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Incostituzionalità prospettata e causa di giustificazione dell’aiuto al suicidio: novità nella continuità

autore: N. Colaianni

Sommario: 1. Premessa. - 2. La procedura costituzionale. - 3. Il diritto penale. - 4. I principî: a) la dignità. - 5. (segue) b) la coscienza. - 6. (segue) c) la separazione (ovvero la laicità).



1. Premessa



Con il dispositivo letto nell’udienza del 23 dicembre 2019 dal presidente della Corte d’Assise di Milano s’è chiuso il caso Antoniani (dj Fabo) - Cappato: essendo conforme, invero, alle richieste dell’ufficio del pubblico ministero, oltre che ovviamente a quelle dell’imputato, la sentenza1 non sarà gravata di appello. La formula piena adottata (“il fatto non sussiste”) può far pensare ad una posizione estremamente radicale2 ma non c’è dubbio che la motivazione seguirà il binario tracciato dalla Corte costituzionale: di valore straordinario perché affronta – e, come si argomenterà, in maniera lucida e costituzionalmente obbligata – il tema capitale della vita e della morte nell’età della tecnica. Un tema che avrebbe dovuto – e, comunque, dovrebbe ancora per alcuni aspetti – essere trattato dal Parlamento già dopo la sentenza Englaro della Cassazione, visto che esso sollevò un formale conflitto di attribuzione, peraltro all’evidenza destituito di fondamento oggettivo e perciò dichiarato inammissibile3 . Ma dopo questa rivendicazione, rivelatasi strumentale, del proprio potere legislativo, peraltro, il Parlamento nei successivi dieci anni ometteva di legiferare in materia; né lo ha fatto dopo essere stato sollecitato dalla Corte costituzionale con un monito stringente4 : una sorta di ‘delega’ come con una “battuta scherzosa”, cui però ha arriso grande successo tra gli studiosi, la definì Alberto Predieri5 . Invero, la discussione su cinque proposte di legge presentate dai vari gruppi politici non è mai decollata finendo per arenarsi in funzione della dichiarata opportunità di attendere la sentenza della Corte: un ennesimo caso di delegazione di potere normativo dal Parlamento ai giudici, ormai ricorrente. A causa della vaghezza degli enunciati normativi, spesso necessaria per raggiungere il compromesso per l’approvazione della legge, si delega di fatto al potere giudiziario di riempirli di contenuto preciso o costituzionalmente orientato. Quest’ultimo compito, specialmente nell’ambito dei cosiddetti diritti civili dove, per la complessità del loro rapporto con la medicina e la tecnica, il raggiungimento del compromesso è naturalmente più difficile, è delegato in ultima analisi alla Corte costituzionale, chiamata a risolvere le contraddizioni all’interno del tessuto normativo o addirittura a riempire il vuoto normativo. Va così in tilt la fisiologia della produzione legislativa: il Parlamento omette di legiferare, lascia che i nodi vengano al pettine giudiziario e delega implicitamente ai giudici la soluzione, salvo ad insorgere, esso artefice della sua impotenza, contro il potere giudiziario che si arrogherebbe poteri legislativi; i giudici costituzionali, prima di intervenire incisivamente, si ritraggono di massima in ossequio alla discrezionalità del parlamento ma non mancando di ‘delegarlo’ dietro indicazione dei principî e criteri di orientamento costituzionale. Non stupisce, quindi, che questa ‘delega’ dalla Corte al Parlamento, piuttosto che quella reciproca dal Parlamento ai giudici, la quale strutturalmente ne è la causa, sia stata anche in questa occasione al centro del dibattito ampiamente sviluppatosi6 in misura tale da porre in secondo piano il merito della decisione. Pur nella consapevolezza della priorità del decisum sostanziale, non si può, invero, sottovalutare, assecondando l’ottica utilitaristica del fine che giustifica i mezzi, l’importanza della novità formale sul terreno della procedura costituzionale: alla quale, quindi, si dedicano innanzitutto alcune considerazioni al precipuo, e limitato, scopo di evidenziarne gli elementi di continuità con i precedenti giurisprudenziali, in qualche modo offuscati dalla prorompente novità del complesso ordinanza-delega.



2. La procedura costituzionale



La continuità procedurale è rappresentata, come avvertito dalla stessa Corte, dal collaudato meccanismo della “doppia pronuncia”, la prima di “incostituzionalità prospettata” (variante del presidente della Corte7 rispetto al più consueto sintagma “incostituzionalità differita”) e la seconda, canonicamente, di incostituzionalità dichiarata. La novità è nella prima pronuncia con la sostituzione della sentenza – monito, che per l’effetto concludeva il giudizio con un nulla di fatto, con l’ordinanza – monito, che invece lo tiene pendente, in modo da evitare che lo spazio lasciato al legislatore perché eserciti la sua discrezionalità tra le varie soluzioni possibili della questione finisca per assecondarne la pura e semplice inerzia. L’innovazione tecnica era, si può dire, nell’aria sia per il sostanziale fallimento della tecnica monitoria, che comunque la Corte ha continuato ad usare anche in questa sentenza, sia, comparativamente, per la comparsa di modelli simili nel panorama mondiale della giustizia costituzionale. Sotto il primo profilo basta ricordare, per rimanere nel campo penale, che trascorsero ben sette anni tra la sentenza sul reato di adulterio previsto solo per la moglie, che velatamente si ammoniva come non soddisfacente “ogni esigenza” sul piano dell’uguaglianza tra coniugi, e quella che perciò ne dichiarò l’illegittimità8 . O anche ricordare, scegliendo un altro caso fuori del campo penale ma qui interessante per un’altra osservazione seguente, che dalla sentenza-monito sull’esigenza di leggi destinate a disciplinare la possibilità potenziale di fruire del monopolio pubblico radio-televisivo con adeguate garanzie di imparzialità e obbiettività trascorressero quasi tre lustri prima che la Corte dichiarasse l’illegittimità della relativa disciplina9 . Sotto il profilo comparativo la Corte stessa adduce gli esempi delle sue omologhe canadese e britannica. Tuttavia, si potrebbe ricordare che il modello affine del controllo costituzionale sulle omissioni del legislatore (esattamente quello messo in atto nel caso) è un tratto caratterizzante il costituzionalismo più recente al punto da essere anche positivizzato: si pensi alla formale segnalazione delle lacune da parte della Corte costituzionale al legislatore, particolarmente in materia di diritti fondamentali, previste dall’art. 283 della Costituzione portoghese riveduta nel 1982 e dall’art. 103, § 2, di quella brasiliana del 198810. Con l’aggiustamento del collaudato meccanismo della doppia pronuncia è ora la Corte stessa ad assumere la gestione diretta dei tempi tra le due pronunce, finora in balia del legislatore o del giudice, che eventualmente risollevi incidentalmente la questione. La diluizione dei tempi occorrenti per il riesame della questione dava, peraltro, la rassicurante sensazione che la dettatura dei criteri di soluzione conformi alla Costituzione – non solo l’an ma spesso anche il quomodo – non fosse così stringente come invece ora appare con la nuova tecnica. Ma era solo una sensazione perché la sostanza non cambia ed è che nell’una o nell’altra modalità si limita per obbligo costituzionale la discrezionalità del legislatore. E, anzi, tra le due appare di gran lunga preferibile la nuova perché l’affermazione della Costituzione come legge superiore (che è il ruolo della Corte dinanzi ad ogni vuoto normativo, come rilevava già decenni fa l’odierno redattore della sentenza11) ne esce rafforzata. Con l’ordinanza, invero, la Corte non si limitava a ventilare l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. per l’assolutezza del suo divieto ma positivamente la dichiarava in motivazione, come poi conferma in sentenza: “vulnus” costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018”. E, rinviando l’udienza, garantiva che in caso di inerzia del legislatore l’avrebbe dichiarata anche in dispositivo. Visto, anzi, che la sentenza risulta sostanzialmente da un “copia-incolla” dell’ordinanza, il rinvio è potuto sembrare un formalistico, e magari ipocrita, omaggio alla discrezionalità del Parlamento. Ma in realtà il legislatore non aveva le mani legate, potendo scegliere di inserire “la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della ‘relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico’, opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima” (che così sembra superare ante litteram un’eventuale questione di costituzionalità e appare perciò la scelta preferibile secondo la Corte) oppure di operare “una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 c.p., in questa sede censurata”12. Solo in questo secondo caso – che per la Corte, invece, è l’unica scelta – si può dire che “tutto (o quasi) in realtà era stato già deciso”13in quanto le condizioni minime necessarie per il bilanciamento, sia pur non “compiuto”, risultavano già sostanzialmente poste dalla Corte stessa e, invero, richiamate e solo sistemate nella sentenza. Per questo motivo l’ordinanza è stata criticata come un “ircocervo”14 ma bisogna convenire che, a differenza del caprone o del cervo della sentenza-monito, entrambi con le corna spuntate, con l’ircocervo s’è guadagnato in concretezza e linearità: una declaratoria d’incostituzionalità a tratto successivo, in cui il secondo segmento, la sentenza, “si salda, in consecuzione logica”, con il primo, l’ordinanza, i cui rilievi, non solo, ma anche le “conclusioni […] sono, in questa sede, confermati”. Certo, dal punto di vista formale, si tratta di ridisegnare la categoria delle doppie pronunce, inserendovi l’ultima novità, ma non perciò si può rimproverare alla Corte di essere fuoriuscita dalla consolidata tipologia delle tecniche decisorie, non foss’altro perché questa tipologia non corrisponde, e non da ora, a quella “manichea”15ricavabile dall’art. 136 cost. ma risulta da una sistemazione dottrinaria ex post delle diverse tecniche volta a volta “inventate” dalla Corte per sancire “l’incostituzionalità come fallimento dell’interpretazione” e garantirne, invece, il successo, tralasciando la “cura dell’astratta coerenza del sistema giuridico”16. Questo rilievo riguarda anche la metafora crisafulliana delle “rime obbligate”17, valsa (ma neppure tanto) a spiegare la giurisprudenza manipolatrice dei primi vent’anni della Corte costituzionale e assunta ordinariamente quasi come un dato normativo per giunta ingessato, la cui interpretazione desta perciò reazioni allarmistiche: ma gli sviluppi del mezzo secolo successivo hanno mostrato come in realtà, data l’ampiezza dei principî costituzionali che ne consente una varietà di declinazioni, a consentire l’intervento della Corte non è necessario (come ancora negli anni ottanta teorizzato autorevolmente da Leopoldo Elia18) che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima, come quella prevista per una norma avente identica struttura e ratio, idonea a essere assunta come tertium comparationis. Essenziale, e sufficiente, a consentire il sindacato della Corte sulla congruità del trattamento sanzionatorio previsto per una determinata ipotesi di reato è che il sistema nel suo complesso offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e “soluzioni già esistenti” (sent. n. 236 del 2016)”.

Affermazioni ribadite alla lettera anche nelle sentenze n. 40 e n. 99 del 2019, nonché nella presente con l’espressione “coordinate del sistema vigente”. Si sfonda, poi, una porta aperta nel rilevare la compressione, che con questo modus operandi si attua, della discrezionalità del Parlamento, costretto a scrivere “sotto dettatura” della Corte. E si può, per usare altre espressioni suggestive, parlare di una ordinanza-delega: che però non fa che sostituire la celebre sentenza-delega, sopra citata, svolgendone la medesima funzione e producendo gli stessi effetti limitativi, della discrezionalità del legislatore. Anche per questa osservazione s’è preferito prima citare la sentenza 225/1974, che, forse in forma ancor più perentoria della ordinanza 207/2018, comandò al Parlamento ben sette contenuti, contrassegnandoli distintamente dalla lettera a) alla g), come tali che “la legge debba almeno prevedere”. Ma, come ancora chiarito dal presidente Lattanzi nella relazione citata, quando “il vuoto normativo è esso stesso costituzionalmente illegittimo” e si ponga, quindi, “un obbligo costituzionale di normare una materia, la discrezionalità legislativa si contrae, anche se della sola misura necessaria all’adempimento del dovere di attuare la Costituzione”. In realtà, la discrezionalità legislativa agisce come “limite relativo”19 per il sindacato della Corte, non potendo le omissioni restare tali sine die a causa dell’inerzia del legislatore. La trasformazione del ruolo della Corte nell’uso di questa prassi è nota: da repressivo, come testualmente indicato in Costituzione, diventa preventivo, da quello di legislatore negativo trascorre a legislatore positivo, quanto meno di “cooperatore istituzionale”20con il Parlamento e ricostruttivo della coerenza dell’ordinamento. Ma, d’altro canto, neppure in caso di inerzia del Parlamento il ruolo repressivo avrebbe modo di svolgersi. In pratica, una volta scoperta la lacuna normativa incostituzionale, vuoi che la colmi direttamente la Corte vuoi che invece non la colmi il Parlamento, investito dalla Corte, questa si vede precluso l’esercizio del suo potere ordinario di controllo a posteriori. Nell’un caso perché la norma, siccome costruita dalla Corte stessa, è “blindata” nella sua legittimità e, quindi, sostanzialmente ineccepibile, nell’altro perché rimane vigente la norma incostituzionale, che non c’è modo d’invalidare almeno finché non venga risollevata la questione di costituzionalità. In entrambi i casi un’abdicazione, se si vuole preterintenzionale, della Corte alla sua funzione naturale di rimozione delle “leggi contro la natura del diritto”21. Comunque, anche di questo effetto non si può far carico a questa sentenza. La Corte non ha dovuto neanche perder tempo a rovistare nella propria cassetta degli attrezzi perché lo strumento delle sentenze additive di regola, autoapplicative (nel caso una causa di non punibilità collegata al rispetto di determinate condizioni), è a portata di mano. La realtà è che, “ferma restando l’esigenza di assicurare la tutela del malato nei limiti indicati dalla presente pronuncia” (par. 11), non c’era margine per l’intervento del legislatore nella sostanza, essendogli stata riservata solo la “compiutezza” di un bilanciamento, basicamente già fatto e solo da completare quanto alla disciplina dei non pochi problemi applicativi22.



3. Il diritto penale



Il vuoto normativo rilevato dalla Corte riguarda solo la “circoscritta area”, in cui – come nel caso “paradigmatico” prospettatole – “il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”. Naturalmente il riempimento non sarebbe stato possibile se fosse mancata una norma di riferimento, una scelta già compiuta dal legislatore L’intervento della Corte viene considerato inammissibile, infatti, quando si profili solo “un’astratta possibilità di nuova produzione legislativa”23per l’inesistenza di una norma vigente, da cui poter ricavare una norma o un principio. Ciò era accaduto ad esempio, per rimanere nell’ambito delle materie “ad altissima sensibilità etico-sociale”, come dice la Corte, nel caso del matrimonio omosessuale24, laddove all’epoca mancava perfino una disciplina delle convivenze eterosessuali da estendere a quelle omosessuali, o nel caso (opposto) del divieto assoluto di ricerca clinica o sperimentale sugli embrioni, che non sia finalizzata alla loro tutela, per l’esistenza di una norma che anzi esclude positivamente quella che si vorrebbe aggiungere, in quanto incriminatrice (art. 14, commi 1 e 6, della legge n. 40 del 2004) della condotta di soppressione anche di embrioni ammalati non impiantabili25. Ma nell’ordinanza in questione la Corte aveva già chiaramente individuato, estraendola dalla legge 219/201726, la norma capace di ovviare alla discriminazione rappresentata nel giudizio a quo. Si tratta niente di meno che di un diritto fondamentale quale la libertà di autodeterminazione rinvenibile in una legge che si autodichiara finalizzata alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 1, comma 1). Che dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, scaturisca il diritto fondamentale all’autodeterminazione è, del resto, un punto fermo nella giurisprudenza costituzionale: il consenso informato riveste natura di principio fondamentale in materia di tutela della salute in virtù della sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute27. Tale diritto in generale non ha la capacità di contrastare il fondamentale rilievo del valore della vita: la Corte, infatti, lo definisce generico in relazione alla specificità della perdurante ratio incriminatrice dell’aiuto al suicidio: sicché non esiste una generale inoffensività dell’aiuto al suicidio in quanto questa fattispecie criminosa è volta comunque a soddisfare l’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili. A fronte della peculiarità di questa situazione la libertà di autodeterminazione sembra in effetti rivestire un carattere vuotamente ideologico, inidoneo a scriminare la lesione di quel bene vitale. Viceversa, nell’ambito specifico successivamente circoscritto tale esigenza più non sussiste perché chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento. Per cui non si vede perché il medesimo soggetto, all’evidenza capace e “competente”28, debba essere ritenuto invece bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata alla predetta interruzione. Anche qui non si tratta di alcuna novità. Lo schema seguito è lo stesso adottato dalla Corte in altra questione eticamente sensibile, quella di chi cagiona l’aborto di donna consenziente. Anche allora essa ritenne che l’antigiuridicità di tale condotta fosse da escludere laddove “l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre”. E l’art. 546 del codice penale fu dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva che in questo caso la gravidanza possa venir interrotta29. Come si vede, la situazione è perfettamente sovrapponibile a quella dell’aiuto al suicidio: c’è un vuoto normativo (in quel caso, la tutela della salute della gestante), che la Corte dichiara illegittimo e riempie con la norma che tutela “la condizione della donna gestante […] del tutto particolare”. Lo schema è sovrapponibile anche per quel che concerne la preoccupazione del “pendio scivoloso” in mancanza di una compiuta disciplina, per cui la Corte “delegò” perentoriamente il legislatore (“ritiene anche la Corte che sia obbligo del legislatore”)a “predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla”. Allora la “delega” fu eseguita dal legislatore con la legge194/1978 che stabilì una procedura di accertamento delle condizioni psico-fisiche della donna gestante, osservata la quale l’interruzione della gravidanza veniva scriminata. Ora nell’inerzia del legislatore la procedura di accertamento ‘medicalizzato’ dei presupposti oggettivi prima indicati è stata mutuata dalla legge 219/201730. Si tratta, quindi, ora come allora di una scriminante procedurale, la quale si differenzia da quelle sostanziali comuni previste dagli artt. 51 ss. c.p. che operano ex post rendendo non punibile l’agente. La procedurale, invece, grazie all’espletamento appunto di un procedimento autorizzatorio priva ex ante la condotta tipica (interruzione della gravidanza o aiuto al suicidio) della sua precettività penale31. Può sembrare, e a taluni è sembrato, a tutta prima contraddittorio il diverso rilievo assegnato al valore della vita prima in linea di principio e poi nel caso particolare. Pur partendo dalla premessa che il diritto a morire è diametralmente opposto al diritto alla vita, sicché non esiste una generale inoffensività dell’aiuto al suicidio, la Corte in conclusione dichiara nondimeno illegittimo l’art. 580 c.p. in parte qua, di fatto legittimando l’aiuto al suicidio e, cioè, ammettendo – si inferisce – un diritto a morire. Ma sul piano strettamente tecnico l’illazione non regge, essendo strutturale che l’antigiuridicità di una condotta possa essere esclusa dalla ricorrenza di cause di giustificazione: quelle comuni e altre speciali, applicabili a specifici reati. Il diritto alla vita non è in tal caso contrastato ma bilanciato dalla causa di giustificazione speciale. Tanto quanto non è punibile, ad esempio, l’omicida che abbia agito per stato di necessità o per legittima difesa non è punibile il soggetto che aiuti nel morire la persona che si trovi nella “circoscritta area” contrassegnata dalle lettere da a) a d) prima indicate. La contraddizione denunciata, implausibile sul piano giuridico, sconta piuttosto la presupposizione ideologica che il diritto di vivere implichi il, e anzi si risolva nel, dovere di vivere: e, quindi, non ammette eccezioni neppure in situazioni estreme come quella presa in esame dalla Corte. Questa posizione di principio ha solidi fondamenti filosofici. Basta pensare a Kant32, secondo cui “un uomo può disporre della sua condizione, ma non della sua persona, perché lui stesso è per se stesso un fine, e non un mezzo”. Come ben evidenzia uno studioso di Kant33, essa emblematicamente coincide con quella delle grandi religioni monoteiste abramitiche – secondo cui sia l’eutanasia sia il suicidio medicalmente assistito sono “atti completamente in contraddizione con il valore della vita umana”34 – e in particolare della Chiesa cattolica – secondo il cui Catechismo “siamo gli amministratori, non i proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo”35. In vista dell’udienza della Corte essa è stata riproposta efficacemente dal presidente della Conferenza episcopale italiana, Bassetti, in questi termini che meritano di essere riportati compiutamente perché esprimono una posizione non solo cattolica o religiosa in genere: Va negato che esista un diritto a darsi la morte: vivere è un dovere, anche per chi è malato e sofferente. Mi rendo conto che questo pensiero ad alcuni sembrerà incomprensibile o addirittura violento. Eppure, porta molta consolazione il riconoscere che la vita, più che un nostro possesso, è un dono che abbiamo ricevuto e dobbiamo condividere, senza buttarlo, perché restiamo debitori agli altri dell’amore che dobbiamo loro e di cui hanno bisogno36. Risulta chiaramente da questa dichiarazione la percezione dei diritti umani radicati in doveri, che è consentanea all’ambiente teologico giudaico-cristiano37: in particolare, il diritto alla vita è un dovere di vivere che si ha non solo verso Dio ma anche verso gli altri, come debito “dell’amore che dobbiamo loro e di cui hanno bisogno”. Un dovere simile viene teorizzato nella dottrina costituzionalistica in termini di solidarietà ex art. 2 cost.38. Tuttavia, nel diritto positivo tanto quanto non trova tutela il diritto di morire neppure la trova l’obbligo di vivere. Se il diritto alla vita comprendesse anche il diritto alla morte bisognerebbe punire la violenza privata di chi, salvandolo, costringe un soggetto a non portare a termine il tentativo di suicidio. E invece quella condotta è ritenuta addirittura doverosa di talché la sua mancata attuazione, ricorrendone gli altri presupposti, configura il reato di omissione di soccorso (art. 593 c.p.). Al contrario, se il diritto alla vita comprendesse il dovere di vivere bisognerebbe punire anche il tentativo di suicidio, non riuscito per cause indipendenti dalla volontà dell’aspirante suicida. E invece, pur considerando un disvalore l’evento suicidio come si ricava dall’art. 580 c.p., l’ordinamento non punisce la condotta suicida. Scartati questi estremi opposti, lo statuto del suicidio, in principio cedevole rispetto al valore della vita, è condizionato dalle variabili situazioni concrete, pure da rispettare. Questa doverosa storicizzazione, peraltro tipica dell’attività giudiziaria, non poteva non portare la Corte ad osservare che oggi il congedo dalla vita può essere ritardato artificialmente per lungo, lunghissimo tempo, per effetto di tecnologie incapaci, tuttavia, di “restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”. Di fronte a questo problema si potrebbe ripetere con Hans Jonas39, al quale si devono gli studi pioneristici in tema, che affinché “noi possediamo noi stessi e non ci facciamo possedere dalle nostre macchine, dobbiamo porre la corsa tecnologica sotto controllo extratecnologico”. Di fronte a queste conseguenze, come scrive la Corte, “inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta” un’etica astorica diventa dispotica40: al punto da pretendere, con un autentico capovolgimento delle condizioni personali, che sia la persona sofferente e immobilizzata a letto in attesa della fine a dare nondimeno solidarietà agli altri, che stanno in salute, invece che questi a dargli la umana solidarietà richiesta e anzi spesso supplicata41. Comunque, compito della Corte non era affrontare sul piano dei principî la questione di chi debba dare solidarietà. La questione rimessale riguardava solo la prestazione di solidarietà alla persona che si trova nelle dette condizioni, a fronte dell’incriminazione dell’art. 580 c.p. e, quindi, nel campo strettamente penale (dal che, come si noterà, aspetti non affrontati nel campo civile), che ha risolto considerando l’eccezionalità del caso: Entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita. L’eccezionalità del caso in cui è ammessa la giustificazione non è revocabile in dubbio a fronte del dispositivo della consecutiva sentenza della Corte d’Assise di Milano, prima citata. L’imputato è stato assolto, infatti, non perché il fatto non costituisce reato, per l’esistenza appunto di una causa di giustificazione, ma più radicalmente perché il fatto non sussiste. Benché non se ne conosca ancora la motivazione, ciò è ragionevolmente dipeso dal fatto che la procedura giustificativa elaborata dalla Corte non può che valere per il futuro, non essendo applicabile, come avvertito nella stessa sentenza, ai casi pregressi. La Corte è stata attenta a non approdare a forme di antigiuridicità sostanziale, facendo dell’aiuto al suicidio una condotta socialmente non pericolosa (secondo l’impostazione della questione di costituzionalità) e, quindi, giustificata da una scriminante tacita extralegislativa. Ma dall’intera motivazione, e dalle indicazioni di “garanzie sostanzialmente equivalenti” dettate al giudice di merito, si ricava che, in generale e quindi anche per i fatti anteriori, il presupposto dell’art. 580, in presenza della legge 219/2017, è che l’aspirante suicida, o meglio il malato che vuol essere aiutato nel morire, non versi nelle condizioni di cui al punto 2.3, quelle nelle quali può legittimamente rifiutare il trattamento terapeutico con obbligo del medico di rispettarne la volontà. In mancanza di tale presupposto il fatto dell’agevolazione prestata non è giuridicamente sussistente. Per il futuro, invece, opera la causa di giustificazione legata strettamente alla procedura disegnata e quindi, per dir così, ‘codificata’. Nonostante un certo allarmismo si può ragionevolmente affermare che il caso di aiuto al suicidio giustificato non è estensibile e non c’è il rischio di “pendio scivoloso”.

Esso, infatti, sarà limitato a quello rientrante nel “circoscritto ambito” e purché venga seguita la procedura indicata nella sentenza. In concreto, per fare esempi legati a casi di cronaca, la scriminante non è applicabile a chi aiuti un malato affetto da una forma depressiva, anche irreversibile, ma evidentemente non tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale42. Neppure è applicabile a chi aiuti la persona malata che, pur trovandosi nelle altre condizioni previste dalla sentenza, non resti “capace di prendere decisioni libere e consapevoli”: non viene considerata equipollente, infatti, l’istanza del rappresentante, pur se, come nel caso Englaro di cui alla sentenza della Cassazione cit., realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti.



4. I principî: a) la dignità



Espressamente nella motivazione della sentenza non compare l’art. 3, co. 1, Cost., quasi che, è stato osservato43, il giudizio di ragionevolezza possa ormai prescindere dalla necessità di un appiglio testuale in Costituzione. Ma è citato, esattamente allo stesso riguardo, nell’ordinanza previa, ai cui “rilievi e considerazioni […] si salda, in consecuzione logica, l’odierna decisione” (punto 2 del cons. in dir.). E che la Corte ritenga basale nell’economia della motivazione quell’articolo si ricava dal fatto che essa lo citi espressamente benché non “evocato dal giudice a quo in rapporto alla questione principale, ma comunque sia rilevante quale fondamento della tutela della dignità umana”. Nell’ordinanza la caratterizzazione soggettiva della dignità era molto più evidente, si direbbe sottolineata quale “propria idea di morte dignitosa”. Ma questo inciso, peraltro ripetuto, risultava ormai squilibrato dopo che, nell’intervallo di tempo tra l’ordinanza e la sentenza, la Corte, nel respingere la questione di costituzionalità del reato di sfruttamento della prostituzione, adduceva, tra altri motivi, quello della dignità della persona umana, intesa però – sia pure nella cornice dell’art. 41, secondo comma, Cost. ivi rilevante – “in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della “dignità soggettiva”, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore”. Nell’ordinanza 207/2018, invece, veniva privilegiata la concezione soggettiva di morte dignitosa, quella del malato, che nel respingere ogni intromissione paternalistica del legislatore in nome del “comune sentimento sociale” là evocato44, conteneva una forza espansiva capace di andare oltre la fattispecie dell’aiuto al suicidio per abbracciare lungo il “pendio scivoloso” l’eutanasia vera e propria: in contrasto stavolta patente con il diritto alla vita assunto dalla stessa Corte come valore preminente. Certamente più equilibrata, attraverso l’espunzione di quell’inciso, è la visione della dignità che emerge dalla sentenza. L’idea di dignità propria della persona malata non viene assolutizzata, secondo l’impressione ricavabile dall’ordinanza, ma relativizzata in ragione del complesso delle opportunità offerte dall’ordinamento alla persona malata, che comprendono anche la continuazione indefinita delle cure, salvo il divieto di accanimento terapeutico, e le cure palliative, fino alla sedazione profonda continua. Semplicemente la Corte valorizza il giudizio del paziente45secondo cui rispetto a queste alternative, pure oggettivamente dignitose, la scelta di porre fine alla propria vita è “maggiormente dignitosa”. La tutela accordata dalla Corte alla sua opinione s’inquadra in una visione complessiva della dignità, che non esclude altre pur possibili e apprezzabili declinazioni, secondo un punto di vista che alla Costituzione attribuisce non un “ordre morale institutionnel”, una determinata concezione della dignità ad esclusione di altre, ma piuttosto le coordinate, entro le quali il soggetto possa formarsi la sua, quali la libertà di coscienza, l’habeas corpus, l’uguaglianza senza differenza di condizione personale, come nel caso l’essere malato e capace o non di agire da solo. Se la dignità diventa un principio astratto, avulso dai diritti e dai bisogni del soggetto, a cui viene sovrapposto, essa finisce per tramutarsi nel suo contrario: l’umiliazione dell’uomo, che con la sua affermazione solenne nelle Carte successive al flagello della Seconda Guerra Mondiale s’intendeva non avvenisse “mai più”. Perciò, senza assolutizzazioni e con gli opportuni bilanciamenti, bisogna rispettare il più possibile la concezione di dignità della persona malata. Del resto, anche sotto questo profilo, non è solo a questa sentenza che si possa far risalire, quasi fosse una novità, la caratterizzazione soggettiva della dignità. E neppure solo alla complessiva giurisprudenza della Corte. È il diritto vivente che, orientato dalle dette coordinate costituzionali, la contiene. Rileva al riguardo la giurisprudenza della Cassazione in tema di fine-vita: non solo nello specifico caso Englaro ma anche nei casi di risarcimento del danno cagionato dal colpevole ritardo diagnostico di una condizione patologica ad esito certamente infausto. Viene ivi considerata meritevole di tutela la specifica percezione del sé quale soggetto responsabile, e non mero oggetto passivo, della propria esperienza esistenziale; e tanto, proprio nel momento della più intensa (ed emotivamente pregnante) prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine”. La “compromissione della ridetta situazione soggettiva di libertà […] si risolve, pertanto, nell’immediata protezione giuridica di una specifica forma dell’autodeterminazione individuale (quella che si esplica nella particolare condizione della vita affetta da patologie ad esito certamente infausto) e, dunque, del valore supremo della dignità della persona in questa sua ulteriore dimensione prospettica46. La dimensione soggettiva della dignità è, quindi, un dato acquisito dell’ordinamento, anche se la varietà dei casi la costringe nel bilanciamento tra diritti fondamentali egualmente protetti come l’autodeterminazione e la vita. Se uno dei due, come nel caso la vita, retrocede non è perché perda di significatività intrinseca ma perché l’altro bene, l’autodeterminazione, vede accresciuto il suo valore nelle democrazie occidentali insofferenti verso il paternalismo giuridico47. In questo senso la tutela della vita non è assoluta ma relazionale48con l’autodeterminazione: in un rapporto non in contrapposizione ma in concreto tra i due beni. Fino a che non trasmodi nella provocazione attiva della morte, dunque, secondo la Corte il rispetto della dignità personale che si esprime nell’autonomia decisionale deve essere massimo e non dimidiato e cioè limitato ai soli casi di rifiuto o rinuncia al trattamento terapeutico senza assistenza nel morire (aiuto al suicidio). Se, infatti, il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale. “Non vi è ragione”, secondo la Corte, ma in verità una ragione sotto il profilo strettamente penale ci sarebbe e nell’intervallo tra l’ordinanza e la sentenza era stata riproposta non solo in dottrina49 ma anche nella sede autorevole del Comitato nazionale per la bioetica, secondo cui permane una netta differenza di fatto, con effetti sul piano etico e giuridico, tra il paziente libero di rifiutare o di accettare un trattamento terapeutico e il paziente che chiede di farsi aiutare a morire (aiuto al suicidio). Una cosa è sospendere o rifiutare trattamenti terapeutici per lasciare che la malattia faccia il proprio corso; altra cosa è chiedere ad un terzo, per esempio ad un medico, un intervento finalizzato all’aiuto nel suicidio. Si tratta di affrontare due situazioni giuridicamente diverse: l’una ammessa in forza dell’art. 32, comma 2 Cost.; l’altra no50. Se la Corte ha mantenuto ferma la propria posizione, riproducendo integralmente il passo citato già presente nell’ordinanza, significa che quel ch’era parso il punto di minor resistenza della motivazione costituiva in realtà una convinta, anche se sobriamente formulata (addirittura attraverso un inciso), adesione alla tesi naturalistica, per cui non corre alcuna differenza di fatto tra le due condotte, in quanto anche l’interruzione del trattamento terapeutico consta di un’azione materiale come lo spegnimento o il distacco di una macchina cuore-polmoni o di un ventilatore polmonare: “In questi casi la condotta attiva ‘equivale’ all’interruzione (doverosa) di un trattamento, che sia legittimamente rifiutato dal malato”51.

L’argomento non pare, invero, del tutto risolutivo, potendo ipotizzarsi anche che il trattamento consista nella mera somministrazione di farmaci sicché l’interruzione consisterebbe in una condotta passiva di semplice omissione; oppure che il trattamento, anche se consistente nell’aiuto tecnologico, venga rifiutato e, quindi, omesso fin dal principio. Vero è, tuttavia, che questi casi sono quasi di scuola perché nella generalità sono le macchine a tenere in vita il paziente. Rimane sul piano ontologico la distinzione tra le due condotte, la prima di allowing e la seconda di doing, la quale in effetti “non può essere moralmente paragonata alla condotta attiva”52. Ma sul piano penale delle cause di giustificazione, che è l’unico sul quale si doveva porre la Corte, rileva piuttosto la finalità che è comune ad entrambe le condotte. Del resto, è stato frutto di una sottile ipocrisia del legislatore l’enfatizzazione della condotta omissiva, consentita perché in linea perfetta con l’art. 32 Cost., rispetto a quella commissiva, vietata. In realtà le due condotte sono per natura e finalità entrambe attive, al massimo, si potrebbe concedere, due modalità dell’aiuto al suicidio o, meglio, dell’assecondamento dell’autodeterminazione del morente di lasciarsi morire in maniera meno sofferta e – come nel caso di Fabiano Antoniani, che aveva rifiutato anche la sedazione profonda continua – più rapida53. La bocciatura degli emendamenti unificanti in sede di esame parlamentare della legge 219/2017 ha determinato appunto quel vuoto normativo ora colmato dalla Corte.



5 (segue). La coscienza



L’opera di riempimento del vuoto normativo è stata necessaria ma non è sufficiente. Del resto, l’auspicio finale della Corte affinché il Parlamento ponga mano ad una completa regolamentazione è esplicito. Alcuni problemi emersi nel corso del dibattito che ha accompagnato la vicenda giudiziaria sono stati risolti. In particolare, le strutture private del servizio sanitario nazionale rimangono escluse dal procedimento disegnato dalla Corte: sicché non si pone la questione della “obiezione di coscienza” collettiva degli ospedali ecclesiastici, ventilata sulla base dell’art. 7 dell’accordo di revisione del concordato che prevede il “rispetto della struttura e della finalità di tali enti”54. Ma i compiti delle strutture sanitarie pubbliche e specialmente del comitato etico appaiono delineati solo per grandi linee e lasciano aperti problemi la cui soluzione è affidata a ragionevoli accomodations nella prassi che si verrà formando55. Il nervo scoperto è quello dell’obiezione di coscienza, che la Corte liquida in tre righe, ricordando cha la sentenza si limita a escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato.

Può sembrare che la questione sia trattata con molta nonchalance ma in effetti la motivazione è sufficiente. Bisogna (tornare a) chiarire che la sentenza si muove nel campo penale e non in quello civile. Non essendovi una legge al riguardo, e non essendo stato prospettato alla Corte questo vuoto normativo, la sentenza, perciò, non crea obblighi, ma solo liceità giustificatrici di un fatto costituente reato, non essendo stato dichiarato costituzionalmente illegittimo. La questione è se sia punibile il medico che nell’ambito di una relazione terapeutica abbia accettato – pur potendo non farlo perché non c’è una legge che lo obblighi e anzi dovendo non farlo in base al codice deontologico – di aiutare il paziente ad anticipare il più possibile il momento della morte: un evento, comunque, certo ed imminente, giacché si tratta di un paziente tenuto in vita solo a mezzo di strumenti di sostegno vitale da cui vuole il distacco com’è perfettamente legale e cogente per il medico ex l. 219/2017. Se l’autodeterminazione del paziente al riguardo fosse illegittima, il medico che scelga di assecondarla non potrebbe essere giustificato. Ma poiché come s’è visto essa è espressione di un diritto fondamentale manifestato nell’ambito di una relazione di cura il medico è giustificato. La scriminante procedurale non consegue semplicemente ad una procedura amministrativa fatta di autorizzazioni e controlli ma essenzialmente ad una relazione di cura: è nella sostanza una scriminante relazionale. La confusione del piano penale, l’unico sul quale la Corte si pone e sottolinea di porsi, con quello civile ha indotto a ravvisare non solo problemi applicativi, come detto, ma contraddizioni di principio nella sentenza. Che la sentenza non affermi: “Né, dunque, diritto soggettivo all’aiuto al suicidio né obbligo di aiuto al suicidio”56 è vero ma non c’entrava con il quesito rivolto alla Corte, circoscritto alla assolutezza del divieto indubbiata di legittimità costituzionale. Non per mancanza di un obbligo di aiuto da parte del medico il diritto di autodeterminazione degrada a mera richiesta57 giacché esso si situa in una relazione non contrattuale, di tipo civilistico, ma terapeutica e fiduciaria, comunicativa58 fatta di dialogo che dura nel tempo e consente al paziente e al medico di persuadersi e responsabilizzarsi reciprocamente (come nel caso di rifiuto di cure, dove però è la legge civile a porre un obbligo). Ove il medico non assecondi il diritto del paziente, giacché nessuna legge gli impone di farlo, verrebbe meno evidentemente la fiducia del paziente (o anche del medico verso il paziente, cui egli abbia comunicato fin dal principio che non accoglierebbe anche quella richiesta) e si darebbe inizio verosimilmente ad un’altra relazione fiduciaria. Né può inferirsi una sorta di deregulation dal fatto che agli ospedali pubblici viene attribuito il compito solo di verifica delle condizioni legittimanti e delle modalità di esecuzione dell’aiuto al suicidio e non pure quello della organizzazione interna con i reparti e almeno un medico appositi: non se ne vede la necessità perché l’aiuto al suicidio può essere dato in qualsiasi reparto sia degente un malato, tenuto in vita a mezzo di trattamenti per il sostegno vitale, che manifesti quella volontà nel rispetto delle altre condizioni giustificatrici. Ogni analogia con la legge sull’interruzione della gravidanza è, più che forzata, decisamente fuori asse. Ciò che gli ospedali hanno l’obbligo di assicurare è il ricovero del paziente, ordinariamente già avvenuto quando matura la volontà di farla finita. Ma, ammessa l’ipotesi che il ricovero venga richiesto sostanzialmente al fine della morte rapida, un eventuale rifiuto per tale motivo, quasi un’obiezione di coscienza strutturale dell’ospedale, sarebbe illegittimo perché lesivo del diritto di autodeterminazione del soggetto. Si tratterebbe niente di meno, infatti, che di “porre e imporre d’imperio una visione assolutizzante, autoritativa, della “cura” come nel caso della Regione Lombardia, che rifiutò il ricovero di Eluana Englaro, e fu perciò condannata a risarcire il danno arrecato al tutore: A fronte del diritto, inviolabile, che il paziente ha, e – nel caso di specie – si è visto dal giudice ordinario definitivamente riconosciuto, di rifiutare le cure, interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato59.



6 (Segue) c) La separazione (ovvero la laicità)



La giurisprudenza della Corte ha assunto negli ultimi anni un carattere marcatamente ‘interventista’: dalla sentenza n. 1/2014 sulle leggi elettorali a quella n. 253/2019 sull’ergastolo ostativo. Anche questa sentenza è innegabilmente borderline, ai limiti della norma costituzionale, ma la novità della decisione appare, in conclusione, contenuta nelle coordinate interpretative sviluppate in settant’anni di giurisprudenza sia sul piano delle tecniche decisorie del processo costituzionale sia su quello delle tecniche di temperamento precettivo e, talvolta, anche sanzionatorio delle fattispecie penali. C’è sempre il rischio, naturalmente, che un organo costituzionale esorbiti dalle proprie competenze quando un altro rimanga inerte ma nel caso la Corte è rimasta nel proprio ristretto ambito, auspicando del resto “con vigore […] una sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati”: come, s’è detto, innumerevoli volte avvenuto in passato. L’atteggiamento costante di dialogo, sia pure non corrisposto dal Parlamento, non offre spunti, quindi, per riproporre la “mitologia tra Ormuzd e Arimane in termini di diritto pubblico”60, che Kelsen per la dialettica Presidente-Corte costituzionale rimproverava a Schmitt. Anche nel merito la Corte si è poggiata saldamente su istituti ormai recepiti dal legislatore, come le scriminanti procedurali, senza cedere alla tentazione di un esame globale, involgente anche i connessi aspetti civilistici. Nel quadro di una costante adesione ad un diritto penale laico la Corte utilizza al massimo il principio di separazione, in cui sostanzialmente si risolve il principio supremo di laicità. Se ne possono evidenziare tre profili. Il primo è la separazione, potrebbe dirsi, del fatto dall’opinione. Il fatto qui è la morte, il codice lo denomina suicidio e la ragione della punibilità dell’aiuto del terzo è ritenuto dalla Corte tuttora persistente. L’opinione che ne ha il soggetto, e che il terzo recepisce, è però quella di una morte dignitosa mentre, secondo un’opinione diffusa socialmente e ben interpretata dal presidente dei vescovi italiani nella dichiarazione citata, “togliersi la vita non è dignitoso per l’essere umano”. Si può pensare, tuttavia, che una persona, che ha accettato per anni di attaccarsi alle macchine per sopravvivere pur con tanta sofferenza, nel momento in cui vuole distaccarsene sia un suicida? Il “diritto infelice”(per usare la citata espressione di Donini), che il malato reclama, non nasce da una prometeica volontà di autoannientamento, come un atto di hybris: un’idea evidentemente assurda perché al contrario – si può ripetere con le lucide parole nella lettera citata di Michele Gesualdi, il politico cattolico allievo di don Lorenzo Milani nella scuola di Barbiana, condannato dalla Sla ad essere uno “scheletro di gesso” – proprio “accettare il martirio del corpo della persona malata, quando non c’è nessuna speranza né di guarigione né di miglioramento, può essere percepita come una sfida a Dio”61. La decisione di “andarsene al momento giusto”62nasce, invece, dalla volontà di sottrarsi all’alterazione del corpo derivante dal suo essersi ridotto a uomo “co-meccanico (mit-maschinell)”, come scrive Günther Anders63, all’autodegradazione come un’appendice della macchina: dal bisogno, insomma, di tutelare la propria dignità nel morire. Tema delicatissimo quello della “differenziazione assiologica delle diverse situazioni in cui può maturare quella volontà di autodistruzione”64. Ma, nel rispetto della discrezionalità del legislatore, non viene affrontato dalla Corte. Essa deve stare al nomeniuris suicidio (“aiuto al suicidio”). Tuttavia, quando parla della volontà della persona malata le espressioni cambiano: “decisione di accogliere la morte”, “congedarsi dalla vita”, “concludere la propria esistenza”. Può sembrare a tutta prima una variante lessicale, priva di rilievo, ma così in realtà la Corte separa dal fatto – la morte procuratasi, che il legislatore chiama suicidio – l’opinione che ne ha e ha mosso la persona malata. Con questo esercizio di discernimento la Corte si pone in condizione di individuare la scriminante idonea a risanare il vulnus costituzionale insito nella delineata situazione eccezionale. La separazione dei concetti, il discernimento porta a dei conflitti di lealtà che il soggetto deve risolvere senza la cintura di sicurezza della legge ma secondo la coscienza. La Corte ammette implicitamente il conflitto interiore del medico quando sottolinea che la scelta è affidata alla sua coscienza. Ed in effetti il medico deve decidere se assecondare la volontà del paziente o se seguire il codice deontologico, per cui “Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte” (art. 17). Diritto positivo ed etica professionale andavano finora a braccetto, l’essere coincideva con il dover essere, l’ontologia corrispondeva alla deontologia e così era risolto ogni possibile conflitto tra legge e coscienza. Ora le strade si sono separate. Non, s’è visto, che la legge, come interpretata dal giudice, gli ponga un obbligo in contrasto con la deontologia: nel caso ci sarebbe spazio per l’obiezione di coscienza, da praticare, se prevista, o da reclamare se mancante. Ma, di più, la legge aumenta la profondità del conflitto e la responsabilità del medico, in quanto si limita a scriminare, di modo che il medico nella relazione di cura con il malato si trova davanti ad un bivio: seguire la strada aperta dal permittere del diritto oppure bloccarsi davanti alla barriera del vetare del codice deontologico. Separare provoca non solo l’imbarazzo ma, di più, la sofferenza della scelta: è il disagio della libertà. Impressiona, tuttavia, che il dibattito sul conflitto di coscienza si sia concentrato, almeno finora, sulla condizione del medico, emarginando la figura del malato, colpito per primo e nella misura più intensa dal disagio della libertà. Potrebbe essere la spia di un persistente retaggio ideologico che ha portato alla passivizzazione del malato nella relazione di cura e, quindi, alla minimizzazione del conflitto interiore attraversato da una persona, la quale di massima ha un superiore sentimento di doverosità, che per il credente è anche un dovere trascendente, della vita: e, mentre prima della tecnologia medica viveva passivamente la sofferenza e il dolore della malattia – magari come un segno inspiegabile della volontà divina – ora è consapevole che essi dipendono da una sua personale opzione di valore e deve decidere se continuare a vivere nel dolore o farla finita. La comprensione del dolore nell’età della tecnica è difficile. Il progresso tecnologico con il dominio delle macchine porta l’uomo anche a rifiutare il dolore come componente alleviabile ma non eliminabile dell’esperienza umana. Emette a nudo l’aporia del dolorismo come valore: quel sentimento nel profondo positivo o perché consente all’uomo-eroe di dominarlo, come nell’elaborazione greca, o perché costituisce la via di espiazione e accesso alla salvezza, ad una vita senza dolore, secondo le elaborazioni religiose65. Continuare a valorizzare la sofferenza, a vivere comunque, anche nel dolore di una malattia inguaribile, oppure accettare l’exitus brevior, l’unico “naturale” prima dell’avvento della tecnologia: la separazione tra l’essere e il dover essere crea un conflitto interiore, prima ancora che nel medico – cui, invece, è rivolta l’attenzione predominante del dibattito in corso –, innanzitutto nella persona malata. La decisione è affidata alla sua coscienza, la sfera, in cui l’uomo – com’è scritto nella Bibbia (Siracide 15, 14) – è lasciato “in mano al suo consiglio”. E il diritto ha il compito di arrestarsi davanti alla coscienza non di invaderla, di permettere la decisione in coscienza, non di vietarla sostituendosi paternalisticamente e autoritariamente al suo posto. Emerge così il terzo profilo, il più generale, della separazione operata dalla Corte: la separazione tra etica (etiche) e diritto, che comporta il rifiuto del moralismo giuridico, cioè della pretesa di produrre e interpretare norme giuridiche per affermare e sanzionare i precetti di una determinata morale66, quella per dirla weberianamente della convinzione, che fa riferimento a principi assoluti, assunti a prescindere dalle conseguenze a cui essi conducono: nel caso, una sofferenza senza limiti. Un diritto che pone la verità al potere senza rispetto pieno per la dignità di chi sta soffrendo: nell’ottica del fiat iustitia, pereatmundus”. Non c’è insulto, ma nemmeno riconoscimento; la persona coinvolta semplicemente non viene “vista”67. Invero, come scrive Max Weber, “colui che agisce in base all’etica dei principi non tollera l’irrazionalità etica del mondo. Egli è un ‘razionalista’ cosmico-etico”68. Una particolare etica, in particolare quella religiosa, può ben far carico a chi l’abbraccia di questa concezione e delle conseguenze in vista di un bene più grande. Ma un diritto che vi si sovrapponesse, imponendola a tutti i consociati, sarebbe violento e incomprensibile (per riprendere i termini usati dal card. Bassetti). Il diritto penale dello stato laico di diritto non fa una selezione meramente idealistica dei beni da tutelare ma si muove in linea con l’etica della responsabilità e la preoccupazione per le conseguenze. Al confronto del violento diritto morale esso appare un diritto mite, in ricerca della compatibilità tra diverse visioni del mondo e in concreto compassionevole nei confronti del malato sofferente e di chi solidarizza con la sua decisione in articulo mortis. E, senza volerlo trascinare nel dibattito specifico, che sul punto lo vede interprete fedele della detta posizione contraria della Chiesa e delle altre religioni, merita di essere ricordata al riguardo della compassione un pensiero di papa Francesco: “la compassione è una via privilegiata anche per edificare la giustizia, perché, mettendoci nella situazione dell’altro, non solo ci permette di incontrarne le fatiche, le difficoltà e le paure, ma pure di scoprirne, all’interno della fragilità che connota ogni essere umano, la preziosità e il valore unico, in una parola: la dignità”69. Nel caso l’arte della separazione, in cui consiste essenzialmente la laicità, consente di distinguere, come detto, l’aiuto a morire, che presuppone che l’aiutato stia vivendo, dall’aiuto nel morire, che presuppone che l’aiutato stia morendo avendo egli volontariamente e legalmente interrotto le cure (come subito chiarì Franco Bricola70). In questo secondo caso, è stato saggiamente osservato, “colui che accompagna una persona a morire non aiuta al suicidio; aiuta la dignità di colui che ha deciso di uccidersi, che è una cosa ben diversa”71. E infatti, grazie alla coraggiosa sentenza della Corte, ottiene giustificazione perché l’ordinamento giuridico laico non è indifferente all’esigenza di uomini e donne – come dice l’Adriano di Marguerite Yourcenar72 – di “entrare nella morte ad occhi aperti”.

NOTE

* Questo articolo è già stato pubblicato sulla Rivista telematica www.statoechiese.it, fascicolo n.2 del 2020

1 Corte cost. 22 novembre 2019, n. 242.

2 Il punto viene ripreso infra in fine del par. 3.

3 Corte cost. 8 ottobre 2008, n. 334 (ord.). La sentenza Englaro è Cass. 16

ottobre 2007, n. 21748.

4 Corte cost. 16 novembre 2018, n. 207 (ord.).

5 La riferì V. Crisafulli, La Corte costituzionale ha vent’anni, in La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale. Bilancio di vent’anni di attività, a cura di N. OCChiOCupO, Bologna, 1978, 84, osservando che, peraltro, essa si era affacciata alla mente e al risentimento di molti parlamentari in relazione alla sentenza 225/1974 della Corte costituzionale, cit. infra.

6 La rivista telematica Consulta on line enumera ben 36 commenti all’ordinanza (cui adde gli altri apparsi nel volume Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di f.s. MariNi, C. Cupelli, Napoli, 2019, nonché il contributo di G. leO, Nuove strade per l’affermazione della legalità costituzionale in materia penale: la Consulta ed il rinvio della decisione sulla fattispecie di aiuto al suicidio, in Rivista italiana di diritto e procedura penale, 2019, 241 ss.). Alla data della sentenza della Corte d’Assise constano 7 commenti alla sentenza della Corte. Riferimenti bibliografici ai soli saggi (purtroppo pochi) citati nel testo.

7 G. lattaNzi, Relazione sull’attività svolta nel 2018, in Cortecostituzionale.it/ documenti/relazioni_annuali, 2019.

8 Corte cost., 28 novembre 1961, n. 64; 21 novembre 1968, n. 126.

9 Corte cost. 13 luglio 1960, n. 59; 10 luglio 1974, n. 225.

10 Cfr. l. Cassetti, Corte costituzionale e silenzi del legislatore: le criticità di alcuni modelli decisori nel controllo di costituzionalità sulle lacune legislative e il ruolo dei giudici, in I giudici costituzionali e le omissioni del legislatore. Le tradizioni europee e l’esperienza latino-americana, a cura di l. Cassetti, A.S. BruNO, Torino, 2019, 5. In particolare, sulla Costituzione brasiliana a. raMOs taVares, The legislative omission of the Legislative Branch in Brazil: a studyabout the role of the constitutionaljuridiction, in I giudici costituzionali e le omissioni del legislatore, cit., 51.

11 f. MOduGNO, La giurisprudenza costituzionale, Padova, 1978, 1252 e in precedenza Corollari del principio di “legittimità costituzionale” e sentenze “sostitutive” della Corte, in Giurisprudenza costituzionale, 1969, 91 ss.

12 Corte cost. ord. 207/2019, n. 10 del cons. in dir.

13 r. BiN, “Tanto tuonò che piovve”. Pubblicata finalmente la sentenza sull’aiuto al suicidio (“caso Cappato”), in lacostituzione.info, 2019.

14 a. ruGGeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in giurcost.org, 2018, 571 ss., che a commento della sentenza ha poi rincarato la dose di critiche, parlando di una “giurisdizione svilita nella sua stessa essenza e risolutamente messa da parte” con un “uso disinvolto” delle fonti: id., Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019, in Giustiziainsieme.it., 2019.

15 Così M. BiGNaMi, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, in Questione giustizia.it., 2018, di cui v. la casistica di pronunce della Corte che sollecitano il Parlamento per i necessari adeguamenti normativi. In particolare per le decisioni in materia penale v. però V. MaNes, V. NapOleONi, La legge penale illegittima. Metodi, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019.

16 G. zaGreBelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 257 e 262.

17 Crisafulli, La Corte costituzionale ha vent’anni, cit., 76.

18 l. elia, La Corte nel quadro dei poteri costituzionali, in Corte costituzionale

e sviluppo della forma di governo in Italia, a cura di P. Barile, E. Cheli, S. Grassi, Bologna, 1982, 531.

19 M. ruOtOlO, L’evoluzione delle tecniche decisorie della Corte costituzionale nel giudizio in via incidentale. Per un inquadramento dell’ord. n. 207 del 2018 in un nuovo contesto giurisprudenziale, in Rivista AIC.it, 2019, 2.

20 M. d’aMiCO, Il “Caso Cappato” e le logiche del processo costituzionale, in Forumcostituzionale.it, 2019.

21 G. zaGreBelsky, Diritto allo specchio, Torino, 2018, 272.

22 Una rassegna in p. VerONesi, “Ogni promessa è debito”: la sentenza costituzionale sul “caso Cappato”, in Giustizia insieme.it, 2019. Cfr. B. liBerali, L’aiuto al suicidio “a una svolta”, fra le condizioni poste dalla Corte costituzionale e i tempi di reazione del legislatore?, in Diritti comparati.it, 2019.

23 Corte cost., 17 marzo 1988, n. 328.

24 Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138.

25 Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229, richiamata da Corte cost. 13 apri-

le 2016, n. 84.

26 Non sembra proprio, quindi, “inventandosela di sana pianta”, come, in-

vece, secondo ruGGeri, Rimosso senza indugio, cit., che critica la Corte per essersi trasformata in “legislatore allo stato puro”. V. analogamente C. tripOdiNa, La “circoscritta area” di non punibilità dell’aiuto al suicidio. Cronaca e commento di una sentenza annunciata, in Corti supreme e salute, 2019, 2; t. epideNdiO, L’ordinanza n. 207 del 2018tra aiuto al suicidio e trasformazione del ruolo della Corte costituzionale, in Giudicedonna.it, 2018. Di “temerario tentativo di espansione del sindacato, e quindi delle competenze, della Corte costituzionale” parla pure a. spadarO, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Rivista AIC, 2019, 4, 166.

27 Corte cost., 30 luglio 2009, n. 253, che richiama Corte cost. 23 dicembre 2008, n. 438.

28 L’appropriato attributo per i malati di cui si tratta è di s. CaNestrari, I tormenti del corpo e le ferite dell’anima: la richiesta di assistenza a morire e l’aiuto al suicidio, in Diritto penale contemporaneo.it., 2018.

29 Corte cost., 18 febbraio 1975, n. 27.

30 I vari passaggi sono ben dettagliati da C. Cupelli, Il parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a se stessa. La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, in Sistema penale.it, 2019, 12, 33 ss.; cfr. VerONesi, “Ogni promessa è debito”, cit.

31 a. sessa, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.): un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta n. 207/2018, in Diritto penale contemporaneo.it. 2019. M. dONiNi, Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire. L’opzione “non penalistica” della Corte costituzionale di fronte a una trilogia inevitabile, in Giurisprudenza costituzionale, 2019.

32 i. kaNt, Lezioni di etica, Roma-Bari, 1984, 138 s.

33 M. rOseN, Dignità. Storia e significato, Torino, 119 ss.

34 Così la Dichiarazione congiunta delle religioni monoteiste abramitiche sulle

problematiche del fine vita, firmata in Città del Vaticano il 28 ottobre 2019, in vaticannews.va.



35 Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano, 1992, 561.

36 Il documento integrale in https://www.avvenire.it/famiglia-e-vita/Pagine/bassetti-discorso-suicidio-assistito-testo-integrale.

37 Si può vedere, volendo, il mio Tra diritti umani e diritti (=doveri) religiosi: la bussola della laicità, in Ebraismo e cristianesimo nell’età dei diritti umani, a cura di M. di MarCO e S. ferrari, Torino, 2018, 125 ss.

38 Con riferimento al caso di specie v., ad esempio, ruGGeri, La dignità dell’uomo e il dir itto di avere diritti (profili problematici e ricostruttivi), in giurcost.org, 2018.

39 h. JONas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Torino, 1997, 36.

40 Così la definisce la Commissione bioetica delle Chiese battiste, metodiste e valdesi, “È la fine, per me l’inizio della vita”. Eutanasia e suicidio assistito: una prospettiva protestante, in https://www.chiesavaldese.org/documents/eutanasia_doc18.

41 V. ad esempio le lettere di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica del 24 febbraio 2009, in lucacoscioni.it, e di Michele Gesualdi ai Presidenti delle Camere del 13 maggio 2017, ora ripubblicata in G. Bardi, l. alBaNese, Exit. Dossier sul fine-vita, Padova, 2019, 146.

42 È il caso dell’ex parlamentare Lucio Magri in v. https://www.associazionelucacoscioni.it/notizie/rassegna-stampa/la-morte-pulita-di-lucio-magri/.

43 Da tripOdiNa, La “circoscritta area” di non punibilità, cit.

44 Le due citazioni sono tratte da Corte cost. 7 giugno 2019, n. 141, che aggiunge: “È, dunque, il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”.

45 Il quale aveva escluso non solo, ovviamente, la continuità terapeutica ma anche la sedazione profonda perché quest’ultima, non essendo egli totalmente dipendente dal respiratore artificiale, non gli avrebbe assicurato una morte rapida ma solo dopo alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo (ord. 207/2018, par. 9 del cons. in dir.).

46 Cass., 23 marzo 2018, n. 7260/2018; conf. Cass., 15 aprile 2019, n. 10424.

47 f. palazzO, La tutela della persona umana: dignità, salute, scelte di libertà, in Diritto penale contemporaneo.it, 2019, perspicuamente fa gli esempi dell’onore rispetto alla libertà di pensiero e della detenzione carceraria rispetto alla libertà personale.

48 r. BartOli, L’ordinanza della consulta sull’aiuto al suicidio: quali scenari futuri?, in Diritto penale contemporaneo.it, 2019.

49 Ad esempio, a. liCastrO, Trattamenti sanitari, diritto all’autodeterminazione ed etiche di fine vita dopo l’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, rivista telematica (Statoechiese.it), 2019.

50 Comitato nazionale per la bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, 18 luglio 2019, in bioetica.governo.it.

51 M. dONiNi, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Diritto penale contemporaneo, 2017.

52 a. NiCOlussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, in Corti supreme e salute.it, 2019, 2.

53 Conf. Cupelli, Il parlamento decide di non decidere, cit.; l. euseBi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in Corti supreme e salute, 2019, 2.

54 Cfr. l’intervista di padre Virginio Bebber, presidente dell’Aris (Associazione religiosa istituti sociosanitari), Non lasceremo morire, ci tutela il Concordato, in Avvenire, 14 dicembre 2017.

55 Per alcune soluzioni cfr. liBerali, L’aiuto al suicidio, cit.

56 NiCOlussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale, cit.

57 Così, invece, tripOdiNa, La “circoscritta area” di non punibilità, cit.

58 Come la definiva s. rOdOtà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 203, 277 s.

59 Cons. Stato 2 settembre 2014, n. 4460, che conferma Tar Lombardia 26 gennaio 2009, n. 214.

60 h. kelseN, Chi dev’essere il custode della Costituzione?, in id., La giustizia costituzionale, Milano, 1981, 290.

61 La lettera così prosegue: “Lui ti chiama con segnali chiarissimi e rispondiamo sfidandolo, come se si fosse più bravi di lui, martoriando il corpo della creatura che sta chiamando, pur sapendo che è un martirio senza sbocchi” (in Exit, cit., 146 s.).

62 M. CaViNa, Andarsene al momento giusto. Culture dell’eutanasia nella storia europea, Bologna, 2015.

63 G. aNders, Noi figli di Eichmann, Firenze, 1995, 55; id., L’uomo è antiquato, vol. I, Torino, 2003, 78.

64 palazzO, La tutela della persona umana, cit.; sul piano penale, integrato dalle ricerche filosofiche, mediche, psicoanalitiche, v. CaNestrari, I tormenti del corpo, cit.

65 Per s. NatOli, L’esperienza del dolore, Milano, 1986, le due principali elaborazioni dell’esperienza del dolore almeno in Occidente.

66 Ne è un esempio la Dichiarazione congiunta delle religioni monoteiste abramitiche, cit., secondo cui “L’eutanasia ed il suicidio assistito sono moralmente ed intrinsecamente sbagliati e dovrebbero essere vietati senza eccezioni”.

67 r. seNNett, Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali, Bologna, 2004, 21.

68 M. WeBer, La politica come professione, Milano, 2009.

69 fraNCesCO (J.M. BerGOGliO), Messaggio del santo padre Francesco ai partecipanti alla xxxii conferenza internazionale sul tema “affrontare le disparità globali in materia di salute”, in vatican.va, 2017.

70 F. BriCOla, Vita, diritto o dovere: spazio aperto per il diritto?, in Scritti di diritto penale, a cura di S. CaNestrari, A. MelChiONda, vol. II, Milano, 1997, 2805 ss.

71 G.M. fliCk, Considerazioni sulla dignità, in BioLaw Journal Rivista di BioDiritto.it, 2017, 2.

72 M. yOurCeNar, Memorie di Adriano, Torino, 2005, 244.