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Il patto di famiglia quale strumento per la trasmissione dei beni d’impresa

autore: V. Cianciolo

Sommario: 1. Introduzione. - 2. La partecipazione dei legittimari al patto di famiglia. - 3. La natura del patto di famiglia. - 4. Gli effetti sul patto di famiglia della pronuncia di separazione con addebito. - 5. Patto di famiglia e nascituro.



1. Introduzione



L’art. 2 della legge 14 febbraio 2006 n. 55 ha introdotto nel nostro ordinamento un nuovo istituto denominato “patto di famiglia”. In conseguenza di tale modifica, all’interno del Codice civile è stato aggiunto dopo l’art. 768, il Capo V-bis, formato da sette articoli (dal 768-bis al 768-octies) e contestualmente si è modificato l’art. 458 c.c. in tema di patti successori1 . L’art. 768-bis c.c. definisce il patto di famiglia come il “contratto con cui, compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare e nel rispetto delle differenti tipologie societarie, l’imprenditore trasferisce, in tutto o in parte, l’azienda, e il titolare di partecipazioni societarie trasferisce, in tutto o in parte, le proprie quote, ad uno o più discendenti”. La disposizione non può che operare con riguardo a quelle partecipazioni sociali che, per loro natura, assicurano un “potere di gestione” (in senso lato) in capo al relativo titolare; ove tale utilità o strumentalità non fosse ravvisabile, cesserebbe la stessa ragion d’essere della deroga al divieto dei patti successori, risolvendosi la partecipazione sociale in un “investimento”, ma non certo in un “bene produttivo”2 . Con tale istituto si consente all’imprenditore di pianificare il c.d. “passaggio generazionale” attraverso il trasferimento (a titolo gratuito) della propria azienda (individuale o collettiva ed in quest’ultimo caso limitatamente alla quota di propria competenza) ad alcuni dei propri discendenti, senza che l’operazione possa poi essere messa in discussione da parte degli altri familiari/legittimari. Si tratta di uno strumento negoziale volto alla trasmissione della ricchezza familiare e rivolto ad affiancare o sostituire il testamento e che va ricollegato al fatto che il sistema successorio si rivela sostanzialmente indifferente al contenuto economico, alla qualità dei beni che formano oggetto della successione: una villa da usare per le vacanze o una industria sono solo dei cespiti da conferire secondo le regole proprie della successione legittima e/o testamentaria (o, considerando anche la prospettiva della tutela dei diritti dei legittimari, della successione necessaria)3 . Ma è un’indifferenza con delle ricadute problematiche, se si considera che il nostro sistema economico è caratterizzato dalla grande diffusione di imprese a matrice familiare, presenti in misura significativa anche nel mondo delle società quotate, è cioè proprio là dove gli interessi sono compositi e complessi, coinvolgendo non solo la famiglia, ma anche la collettività4 . L’essenza del patto di famiglia non risiede, peraltro, nella vicenda traslativa inter vivos, realizzabile evidentemente anche prima ed a prescindere da queste norme; quanto piuttosto nella disciplina dettata dai successivi articoli, che prevedono – a fronte della “liquidazione” dei legittimari da effettuarsi con lo stesso o con successivo contratto – il non assoggettamento a collazione e riduzione della liberalità effettuata al discendente; realizzando conseguentemente un particolare “effetto di stabilità” del trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni sociali5 . La ratio del patto di famiglia, è infatti, quella di “conciliare il diritto dei legittimari con l’esigenza dell’imprenditore che intenda garantire alla propria azienda (o alla propria partecipazione societaria) una successione non aleatoria a favore di uno o più discendenti, prevedendo da una parte la liceità degli accordi in tal senso, dall’altra la predisposizione di tutela di legittimari che siano stati esclusi dalla proprietà dell’azienda (o dalla titolarità delle partecipazioni sociali)”6 . Questi obiettivi erano irrealizzabili in un ordinamento, come il nostro, incapace di operare una ripartizione preferenziale in ragione della natura dei cespiti caduti in successione. A tal fine erano, infatti, d’ostacolo il principio dell’unità della successione, l’uguaglianza qualitativa oltre che quantitativa delle quote, l’impossibilità per il dante causa di operare una divisione fuori dall’atto di ultima volontà (artt. 733 s. c.c.)7 . In particolare, le disposizioni liberali realizzate in vita, quando sia stata lesa la quota di riserva, possono essere sempre poste in discussione al momento della morte del disponente, pregiudicando così la possibilità di predefinire un assetto certo e stabile del patrimonio8 : fenomeno questo particolarmente problematico quando si tratti di beni produttivi, perché difficilmente scindibile ciò che si imputa al donato e ciò che, invece, va ricondotto all’iniziativa e alla gestione del donatario. Lo strumento sino ad ora utilizzabile per raggiungere lo stesso scopo era il contratto di donazione, certamente non soddisfacente per garantire la giusta tutela di tutti gli interessi coinvolti: è da tenere in conto la “volatilità” del valore del bene “azienda” che non si accorda con il procedimento di determinazione della quota di legittima e di cui all’art. 556 c.c. Le attribuzioni patrimoniali a titolo liberale per atto tra vivi, sono considerate nel nostro ordinamento, sotto diversi profili, come un “anticipo” sulla successione a causa di morte. Infatti, il donatario, se legittimario, è tenuto:

1) ad “imputare” alla propria quota di legittima (è questa la c.d. “imputazione ex se”) quanto ricevuto in vita dal defunto a titolo di donazione, ovvero, con l’apertura della sua successione, a titolo di legato (art. 564, co. 2, c.c.), salva in ogni caso il diritto di esperire l’azione di riduzione;

2) ad essere convenuto in riduzione, qualora abbia usufruito di lasciti donativi (art. 555 c.c.) o testamentari (art. 554 c.c.) lesivi dei diritti di successione necessaria spettanti ad altri legittimari;

3) il donatario, se legittimario (diverso dagli ascendenti) ovvero discendente di legittimario figlio del defunto, è tenuto alla collazione, salvo che ne sia stato dispensato, conferendo ai coeredi in sede di divisione ereditaria, quanto donato in vita (direttamente od indirettamente) dal defunto medesimo (art. 737, co. 1, c.c.).

Alla luce di queste considerazioni, al fine di determinare la quota disponibile e la quota riservata ai legittimari, se il valore di una azienda donata deve essere calcolato al momento del decesso del donante diventa molto difficile, per non dire impossibile stabilire quanto del maggior valore che la azienda presenta tra la data della donazione e la data del decesso sia imputabile al c.d. “avviamento oggettivo”, intrinseco al complesso, all’organizzazione aziendale, e quanto sia imputabile al c.d. “avviamento soggettivo” che consegue alla capacità, professionalità, ed abilità dell’imprenditore, con il rischio quindi per il donatario/imprenditore, nel caso si registri una “plusvalenza” – e questo è tanto più vero quando è trascorso un ampio lasso di tempo tra la donazione dell’azienda e l’apertura della successione del donante – di dover “dividere” con gli altri legittimari il risultato della propria attività imprenditoriale. Stessa considerazione va fatta nel caso contrario, qualora si assista ad una “minusvalenza” con il rischio per gli altri legittimari di dovere computare tra i beni costituenti la massa ereditaria, un bene svalutato rispetto a quello che era il suo valore al tempo della donazione a causa della mala gestio imputabile al donatario/imprenditore. Vi è un interesse, pertanto, di tutte le parti interessate dalla futura vicenda successoria ad escludere dalla massa ereditaria un bene, quale l’azienda, la cui valutazione diventa particolarmente difficile, specie se vi è stato un subentro nella gestione per effetto di un atto di donazione.



2. La partecipazione dei legittimari al patto di famiglia



Sotto il profilo funzionale, il patto di famiglia disattiva i meccanismi della collazione e della riduzione derogando così, per certi versi, al regime successorio ordinario, in considerazione della particolare tipologia di beni produttivi e dalla loro destinazione economica. L’istituto presenta, tuttavia, alcune rigidità dal punto di vista operativo: rigidità sul piano soggettivo, in quanto è richiesta la compartecipazione di tutti i legittimari i cui diritti vengono liquidati con le modalità precisate dagli artt. 768-quater e 768-sexies c.c. ed ai quali è, perciò, preclusa sia l’azione di riduzione, sia la richiesta di collazione in sede di divisione ereditaria dei beni. Sul punto, l’art. 768-quater co. 1 e l’art. 768-sexies c.c., appaiono in contrasto tra loro poiché il primo articolo, (rubricato “Partecipazione”), stabilisce che “al contratto devono partecipare il coniuge o tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore”. La norma letta in collegamento con l’art. 768-bis c.c., la quale si riferisce al trasferimento dell’azienda o delle quote sociali, sembrerebbe che, oltre alla partecipazione del disponente e dell’assegnatario, sia necessaria anche la partecipazione di tutti coloro che sarebbero legittimari, ove in quel momento si aprisse la successione dell’imprenditore. L’art. 768-sexies, invece, (rubricato “Rapporti con i terzi”), dispone che “all’apertura della successione dell’imprenditore, il coniuge e gli altri legittimari che non abbiano partecipato al contratto, possono chiedere ai beneficiari del contratto stesso, il pagamento della somma prevista dal co. 2 dell’art. 768-quater, aumentata degli interessi legali. L’inosservanza delle disposizioni del co. 1 costituisce motivo di impugnazione ai sensi dell’art. 768-quinquies”. La norma sembrerebbe riconoscere ai legittimari, che non abbiano partecipato al patto, esclusivamente il diritto di liquidazione della quota di legittima, aumentata degli interessi legali e posticipata al momento dell’apertura della successione del disponente. Ne consegue, così, una stabilità del patto e della valutazione del bene produttivo, pur in mancanza della partecipazione di un legittimario. La spiegazione dell’art. 768-sexies c.c. risulta indispensabile per la soluzione del quesito posto. Secondo una prima impostazione dottrinale9 , il patto di famiglia dovrebbe essere considerato come un negozio bilaterale, che si perfeziona con l’accordo della parte che compie l’assegnazione, imprenditore o socio, e la parte che riceve l’assegnazione, mentre la partecipazione del coniuge e degli ulteriori legittimari del disponente rimane esterna al contratto, potendo addirittura mancare totalmente. L’art. 768-sexies c.c., infatti, prevede che il coniuge e gli altri legittimari possano non partecipare al contratto di trasferimento dell’azienda o delle partecipazioni societarie. Dunque, la norma supporterebbe la tesi della bilateralità e, in tal caso, al momento dell’apertura della successione, i legittimari non partecipanti, potrebbero chiedere, ai beneficiari, la liquidazione monetaria dei loro diritti in qualità non di contraenti, ma come espressamente sancito nel titolo della norma, in qualità di “terzi”, nozione che richiamerebbe il contratto a favore di terzi, che non suppone la contemporanea adesione, in atto, di questi. Secondo questa tesi, condizionare il patto di famiglia all’adesione di tutti frustrerebbe l’intento della legge, fondato sulla volontà dispositiva dell’imprenditore, senza contare, poi, che anche il dissenso di un partecipante alle condizioni previste dal patto, ne impedirebbe la conclusione. La dottrina prevalente, invece, reputa che il dato letterale del l’art. 768-quater c.c. non possa lasciare dubbi circa la necessaria presenza al patto del coniuge e di tutti coloro che sarebbero legittimari, ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore10. L’art. 768-sexies c.c. dovrebbe in realtà, essere interpretato restrittivamente, come limitato ai soli legittimari sopravvenuti rispetto al momento di formazione del patto, attesa la natura eccezionale della norma, che sacrifica il diritto dei legittimari alla legittima in natura. Se, da un lato, appare ammissibile un’attenuazione della tutela nei confronti dei legittimari sopravvenuti, in quanto il loro intervento è del tutto eventuale, dall’altro non appare, invece, possibile che i legittimari esistenti possano subire una tanto grave limitazione dei propri diritti successori, per effetto di un patto intervenuto tra il disponente e il beneficiario, e al quale costoro siano rimasti estranei. La regola dell’esenzione da collazione e da riduzione di quanto ricevuto dai contraenti, espressa dall’art. 768-quater, 4 co. c.c., si lega funzionalmente, al principio della necessaria liquidazione dei partecipanti non assegnatari sotto forma di quote determinate. Nei confronti dei legittimari sopravvenuti, invece, avviene la conversione in credito dei diritti di legittima, indipendentemente dal loro consenso, senza la possibilità di porre in discussione gli assetti trasfusi nel patto, oramai stabilizzatisi irreversibilmente. Per queste ragioni, la struttura del patto è da considerarsi necessariamente plurilaterale.



3. La natura del patto di famiglia



Il patto di famiglia opera un trasferimento in funzione successoria che per alcuno ha una struttura eventualmente divisionale11, i cui tratti distintivi sono l’anticipazione dell’effetto devolutivo rispetto alla morte del disponente, la stabilità dell’effetto attributivo perché è come se in quel momento si aprisse la successione del disponente e la determinazione definitiva del valore al momento della conclusione del contratto; i beni oggetto del patto rappresenterebbero pertanto, “una massa giuridicamente distinta dal patrimonio devoluto per il tramite della successione ereditaria”12. Sullo stesso solco, in dottrina si è affermato che il patto consiste in “una successione separata anticipata con devoluzione implicita all’assegnatario del bene produttivo per la legittima e per la disponibile, ed ai non assegnatari per la sola quota di legittima, con contestuale divisione di bene considerato non divisibile, nella quale il pagamento di somme configura conguaglio divisionale”13. In buona sostanza, nel patto di famiglia “manca qualsiasi connotato di liberalità” la cui “presenza è del tutto irrilevante come lo è per il testamento” in quanto “la necessità che gli altri legittimari ricevano dall’assegnatario il valore della propria quota rende superflua ogni valutazione in proposito. Non è che un’attribuzione senza corrispettivo, e quindi gratuita, ma non liberale, “esattamente come ogni attribuzione a causa di morte”14.

È indubbio che si tratti di un contratto “tipico”15 trovandosi la sua disciplina specifica nelle disposizioni introdotte con la novella nel codice civile – mentre per quanto non disciplinato dagli artt. 768-bis c.c. si applicheranno le norme sul contratto in generale di cui al Titolo II Libro IV del c.c. conformemente a quanto previsto dall’art. 1323 c.c. – caratterizzato da una causa “mista” o “complessa”, in quanto accanto alla causa liberale relativa al trasferimento all’assegnatario è presente una causa solutoria concernente la liquidazione ai legittimari non assegnatari16.



4. Gli effetti sul patto di famiglia della pronuncia di separazione con addebito



La partecipazione del consorte al patto di famiglia pone un’incognita in relazione alla stabilità dell’assetto effettuale stabilito, nel momento in cui viene meno la qualità di legittimario in capo al coniuge responsabile della separazione. La questione potrebbe risolversi convenzionalmente attraverso la modifica o la risoluzione parziale del patto. Cosa possibile solo con la necessaria partecipazione dello stesso coniuge. In mancanza di un accordo, visto che il caso non è espressamente regolamentato dalla normativa, occorre riflettere con i dati a disposizione, ricordando quelli che sono gli interessi che su un piano generale caratterizzano il patto di famiglia, e delle possibili variabili che, alla stregua della decisione dei contraenti, possono contraddistinguerne la funzione. E l’attribuzione assegnata al coniuge, poi resosi responsabile della separazione? Al coniuge separato con addebito, il quale ai sensi degli artt. 548 e 585 c.c. sia stato escluso dalla successione legittima e necessaria “piena”, può spettare un assegno vitalizio. Il presupposto affinché vi sia il diritto a tale assegno è, ex art. 548, co. 2, c.c., che egli, all’apertura della successione, godesse degli alimenti a carico del coniuge deceduto. Sulla ricorrenza, nella previsione dell’assegno, di una vocazione mortis causa, operata dalla legge, a titolo particolare, e, dunque, sulla qualificabilità di essa in termini di legato ex lege, vi è, oramai, accordo quasi totale in dottrina17. In difetto di una norma sul punto afferente al patto di famiglia, occorre guardare alla struttura e alla funzione ascrivibili al nuovo istituto. Se si ritiene che questo sia caratterizzato da una causa liberale, in cui il disponente, oltre ad assegnare l’azienda, provvede anche alle liquidazioni ai non assegnatari, il quesito riceve risposta positiva. Con un correttivo: le utilità percepite dal coniuge separato con addebito andrebbero qualificate come liberalità fatta ad un extraneus, con le conseguenze che ne deriverebbero sul piano delle regole poste a tutela dei legittimari. In buona sostanza, non potrebbe applicarsi l’art. 768-quater ult. co. c.c., a norma del quale quanto ricevuto dai contraenti non sarebbe soggetto a riduzione. Infatti, sulla perdita della qualità di legittimario, la volontà del donante non può fare nulla. Il donante può rinunciare a far valere l’inefficacia dell’attribuzione, convalidando l’atto liberale a favore del coniuge, ma non può impedire che la donazione a un non legittimario, sia da imputare alla disponibile e soggetta all’azione di riduzione. Quindi, nei confronti del coniuge separato con addebito che abbia precedentemente partecipato al patto di famiglia e al quale sia stata liquidata una quota pari alla sua legittima, sarà esperibile l’azione di riduzione da parte degli altri legittimari. Se invece, si sposa l’orientamento che vede nel patto di famiglia una causa divisionis18, il disponente non avrà il potere di confermare nulla senza il consenso degli altri partecipanti, e ciò si desume dall’art. 768-septies c.c. che contempla la possibilità di modifica del patto, ma a condizione che vi partecipino “le medesime persone che hanno concluso il patto di famiglia”. La norma però, precisa che la modifica può avvenire con “diverso contratto” che presenti “le medesime caratteristiche e i medesimi presupposti” del patto stesso: si desume che il patto modificativo sarebbe quello che si rende necessario per l’ipotesi in cui sopravvengano dei nuovi legittimari, piuttosto che per il caso qui prospettato, in cui un contraente originario del patto perda la qualità necessaria per parteciparvi. A prescindere da quest’ultima considerazione, una volta appurato – anche alla stregua della disposizione di cui all’art. 768-septies c.c. – come il solo disponente non possa mantenere ferma l’attribuzione, nulla esclude che tutti i partecipanti al patto rinuncino a far valere l’inefficacia della singola partecipazione. Tale rinuncia non ha nulla a che vedere con la sostanza e la funzione del patto di famiglia perché si concretizza una nuova liberalità in cui la parte donante è costituita dagli altri beneficiari del patto originario. Tale rinuncia potrebbe intendersi in modo diverso da una liberalità: sopravvenuta la separazione, infatti, l’eventuale situazione di bisogno in cui il coniuge venga a trovarsi e il conseguente obbligo alimentare che ne deriverebbe a carico dell’altro coniuge, può qualificare l’attribuzione prevista nel patto come soluzione una tantum del suddetto obbligo alimentare. Tale assetto effettuale, in quanto travalica la funzione assegnata dalla legge al patto di famiglia, può essere il risultato di un accordo (al primo collegato) in cui, sotto il profilo strutturale, la partecipazione dell’imprenditore disponente e quella del beneficiario e degli altri legittimari non assegnatari hanno un significato diverso.



5. Patto di famiglia e nascituro



Riguardo alla natura giuridica del negozio a favore del nascituro, per alcuni si tratterebbe di una fattispecie negoziale a formazione progressiva, che si perfeziona al momento della nascita e fino a quel tempo si producono solamente effetti preliminari19. Invece, il patto di famiglia, a parere di chi scrive, è un contratto sottoposto alla condizione della nascita20: il nascituro non acquista alcun diritto prima di tale evento, ma si crea una situazione di pendenza, tutelata dall’ordinamento. Si tratta di una condicio juris in quanto è la legge che prevede la nascita quale momento a partire dal quale il soggetto acquista la capacità giuridica. Secondo un’impostazione classica, il negozio giuridico produce un effetto negoziale e un effetto finale21. Nel patto di famiglia si assiste ad un effetto negoziale per il disponente e l’assegnatario nel momento in cui tali soggetti prestano il consenso al patto per loro immediatamente vincolante, mentre nei confronti del nascituro l’effetto negoziale e l’effetto finale coincideranno al momento della nascita. Si consente, in tal caso, che il contratto sia immediatamente vincolante nei confronti del disponente e dell’assegnatario, ma per il concepito il diritto alla liquidazione del credito corrispondente alla quota di legittima ex art. 536 ss. c.c., calcolata sul valore dell’azienda o delle partecipazioni societarie trasferite al momento del patto, esisterà e produrrà i suoi effetti se e in quanto si verificherà l’evento della nascita. Ritornando, perciò, alla questione posta in precedenza, il concepito si dovrà considerarsi un legittimario esistente ex art. 768-quater c.c. o un sopravvenuto ex art. 768-sexies c.c.? Sebbene la capacità giuridica si acquisti al momento della nascita ai sensi dell’art. 1, co. 2, c.c., quest’ultimo articolo si connette, nel caso di specie, all’effetto finale del negozio, ossia, al momento dell’acquisto del diritto alla liquidazione e non alla possibilità di essere rappresentato da un curatore speciale a tutela della propria aspettativa di diritto che sorge antecedentemente, al momento della conclusione del patto. Se il patto di famiglia è un contratto nominato avente funzione divisionale, è possibile applicare le norme sulla divisione al patto di famiglia anche al caso in cui ci si trovi in presenza di un nascituro. È opportuno ricordare che l’art. 715 c.c., prevede la sospensione della divisione, se tra i chiamati, in caso di successione, vi sia un concepito. Se le quote sono determinate (come nel caso del patto di famiglia), nel caso di chiamati nascituri concepiti, si avrà un’ordinaria divisione. Qualora la divisione sia amichevole debbono partecipare all’atto i soggetti cui spetta l’amministrazione dei beni destinati ai nascituri (art. 642 c.c.) ed è necessaria l’autorizzazione del Giudice (art. 742 c.p.c.). Nel caso in cui la questione riguardi i nascituri non concepiti, o nel caso in cui il nascituro non concepito sia uno solo, la divisione potrà essere effettuata con l’accantonamento al nascituro o ai nascituri non concepiti della quota ad essi spettante22. Alla divisione amichevole debbono partecipare i soggetti ai quali spetta l’amministrazione dei beni destinati ai nascituri (artt. 642 e 643 c.c.) ed è necessaria l’autorizzazione giudiziale (art. 742 c.p.c. e art. 644 c.c.).

NOTE

1 L’originario articolo 458 del c.c. prevedeva la nullità di qualsiasi atto con cui un soggetto disponesse della propria successione e dei diritti che potevano derivargli da una successione non ancora aperta. In dottrina si è affermato: “la liquidazione dei diritti di legittima... a favore dei partecipanti al patto si atteggia come un patto successorio, come tale volto a definire da subito, tra i contraenti, i futuri assetti successori”. M.C. Lupetti, Patti di famiglia: note a prima lettura, in CNN Notizie, 14 febbraio 2006.

2 Lupetti, Patti di famiglia, cit.

3 Cfr. G. iudica, Il family buy-out come strumento di preservazione del valore dell’impresa nella successione mortis causa, in Scienza e insegnamento del diritto civile in Italia, Atti del Convegno di Studio in onore del prof. Angelo Falzea (Messina 4-7 giugno 2002) a cura di V. ScaLiSi, Milano 2004, 595 ss., in particolare 596.

4 In caso di scomparsa dell’imprenditore, la moglie e i suoi figli (non tutti con esperienze imprenditoriali) subentrano, in quanto eredi legittimari, nell’azienda familiare. Ciò comporta che nel breve-medio termine alcune delle partecipazioni ereditate vengano con molta probabilità cedute a terzi.

5 Si tratta di motivo rinvenibile nel corso dei lavori preparatori dei diversi disegni di legge che si sono avvicendati: la relazione presentata alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati al disegno di legge n. C-3870 nella riunione del 23 settembre 2003, ove si evidenzia la “necessità di garantire la dinamicità degli istituti collegati all’attività d’impresa”, e di “consentire all’imprenditore di disporre liberamente della propria azienda per il periodo successivo alla propria morte, purché in accordo con i componenti della propria famiglia”; analogamente, nell’intervento del relatore alla riunione della medesima Commissione del giorno 11 marzo 2004, si parla di “garantire la continuità della gestione delle piccole imprese”.

6 Relazione alla proposta di l. n. 3870 dell’8 aprile 2003.

7 p. SchLeSinger, voce Successioni (Diritto Civile): Parte generale, in N. Dig. it.,

vol. XVIII, Torino, 1971, 749; e, seppure in una diversa prospettiva, v. V. ScaLiSi, Persona umana e successioni. Itinerario di un confronto ancora aperto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1989, 387 ss., ed ora in La civilistica italiana dagli anni ’50 ad oggi tra crisi dogmatica e riforme legislative, Venezia, 23-26 giugno 1988, Padova, 1991, 137 ss.; S. ciccareLLo, Persona e successione ereditaria, Napoli, 1994; g. panza, La funzione sociale dell’acquisto mortis causa, Bari, 1997.

8 g. gabrieLLi, Rapporti familiari e libertà di testare, in Familia, 2001, 11 ss.; cfr. anche c.M. Mazzoni, Accordi successori, donazioni in conto di legittima e successione necessaria, in Riv. dir. priv., 1997, 762 ss.

9 Aderiscono a questa tesi C. caccaVaLe, Appunti per uno studio del patto di famiglia: profili strutturali e funzionali della fattispecie, in Notariato, 2006, 297 ss. Secondo tale autore il patto di famiglia è un negozio bilaterale che si perfeziona con l’accordo della parte che compie l’assegnazione e la parte che riceve l’attribuzione, mentre la partecipazione del coniuge e degli ulteriori legittimari resta esterna al contratto, come se fosse un intervento ad una fattispecie già perfezionata. Significativa appare la definizione normativa del patto di famiglia in cui, per la venuta in essere del contratto, sono necessari e sufficienti solo il disponente che effettua il trasferimento e i di lui discendenti, a favore dei quali il trasferimento è compiuto; G. petreLLi, La nuova disciplina del patto di famiglia, in Riv. not., 2006, 2, 427 ss.; U. La porta, Patto di famiglia, Torino, 2007, 23 ss.

10 Depone, in tal senso, anche la relazione presentata alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati nella riunione del 23 settembre 2003. La quale fa riferimento a un accordo che deve essere “obbligatoriamente sottoscritto dal coniuge e dai legittimari”. Per giunta, in sede di lavori preparatorii, è stato respinto un emendamento che, nell’intento di superare la difficoltà determinata da un eventuale rifiuto di uno dei legittimari di intervenire al patto, ammetteva, espressamente, il patto di famiglia al quale non fossero intervenuti tutti i legittimari.

11 a. zoppini, Profili sistematici della successione “anticipata” (note sul patto di famiglia), in Riv. dir. civ., 2007, 3, 288-289.

12 zoppini, Profili sistematici, cit., 290.

13 M. ieVa, Il patto di famiglia, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da P. reScigno, coordinato da M. ieVa, 2010, II, 342.

14 g. Sicchiero, La causa del patto di famiglia, in Contr. e impr., 2006, 4-5, 1270.

15 Afferma essere un “ulteriore contratto, avente una sua funzione tipica di natura complessa irriducibile a quella dei tipi contrattuali già disciplinati dal codice civile”; g. petreLLi, La nuova disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. not., II, 2006, 406 ss.

16 g. rizzi, Compatibilità con le disposizioni in tema di impresa familiare e con le differenti tipologie societarie, in AA.VV., Patti di famiglia per l’impresa. I Quaderni della fondazione italiana per il Notariato, Milano, 2006, 245.

17 g. boniLini, Manuale di diritto ereditario e delle donazioni, Torino, 2006, 4a ed., 129; S. Ferrari, Aspetti problematici della successione del coniuge, in Vita not., 2002, 1303 ss.

18 g. aMadio, Patto di famiglia e funzione divisionale, in Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006, 75 ss.; F. gazzoni, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in Giust. civ., 2006, II, 219.

19 g. oppo, Note sull’istituzione dei non concepiti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1948, 72.

20 F. Santoro-paSSareLLi, Su un nuovo profilo dell’istituzione dei nascituri, in Foro pad., 1954, III, 66 ss.

21 g. SantarcangeLo, La volontaria giurisdizione nell’attività negoziale, Milano, 1986, 399.

22 g. azzariti, La divisione, in Tratt. Rescigno, 6, Successioni, II, 2a ed., Torino, 1997, 396.