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Le nuove frontiere del biodiritto: testamento biologico e maternità surrogata

autore: I. Bizzozzaro

Sommario: 1. Il principio di autodeterminazione: il diritto alla vita e al “fine vita”. - 2. “Il fine vita” alla luce della sentenza della Corte cost. n. 241 del 22 novembre 2019. - 3. Il diritto all’autodeterminazione tra divieto di fecondazione eterologa in coppie dello stesso sesso e divieto di maternità surrogata. - 4. Il diritto all’autodeterminazione nei trattamenti di Procreazione medicalmente assistita. - 5. Divieto di fecondazione eterologa in coppie dello stesso sesso e divieto di maternità surrogata superano il vaglio di legittimità costituzionale. - 6. Sentenza Cass. SS.UU. n. 12192 del 2019. - 7. Conclusioni.



1. Il principio di autodeterminazione: il diritto alla vita e al fine vita



Il diritto “alla vita” o “al fine vita”, il primo inteso anche come diritto di essere genitori ed il secondo come diritto a scegliere “se” e “come vivere”, ma anche “se” e “come morire”, sono sempre stati al centro di un dibattito prima ancora che giuridico, bioetico, tant’è che si parla di “biodiritto” per indicare l’insieme dei problemi posti dalla relazione tra diritto, bioetica e scienze della vita. Trattasi di materie in cui l’evoluzione scientifica ha un peso decisivo nella creazione del diritto. Si pensi alla scoperta di nuove cure per il trattamento di malattie invalidanti o comunque compromettenti la capacità di intendere del paziente e a come possano incidere sulla formazione del consenso informato e sulle relative disposizioni anticipate di trattamento; ma si pensi anche all’evoluzione medica nel campo della Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) e a come si sia passati da una madre naturale e/o adottiva, ad una madre genetica e/o biologica, fino ad arrivare ad una madre surrogata. Trattasi di questioni che portano con sé una serie di dilemmi ancora in gran parte aperti ed irrisolti. È difficile bilanciare il diritto alla vita e alla salute ed il diritto a scegliere se vivere e/o come morire; così come è molto complesso ammettere che, accanto ad una genitorialità naturale e a quella adottiva, possa esisterne una artificiale, soprattutto quando le relazioni si complicano e la “madre committente” non coincide neanche con la partoriente; senza contare le questioni sorte a seguito di “incidenti di percorso”, ovvero allo scambio di embrioni nel corso di una PMA. Chi prevale? La madre biologica (che ha prestato l’utero) o quella genetica (che ha lo stesso patrimonio genetico del nato ma che non ha partorito)? Sono questioni che la giurisprudenza prima ed il legislatore più lentamente, hanno tentato di risolvere in maniera quanto più aderente al sentire sociale ed ai progressi della scienza. Anche se non sempre il progresso scientifico coincide con quello umano, portando, in alcuni casi, a conseguenze non sempre condivise o avvertite come “giuste”. A tal riguardo si pensi al caso dell’ospedale Pertini di Roma e alla vicenda giuridica e sociologica che ne è conseguita1. È evidente che si tratta di temi che – al di là dell’aspetto puramente etico – non possono essere lasciati alla creazione, per quanto prudente, giurisprudenziale, richiedendo certezza e, soprattutto, uniformità applicative. Tanto al fine di non incorrere in altri “casi” (Englaro, Welby, e da ultimo Cappato) che pure hanno avuto il merito di scuotere le coscienze, finendo per sostituirsi al timido legislatore nell’affermazione del diritto all’autodeterminazione in materie che, per questioni di “certezza” andrebbero comunque regolate in modo univoco dal legislatore. Dallo stato dell’arte, però, sembra che l’affermazione del diritto all’autodeterminazione del paziente nel trattamento sanitario sia molto più avanti rispetto all’affermazione del diritto all’autodeterminazione alla procreazione assistita. Qui non sempre la giurisprudenza è riuscita a superare i limiti della legge 40/2004 che regola la PMA: permane il divieto alla fecondazione eterologa fra una coppia di donne omossessuali e permane il divieto alla maternità surrogata. Ciò nonostante, nel resto d’Europa (per non dire del mondo), queste tecniche sono particolarmente diffuse. Ma c’è di più: anche il riconoscimento dello status di figlio nell’ordinamento italiano concepito all’estero con la tecnica della maternità surrogata (vietata in Italia), dapprima ammesso da diversi Tribunali italiani, è stato escluso dalla giurisprudenza della Suprema Corte con sentenza a Sezioni Unite2.



2. Il fine vita alla luce della sentenza Corte cost. n. 241 del 22 novembre 2019



Con la l. 219/2017, più nota come legge sul biotestamento, si celebra il diritto all’autodeterminazione del trattamento sanitario e diagnostico e, dunque, il diritto a conoscere e scegliere in maniera libera e consapevole di sottoporsi ad un trattamento ovvero di rifiutarlo3 . La stessa legge4 ha il merito di aver espressamente qualificato l’idratazione e la nutrizione artificiale come trattamenti sanitari, con ciò rendendoli rifiutabili e superando una volta e per tutte la querelle – già di fatto affrontata e superata dalla sentenza del caso Englaro – tra coloro i quali li ritenevano “salva vita” (e come tali irrinunciabili) e coloro che, invece, riconoscevano la natura essenzialmente terapeutica di tali trattamenti in pazienti in stato vegetativo. Se è vero che, ai sensi dell’art. 32 Costituzione, nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per legge, e se è vero che trattamenti sanitari sono anche l’idratazione e la nutrizione artificiale (ed in via analogica anche la ventilazione artificiale) è allora vero che nessuno può essere costretto a tali trattamenti, potendo liberamente, ma, consapevolmente, rifiutarli. Tale scelta potrà essere sempre ritrattata dal paziente, il quale, potrà sempre revocarla, interrompendo un trattamento già iniziato, ovvero decidendo di intraprendere quello inizialmente rifiutato5 . È chiaro che il rifiuto del trattamento “salva vita” equivale ad affermare l’ingresso, nel nostro ordinamento, della c.d. “eutanasia passiva”, ovvero la morte conseguente dal rifiuto del trattamento. Dall’eutanasia passiva, che, come sopra detto, oggi trova il suo riconoscimento nella disciplina positiva, occorre distinguere l’eutanasia c.d. attiva, che è quella in cui la morte sia procurata direttamente dal medico su richiesta del paziente mediante la somministrazione diretta di farmaci. Dalla stessa, a sua volta, si differenzia il c.d. “aiuto al suicidio” o suicidio assistito (quello del caso Cappato per intenderci), in cui è il malato ad assumere materialmente ed autonomamente il farmaco solo prescritto e/o fornito dal medico. Altra ipotesi, che pure trova una puntuale disciplina nella l. 219/2017, è quella della c.d. “sedazione palliativa” (o profonda)6 , che è diretta a sopprimere il dolore e non la persona, addormentandola ad intervalli di tempo che sono regolamentati in protocolli ben precisi, e che servono ad alleviare le sofferenze negli ultimi momenti di vita del malato terminale. Da tale trattamento deve essere tenuta distinta la “sedazione eutanasica”, che realizza una vera e propria eutanasia attiva, provocando la morte nell’immediatezza e realizzando un vero e proprio fine vita, seppure del consenziente. Ebbene, allo stato dell’arte, nel nostro ordinamento, il diritto di autodeterminazione della persona nel “fine vita” è ammesso solo nei casi di eutanasia passiva, ovvero del rifiuto al trattamento sanitario c.d. “salvavita”, che abbia la morte come conseguenza consapevolmente espressa nei modi e nelle forme di cui alla l. 219/2017; di sedazione palliativa, di cui all’art. 2 co. 2 l. 219/2017, sempre con il consenso espresso del paziente; ed infine, a seguito del recente intervento della Corte costituzionale, è ammessa anche la prescrizione di farmaci letali (c.d. “aiuto al suicidio”) con le particolari cautele e nei casi espressamente indicati nella massima della Corte7 . Ancora vietate e penalmente rilevanti le condotte che escano dai limiti tracciati dalla richiamata sentenza, sfociando nella condotta ancora penalmente rilevante di “istigazione o aiuto al suicidio”8 , oltre quelle in cui il medico non sia solo di “ausilio” nel momento del fine vita del paziente, ma somministri in prima persona il trattamento letale, anche sotto le mentite spoglie di una sedazione profonda (in vero eutanasica), con ciò realizzando l’eutanasia attiva, punita quale omicidio del consenziente9 . È chiaro che, all’atto pratico, il filo che separa le condotte attive da quelle passive, e le cure palliative da quelle eutanasiche è veramente sottile.



3. La disciplina del consenso nella legge 219/2017: forma e contenuto



Come deve essere prestato il consenso (o il rifiuto) al trattamento sanitario? Ebbene, la grande novità della legge sul biotestamento è stata quella di prevedere, accanto ad un consenso (o rifiuto) attuale, anche uno preordinato alla futura incapacità. In particolare, quanto alle determinazioni attuali del paziente, le stesse potranno essere prestate sia in forma scritta che attraverso videoregistrazioni o altri dispositivi che consentano alle persone con disabilità di comunicare e verranno inserite nella cartella clinica e nel fascicolo elettronico10. Quanto alle disposizioni anticipate di trattamento, c.d. “DAT” (o più comunemente testamento biologico), le stesse consentono di prestare il consenso (o rifiuto) ad un dato trat tamento sanitario in maniera anticipata ed in previsione di una futura incapacità di autodeterminarsi. Nelle DAT è necessario che vi sia un esplicito riferimento alle informazioni sanitarie assunte ed alla propria volontà di sottoporsi ovvero di rifiutare determinati trattamenti. È possibile nominare anche un fiduciario che faccia le veci del disponente nelle relazioni con il medico11. Le DAT, redatte presso i Notai (per atto pubblico o per scrittura autenticata), ovvero consegnate personalmente dal disponente presso l’Ufficio dello Stato Civile, dal 1° febbraio 2010 confluiranno in una Banca Dati Nazionale, recentemente istituita con decreto del Ministero della Salute12. Obiettivo della banca dati nazionale delle DAT è, dunque, quello di raccogliere copia delle disposizioni anticipate di trattamento e di garantirne il tempestivo aggiornamento in caso di rinnovo, modifica o revoca, assicurando il pieno accesso alle DAT oltre che al disponente stesso ed al suo fiduciario, anche al medico che ha in cura il paziente, quando quest’ultimo si trovi in una situazione di incapacità di autodeterminarsi. Il decreto detta anche i termini per comunicare alla banca dati le DAT che sono già state espresse prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina13. In definitiva, in ordine al contenuto delle DAT, anche alla luce del recente intervento della Corte costituzionale sull’aiuto al suicidio, le stesse potranno prevedere:

a) il consenso (o il rifiuto) informato a determinate cure c.d. “salvavita” come l’idratazione o la nutrizione (ma anche la ventilazione) artificiale. Si tratta dell’affermazione del diritto a “lasciarsi morire”, come espressione del diritto all’autodeterminazione nel trattamento sanitario;

b) la richiesta di una sedazione c.d. palliativa o comunque di ricevere trattamenti che evitino la sofferenza psicologica o fisica;

c) pare debba escludersi che le DAT possano contenere anche la richiesta di “aiuto al suicidio”. In primis, perché la Corte parla chiaramente di una richiesta attuale di un soggetto che sia pienamente consapevole e nel pieno delle facoltà mentali; in secundis, perché il suicidio prevede un atto dell’autore, diversamente sarebbe “omicidio del consenziente”, atto penalmente rilevante. Vero è anche che le DAT, in quanto disposizioni personalissime ed unilaterali, ben potrebbero contenere una richiesta di eutanasia attiva in prospettiva di una preordinata incapacità anche a ricorrere in maniera autonoma al suicidio c.d. assistito, salvo poi la giurisprudenza (in mancanza di una norma sopravvenuta che finalmente disciplini anche tale ipotesi) pronunciarsi su un nuovo caso e sfondare il limite del divieto di un “aiuto attivo” a morire.



4. Il diritto all’autodeterminazione nei trattamenti di Procreazione Medicalmente Assistita



Quanto al diritto di autodeterminazione nei trattamenti di PMA, occorre fare riferimento alla legge 19 febbraio del 2004 n. 40. La stessa, nel consentire il ricorso alla PMA omologa (ovvero fecondazione assistita con seme e ovulo appartenenti alla coppia stessa) ha espressamente sancito il divieto, penalmente rilevante, della commercializzazione di gameti e della maternità surrogata14. Quest’ultima è intesa sia come “surrogazione totale”, detta anche locazione di utero (ovvero quando la madre surrogata si limita ad ospitare l’embrione feto, non avendo quest’ultimo nessun legame genetico con lei), sia come “surrogazione parziale”, ovvero quando la madre surrogata concorrerà con il proprio ovulo al patrimonio genetico del bambino. La legge, nella sua originaria formulazione, prevedeva una serie di restrizioni che solo in parte sono state superate con successivi interventi della giurisprudenza di legittimità. Gli interventi più rilevanti sono stati tre e corrispondono ad altrettante sentenze della Corte costituzionale. Con la prima delle tre decisioni, la Corte costituzionale15 ha eliminato il tetto massimo della produzione di tre embrioni e soprattutto l’obbligo di impianto contemporaneo, ritenuto incompatibile con il principio di autonomia del medico e con quello di tutela della salute della donna. Con la seconda16 pronuncia la Corte si è espressa sulla fecondazione eterologa, eliminandone l’espresso divieto17 ed ammettendo che l’infertilità della coppia possa essere superata anche con il ricorso a gameti appartenenti a donatori estranei alla coppia (ovuli o semi o entrambi). Ciò a patto che la madre committente (sociale) e quella biologica (partoriente) coincidano. In definitiva la Corte ha ritenuto il divieto di fecondazione eterologa illegittimo perché in violazione del diritto alla salute: essendo la sterilità una patologia, vietarne il trattamento è incostituzionale. Ma non solo, secondo la Corte il divieto viola anche il diritto di autodeterminazione, in quanto la scelta di avviare un progetto genitoriale spetta ai genitori stessi e non allo Stato. Infine, con l’ultima delle tre sentenze18, è venuto meno anche il divieto di effettuare diagnosi pre-impianto sugli embrioni, in quanto in violazione del diritto degli aspiranti genitori di conoscere le condizioni di salute dell’embrione.

Ebbene due sono i principali nodi ancora da sciogliere della legge. Il primo è quello del divieto di fecondazione eterologa in coppie dello stesso sesso, il secondo è il divieto di maternità surrogata. Tuttavia, prima di soffermarsi sui concetti appena espressi, appare utile distinguere le possibili figure che vengono coinvolte, a vario titolo, nelle procedure di procreazione medicalmente assistita con l’avvertenza che non tutte e non sempre tali figure sono dissociate tra loro, ben potendo due o più figure coincidere nella medesima persona. In particolare, quando si opera all’interno delle PMA, cinque sono le figure che vengono in rilievo in ordine al nato: ex latere matris, la madre genetica (ossia colei che fornisce l’ovulo destinato alla fecondazione e, dunque, colei che trasferisce il proprio patrimonio genetico), la madre biologica o uterina (ossia colei che porta avanti la gestazione fino al momento del parto) ed infine la madre sociale o committente (vale a dire colei che fornisce il consenso alla PMA e che di regola coincide la madre biologica salvo nella tecnica, vietata in Italia, della maternità surrogata. Nel caso di maternità surrogata la madre sociale potrebbe essere un soggetto terzo che non ha nessun legame genetico o biologico con il figlio, realizzandosi, in tal caso una surrogazione assoluta, ovvero offrire oltre all’utero anche il suo patrimonio genetico); ex latere patris avremo invece il padre genetico (colui che fornisce il seme destinato a fecondare l’ovulo per la formazione dell’embrione e, dunque, colui che trasferisce il proprio patrimonio genetico) ed il padre sociale o committente (colui che fornisce il consenso alla PMA).



5. Divieto di fecondazione eterologa in coppie dello stesso sesso e divieto di maternità surrogata superano il vaglio di legittimità costituzionale



I divieti di fecondazione eterologa e di maternità surrogata nelle coppie omossessuali costituiscono un vero e proprio limite al riconoscimento della genitorialità per tali coppie. Il primo divieto colpisce le coppie omossessuali femminili in ragione della carenza del requisito di cui all’art. 5 l. cit., che ammette l’accesso a tecniche di PMA solo a coppie di sesso diverso. In definitiva, due madri di cui una genetica, ovvero quella che offre l’ovulo e l’altra biologica (che partorisce), non sono ammesse alla fecondazione eterologa, analogamente vietata è l’ipotesi dell’eterologa con patrimonio genetico solo di una delle due donne, magari in caso di infertilità di una delle due. Il secondo divieto, di maternità surrogata, colpisce indifferentemente coppie omossessuali ed eterosessuali in conseguenza del divieto imposto dall’art. 12 co. 6 della l. 40/2004. Entrambi i divieti, da ultimo, hanno resistito al vaglio della Corte costituzionale, che con una recente pronuncia19, rinviando al legislatore la disciplina di temi eticamente sensibili ed il compito di effettuare il bilanciamento tra valori fondamentali, ha escluso che la tutela costituzionale della “salute” possa spingersi sino alla soddisfazione di qualsivoglia aspirazione soggettiva della coppia, negando, in definitiva, l’esistenza di un diritto alla procreazione medicalmente assistita che prescinda dai limiti imposti dalla legge20. Le cautele e la tutela degli interessi (e dei diritti) del bambino, nato attraverso le tecniche di PMA, non rivestono un ruolo secondario nella motivazione della Corte, secondo cui, a fronte delle nuove tecniche procreative, è giusto preoccuparsi dell’ambiente in cui i nuovi nati dovranno sviluppare la loro personalità. L’idea di fondo sottesa alla disciplina è che la famiglia adinstar naturae, formata da due genitori, di sesso diverso, entrambi viventi e in età potenzialmente fertile, rappresenti, in linea di principio, il luogo più idoneo per accogliere e crescere il bambino21.



6. Sentenza Cass. SS.UU. n. 12192 del 2019



Da ultimo la Cassazione a Sezioni Unite22, discostandosi dai principi espressi dalla Corte Europea, ma anche da pronunce di merito del nostro ordinamento, ha escluso che il divieto di maternità surrogata possa essere aggirato chiedendo la trascrizione in Italia dell’atto di nascita come “figlio di due padri” del bambino nato all’estero con la tecnica di maternità surrogata. Le SS.UU., partendo dall’inquadramento della legge n. 40 del 2004 come legge costituzionalmente necessaria, in quanto coinvolgente una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti, nonché temi eticamente sensibili, ribadisce che il divieto di surrogazione in maternità sancito dall’art. 12 co. 6 della predetta legge, incarna un principio di ordine pubblico, come tale inderogabile. Ed è proprio il necessario ed imprescindibile controllo di liceità sull’ordine pubblico a costituire un limite all’ingresso delle sentenze straniere attestanti la doppia paternità. Alla luce di tali considerazioni, si impone, a detta della Corte, l’esigenza di far prevalere nettamente il favor veritatis rispetto al favor filiationis, non dovendo, quest’ultimo, ritenersi frustrato dall’esistenza nell’ordinamento italiano del divieto di surrogazione in maternità. La Corte, in più passaggi, sottolinea che il legislatore italiano ha espresso favore per il modello di genitorialità non fondato esclusivamente sul legame biologico tra i genitori ed il nato, ma che tale favor si possa e si debba esprimere unicamente attraverso il ricorso all’istituto giuridico dell’adozione. Le Sezioni Unite, dunque, affermano che il favor filiationis, nei casi di minori partoriti all’estero mediante surrogata, viene tutelato e riconosciuto, nell’ordinamento italiano, mediante la possibilità di ricorso all’adozione non legittimante (definita dalla Corte “adozione in casi particolari”)23.



7. Conclusioni



In definitiva, dopo i vari interventi legislativi e giurisprudenziali, sia in materia di biotestamento che di maternità surrogata, e, soprattutto, dopo le ultime pronunce della Corte costituzionale, volte in parte a demolire le norme positive ed in parte a sollecitare un intervento del legislatore, è giunto il momento di pensare ad una disciplina totalmente nuova, che dia più autonomia alle parti coinvolte e contenga solo una serie di principi generali, coerenti con la normativa di respiro internazionale a tutela di interessi sensibili e personalissimi.

NOTE

1 Qui, nel corso di una PMA omologa cui si sottoposero diverse coppie vi fu uno scambio di gameti in laboratorio, impiantati erroneamente nell’utero di altra madre. Lo scambio determinò una involontaria maternità surrogata, da cui nacquero due gemelli, dei quali reclamò la “paternità” genetica la coppia il cui patrimonio genetico corrispondeva a quello dei bambini e la cui PMA non era andata a buon fine. Ebbene, il Tribunale di Roma con una sentenza del 10 maggio del 2016, preannunciata già dall’ordinanza di rigetto dell’istanza caute

lare, affermò che la verità biologica dovesse prevalere su quella genetica. E ciò essenzialmente sulla base dell’opzione giuridica prescelta dal giudicante, secondo cui, ai sensi dell’art. 269 co. 3 c.c., madre è colei che ha portato a termine la gravidanza ed, ai sensi dell’art. 8 della l. 40 del 2004, ai fini dell’acquisto dello stato di filiazione per i nati da tecniche di PMA, rileva il momento dell’impianto dell’embrione nell’utero materno. D’altro canto, una decisione contraria, ovvero favorevole alla prevalenza della maternità genetica, avrebbe potuto trarsi da altre argomentazioni giuridiche. In primis, proprio l’art. 269 c.c., al co. 2 statuisce che la maternità e la paternità possono essere provate con ogni mezzo, con ciò superando la presunzione di cui al co. 1 dello stesso articolo, oltre che eventuali limiti in ordine alla legittimazione ad intraprendere i relativi giudizi in ordine al riconoscimento/disconoscimento di paternità; in secundis, la coppia che reclamava la genitorialità genetica non aveva prestato il consenso alla PMA nell’utero di altra donna. La mancanza del consenso, dal momento che l’impianto è frutto di un errore, dovrebbe far “cadere” tutte le argomentazioni a favore della “maternità biologica” fondate sulla l. 40/2004, realizzandosi, peraltro, una ipotesi “involontaria” di maternità surrogata, vietata dalla medesima legge. È evidente che, a seconda dell’opzione prescelta, si possa giungere ad interpretare in maniera diversa il dato giuridico, giungendo a soluzioni opposte.

2 Sentenza Corte di Cassazione sez. un. n. 12193 del 2019, in https://www. neldirito.it/public/pdf/s.u._12193_2019pdf.

3 In particolare: l’art. 1 co. 1 della l. 209/2017, nel solco dell’art. 32 co. 2 Cost., ribadisce il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona stabilendo che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero ed informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

4 L’art. 1 co. 5 della l. cit. statuisce che “Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, si prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi si servizi di assistenza psicologica”. 5 Secondo l’ultimo cpv. del co. 5 dell’art. 1 l. cit. “Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

6 Art. 2 l. cit. “1. Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38. 2. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente. 3. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

7 Sent. Corte cost. n. 242 del 22 novembre 2019 in https://www.cortecostituzionale.it, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato “l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento) – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione – agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.

8 Art. 580 c.p. “1. Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima. 2. Le pene sono aumentate se la persona istigata o eccitata o aiutata si trova in una delle condizioni indicate nei numeri 1 e 2 dell’articolo precedente. Nondimeno, se la persona suddetta è minore degli anni quattordici o comunque è priva della capacità di intendere o di volere, si applicano le disposizioni relative all’omicidio”.

9 Art. 579 c.p. “1.Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni. 2. Non si applicano le aggravanti indicate nell’articolo 61. 3. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1) contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno”.

10 Art. 1 co. 4 l. cit. “Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”.

11 Art. 4 co 1. l. cit. “Disposizioni anticipate di trattamento 1. Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche ea singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata ‘fiduciario’, che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie”.

12 Decreto Ministero della Salute 2019 n. 168, pubblicato sulla GU del 17 gennaio scorso ed in vigore dal 1° febbraio. Nella Banca Dati Nazionale confluiranno tutti i biotestamenti che saranno depositati dopo il 1° febbraio presso i notai, gli ufficiali dello stato civile dei Comuni, le Regioni che ne hanno regolamentato la raccolta e i consolati italiani all’estero.

13 La banca dati radunerà anche le informazioni sulle Dat espresse prima del 1° febbraio. Notai, Comuni e Regioni sono infatti chiamati a trasmettere al ministero della Salute entro il 1° aprile (60 giorni dal 1° febbraio), affinché venga inserito nella banca dati, un elenco nominativo delle persone che hanno espresso dichiarazioni anticipate di trattamento prima della realizzazione della banca dati: un meccanismo che permetterà di avere rapidamente evidenza nella banca dati nazionale delle persone che hanno espresso le Dat e consentirà – nell’attesa che vengano acquisite – di sapere dove reperirle. Poi, entro il 30 luglio (180 giorni dal 1° febbraio), notai, Comuni e Regioni devono inviare al ministero della Salute le copie delle Dat finora ricevute. In questo caso – fanno sapere dal ministero – non serve avere l’attestazione del consenso del disponente all’invio del biotestamento alla banca dati, ma è sufficiente che non abbia espresso una volontà contraria.

14 Art. 12 co. 6 secondo cui 6. Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro.

15 Sent. Corte cost. n 151 dell’8 maggio 2009, in https://www.cortecostituzionale.it

16 Sent. Corte cost. n 162 del 10 giugno 2014, in https://www.cortecostituzionale.it

17 di cui all’art. 4 co. 3 l. n. 40 del 2004.

18 Sent. Corte cost. n. 96 del 5 giugno 2015, in https://www.cortecostituzio-

nale.it

19 Sent. Corte cost. n. 221 del 23 ottobre 2019, in https://www.eius.it/giurisprudenza/2019. Con tale sentenza la Corte si è pronunciata nell’ambito di due differenti giudizi, uno dinanzi al Tribunale di Pordenone, l’altro presso il Tribunale di Bolzano, riuniti e definiti con la medesima decisione. Per entrambi la questione di legittimità dell’art. 5 l. 40 involgeva la violazione dei principi di cui agli artt. 2, 3, 32 Cost. limitando la PMA alle solo coppie di sesso diverso, oltre che dell’art. 12 nella parte in cui sanziona l’applicazione di tali tecniche a coppie dello stesso sesso.

20 In particolare, la Consulta ricorda come “la tutela costituzionale della “salute” non può essere estesa fino a imporre la soddisfazione di qualsiasi aspirazione soggettiva o bisogno che una coppia (o anche un individuo) reputi essenziale” escludendo che la procreazione assistita “possa rappresentare una modalità di realizzazione del ‘desiderio di genitorialità’ alternativa ed equivalente al concepimento naturale, lasciata alla libera autodeterminazione degli interessati”.

21 Tali conclusioni per la Corte restano valide nonostante la giurisprudenza in alcuni casi abbia riconosciuto l’adozione non legittimante in favore del partner dello stesso sesso del genitore biologico del minore ai sensi dell’art. 44, comma 1, lettera d), della legge n. 184 del 1983: vi è, infatti, per la Corte, “una differenza essenziale tra l’adozione e la PMA”. L’adozione “presuppone l’esistenza in vita dell’adottando: essa non serve per dare un figlio alla coppia, ma precipuamente per dare una famiglia al minore che ne è privo”; il minore è già nato e, anche nel caso previsto dall’art. 44, comma 1, lettera d), è l’interesse del minore stesso a mantenere relazioni affettive che viene tutelato (che va verificato comunque caso per caso). Nella procreazione artificiale, invece, il bambino deve ancora nascere: non è perciò irragionevole “che il legislatore si preoccupi di garantirgli quelle che... appaiono, in astratto, come le migliori ‘condizioni di partenza’”.

22 Cfr. nota 2

23 Secondo la S.C.: “Il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero con cui sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed il genitore d’intenzione munito della cittadinanza italiana trova ostacolo nel divieto della surrogazione di maternità previsto dall’art. 12, comma sesto, della legge n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità umana della gestante e l’istituto dell’adozione; la tutela di tali valori, non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull’interesse del minore, nell’ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari, prevista dall’art. 44, comma primo, lett. d), della legge n. 184 del 1983”.