.1, Ulp. 32 ad Sab.

104 Sul tema, ex multis, s. solazzi, I lucidi intervalli del furioso, in AG, 89, 1923,

80-93 (ora in Scritti di Diritto Romano 2, Napoli, 1957, 552 ss.); e. nardi, Squilibrio e deficienza mentale in diritto romano, Milano, 1983, 25; c. lanza, Ricerche su ‘furiosus’ in diritto romano, Roma, 1990; g. rizzelli, Modelli di “follia” nella cultura dei giuristi romani, Lecce, 2014.

105 D. 23.1.8, Gai. 11 ad ed. prov.; è più che manifesto che la pazzia costituisca un impedimento per l’atto di fidanzamento; ma, qualora intervenga successivamente, non ne compromette il rapporto.

106 D. 23.2.16.2, Paul. 35 ad ed.; la pazzia non consente di contrarre il matrimonio; in quanto è necessaria la manifestazione di consenso; ma, qualora intervenga una volta che esso sia stato già contratto, non ne impedisce la prosecuzione; cfr. Paul. sent. 2.19.7: neque furiosus neque furiosa matrimonium contrahere possunt: sed contractum matrimonium furore non tollitur.

107 Gai 3.106: trad. “il pazzo non può gestire nessun affare, in quanto non comprende ciò che fa”; regola che si riscontra anche nel commento di Paolo a Sabino D. 50.17.5, Paul. 2 ad Sab.: [...] nam furiosus nullum negotium contrahere potest [...]; e già prima anche in Pomponio (in D. 50.17.40, Pomp. 34 ad Sab.), che fa riferimento all’assenza di voluntas: furiosi vel eius, cui bonis interdictum sit, nulla voluntas est; cfr. anche D. 46.1.70.4, Gai. 1 de verb. obl.; ed ancora un principio espresso nei libri aureorum, in D. 44.7.1.12, Gai. 2 aur.: furiosum, sive stipulatur sive promittat, nihil agere natura manifestum est.

108 D. 24.3.22.7, Ulp. 33 ad ed., che riporto in nota per questioni meramente strutturali, e che meriterebbe una particolare attenzione esegetica: si maritus vel uxor constante matrimonio furere coeperint, quid faciendum sit, tractamus. Et illud quidem dubio procul observatur eam personam, quae furore detenta est, quia sensum non habet, nuntium mittere non posse. An autem illa repudianda est, considerandum est. Et si quidem intervallum furor habeat vel perpetuus quidem morbus est, tamen ferendus his qui circa eam sunt, tunc nullo modo oportet dirimi matrimonium, sciente ea persona, quae, cum compos mentis esset, ita furenti quemadmodum diximus nuntium miserit, culpa sua nuptias esse diremptas: quid enim tam humanum est, quam ut fortuitis casibus mulieris maritum vel uxorem viri participem esse? Sin autem tantus furor est, ita ferox, ita perniciosus, ut sanitatis nulla spes supersit, circa ministros terribilis, et forsitan altera persona vel propter saevitiam furoris vel, quia liberos non habet, procreandae subolis cupidine tenta est: licentia erit compoti mentis personae furenti nuntium mittere, ut nullius culpa videatur esse matrimonium dissolutum neque in damnum alterutra pars incidat.



109 D. 24.1.32.13, Ulp. 33 ad Sab.; trad.: “non è l’unione sessuale a costituire il matrimonio, bensì l’affectio maritalis”.

110 D. 24.3.22.7, Ulp. 33 ad ed.; trad.: “[...] dal momento che non ha figli”.

111 D. 24.2.4, Ulp. 26 ad Sab.: trad. “[...] Giuliano scrive [...] che la furiosa

non può ripudiare in conseguenza della sua dementia, né può farlo il di lei curatore, al contrario può inviare il ripudio il di lei padre”; è Ulpiano a riferirci il pensiero di Giuliano, esplicitandolo e facendolo proprio.

112 D. 24.3.22.7, Ulp. 33 ad ed.

113 D. 1.6.8 pr., Ulp. 26 ad Sab.: [...] sed et si ambo in furore agant et uxor et

maritus et tunc concipiat, partus in potestate patris nascetur, quasi voluntatis reliquiis in furiosis manentibus: nam cum consistat matrimonium altero furente, consistet et utroque; il passo è oggetto di dibattito per cui non si registra unanimità di interpretazione né sul contenuto, né sul significato, sussistendo persino sospetti di interpolazione; si vedano ex multis roBleda, El matrimonio, cit., 134 e nt. 196; e. volterra, Precisazioni in tema di matrimonio classico, in BIDR, 1975, 78, 245-270, in part. 254; huBer, Der Ehekonsens, cit., 39; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 142-144 e nt. 160, con bibliografia.

114 Varro l.L. 6.70-72; Gell. 4.4.1-4.

115 Concordo quindi con watson, The Law of Persons, cit., 11-18, in part.

12-13: l’introduzione della stipulatio poenae sarebbe avvenuta in un tempo successivo ed avrebbe garantito una più efficace tutela processuale sottratta all’onere della ponderazione del pregiudizio subìto ed al rischio conseguente di una valutazione troppo esigua del danno sofferto dal promissario deluso; un conto è infatti commisurare il risarcimento di un danno non quantificato, altro è agire per una somma certa di denaro.

116 Cfr. ingallina, Vincoli potestativi, cit., 113-119, con la relativa bibliografia.

117 D. 23.1.11, Iul. 16 dig.: sponsalia sicut nuptiae consensu contrahentium fiunt: et ideo sicut nuptiis, ita sponsalibus filiam familias consentire oportet; trad.: “il fidanzamento, così come le nozze, avvengono mediante il consenso di chi li contrae e perciò è necessario che la figlia sottoposta presti il suo consenso tanto alle nozze quanto al fidanzamento”.

118 D. 45.1.134 pr., Paul. 15 resp.: [...] cum non secundum bonos mores interposita sit [...] quia inhonestum visum est vinculo poenae matrimonia obstringi sive futura sive iam contracta; trad.: “dal momento che [la stipulazione penale] non è avvenuta secondo i buoni costumi [...], poiché apparve spregevole costringere al vincolo matrimoniale sotto minaccia del pagamento di una somma a titolo di penale e questo con riguardo tanto ai matrimoni ancora da celebrare, quanto con riferimento a quelli già in essere”. Sulla fonte ex multis: P. voci, Le obbligazioni romane. Corso di pandette. Il contenuto dell’obligatio 1.1, Milano, 1969, 170-175; g. sacconi, Ricerche sulla stipulatio, Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Camerino, Napoli, 1989, 136-138; r. astolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova, 1994, 43-45; a. s. scarcella, Libertà matrimoniale e stipulatio poenae, in SDHI, 2000, 61, 147-164, in particolare 152; u. Bartocci, ‘Spondebatur pecunia aut filia’. Funzione ed efficacia arcaica del dicere spondeo, Torino, 2012, 56 e 65-66; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 53 e nt. 83; Ferretti, Le forme costrittive della libertà matrimoniale, cit., 97-122.

119 Va detto che, nel periodo post-classico si assisterà ad un ulteriore cambiamento; per tutti si rinvia ad astolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 151 ss.

120 Tit. ex corp. Ulp. 5.2: iustum matrimonium est si inter eos, qui nuptias contrahunt, conubium sit, et tam masculus pubes, quam femina potens sit, et utrique consentiant, si sui iuris sunt, aut etiam parentes eorum, si in potestate sunt; trad.: “c’è iustum matrimonium se tra coloro che contraggono le nozze vi sia il conubium (capacità matrimoniale reciproca) e se il maschio sia in età pubere e se la femmina sia fisicamente idonea e se entrambi prestano il loro consenso, qualora siano soggetti di proprio diritto e, qualora siano soggetti alla potestà altrui, occorre anche il consenso dei loro patres familias”; D. 23.2.2, Paul. 35 ad ed.: nuptiae consistere non possunt nisi consentiant omnes, id est qui coeunt quorumque in potestate sunt; trad. “le nozze non possono sussistere se non prestano il consenso tutti, ovvero chi contrae il matrimonio e i loro aventi potestà”.



121 Egli può infatti accusare la moglie come lo farebbe un qualunque cittadino estraneo al rapporto, ovvero può agire iure extranei e non iure mariti; ciò si può desumere da D. 48.5.14.6, Ulp. 2 de adult. Viene poi esplicitato che ciò si verifica in due casi: nell’ipotesi in cui l’unione antecedente possa configurarsi come concubinato e nel caso in cui, per la validità dell’unione, fosse mancato il solo consenso del padre della donna; si rinvia ex multis a rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, cit, 197, con relativa bibliografia; si accoglie qui l’ipotesi di astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 32 e 154 nt. 188.

122 Per mezzo della denegatio actionis, come riportato ad esempio da Celso in D. 45.1.97.2, Cels. 26 dig., o con l’inserimento nella formula dell’exceptio doli, come attestato da D. 45.1.134 pr., Paul. 15 resp.

123 astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 154-162.

124 D. 23.2.19, Marcian. 16 inst.; si rinvia a o. lenel, Palingenesia iuris civilis

1, Leipzig, 1889, rist. Roma 2000, col. 675, fr. 183 nt. 2, ove lo studioso si mostra dubbioso in relazione al nome da assegnare alla rubrica, proponendo in nota De officio praesidis; si veda anche astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 156 nt. 192, ove l’Autore ritiene un errore dei copisti l’aver attribuito il frammento al XVI libro delle Istituzioni, valutando più opportuno collocarlo nel X, dove Marciano tratta effettivamente della Lex Iulia et Papia. È plausibile considerare questo testo – che meriterebbe una autonoma trattazione – come rimaneggiato; probabilmente ha subito dei tagli nella sua parte centrale; lo suggeriscono l’andamento logico del contenuto, che presenta incongruenze tra la prima e la seconda parte, nonché la struttura grammaticale; probabilmente, come rileva Astolfi (Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 158), dalla parte centrale mancante avremmo ottenuto maggiori informazioni sul disposto della legge Giulia e sul magistrato competente in Roma; è doveroso notare ad esempio come la fonte si riferisca nella sua prima parte indistintamente ai liberi e dunque tanto ai figli quanto alle figlie, mentre, nella seconda parte, le iuncturae ‘coguntur in matrimonium collocare et dotare’ possono essere riferite alle sole figlie; in questa sede il frammento, nelle condizioni in cui ci perviene, è mera occasione di riflessione sul cambiamento delle relazioni di consenso matrimoniale tra i membri della familia romana.

125 Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 158.

126 D. 37.6.6, Cels. 10 dig. Va detto però che si tratta di un giurista peculiare,

anticonformista e dotato di una visione innovatrice del diritto che, sovente, si trova a dovere essere corretto da principi dell’aequitas ed elaborato in modo creativo dalla giurisprudenza, a tal punto che la stessa norma poteva essere interpretata piuttosto liberamente. Cfr. D. 50.17.188.1, Cels. 17 dig.; D. 1.3.17, Cels. 26 dig. e D. 1.3.18, Cels. 29 dig.; per la comprensione del pensiero di Celso si vedano P. ceraMi, La concezione celsina del ius. Presupposti culturali e implicazioni metodologiche. 1. L’interpretazione degli atti autoritativi, in AUPA, 1985, 38, 7 ss.; F. gallo, Sulla definizione celsina del diritto, in SDHI, 1987, 53, 7 ss.; g. giliBerti, Elementi di storia del diritto romano, Torino, 1997, 264-265; v. scarano ussani, Valori e storia nella cultura giuridica fra Nerva e Adriano. Studi su Nerazio e Celso, Napoli, 1979; id., Empiria e dogmi. La scuola proculiana fra Nerva e Adriano, Torino, 1989; a. schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino, 1994; a. cenderelli, B. Biscotti, Produzione e scienza del diritto: storia di un metodo, Torino, 2005, 220-223; P. ceraMi, M. Miceli, Storicità del diritto. Strutture costituzionali, fonti, codici. Prospettive romane moderne, Torino, 2018, 33-34; aa.vv., Pensiero giuridico occidentale e giuristi romani. Eredità e genealogie (a cura di P. Bonin, N. Hakim, F. Nasti, A. Schiavone), Torino, 2019, 15, 17-18, 130.

127 D. 23.1.7.1, Paul. 35 ad ed.: in sponsalibus etiam consensus eorum exigendus est, quorum in nuptiis desideratur. Intellegi tamen semper filiae patrem consentire, nisi evidenter dissentiat, Iulianus scribit; trad.: “nel fidanzamento è richiesto anche il consenso di coloro i quali devono consentire le nozze; Giuliano scrisse che il padre che non abbia apertamente dissentito dalla scelta della figlia, si intende che l’abbia accolta”.

128 D. 23.1.11, Iul 16 dig.: sponsalia sicut nuptiae consensu contrahentium fiunt: et ideo sicut nuptiis, ita sponsalibus filiam familias consentire oportet; trad.: “il fidanzamento, così come le nozze, si pongono in essere mediante il consenso di coloro i quali li contraggono. E così come avviene per le nozze, è necessario che la figlia sottoposta acconsenta alla promessa di matrimonio.

129 D. 23.1.12 pr-1, Ulp. l.s. de spons.: sed quae patris voluntati non repugnat, consentire intellegitur. 1. Tunc autem solum dissentiendi a patre licentia filiae conceditur, si indignum moribus vel turpem sponsum ei pater eligat.

130 Si vedano ad esempio P. BonFante, Corso di diritto romano 1, Milano, 1963, 310; s. di Marzo, Lezioni sul matrimonio romano, Roma, 1972, 9; P. voci, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, in IURA, 1980, 31, 37-100, in part. 43 e nt. 30; astolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 73; Fayer, La familia romana 2, cit., 63; astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 165 e nt. 212, che appunto ritengono che il paragrafo 1 sia interpolato (tunc autem solum dissentiendi a patre licentia filiae conceditur, si indignum moribus vel turpem sponsum ei pater eligat), contrapponendolo con la genuinità del principium del medesimo frammento (sed quae patris voluntati non repugnat, consentire intellegitur).

131 Ad esempio, per Fayer (La familia romana 2, cit., 62 e nt. 164), la ragione sarebbe da rinvenire nel principio per cui a nessuno poteva essere imposto un erede non voluto, quale appunto sarebbe stato il nipote (il figlio del figlio) nato da un matrimonio non espressamente autorizzato dal pater; ma si veda C. 5.4.5, infra nt. 134.

132 D. 23.1.13, Paul. 5 ad ed.

133 Sembra plausibile estendere il principio anche al precedente periodo classico; così ad es. astolFi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 74.

134 C. 5.4.5, Imp. Alex. Sev.; C. 5.4.5, Imp. Alex. Sev.: si, ut proponis, pater quondam mariti tui, in cuius fuit potestate, cognitis nuptiis vestris, non contradixit, vereri non debes, nepotem suum ne non agnoscat; trad. “se, come dici, il padre di quello che un tempo fu tuo marito e nella cui potestà egli fu, non ha fatto opposizione alle vostre nozze, essendone a conoscenza, non devi temere che possa disconoscere suo nipote”.

135 D. 23.2.11, Iul. 62 dig.; si vedano anche D. 49.15.12.3, Tryph. 4 disp., D. 23.4.8, Paul. 7 ad Sab., D. 23.3.5.4, Ulp. 31 ad Sab; si accoglie qui la ricostruzione di astolFi, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., 160. Va peraltro detto che l’economia del lavoro permette solo di accennare al fatto che i giuristi discutano anche il caso delle nozze del figlio dell’assente e il matrimonio del figlio del furiosus.

136 Cfr. ad es. D. 23.1.11, Iul 16 dig.; D. 23.1.7.1, Paul. 35 ad ed.; D. 23.1.13, Paul. 5 ad ed.; D. 23.1.12 pr-1.