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Il “codice rosso”: l’ennesima occasione mancata

autore: R. Ruggeri

Sommario: 1. La Convenzione di Istanbul come normativa sovranazionale di riferimento per il contrasto alla violenza di genere. - 2. Le disposizioni della l. n. 69 del 19 luglio 2019 (cd. “Codice Rosso”). - 3. Considerazioni conclusive.



1. La Convenzione di Istanbul come normativa sovranazionale di riferimento per il contrasto alla violenza di genere



La violenza di genere è un fenomeno che, lungi dall’essere recentemente incrudelito – i casi sembrano più numerosi solo perché aumenta la consapevolezza e il coraggio di denunciare – ha piuttosto solo ora cominciato ad imporsi come argomento mediatico e di quasi quotidiana, ancorché assai superficiale, discussione pubblica. Ciò forse in ragione di un mutato quadro culturale, finalmente più disposto a cogliere la specificità – e in primis ammettere l’evidenza – di condotte violente che prendono luogo all’interno di relazioni familiari e affettive e sono connotate dall’abuso della posizione di vantaggio (per forza fisica, risorse economiche, opportunità, considerazione sociale e altri tradizionali primati duri da scalzare) tuttora assicurata all’un genere sull’altro da un contesto culturale e socioeconomico millenario (la “tradizione”), che cinquant’anni di eguaglianza formale sono riusciti a scalfire solo superficialmente1 .

A questa vera e propria piaga sociale (tale non solo quando esita nei gravissimi fatti di sangue di cui purtroppo è ormai quotidiana notizia, ma anche quando – assai più spesso – si manifesta limitando più o meno consistentemente la libertà personale delle persone offese, come abbiamo visto per lo più donne) sono state opposte, in sede internazionale, le misure sistematiche e programmatiche della cd. Convenzione di Istanbul2 , con la quale otto anni fa il Consiglio d’Europa ha inteso delineare con chiarezza i passi che gli stati aderenti sono tenuti a compiere per contrastare il fenomeno ma soprattutto per promuovere una nuova cultura dei rapporti uomo/donna, vero cuore del problema. E se è evidente che la violenza di genere3 , pur riposando sulle premesse culturali cui si è fatto supra cenno, è favorita da fattori squisitamente individuali, non può però sottacersi che la vera prevenzione, il lavoro più imponente deve essere condotto non a livello sanzionatorio, ma culturale: ad esempio proponendo a bambini, ragazzi, adolescenti e financo giovani adulti modelli di relazione basati sul rispetto e nettamente alternativi a quelli ereditati dalla “tradizione” (per tali intendendosi quelli mutuati da un passato purtroppo ancora recente, imperniati su una rigida suddivisione dei ruoli di genere e delle caratteristiche attese dalle persone in quanto uomini da una parte e donne dall’altra, in forza di un diffuso quanto ingiustificato maggior pregio annesso alle manifestazioni del maschile). L’Italia ha ratificato la Convenzione di Istanbul nel giugno 2013 e il legislatore nazionale ha successivamente provveduto (con un decreto legge, il n. 93 del 14 agosto 2013, poi convertito con legge 15 ottobre 2013 n. 119) ad adeguarvi le previsioni che, in sede penale, si occupano delle condotte in cui più frequentemente si esplicita la violenza di genere (in particolare i reati di maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale). Purtroppo le norme contenute nell’anzidetta Convenzione che non integrano o non sono volte alla modifica di specifiche fattispecie penali, pur vigenti in Italia a far data e in ragione della ratifica, restano trascurate dalla prassi, che non ha valorizzato come sarebbe stato invero possibile (e lo dimostrano le poche isole felici in cui alle previsioni della Convenzione di Istanbul è stata data una pur minima attuazione: ad esempio, la Procura presso il Tribunale di Milano4 ) il contenuto culturale, precettivo, auspicatamente generalista che permea il corpus normativo in parola. Restano ad esempio inapplicate se non sconosciute da gran parte della giurisprudenza norme centrali come quelle tese ad evitare la vittimizzazione secondaria o quella per la quale non può darsi luogo alla mediazione (palese od occulta) ove consti la denuncia di condotte violente perpetrate dall’un partner nei riguardi dell’altro. Purtroppo le misure sanzionatorie sulle quali si è finora concentrato l’intervento legislativo non hanno sortito gli ef fetti sperati: le crisi familiari sono con frequenza inaccettabile accompagnate da comportamenti penalmente rilevanti o comunque illeciti, spesso volti a ostacolare o impedire l’autodeterminazione delle donne che decidono di porre fine alla relazione; è quasi quotidiana la notizia di omicidi occorsi durante crisi familiari, spesso mal gestite o trascinate per anni. Gli inasprimenti di pena non scalzano il disagio dal quale la violenza di genere origina e per risolvere il quale bisogna invece spostare l’attenzione, prima e oltre che sul potenziamento delle risorse ai servizi deputati ad affrontare le emergenze (per tali intendendosi anche le situazioni portate all’attenzione dell’autorità giudiziaria), sulla predisposizione di misure capaci di incidere fortemente sul dato culturale, che solo può scalzare la ragione prima ed ultima della violenza di genere e della violenza domestica: vale a dire il sessismo, manifesto o nascosto, che purtroppo permea ancora pesantemente il tessuto sociale del paese e la mentalità di uomini e donne, a tutti i livelli5 . Con il cd. “Codice Rosso”, di matrice quasi esclusivamente, e a quanto è dato desumere dalla lettura degli atti dei lavori parlamentari6 , tenacemente governativa (l’unico emendamento cui si è dato corso è stato quello che ha chiesto che nella novella fosse inserita la fattispecie penale che sanziona il cd. “revenge porn”) si è licenziato un testo legislativo che, come vedremo, si limita per la gran parte a inasprire pene per fattispecie penali già previste; a dare rango legislativo a conclusioni già raggiunte in sede giurisprudenziale (operazione cui sembra rifarsi molta parte della legislazione recente, confondendo pericolosamente funzioni e piani dei poteri statali); a innescare meccanismi procedimentali insostenibili a fronte della dichiarata invarianza di spesa. Alcune disposizioni sono indiscutibilmente utili a rendere meno difficoltoso il percorso giudiziario di chi subisce violenza; ma alcuna considerazione di largo respiro sembra averne ispirato la redazione, in totale contrasto con le direttive poste dalla Convenzione di Istanbul. Così risolvendosi più in veloce demagogico rimedio destinato a sedare le polemiche sorte intorno al mancato contenimento del fenomeno che è intesa a combattere, che in corpus organico di misure che si fanno carico di promuovere il necessario cambiamento socioculturale.



2. Le disposizioni della l. n. 69 del 19 luglio 2019 (cd. “Codice Rosso”)



Scendendo nel dettaglio, si rileva innanzitutto, e partendo dalla fine, che la legge non contempla alcun impegno di spesa (art. 21, “clausola di invarianza finanziaria”). Come si è detto, la questione della violenza di genere e domestica è imponente e indicativa di un’arretratezza culturale endemica, tale per cui il legislatore non può lesinare sforzi per fare in modo di superarla. La clausola di invarianza finanziaria dice invece, e piuttosto, di una clamorosa sottovalutazione del tema, in perfetta linea con quanto è già stato in passato. La diseguaglianza patita dalle donne non è percepita come problema strutturale del paese, quale invece è. Anche le misure che parrebbero a un primo esame producenti e positive non possono sottrarsi a un giudizio assai più severo se lette appunto nell’ottica dell’invarianza di spesa. Come assicurare la (vanamente) prescritta “formazione degli operatori di polizia”, che l’art. 5 disciplina prevedendo l’attivazione, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, di “corsi specifici destinati al personale che esercita funzioni di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria” in relazione alla prevenzione e al perseguimento dei reati di cui trattasi (stalking, maltrattamenti, violenza sessuale, cd. femminicidio, revenge porn) e al trattamento penitenziario delle persone per essi condannate, se per istituire e finanziare questi corsi non si destina alcuna risorsa economica? Si immagina di fare ancora leva sulle associazioni del settore, anch’esse povere di mezzi e operative grazie al volontariato? Si arriva a stabilire che “la frequenza dei corsi è obbligatoria per il personale individuato dall’amministrazione di competenza”: il che sarebbe effettivamente ragionevole, sol che tali corsi, in assenza di stanziamenti, risultassero effettivamente attivabili. Bene quindi perché si evidenzia la necessità di formare appositamente le persone che devono trattare di violenza di genere e domestica (a che non si comportino e assumano decisioni sulla base di stereotipi e/o diffusissimi pregiudizi che impediscono il procedere della giustizia), riconoscendo così l’esistenza di bias culturali difficili da sradicare; male perché non si fa corrispondere alla proclamata intenzione la necessaria dotazione di mezzi, lasciando intravedere un approccio demagogico e inefficace. Ancora: come sarà possibile imprimere ai procedimenti penali che si aprano su fatti di violenza di genere e domestica la velocità dettata dagli artt. 1, 2 e 3 della novella7 se la clausola di invarianza finanziaria non permette di aumentare gli organici degli uffici deputati agli incombenti previsti? È del 3 settembre 2019 (la legge è entrata in vigore il 9 agosto u.s.) notizia dell’ennesima tragedia annunciata, vale a dire dell’ennesimo omicidio ai danni di una moglie separata da parte del marito, plurimamente e perdurantemente denunciato nel corso degli anni e l’ultima volta pochi giorni prima dell’esito fatale, quindi a Codice Rosso già in vigore: ebbene, il pubblico ministero (nella persona del Dr. Francesco Greco, della Procura presso il Tribunale di Milano) si duole in quell’occa sione, sul Fatto Quotidiano, della sostanziale inapplicabilità delle disposizioni che impongono la predetta celerità a parità di personale. L’indiscriminata attivazione celerrima dei procedimenti penali che abbiano ad oggetto fatti di violenza di genere è comunque una soluzione poco appagante, atteso che priva gli uffici di qualsivoglia discrezionalità, con ciò ingessandone l’operatività a necessario discapito di altre funzioni. È opportuno inoltre considerare, come era stato rilevato in sede di lavori parlamentari, che le modalità dei fatti possono legittimare, o addirittura imporre, tempi diversi da quelli disposti apoditticamente per legge. Ad esempio, sentire la persona offesa a soli tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato può addirittura integrare una forma di vittimizzazione secondaria, costringendo la vittima a ripercorrere un trauma, magari già descritto vividamente in occasione della querela. Dovere rispettare i medesimi tempi in tutti i procedimenti di violenza di genere o domestica esime gli operatori dal valutare il rischio, e dall’imparare a farlo: ma l’interventismo non sostituisce la sensibilità né garantisce l’efficacia dell’intervento. La novella ha scelto una strada semplicistica, che prescinde da una effettiva formazione del personale e da una concreta valutazione del caso. È però altrettanto vero che la posizione di un termine così stringente permette anche, quali persone offese, di pretendere un intervento pressoché immediato, il che potrebbe comportare in un futuro che si spera prossimo la dotazione delle risorse necessarie all’attivazione tempestiva degli inquirenti per non incorrere in giudizi per il risarcimento dei danni, o avanti alla Corte CEDU. L’art. 4 della novella (“introduzione dell’art. 387-bis del codice penale in materia di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa”) detta invece una norma della quale si sentiva il bisogno8 , ma dalla quale era ragionevole aspettarsi di più. Fino ad ora la condotta di chi, attinto da un ordine di allontanamento, lo violava, poteva essere sanzionata solo ai sensi dell’art. 388 c.p., che genericamente riguarda la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. Era pure possibile – e dovrebbe continuare ad esserlo – sostituire la misura violata con una più grave, così approntandosi una tutela squisitamente endoprocedimentale. La nuova disposizione introdotta dalla novella pone sì ravvivata attenzione sulla fattispecie, di non rara evenienza, ma non prevede pene abbastanza gravi9 da rendere possibile l’arresto in flagranza, nemmeno in via facoltativa, né misure cautelari coercitive, che si rivelerebbero particolarmente utili nei casi de quibus. Il nuovo delitto è, assai opportunamente, perseguibile d’ufficio e non a querela di parte come è invece per la fattispecie normata dall’art. 388 c.p. È però un peccato constatare che la nuova norma sanziona solo l’inottemperanza agli ordini pronunciati dal giudice penale; quelli emessi dal giudice civile, che hanno presupposti analoghi se non identici, restano protetti dal solo art. 388 c.p. Gli artt. 7, 10 e 12 introducono anch’essi nuove fattispecie penali. Il primo rende perseguibile la “costrizione o induzione al matrimonio” (art. 588-bis c.p.), che ricomprende espressamente, configurandolo come ipotesi aggravata, il matrimonio con minorenni (cd. “matrimonio delle spose bambine”), pas sibile di essere consumato anche sul suolo nazionale in ragione delle forme, spesso molto semplici (si pensi ai matrimoni per procura; o addirittura per telefono, come è stato ritenuto valido anni fa da una pronuncia del Tribunale di Milano resa nei confronti di cittadini pakistani10), previsti dagli statuti personali dei paesi in cui queste usanze sono purtroppo comuni. Peculiare ed utile l’estensione dell’operatività della norma anche quando il fatto è commesso all’estero, da o in danno di cittadino italiano o straniero residente in Italia. L’art. 10 introduce la figura del reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti” (art. 612-ter c.p.), che vuole contrastare l’odioso fenomeno del revenge porn, vale a dire della diffusione di video o immagini catturati nell’intimità sessuale con una persona che non consente a quella diffusione. Il reato è perseguibile a querela (termine per proporla: sei mesi) salvo che sia stato commesso in danno di una persona in condizioni di inferiorità fisica o psichica. È inserito tra i delitti contro la libertà morale, subito dopo gli atti persecutori ed è l’unico spunto che il disegno governativo ha recepito dagli emendamenti presentati dalla minoranza, che aveva chiesto (giustamente) la previsione di misure sanzionatorie anche in danno delle piattaforme digitali che non provvedano sollecitamente a bloccare il flusso dei dati in cui si concreta l’elemento oggettivo del reato11. La fattispecie, in quanto nuova, presenta diversi aspetti che dovranno essere approfonditi dal contributo della dottrina e dall’applicazione giurisprudenziale. Sicuramente problematica appare la locuzione “a contenuto sessualmente esplicito”, intesa a definire dal punto di vista oggettivo quali siano le immagini o i video la cui diffusione è sanzionata; l’esplicitezza sessuale è ancorata a criteri soggettivi e comunque mutevoli in ragione del contesto culturale cui accedono. Ancora, l’equiparazione tra le condotte di chi “invia, consegna, cede” (in cui i destinatari sono determinati) e quelle di chi “pubblica o diffonde” (con cui sono descritte attività intrinsecamente indirizzate a soggetti indefiniti nell’identità e nel numero) non può esimere da una ponderata differenziazione delle medesime in sede di trattamento sanzionatorio. Le cessioni, gli invii, le pubblicazioni e diffusioni ulteriori (secondo comma) debbono essere sorrette dal dolo specifico, rappresentato dallo scopo di recare nocumento alle persone rappresentate e non consenzienti: scopo che, a dire la verità, appare di difficile enucleazione se non altro perché quel nocumento rimane insito (come conseguenza presumibile, se non ineliminabile) alla diffusione del contenuto sessualmente esplicito: più facile immaginare che sia la difesa dell’imputato ad allegare elementi tali per cui si evidenzi l’assenza di quell’intendimento. Così, parallelamente, per la locuzione “destinati a rimanere privati” riferiti alle immagini e ai video “a contenuto sessualmente esplicito”: sembra naturale ritenere che le rappresentazioni a contenuto sessualmente esplicito, per configurazione culturale assolutamente predominante, siano sempre destinati a rimanere private, solo il contrario dovendo essere specificamente allegato e reso oggetto di rigorosa prova. Resta il fatto che avere ricompreso quella specificazione nella descrizione della fattispecie tipica potrebbe porre dei problemi nella allegazione del fatto da parte di chi intenda sostenere l’imputazione, atteso che può facilmente esitare in una probatio diabolica. L’art. 12 prevede il reato rubricato come “deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso” (art. 583-quinquies c.p.). Si tratta degli sfregi (spesso inflitti indirizzando acido sul viso delle vittime) di cui sono sproporzionatamente vittime le donne (si pensi al caso Lucia Annibali12), contro le quali, anche entro i confini nazionali, sono state “importate” queste modalità particolarmente efferate di produrre lesioni, che spesso esitano in gravissime (l’acido è intenzionalmente indirizzato al viso, che, oltre che essere elemento identificativo prioritario della persona, è il luogo ove risiedono organi importanti per le funzioni vitali). L’introduzione della fattispecie penale autonoma di “deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso” sottrae la condotta tipizzata dall’alveo delle lesioni gravissime (ove prima figurava come circostanza aggravante ad effetto speciale: art. 583 comma secondo, n. 4 c.p.), ai sensi delle quali era sino ad oggi sanzionata. Viene previsto un aggravamento della pena edittale, delle pene accessorie e del trattamento penitenziario ed è espressamente abrogata la disposizione a mente della quale la fattispecie era prevista precedentemente: il che, paradossalmente, porta ad escludere la specifica configurazione come “lesione personale gravissima” di una pur possibile condotta colposa (la nuova disposizione riguarda solo le fattispecie dolose) che esiti nella deformazione del viso13.

Ora: è chiaro che l’introduzione di queste nuove fattispecie di reato era attesa ed è cruciale al fine di potere con maggiore efficacia perseguire condotte odiose e specificamente emblematiche della violenza di genere. Il diritto penale, con la posizio ne della estrema sanzione della limitazione della libertà, sancisce le direttive basilari della convivenza ed è tutt’altro che inappropriato fare constare, sottolineare a mezzo del precetto penale la riprovevolezza di comportamenti che concretano atteggiamenti sessisti e una macroscopica sottovalutazione della dignità delle donne. Ma, come si diceva in esordio, la posizione della sanzione penale non può non essere accompagnata dall’approntamento e/o potenziamento di strumenti culturali necessari a mutare la mentalità delle persone, rendendole consapevoli dell’arretratezza in cui resta, sotto il profilo socioculturale di cui è parola, il nostro paese, confinato, nelle classifiche mondiali stilate prendendo a base i dati relativi al divario di genere (cd. gender gap14), tra gli attori più arretrati e molto al di sotto del posizionamento ottenuto da gran parte degli stati europei15. Allo stesso modo vanno considerate le disposizioni della novella che sanciscono aggravamenti di pena in riguardo delle fattispecie tipicamente integranti fatti di violenza di genere o domestica (art. 9, art. 13). L’art. 9 reca però una novità importante, che riconosce lo statuto di persona offesa anche al minorenne che anche solo assista ai maltrattamenti, con ciò recependosi le raccomandazioni espresse dagli esperti in più sedi circa la necessità di sancire con forza il disvalore della cd. violenza assistita, cui purtroppo ancor oggi, in particolare in sede civilistica, poca se non alcuna importanza si tributa quando debbansi decidere le modalità di affidamento di figli minori in presenza di comportamenti violenti agiti in famiglia. L’art. 11 emenda lacune in riguardo alla configurazione delle circostanze aggravanti dell’omicidio, che sino al recentissimo passato16 – nonostante l’esponenziale crescita, a far data dagli anni ’80, delle convivenze di fatto (e specularmente la diminuzione dei matrimoni) – non contemplavano tra i soggetti verso i quali la commissione dell’omicidio è da considerarsi aggravato la/il convivente di fatto, né valorizzavano il dato dell’esistenza attuale o passata, tra vittima e autore del reato, di una relazione affettiva (spesso ad esito di comportamenti persecutori che in quella relazione affettiva vedono il presupposto). Con la modifica disposta dalla legge dell’11 gennaio 2018 n. 4 sono state aggiunte all’art. 577 c.p., tra le qualifiche soggettive della persona offesa che comportano l’aggravamento della pena fino all’ergastolo¸ quelle consistenti nell’essere: coniuge anche legalmente separato, unito civilmente, soggetto legato da relazione affettiva e stabilmente convivente. Con la ulteriore modifica introdotta dal Codice Rosso l’omicidio è aggravato ai sensi dell’art. 577 c.p. anche se è commesso contro la persona stabilmente convivente o contro chi era legato da relazione affettiva. La novella introduce inoltre l’aggravante anche in relazione al rapporto di filiazione adottiva speciale17. L’art. 6 e l’art. 17 pongono l’attenzione sui cd. “percorsi di recupero per uomini maltrattanti”. L’art. 6 restringe la possibilità, per coloro i quali siano condannati per i delitti di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori, lesioni gravi e gravissime aggravate perché commesse in danno di familiari ovvero in concorso con i maltrattamenti e la violenza sessuale, o per cd. “femminicidio”, di ottenere la sospensione condizionale della pena, subordinando la possibilità di fruire del beneficio “alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”. L’art. 17 modifica l’art. 13-bis della legge sull’ordinamento penitenziario prevedendo che le persone condannate per i reati di maltrattamenti, violenza sessuale, deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso e atti persecutori “possono essere ammesse a seguire percorsi di reinserimento […] presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati”. La norma appare più come una blanda enunciazione di principio che quale misura di qualche utilità. Già con la legge n. 119/2013 era stato introdotto l’art. 285-quater c.p.p., che al primo comma, seconda parte, recitava: “quando l’imputato si sottopone positivamente ad un programma di prevenzione della violenza organizzato dai servizi socio-assistenziali del territorio, il responsabile del servizio ne dà comunicazione al pubblico ministero e al giudice ai fini della valutazione ai sensi dell’articolo 299, comma 2”. Con la legge in commento si eleva la partecipazione a “specifici programmi di recupero” a presupposto per la concessione della sospensione condizionale della pena, e a possibile programma di recupero da esperirsi a vantaggio dei carcerati. Ma non esiste in Italia alcuna mappatura degli enti e delle associazioni che organizzino questo tipo di percorsi; queste realtà sono del tutto assenti in molte aree geografiche del paese, il che impone una riflessione sulla giustizia sostanziale di un beneficio i cui presupposti sono nella disponibilità solo di alcuni condannati e non di tutti; non esiste e non è prevista alcuna certificazione dell’efficacia di questi percorsi, spesso predisposti da associazioni estemporanee in via sperimentale18. Vedremo se la stringente previsione in tema di sospensione condizionale della pena porterà a una regolamentazione del settore o se, come piuttosto sembra anche a giudicare dal contenuto del secondo comma dell’art. 6 (“dall’attuazione delle disposizioni di cui al comma 1 non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”), rimanga una enunciazione insuscettibile di coordinamento e attuazione organica su tutto il territorio nazionale, come dovrebbe essere (anche per sottolineare che la violenza di genere è un problema degli uomini che affetta le donne; e che quindi sono gli uomini che per primi devono lavorare alla prevenzione e al recupero). All’art. 14 si trova invece una norma molto importante, suscettibile di immediata applicazione e destinata – se effettivamente applicata – a permettere alla giustizia di meglio seguire il suo corso: anche senza previsione di oneri di spesa. Si tratta delle “modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale e agli articoli 90-bis e 190-bis del codice di procedura penale”, attraverso le quali è posto il dovere, da parte delle cancellerie penali, di trasmettere al giudice civile avanti al quale siano trattati i procedimenti di separazione personale dei coniugi, delle cause relative ai figli minori di età o all’esercizio della potestà genitoriale, copia delle ordinanze che applicano misure personali caute lari o ne dispongono la sostituzione o la revoca, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, del provvedimento con il quale è disposta l’archiviazione e della sentenza emessi nei confronti di una delle parti in relazione ai reati di maltrattamento, violenza sessuale, atti persecutori, revenge porn, lesioni aggravate perché commesse nei confronti di coniugi, conviventi, ex partner, cd. femminicidio (in questi casi ovviamente anche tentato). Il disposto prende le mosse da una risoluzione del CSM, che aveva raccomandato l’adozione di meccanismi consimili nelle linee guida emanate nel maggio 201819. Ci si chiede, ma a parere di chi scrive la risposta deve essere positiva, atteso che la norma non pone sanzioni ma è deputata a fare circolare le informazioni tra i magistrati ai fini del migliore esercizio della giustizia, se nella previsione dei giudici ai quali la suddetta documentazione va trasmessa debbano ricomprendersi anche i giudici del divorzio (in cui il conflitto coniugale può in effetti reincrudelirsi) e delle modifiche delle condizioni della crisi familiare (art. 710 c.p.c., 5 l. div.). Anche l’art. 15 pone ulteriori obblighi di comunicazione a carico delle cancellerie penali, disponendo che la revoca o la sostituzione delle misure adottate a mezzo ordine di protezione familiare, o la scarcerazione del condannato per i reati integranti violenza di genere o domestica debbano sempre essere comunicati alla persona offesa e al suo difensore (e non all’uno in difetto dell’altro), come del resto già riconosciuto espressamente dalla giurisprudenza di legittimità20. L’art. 8 detta misure in favore degli orfani per crimini domestici e delle famiglie cui sono affidati, portando doverosa attenzione alle conseguenze gravissime della violenza domestica che essa comporta in danno dei minori coinvolti; così come gli artt. 19 e 20 si occupano di semplificare le modalità con le quali i pur irrisori indennizzi in favore delle vittime di reati intenzionali violenti possono essere ottenuti. L’art. 18 sembrerebbe voler rafforzare l’intervento statale in favore della presenza di centri antiviolenza e delle case-rifugio in ogni regione; ma la modifica dell’art. 5-bis, co. 2, del d.l. 14 agosto 2013 n 93 convertito con modificazioni dalla l. 15 ottobre 2013 n. 11921, che elimina la già stabilita riserva, a tal fine, del terzo delle risorse disponibili depone piuttosto in senso contrario. Resta da vedere se la modifica è ispirata dalla constatazione della risalenza temporale dell’obiettivo originariamente contemplato nella norma (una raccomandazione del novembre 1999) o è tesa piuttosto a liberare risorse ad altri fini.



3. Considerazioni conclusive



L’animosità con la quale sono stati condotti i lavori parlamentari22 deputati all’adozione del testo legislativo in commento, che hanno visto gli emendamenti proposti dalle minoranze metodicamente respinti, non ha permesso di approntare misure veramente efficaci per il contrasto della violenza di genere e domestica. Il difetto più macroscopico del cd. “Codice Rosso” è nel non volere farsi carico dello spaventoso deficit culturale che relega il nostro paese tra i più arretrati nel mondo occidentale per gender gap, con conseguenze anche economiche di non poco rilievo (è stato stimato che il potenziamento dell’occupazione femminile, al contempo mezzo ed effetto per contrastare il divario di genere, porterebbe a una considerevole crescita – i.e. di molti punti percentuali – del PIL mondiale23). Anche gli aumenti di pena e la predisposizione, sulla carta, di corsie preferenziali per la trattazione dei procedimenti penali che involgono fatti di violenza domestica e di genere sembrano espressione di soluzioni affrettate, di sapore demagogico, cui purtroppo coerentemente non si accompagnano stanziamenti di risorse invero necessari al fine di garantire l’operatività delle prescrizioni adottate. Alcune misure, tuttavia, si collocano nell’alveo di una accresciuta consapevolezza del fenomeno (ad esempio la valorizzazione della violenza assistita in danno dei minori, o il miglioramento della comunicazione tra i giudici investiti a diverso titolo delle vicende separative). Alla materia va dedicata ancora molta attenzione, anche dal punto di vista dei necessari stanziamenti strutturali, dei quali è purtroppo ancora denegata in sede istituzionale la assoluta urgenza. Il recente, subitaneo mutare della compagine governativa potrebbe portare, come ci auguriamo, a una più approfondita considerazione del fenomeno e a una modifica migliorativa delle disposizioni (e soprattutto, a monte, delle linee operative e sistematiche) che devono presiedere al contrasto della violenza domestica e di genere, le cui radici profonde vanno estirpate con determinazione e generosa profusione di mezzi.

NOTE

1 Tale abuso delle posizioni di vantaggio (intuibilmente favorenti nella gran parte gli uomini, per le non trascurabili e oggettivissime ragioni appena dette) esita con prevedibile e statistica evidenza in condotte perpetrate per la stragrande maggioranza ai danni delle donne; non in ragione del genere femminile in quanto tale ma della condizione di inferiorità, a volte drammatica, in cui quel genere è tenuto e talvolta collude per rimanere (in quanto ha comunque introiettato dettami culturali che questa condizione di inferiorità affermano, o danno per scontati: la cultura “tradizionale” è pervasiva: cfr. P. Bourdieu, La domination masculine, passim, 1998). Le relazioni crescono ingessate dalla “tradizione” (che in quanto tale determina rigidamente le aspettative da nutrire verso chi appartenga all’uno o all’altro genere, trascurando le individualità e le caratteristiche personali), non riescono a mantenere la promessa di appagamento che in esse è idealmente riposta, più o meno velocemente si ammalano, conducendo ad esiti più o meno gravi. Spesso è nel momento in cui a dette relazioni si dice basta (anche in questo contravvenendo alla “tradizione”, dalla quale ci si distanzia sempre a fatica, sempre lottando contro i pregiudizi) che il rapporto di forza, o meglio di vantaggio, degenera: e chi manca di comprendere la specificità della propria relazione tenderà ad appiattirsi sui luoghi comuni, da cui trarrà linfa per non evitare l’esplosione: della violenza, del risentimento, della vendetta, non così raramente anche a discapito, e per il tramite, dei figli. In questa cornice vanno lette non solo le violenze di genere penalisticamente rilevanti, ma anche molte diatribe civilistiche incentrate sull’affidamento dei figli, la risposta giurisdizionale alle quali è troppo spesso poco appagante proprio perché disconosce (non vuole conoscere) l’origine socioculturale dei conflitti, concentrandosi sul particolare e spesso sacrificando un ragionamento articolato e la sagace applicazione del diritto alla ricerca di un “accordo”, di una mediazione a tutti i costi, che in quanto tale non risolverà nulla, salvo il sovraffollamento del ruolo d’udienza.

2 Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e della violenza domestica, Istanbul, 11 maggio 2011. In vigore dal 1° agosto 2014, è stata ratificata dall’Italia con legge n. 77 del 27 giugno 2013, che ne ha recepite le norme come fonte legislativa di rango primario, in quanto tali ex se vigenti nel nostro ordinamento (https:// rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documentId= 09000016806b0686).

3 Che la statistica, e le esplicite affermazioni di principio contenute nel Preambolo della Convenzione di Istanbul (“Gli Stati membri del Consiglio d’Europa e gli altri firmatari della presente Convenzione: riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione; Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini; Riconoscendo che le donne e le ragazze sono maggiormente esposte al rischio di subire violenza di genere rispetto agli uomini; Riconoscendo che la violenza domestica colpisce le donne in modo sproporzionato e che anche gli uomini possono essere vittime di violenza domestica”), attestano affettare in misura sproporzionatamente più ampia le donne (cfr. anche, della medesima Convenzione, l’art. 2: “La presente Convenzione si applica a tutte le forme di violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, che colpisce le donne in modo sproporzionato”; l’art. 3 lett. d: “L’espressione ‘violenza contro le donne basata sul genere’ designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale, o che colpisce le donne in modo sproporzionato”; la preoccupazione espressa dall’art. 4, co. 4: “Le misure specifiche necessarie per prevenire la violenza e proteggere le donne contro la violenza di genere non saranno considerate discriminatorie ai sensi della presente Convenzione”). La sproporzione nella manifestazione della violenza di genere contro le donne – rispetto a quella che colpisce gli uomini – è talmente accentuata che le misure da adottare per contrastarla possono essere così drastiche da apparire discriminatorie verso gli uomini: ed infatti, cfr. le notazioni portate da commentatori di sicura autorevolezza ma poco inclini a considerare l’abissale divario di genere che connota apertamente il nostro contesto socioculturale (non “subculturale”...): ad esempio, T. Padovani, L’assenza di coerenza mette a rischio la tenuta del sistema, in Guida al diritto, 37, 2019,. 55: “Efferatezze non dissimili da quella isolata nell’art. 583-quinquies, che normalmente vedono donne come vittime del reato, possono realizzarsi, a parti ‘rovesciate’, nei confronti di un maschio: l’evirazione o la castrazione continuano peraltro a costituire ipotesi circostanziate di lesioni (articolo 583, comma secondo, n. 3, del c.p.). Sarà forse perché risultano statisticamente meno frequenti; ma non sembra questa una ragione sufficiente per discriminare: lungo la china di un diritto penale di contrasto all’atavismo subculturale, la parità di trattamento sarebbe più che mai d’obbligo” [il sottolineato è della redattrice]).

4 Cfr. F. roia, Crimini contro le donne: politiche, leggi, buone prassi, Milano, 2015.

5 Su questi temi cfr. il cd. Rapporto ombra al GREVIO (https://www.direcontrolaviolenza.it/wp-content/uploads/2019/02/Rapporto-ombra-GREVIO.pdf), documento redatto dalle associazioni di donne “che si sono unite per approfondire lo stato dell’applicazione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica in Italia”. La Convenzione di Istanbul prevede, all’art. 66, l’istituzione di un gruppo di esperti (GREVIO: gruppo di esperti sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza di genere) “incaricato di vigilare sull’attuazione della presente Convenzione da parte delle Parti contraenti”, cui ogni triennio gli Stati contraenti sottopongono un Rapporto sulle misure legislative e d altro tipo destinato a dare attuazione alle disposizioni della Convenzione da parte degli Stati contraenti. Al Rapporto trasmesso ufficialmente al Grevio dal Governo Italiano nell’ottobre 2018 (https://rm.coe.int/grevio-state-report-italy/16808e8133, purtroppo, ma significativamente, reperibile sul web solo in inglese) le associazioni delle donne hanno contrapposto un documento (cfr. supra) assai meno edulcorato, che dà conto delle effettive e drammatiche criticità che il nostro Paese è chiamato ad affrontare e risolvere nonché della strutturale insufficienza delle misure in essere. Questo Rapporto ombra, contestuale a quello ufficiale e quindi risalente all’ottobre 2018, precede di qualche mese l’entrata in vigore del cd. “Codice Rosso”, di cui al commento, ma non si limita, a differenza di quello governativo, “in alcun modo al periodo di riferimento passato indicato dal questionario inviato allo Stato. Si è scelto di fornire un taglio il più possibile attuale che permetta appunto la verifica dell’efficacia delle norme già introdotte” (cfr. Rapporto ombra al GREVIO, ottobre 2018, Introduzione, p. 8). Per tale motivo ne risulta assai pertinente e interessante la consultazione sui temi e gli aspetti oggetto della novella in commento.

6 Cfr. http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/testi/51600_testi.htm.

7 Che stabiliscono, a favore di detti procedimenti, rispettivamente: art. 1: la possibilità di comunicare la notizia di reato al pubblico ministero anche oralmente, fermo l’obbligo di far seguire “senza ritardo” quella scritta; art. 2: l’obbligo di assumere informazioni dalla persona offesa e da chi ha presentato denuncia, querela o istanza, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato; art. 3: l’obbligo, per la polizia giudiziaria che debba compiere attività di indagine su delega del pubblico ministero, di procedervi “senza ritardo”.

8 Cfr. Rapporto ombra al GREVIO, cit., 43.

9 La pena stabilita è “da sei mesi a tre anni”, più alta di quella prevista dalla fattispecie di cui all’art. 388 c.p.: “fino a tre anni”.

10 Tribunale di Milano, sezione Immigrazione 3, sentenza 2 febbraio 2007: “Il Giudice Dott.ssa Cassano Cicute, letto il ricorso presentato da C.Z.M. in data 16 novembre 2006 ex art. 30 VI comma decreto legislativo 286/98 avverso il provvedimento di diniego del visto per ricongiungimento familiare emesso in data 20 settembre 2006 dall’Ambasciata d’Italia in Islamabad; ritenuta la tempestività e la propria competenza nel decidere; a scioglimento della riserva assunta, così provvede: L’Ambasciata Italiana ha motivato il proprio diniego di rilascio del visto d’ingresso sull’unico elemento fattuale dell’invalidità del matrimonio del ricorrente in quanto celebrato per telefono. Il ricorrente lamenta profili di invalidità del provvedimento sulla circostanza della piena validità del vincolo coniugale secondo la legge pakistana comune ai due coniugi. Le doglianze del ricorrente appaiono fondate. Il ricorrente ha prodotto certificato pakistano di matrimonio dal quale si evince la piena validità in Pakistan del matrimonio celebrato a mezzo del telefono. Giova richiamare l’art. 28 della l. 218/95 sulla legge applicabile in caso di matrimonio celebrato all’estero che prevede che il giudizio di validità formale del matrimonio deve essere effettuato alla luce della legge del luogo di celebrazione o dalla legge nazionale dei coniugi. Ne consegue pertanto che secondo la legge comune ai due coniugi anche il matrimonio celebrato per telefono ha validità giuridica. Va rilevato che l’autorità amministrativa, nella persona del Questore di Varese ha già positivamente compiuto l’indagine sui requisiti per il rilascio del nulla osta concedendo il provvedimento di nulla osta al ricongiungimento familiare con la moglie S.Z. in data 18 luglio 2005. Secondo il disposto legislativo dell’art. 29 decreto legislativo 286/98 non è prevista la necessità di ulteriore controllo da parte dell’Ambasciata alla quale è inoltrata la richiesta per il visto d’ingresso, poiché a tale organo è riservato un mero controllo esterno di legittimità sull’esistenza delle condizioni di legge, che non può comportare una valutazione penetrante quale quella riservata soltanto alla Questura competente. Tale interpretazione conduce a ritenere che l’Autorità amministrativa non possa effettuare un’indagine sulla validità formale del matrimonio che deve essere riservata soltanto a quella giurisdizionale (Cass. 5537/01). Ne consegue pertanto che il provvedimentodidiniegoèillegittimoedeveessereannullato.P.Q.M.Accoglieilricorso presentato da C.Z.M. e annulla il provvedimento dell’Ambasciata d’Italia in Islamabad emesso in data 20 settembre 2006”.

11 Vedasi l’emblematico e anche giuridicamente tristissimo caso di Tiziana Cantone, che induce a ritenere la necessità di una previsione consimile, al fine di responsabilizzare (anche letteralmente, vale a dire come soggetto passibile di richiesta di risarcimento) chi gestisce dati così sensibili e intuitivamente dirompenti in danno della persona ritratta.

12 13

Cassazione penale, sezione I, sentenza del 23 novembre 2016 n. 49821. Il chirurgo estetico imperito: cfr. T. Padovani, op. cit., 55.

14 Vedasi il Report 2018 del World Economic Forum, https://www.weforum. org/reports/the-global-gender-gap-report-2018.

15 Nel 2018, l’Italia si colloca tra Montenegro e Tanzania: http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2018.pdf, 8.

16 Precisamente sino al 16 febbraio 2018, data di entrata in vigore della l. 11 gennaio 2018, n. 4 “Modifiche al codice civile, al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in favore degli orfani per crimini domestici”.

17 “... contro il discendente anche per effetto di adozione di minorenne”.

18 Vedasi, per altri spunti critici sulle realtà dell’assistenza ai cd. “uomini maltrattanti”, il Rapporto ombra al GREVIO, 29 ss.

19 Risoluzione CSM del 9 maggio 2018 sulle linee guida in tema di organizzazione e buone prassi per la trattazione di procedimenti relativi a reati di violenza di genere e domestica (https://www.csm.it/web/csm-internet/-/risoluzione-sulle-linee-guida-in-tema-di-organizzazione-e-buone-prassi-per-la-trattazione-dei-procedimenti-relativi-a-reati-di-violenza-di-genere-e-do).

20 Cfr. Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza del 29 gennaio 2016, n. 10959.

21 Così l’articolo prima della modifica, che ha eliminato la parte in neretto: “Il Ministro delegato per le pari opportunità, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, provvede annualmente a ripartire tra le regioni le risorse di cui al comma 1 tenendo conto: a) della programmazione regionale e degli interventi già operativi per contrastare la violenza nei confronti delle donne; b) del numero dei centri antiviolenza pubblici e privati già esistenti in ogni regione; c) del numero delle case-rifugio pubbliche e private già esistenti in ogni regione; d) della necessità di riequilibrare la presenza dei centri antiviolenza e delle case-rifugio in ogni regione, riservando un terzo dei fondi disponibili all’istituzione di nuovi centri e di nuove case-rifugio al fine di raggiungere l’obiettivo previsto dalla raccomandazione Expert Meeting sulla violenza contro le donne. Finlandia, 8-10 novembre 1999”.

22 Vedasi nota 6.

23 Vedasi https://www.ilsole24ore.com/art/pari-opportunita-guadagno-tutti-anche-il-pil-mondiale-ABELf2bB.