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Patologia psichiatrica del genitore, suo rifiuto di sottoporsi a percorsi terapeutici e interesse del minore (nota a Trib. Alessandria, sent. 25 settembre 2019)

autore: R. Ruggeri

La sentenza in commento si aggiunge alle pronunce ormai numerose che si sono avvicendate sul tema delle c.d. “prescrizioni” con cui, nei procedimenti che abbiano ad oggetto l’affidamento e le modalità di visita ai figli minori, il giudice onera uno o entrambi i genitori di seguire una psicoterapia, un “percorso” psicologico o di sostegno genitoriale così da migliorare il rapporto con l’altro genitore e/o con i figli, nel dichiarato interesse di questi ultimi. Le prescrizioni adottate dal giudice sono di solito suggerite dalla CTU esperite in corso di causa e poi fatte proprie dal giudice nella decisione finale. È evidente che, se ogni percorso terapeutico è qualificabile come trattamento sanitario, la sua prescrizione giudiziaria risulta illegittima in ragione del divieto di trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art. 32 della Costituzione1 . Nonostante questi percorsi siano abbastanza frequentemente imposti dai giudici di merito, la Cassazione2 ha in diverse occasioni ribadito con fermezza la loro contrarietà all’ordinamento3 e il conseguente vizio di legittimità che affetta le pronunce che insistano a prevederli4 . La Suprema Corte individua nella libertà a sottoporsi a trattamenti sanitari un bene giuridico di rango assolutamente primario, che non può trovare temperamenti nemmeno in nome dell’interesse del minore ad avere un genitore “sano”; mentre la giurisprudenza territoriale, ontologicamente più vicina al caso concreto, persevera in questi inviti – o addirittura ordini – nel tentativo di risolvere crisi familiari avvitate su un logoramento anche psichico dei soggetti che ne sono coinvolti, nell’intento – evidente e tutto sommato condivisibile – di preservare i figli dalle conseguenze pregiudizievoli dell’inconsapevolezza dei genitori. Non di rado i provvedimenti che invitano ovvero ordinano di seguire il percorso terapeutico prevedono espressamente, a sanzione della loro inosservanza, conseguenze sul piano dell’affidamento o, nel peggiore dei casi, della responsabilità genitoriale5 . Più spesso la conseguenza è implicita. L’argomento con il quale i giudici di legittimità censurano le prescrizioni terapeutiche in parola ha sicuramente pregio e peso. Cionondimeno sono comprensibili le ragioni che conducono i giudici del merito ad abdicare alla loro specifica funzione per colludere con il CTU e tentare una via d’uscita alla crisi familiare, anziché meramente (o più conferentemente?) statuire su di essa. In questa ottica vanno letti anche i tentativi di salvataggio che le corti territoriali hanno portato ai provvedimenti resi in primo grado, declassando ad “inviti” quelli che indubbiamente apparivano come ordini. L’invito, infatti, non contrasterebbe6 con la libertà di autodeterminazione del genitore destinatario, che resterebbe appunto libero di accoglierlo o disattenderlo. La Corte di Cassazione ribadisce7 invece l’irrilevanza di veder qualificata la prescrizione come invito od ordine: in entrambi i casi, tanto più se al suo mancato accoglimento siano ricondotte conseguenze (implicite o esplicite) in ordine all’affido o alla responsabilità genitoriale, essa integra un condizionamento alla libertà di autodeterminazione in ambito sanitario e deve quindi considerarsi illegittima8 . In questo contesto si inserisce la sentenza in commento, che si distingue per la forma del provvedimento (disposizione in tema di affido e visite, non ordine di fare – o invito – al genitore) e la struttura della motivazione, piuttosto originale e forse capace di reggere al vaglio di legittimità, riportando al centro del processo l’interesse del minore a subire il minor detrimento possibile dalle scelte genitoriali, ancorché non conculcabili. Premettiamo che la specificità del caso aiuta: il genitore cui viene tolto e l’affidamento del e il diritto di visita al figlio minore presenta, siccome evidenziato dalla CTU esperita in corso di causa, “un quadro psicopatologico riconducibile ad un disturbo delirante” dal quale originano i comportamenti con i quali egli nuoce allo sviluppo equilibrato del figlio, pure riportati nell’elaborato peritale. Ancora (ma in questo caso va reso merito al Collegio, che ha invitato detto genitore, in udienza, a manifestare la propri disponibilità a seguire il percorso delineato dal CTU al fine di riprendere gradualmente la frequentazione con il proprio figlio), consta a verbale – rientra quindi tra i fatti accertati nel corso del procedimento – il netto rifiuto del medesimo “a seguire il percorso delineato dal CTU” (presa in carico da parte del Centro di Salute Mentale). Su questi elementi si fonda l’iter argomentativo della motivazione, che fa leva su questi dati di fatto acquisiti pacificamente (rectius: attraverso il lodevole adoperarsi del giudicante in tal senso) al giudizio per inferirne conseguenze e pronunciare provvedimenti in tema di affido e di diritto di visita, suscettibili di modifica ove muti la situazione di fatto, vale a dire ove il genitore accetti di seguire il percorso delineato dal CTU e faccia cessare ovvero argini le conseguenze della sua patologia. Si fa applicazione del principio più volte9 ribadito dalla Suprema Corte in riguardo ai provvedimenti che il giudice detta per regolamentare affido e visite dei figli nella crisi familiare, che devono essere “espressione di conveniente protezione del preminente diritto dei figli alla salute e ad una crescita serena ed equilibrata” in ragione della centralità che il “superiore interesse della prole” assume e deve assumere nella regolamentazione del rapporto di filiazione. Ne deriva che il potere esercitato in tale ambito dal giudice “può assumere anche profili contenitivi dei rubricati diritti e libertà fondamentali individuali, ove le relative esteriorizzazioni determinino conseguenze pregiudizievoli per la prole che vi presenzi”10. Anche se la volontà del genitore di non curarsi viene in gioco, essa non è condizionata dal provvedimento ma, al contrario, può modificarlo: la determinazione del genitore di non sottoporsi a cure non è oggetto di inviti ovvero ordini, ma costituisce elemento che il giudice valuta come pregiudizievole al figlio e pone a fondamento di un provvedimento teso a salvaguardare il superiore interesse di questo. È tutelato l’interesse del minore a non subire il danno che quella scelta comporta per lui: il quadro psicopatologico del padre, opportunamente descritto nei comportamenti pregiudizievoli al figlio, osta nell’attualità a che sia stabilito l’affido condiviso e osta a che i due si frequentino (la modalità dell’incontro protetto è sagacemente evitata in ragione della sua ricordata strumentalità al potenziamento delle capacità genitoriali e al progressivo ampliamento del diritto di visita, di cui nel caso di specie non c’è purtroppo – proprio in ragione del rifiuto del padre a prendersi cura di sé – alcuna prospettiva). Certo è che, se il padre intraprenda quel percorso e si ottengano miglioramenti alla sua patologia, il provvedimento andrà rivisto; ma, allo stato, “il Collegio ritiene che l’affidamento condiviso del figlio P. sarebbe pregiudizievole per il minore, dal momento che, come evidenziato anche dal CTU, le patologie psichiatriche del padre, in assenza di cura, sono tali da pregiudicare il minore”. In altre parole: il giudice non opera su piani che non gli appartengono, invitando, ordinando o prescrivendo percorsi extragiudiziali e addirittura sanitari, ma valuta le capacità e le idoneità raggiunte dai genitori, senza scegliere e prescrivere i mezzi per raggiungerle: decide ed emette un provvedimento in tema di affido e di diritto di visita, fondato sulla necessità di evitare al minore le conseguenze pregiudizievoli che la patologia genitoriale specificamente gli comporta. In questo modo sottrae dall’iter logico-giuridico la necessità di bilanciare due interessi contrapposti: non viene in discussione la libertà di autodeterminazione del genitore a fronte del diritto del minore ad una crescita sana; ma sono prese in considerazione le conseguenze pregiudizievoli che l’espressione di tale libertà causa al minore. Una esposizione elegante, quella del decreto in commento, che pur ristrutturando i termini del ragionamento non elimina però il profilo di coercizione imposto al genitore a che possa riallacciare con il figlio il rapporto che inerisce al vincolo di filiazione. Se questo rapporto debba essere comunque valorizzato o sia passibile di limitazioni giudiziali importanti è questione particolarmente attuale, atteso che in questi anni sta invalendo la tesi per cui, nella crisi familiare, l’interesse del minore e la sua tutela sarebbero integrati pressoché esclusivamente dalla possibilità di accesso che l’un genitore consenta ai figli nei riguardi dell’altro genitore. Dimenticando che, se indisponibile è la posizione giuridica del minore, essa va indagata con attenzione perché pubblico è l’interesse alla sua crescita il più possibile equilibrata e imperativo il dovere di evitargli, o limitare, gli squilibri che conseguono, o non di rado hanno dato luogo, alla rottura della famiglia. La crisi familiare in molti casi evidenzia o fa dirompere problematicità già esistenti all’interno del nucleo e proprio da quelle il minore va possibilmente schermato, senza che il criterio dell’accesso all’altro genitore (che sostanzialmente è un gigantesco “non luogo a provvedere” ed è spesso inteso, purtroppo, come paraocchi che consente – anzi impone – di tralasciare elementi anche gravemente pregiudizievoli al minore nel sistema familiare posto sotto esame) sia utilizzato come commodus discessus per non assumersi la responsabilità di interventi tanto gravosi quanto necessari.

NOTE

1 L’art. 32 Cost. recita: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

2 Cfr. Cass. civ. sez. I, 1 luglio 2015 n. 13056, ne Il CASO.it; Cass. civ., sez. I, 5 luglio 2019, n. 18222, in Il Quotidiano Giuridico.

3 Quando il “percorso” di sostegno genitoriale è condiviso da entrambi i genitori e monitorato dai servizi sociali, però, esso sarebbe sottratto, per rivolgersi direttamente all’interesse del minore, alla censura di illegittimità: “Questa Corte ha già statuito che in tema di affidamento dei figli minori, la prescrizione ai genitori di un percorso psicoterapeutico individuale e di un altro, da seguire insieme, di sostegno alla genitorialità, comporta comunque, anche se ritenuta non vincolante, un condizionamento, per cui è in contrasto con gli artt 13 e 32, comma due, Cost., atteso che, mentre l’intervento per diminuire la conflittualità, richiesto dal giudice al servizio sociale, è collegato alla possibile modifica dei provvedimenti adottati nell interesse del minore, quella prescrizione è connotata dalla finalità, estranea al giudizio virgola di realizzare la maturazione personale delle parti, rimessa esclusivamente al loro diritto di autodeterminazione (Cass. 1 luglio 2015 n. 13506)”. Così Cass. civ. sez. I, ord. n. 18222 del 5 luglio 2019, cit. supra, che richiama altro precedente pure sopra citato; ma è evidente la debolezza del distinguo, che dà conto della difficoltà di operare un bilanciamento tra i due interessi in gioco.

4 In particolare risulta “recidivo” il Tribunale di Roma, ma forse solo per l’attenzione tributata dai massimatori alla produzione provvedimentale dell’ufficio giudiziario di primo grado più cospicuo d’Italia: cfr. comunque Tribunale di Roma, sentenza n. 25777 del 2015 in Diritto.it; Tribunale di Roma, 12 maggio 2016, n. 9630 e Tribunale di Roma, 2 settembre 2017 n. 2083, entrambe reperibili sul web.

5 Così Tribunale di Roma, 12 maggio 2016, n. 9630, citata supra.

6 Così la tesi della Corte d’Appello di Terni riassunta da Cass. civ.

nell’ordinanza 18222/2019, cit. supra: “La Corte d’Appello ha evidenziato che, dovendosi contemperare due diritti entrambi di rango costituzionale, l’uno del genitore di autodeterminazione e di scelta circa la propria salute, e, l’altro del minore ad un percorso di sana crescita, la predetta prescrizione del tribunale di Terni, in quanto disposta nell’esclusivo interesse del minore, essendo funzionale al superamento delle criticità emerse nel rapporto madre-figlia, deve essere interpretata quale invito giudiziale rivolto alla odierna ricorrente, essendo comunque rimesso alla libera autodeterminazione di quest’ultima accoglierlo o disattenderlo”.

7 Lo aveva già fatto nel 2015, con la sentenza n. 13506 citata supra, in cui afferma che: “Tale prescrizione, pur volendo ritenere che non imponga un vero obbligo a carico delle parti, comunque le condiziona ad effettuare un percorso psicoterapeutico individuale e di coppia confliggendo così con l’art. 32 Cost.”.

8 In questo senso vedasi anche Marco Pingitore, Consulenza tecnica d’ufficio o trattamento sanitario d’ufficio?, in Il consenso informato in psicologia, luglio 2019 (https://www.ordinepsicologifvg.it/images/libri/ CONSENSO_INFORMATO_ OPUSCOLO_x_web.pdf), 26: “La c.d. ‘terapia della minaccia’ che sottende una simile prescrizione fa sì che il soggetto presti un consenso informato viziato per evitare ulteriori provvedimenti sfavorevoli come, ad esempio, la perdita o la limitazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale”.

9 Cass. civ., sez. I, 12 giugno 2012 n. 9546, ne Il CASO.it: “L’art. 155 c.c., in tema di provvedimenti riguardo ai figli nella separazione personale dei coniugi, consente al giudice di fissare le modalità della loro presenza presso ciascun genitore e di adottare ogni altro provvedimento ad essi relativo, attenendosi al criterio fondamentale rappresentato dal superiore interesse della prole, che assume rilievo sistematico centrale nell’ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull’art. 30 Cost. L’esercizio in concreto di tale potere, dunque, deve costituire espressione di conveniente protezione (art. 31 Cost., comma 2) del preminente diritto dei figli alla salute e ad una crescita serena ed equilibrata e può assumere anche profili contenitivi dei rubricati diritti e libertà fondamentali individuali, ove le relative esteriorizzazioni determinino conseguenze pregiudizievoli per la prole che vi presenzi, compromettendone la salute psico-fisica e lo sviluppo; tali conseguenze, infatti, oltre a legittimare le previste limitazioni ai richiamati diritti e libertà fondamentali contemplati in testi sovranazionali, implicano in ambito nazionale il non consentito superamento dei limiti di compatibilità con i pari diritti e libertà altrui e con i concorrenti doveri di genitore fissati nell’art. 30 Cost., comma 1, e nell’art. 147 c.c.”; conformi Cass. civ. sez. I, 4 novembre 2013, n. 24683 in Giustizia, diritto, religioni: Percorsi nel diritto ecclesiastico civile vivente, di A. fuCCillO, R. saNtOrO, Torino, 2014; Cass. civ. sez. I, 24 maggio 2018, n. 12954, ne Il Quotidiano Giuridico; Cass. civ. sez. VI, 6 maggio 2019, n. 11842 in www.osservatoriofamiglia.it.

10 È bene specificare che i precedenti citati riguardano casi in cui erano stati assunti provvedimenti limitativi del diritto di frequentazione della prole nei confronti di genitori che avevano abbracciato una fede religiosa diversa (testimoni di Geova) da quella originaria, in ciò coinvolgendo i figli. Ma il principio espresso è sicuramente generale e suscettibile di generale applicazione.