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Il divieto dei patti successori nella prospettiva della funzione sociale del diritto ereditario

autore: D. Cavicchi

Sommario: 1. Premessa. - 2. Il fondamento del divieto: tentativi di ricostruzione unitaria. - 2.1. Segue: il fondamento del divieto dei patti successori istitutivi. - 2.2. Segue: il fondamento del divieto dei patti successori dispositivi. - 2.3. Segue: il fondamento del divieto dei patti successori rinunziativi. - 3. Una (possibile) diversa prospettiva. - 4. La funzione del diritto ereditario. - 4.1. Segue: la successione ereditaria nella Costituzione. - 5. I riflessi della funzione sociale del diritto ereditario sul divieto del patto successorio



1. Premessa



È tornato di attualità il tema del divieto dei patti successori, di cui si prospetta l’abrogazione, anche all’interno di progetti di più ampio respiro che dovrebbero toccare punti nevralgici del diritto ereditario. Il tentativo più recente1 di intervenire sulla materia è riconducibile al disegno di legge (d.d.l. S. 1151) presentato in Senato il 19 marzo 2019, contenente delega al Governo per la revisione del codice civile. Si tratta, come già evidenziato2 , di un progetto di riforma molto ampio, che tocca, tra l’altro, sul piano del sistema delle persone, la disciplina delle associazioni, delle fondazioni, del trust; sul piano del diritto di famiglia, la regolamentazione degli accordi prematrimoniali; in materia successoria, le norme che disciplinano la legittima e, per l’appunto, il divieto dei patti successori. Si prospetta l’eliminazione di tale divieto o comunque la sensibile sua riduzione, consentendo i patti successori istitutivi che abbiano per oggetto beni determinati facenti parte del patrimonio ereditario e legittimando altresì i patti rinunciativi. Salvi rimarrebbero i diritti dei legittimari, che il disegno di legge, però, configura come diritti di credito, assistiti da privilegio generale sugli immobili caduti in successione o, in difetto, sui mobili facenti parte dell’asse ereditario. Da tempo, in letteratura, con varietà di argomentazioni, si auspica l’abrogazione del divieto sancito dall’art. 458 c.c. Risale a più di vent’anni or sono la radicale affermazione per cui tale divieto non avrebbe più presa nella società e si risolverebbe in un ingiustificato ostacolo all’autonomia privata, un blocco al perseguimento di interessi sostanzialmente meritevoli di tutela3. Con il presente contributo si prende in considerazione la possibilità di valutare il divieto dei patti successori dal punto di vista del suo fondamento, in una dimensione, per così dire, più ampia: cioè, considerando la rilevanza del divieto all’interno sistema ereditario e, a sua volta, il sistema ereditario all’interno dell’ordinamento giuridico nel suo complesso, avendo riguardo anche alle norme ed ai principi di natura costituzionale che concernono la materia. Per fare ciò, si procederà, dapprima, con il passare in rassegna le varie tesi impiegate per dare spiegazione al divieto; successivamente, si tenterà, con atteggiamento dubitativo e a mo’ di proposta ricostruttiva, di rinvenire il suo fondamento alla luce dalla funzione sociale del diritto ereditario, anche tenendo conto della sua collocazione all’interno della Costituzione. Scopo del presente lavoro non è, invece, delineare le complesse questioni tecniche sottese alla ricostruzione della struttura delle varie specie di patti successori e del loro ambito applicazione4 . Basterà qui ricordare, acquisendo dati ormai consolidati in materia, che: l’art. 458 c.c. contempla, senza distinzioni, tre tipologie di patti, i patti istitutivi, che consistono in contratti con cui taluno dispone, per il tempo successivo alla sua morte, del proprio patrimonio, attribuendo al beneficiario quote di esso o beni determinati; i patti dispositivi, con cui taluno dispone dei diritti che gli potrebbero spettare su una successione altrui non ancora aperta; i patti rinunciativi, con cui taluno rinuncia ai diritti che gli potrebbero spettare su una successione altrui non ancora aperta. Inoltre, mentre i primi costituiscono veri e propri atti mortis causa, in quanto realizzano un’istituzione contrattuale di erede o di legato, i patti dispositivi e rinunciativi, sono considerati atti inter vivos in quanto hanno per oggetto beni che fanno parte di un’eredità non propria bensì altrui5 .



2. Il fondamento del divieto: tentativi di ricostruzione unitaria



Come detto, le tre categorie di patti successori (istitutivi, dispositivi, rinunciativi) confluiscono tutte nella previsione dell’art. 458 c.c., senza che la disposizione operi distinzioni di qualificazione o disciplina. Le tre fattispecie sono definite “patti successori” dalla rubrica della norma, la quale prevede la sanzione della nullità sia delle convenzioni con cui si disponga della propria successione, sia degli atti con cui taluno disponga dei (o rinunci ai) diritti che gli possano spettare su una successione d’altri, non ancora aperta. L’identità di trattamento, riservato dal legislatore alle fattispecie, la collocazione sistematica della norma e, come si vedrà, lo stesso tenore della relazione al Re sull’articolo in questione, hanno indotto parte della dottrina a rinvenire una spiegazione unitaria del divieto, cioè un fondamento del divieto valido per tutt’e tre le figure configurate dal legislatore. I primi tentativi di fornire una spiegazione unitaria, sotto il regime del codice civile del ’42, si devono a due autorevoli apporti6 , che, come già evidenziato in dottrina7 , hanno esercitato una grande influenza sia sul pensiero della letteratura successiva che sulla giurisprudenza8 . Da un lato, si è detto che tratto comune alle tre figure di patti sarebbe il fatto ch’esse hanno per oggetto una successione non ancora aperta di cui si dispone mediante contratto9 ; dall’altro, si è messo in evidenza che unica ragione giustificatrice del divieto sarebbe la volontà del legislatore di mantenere integra sino all’estremo della vita del testatore la libertà di testare e di disporre altrimenti delle proprie cose10. Sennonché, sotto il primo profilo, non si è mancato di evidenziare11 come il riferimento alla figura del contratto non sarebbe idoneo a spiegare la ragione del divieto per i patti successori puramente rinunciativi, che si risolvono in negozi unilaterali e non in contratti. Mentre la tesi che fa perno sulla tutela della libertà di testare sembra riferibile ai soli patti successori istitutivi, essendo inidonea a ricomprendere i patti dispositivi e rinunciativi, ove disponente e rinunciante dispongono di beni di una successione altrui e non della successione propria12. Ora, per meglio comprendere le altre diverse opinioni espresse sul punto, può essere utile premettere alcuni passaggi del paragrafo della relazione al Re (n. 225), inerente all’art. 458 c.c. Ivi si rileva che: “Affermato nell’art. 457 il principio fondamentale del nostro diritto successorio, che le forme riconosciute di successione sono due, la legittima e la testamentaria, ho considerato l’opportunità di escludere espressamente l’ammissibilità della terza possibile causa di delazione, ossia del contratto come titolo di successione, stabilendo il divieto della cosiddetta successione pattizia o patto successorio”13. Dato atto che il codice civile del 1865 conteneva, all’art. 1118, il divieto generale di stipulazione in relazione ad una successione non ancora aperta, e che tale divieto veniva ripetuto in altre disposizioni di applicazione particolare (tra cui gli artt. 954, 1380, 1400), la relazione esplicita che, anche per ragioni di natura sistematica, si è ritenuto, intervenendo sul testo dell’art. 70 del progetto preliminare, che ne dava un’applicazione parziale, di dare al principio portata generale, “affermando espressamente la nullità di qualsiasi convenzione, con la quale taluno disponga della propria successione, e di ogni atto con il quale taluno disponga o rinunzi ai diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta”. Collocando il divieto immediatamente dopo l’art. 457 c.c. “la norma costituisce la logica conseguenza del principio che la delazione dell’eredità può aver luogo soltanto per legge o per testamento”. E così, allineandosi a queste affermazioni, parte della dottrina afferma che, nel sancire la nullità dei patti successori, siano essi istitutivi, dispositivi o rinunciativi, il codice avrebbe fatto applicazione del principio di tipicità delle fonti di delazione: poiché, a norma dell’art. 457 c.c., che precede la disposizione sul divieto, l’eredità può devolversi solo per legge o per testamento, non sarebbe ammissibile una diversa forma di delazione, attuata tramite una convenzione o un altro atto diverso dal testamento; onde la nullità di tali figure che, ove ammesse, si risolverebbero in una forma di delazione diversa dalle predette14. Il rilievo è stato sottoposto a critica15. Si è detto, anzitutto, che una simile giustificazione mal si attaglia all’applicabilità del divieto ai patti dispositivi e rinunciativi. Essi, infatti, come si è visto, non costituiscono altrettante fonti di delazione, in concorso con la legge e il testamento: nel caso dei patti dispositivi, il disponente non trasmette la sua posizione di erede o legatario, bensì solo beni che potrebbero pervenirgli da una futura successione, e inoltre l’avente causa acquista dal disponente stesso, non dal de cuius; quanto ai patti rinunciativi, in essi, semplicemente, il rinunciante non trasferisce alcun diritto. In ragione di ciò, non potrebbe dirsi esistente alcuna relazione tra il principio di tipicità delle forme di delazione e i summenzionati patti16. Per tale motivo, alcuni autori17 riferiscono il fondamento in parola solo ai patti successori istitutivi o confermativi18 di cui al primo comma dell’art. 458 c.c., rinvenendo in altre ragioni il divieto dei patti dispositivi e rinunciativi. Altro argomento adottato per giustificare, in chiave unitaria, la presenza, nel nostro ordinamento, del divieto dei patti successori, è quello che fa perno sull’opportunità di non provocare, nei consociati, il votum captandae mortis o votum corvinum, cioè il desiderio della morte altrui: i patti successori, una volta posti in essere, potrebbero indurre, nelle persone che ne beneficerebbero, il desiderio o la speranza della morte del disponente o rinunciante.

Questo desiderio o speranza, si afferma, potrebbe sussistere sia in capo a chi risulti beneficiario di un atto con cui taluno disponga di beni che potrebbero spettargli su una successione non ancora aperta – dunque, nel caso dei patti dispositivi19- sia in capo al beneficiario di un atto di rinuncia preventiva – dunque, in ipotesi di patti rinunciativi20. Sul punto però si è obiettato che, a parte la considerazione che l’intero meccanismo successorio reca in sé la prospettiva della morte e, dunque, la possibilità che l’infausto evento possa essere desiderato o auspicato, vi sarebbe da considerare che già in altre disposizioni, della cui liceità non può dubitarsi, il legislatore ha correlato la morte della persona al beneficio, al vantaggio patrimoniale, che altri ne possa ricavare21. Si fa l’esempio della rendita vitalizia o della donazione con patto di reversibilità; del nudo proprietario che trae beneficio dalla morte dell’usufruttuario o della morte di un socio di una società di persone, dalla quale deriva la possibilità, per gli altri soci, di proseguire, con una compagine più ristretta, l’attività sociale o dell’assicurazione sulla vita a favore di un terzo22. L’argomento che fa leva sull’intenzione del legislatore di evitare che sorgano, in capo ai consociati, sentimenti riprovevoli, valutando il sistema nel suo complesso, non sembra dunque decisivo e presta il fianco a dette critiche. Emerge, allora, come risulti arduo il tentativo di fornire una spiegazione unitaria al divieto, posto che, pur prescindendo dalla fondatezza o meno delle tesi prospettate, alcune di esse risultano adattabili solo ad alcune specie di patti successori, altre a specie diverse. Per questo si è, a più voci23, prospettata l’opportunità di impostare la ricerca distinguendo tra le varie tipologie di patto: procedendo in tal guisa, ci si occuperà, nel paragrafo che segue, del fondamento del divieto dei patti istitutivi.



2.1. Segue: il fondamento del divieto dei patti successori istitutivi



In riferimento ai soli patti istitutivi, si è sostenuto che il fondamento del divieto risiederebbe nella necessità di riservare e garantire al disponente la libera revocabilità dell’atto dispositivo. A mo’ di premessa, si rileva e sostiene l’esistenza, nel nostro ordinamento, del principio, non codificato ma ricavabile dal sistema, di autonomia e libertà testamentaria24: esso è volto a garantire a ciascun consociato la libertà di decidere in merito alla destinazione dei propri beni, per il tempo successivo alla sua morte.

La libertà di disporre per testamento, si dice, è singolarmente ampia ed ha un significato proprio, originale, essendo essa svincolata dai limiti propri della materia contrattuale: sarebbe sottratta, secondo alcuni, allo stesso giudizio di meritevolezza dell’art. 1322 c.c.25. Limiti, peculiari ed esclusivi, all’autonomia testamentaria sono posti dalle norme sull’intangibilità della legittima e da quelle sulla liceità e possibilità delle disposizioni contenute nel testamento26; mentre positiva espressione di libertà è, indubbiamente, il diritto irrinunciabile del testatore di revocare, in ogni momento, il testamento; diritto consacrato nell’art. 587 c.c. e, con maggior vigore, nell’art. 679 c.c. Sulla base di tali premesse, si sostiene che anche il divieto dei patti successori istitutivi sarebbe volto a garantire la libertà testamentaria27, in quanto, ove se ne ammettesse la stipulazione, trattandosi di contratto avente forza di legge tra le parti, dovrebbe anche negarsi al disponente il diritto di “cambiare idea”, cioè la possibilità di recedere dal rapporto o, più in generale, di privarlo di efficacia per poter dare, per il tempo successivo alla sua morte, disposizioni diverse28. In altre parole, il contratto testamentario porrebbe in essere una situazione giuridicamente impegnativa per l’ereditando, in quanto il successibile acquisterebbe subito un diritto all’eredità, mentre dalla stipula del testamento non sorge alcun diritto né alcuna aspettativa, per il beneficiario, prima dell’apertura della successione29.

Inoltre, la volontà del disponente sarebbe tutelata anche dal rispetto delle forme testamentarie previste dalla legge, le quali consentirebbero una maggiore ponderatezza nelle decisioni e una maggiore chiarezza della disposizione, con l’ulteriore vantaggio che l’esistenza e l’oggetto del negozio possono essere provati con maggiore facilità30. Si rinviene, in dottrina, una diretta critica a tale tesi. Si afferma, infatti, che la tutela della libertà del disponente, anche nella sua declinazione della facoltà di modificare l’assetto di interessi prefigurato col patto, ben si sarebbe potuta attuare prevedendo la possibilità, per il disponente stesso, di recedere dal contratto: piuttosto che sancire, drasticamente, la nullità di una siffatta convenzione, il legislatore, ammessa la validità di un patto istitutivo, avrebbe potuto prevedere, come per il testamento, il diritto inderogabile del disponente di recedere (anche ad nutum) dal rapporto. Se dunque, prosegue la tesi, si sostiene che la ratio del divieto risieda nella necessità di mantenere intatta la libertà di decisione del disponente fino al momento della sua morte, si dovrebbe altresì affermare che la sanzione della nullità della convenzione istitutiva sia incongruente31 o eccessiva32 rispetto allo scopo. I contratti testamentari, si rileva sulla stessa linea33, non essendo atti di ultima volontà, sarebbero normalmente ma non essenzialmente irrevocabili, in quanto sia la legge che la volontà delle parti potrebbero prevedere delle cause di revocabilità (rectius: di recesso), con il solo limite rappresentato dall’invalidità della condizione sospensiva meramente potestativa (art. 1355 c.c.). Ora, questa ipotizzata diretta riferibilità della logica contrattuale alla materia testamentaria non appare condivisibile. Sul punto, si è già rilevato come le dinamiche sottese alle attribuzioni mortis causa, sotto il profilo sia della struttura che della natura, siano sensibilmente diverse da quelle contrattuali, in quanto tali difficilmente conciliabili con esse34. La materia testamentaria partecipa di principi non solo estranei, ma anche, sotto certi aspetti, antitetici alla materia contrattuale. Basti pensare al principio dell’affidamento35, di cui occorre tener conto nel rapporto contrattuale e che, invece, risulta estraneo alla logica della disposizione mortis causa; oppure al diverso modo di operare delle impugnative negoziali, le quali, nel testamento, mirano alla conservazione del negozio (può farsi l’esempio della disposizione di cui all’art. 590 c.c.), nel contratto, al bilanciamento delle posizioni delle parti, poste e valutate dal legislatore, tendenzialmente, in una situazione di parità. Si evidenziano, ancora, la diversa considerazione dell’elemento volitivo, il quale, attraverso le norme che danno rilievo al motivo, assume nel testamento una maggiore rilevanza (può farsi l’esempio della disposizione di cui al secondo comma dell’art. 624 c.c.) nonché l’esistenza di strumenti predisposti dal legislatore per evitare situazioni di incertezza in ordine alla titolarità dei beni ereditati (art. 534 c.c.36). Ecco allora che, sulla scorta delle premesse svolte, si perviene, non solo a rivalutare l’elemento della tutela della libertà testamentaria, anche sotto il profilo della libera revocabilità dell’atto, ma anche a delle conclusioni importanti in ordine all’individuazione del fondamento del divieto stesso. Il divieto di cui all’art. 458 c.c. viene visto come un elemento di un più ampio sistema, teso alla tendenziale esclusione dei principi e delle regole contrattuali dalla vicenda successoria. Le regole del sistema delle successioni, di cui fa parte il divieto in parola, sarebbero, così, volte a integrare istanze di ordine pubblico e ragioni di tutela della volontà del de cuius, e a creare un equilibrio di valori che l’adozione dei principi contrattuali metterebbe in crisi, in quanto diversi sono i valori di cui quei principi e quelle regole si fanno realizzatori. La disposizione di cui all’art. 458 c.c., così concepita, si traduce in una norma che pone un generale divieto sia di disporre contrattualmente della propria successione, sia di porre in essere patti mediante i quali si dispone di situazioni giuridiche, per il tempo successivo alla propria morte: applicabile, dunque, sia gli atti mortis causa che agli atti post mortem37. Per altra via, sempre in riferimento ai patti istitutivi, la ratio del divieto è stata individuata nell’intenzione del legislatore di dare rilevanza esclusiva, in materia di disposizioni mortis causa, alla volontà del de cuius, escludendo, di contro, qualsiasi rilevanza della volontà e della posizione di terzi soggetti38. La tesi prende le mosse dalla constatazione che se, da un lato, i valori della produttività e dell’efficienza economica sembrano acquisire, nel nostro contesto sociale, sempre maggiore importanza, dall’altro, occorre prendere atto che le disposizioni di ultima volontà, quelle attraverso le quali la persona dispone in vista della propria morte e per il tempo successivo ad essa, sono sempre state considerate, dal comune sentire, con particolare ossequio e reverenza: i consociati sembrano loro attribuire quasi una valenza mistica39. In questa prospettiva, dunque, la volontà della persona occupa un ruolo centrale, ma non tanto sotto il profilo della sua esteriorizzazione, posto che i tentativi di rendere immune la volontà del disponente da ogni condizionamento sarebbero vani40, quanto nella dimensione interiore ed intima della persona. Ora, si dice, se fossero consentiti i contratti a causa di morte, parte di essi sarebbe, non solo il de cuius, ma anche il beneficiario della disposizione, per cui quest’ultimo si troverebbe in una posizione giuridicamente protetta e la sua volontà avrebbe peso e rilevanza in sede di accertamento del significato dell’atto; mentre, come si è visto, senso e misura dell’atto di ultima volontà sono dati dalla sola posizione e dal solo volere del de cuius41. Il divieto dei patti successori, allora, assolverebbe alla funzione di escludere dal sistema successorio tutte quelle figure negoziali le quali, in applicazione dei principi generali, imporrebbero di tenere conto della sfera di soggetti diversi dal de cuius o di dare rilevanza alla loro volontà42. In quest’ottica, peraltro, andrebbe letto anche l’orientamento che connota di caratteristiche sue proprie il processo di interpretazione della volontà del testatore e che, come è noto, impone all’interprete di attenersi ad un criterio soggettivo che consenta di avvicinarsi il più possibile alla reale intenzione del testatore, senza tener conto, come invece accade nei negozi inter vivos, di interessi e posizioni di soggetti diversi o controinteressati43. Si aggiunge, poi, che scopo del divieto sarebbe anche quello di escludere, in capo a chi stipulasse una convenzione a causa di morte, l’onere di portare a conoscenza del beneficiario l’eventuale revoca della disposizione, posto che la revoca avrebbe, per sua natura, carattere recettizio. Per tale ragione, dovrebbero reputarsi coperti dal divieto, non solo i contratti successori (onerosi e gratuiti), ma anche tutti gli atti unilaterali a causa di morte recettizi, essendo essi idonei a generare, in capo ai destinatari, affidamenti estranei alla materia successoria44.



2.2. Segue: il fondamento del divieto dei patti successori dispositivi



In riferimento ai patti successori dispositivi, si suole affermare che il fondamento del divieto risiederebbe in ciò: nella necessità di evitare che, per mancata ponderatezza delle proprie decisioni o per eccessiva prodigalità, i soggetti possano essere indotti a disporre, avventatamente o senza un corrispettivo adeguato, di beni ancora non propri, non ancora entrati nel proprio patrimonio, spogliandosi così in anticipo di sostanze che potrebbero in futuro ereditare45. Il rilievo non è andato esente da critiche. Si è notato, anzitutto, che questa esigenza di tutela non è idonea a spiegare per quale motivo sarebbe egualmente nullo il patto successorio dispositivo stipulato a condizioni non inique e in relazione al quale non vi sia stato approfittamento da parte del beneficiario46. Inoltre, sul punto, occorrerebbe distinguere tra patto dispositivo oneroso e patto dispositivo a titolo gratuito47. In quest’ultima ipotesi dovrebbe farsi capo alla disciplina della donazione di cosa altrui: l’art. 771, 1° comma, c.c. stabilisce che la donazione non può avere per oggetto che beni presenti del donante e se comprende beni futuri è nulla rispetto a questi, salvo che si tratti di frutti non ancora separati. D’altra parte, ben sappiamo che la donazione che abbia per oggetto beni altrui, o parzialmente altrui, benché non espressamente vietata, è nulla per difetto di causa, salvo che nell’atto di donazione sia affermato che il donante è consapevole dell’altruità della cosa, nel qual caso la donazione vale come donazione obbligatoria di dare48. In caso di atto dispositivo a titolo oneroso, invece, il divieto diventa difficilmente spiegabile, considerando che l’art. 1478 c.c. contempla espressamente la vendita di cosa altrui, sancendone la legittimità49. Si avrebbe, dunque, un atteggiamento incoerente del legislatore, il quale, da un lato (per i patti dispositivi onerosi), si preoccuperebbe di tutelare i soggetti contro il rischio insito nel disporre di beni non ancora presenti nel proprio patrimonio; dall’altro (nel caso della vendita), che pure presenta lo stesso rischio, siffatta preoccupazione verrebbe meno. Chi disponga di un diritto non ancora presente nel proprio patrimonio, si espone anche a rischio di trasferire un bene che valga più di quanto si era prefigurato al momento della stipula: si pensi alla vendita di una quota ereditaria, la cui consistenza effettiva può conoscersi solo alla morte del disponente. Ciò nondimeno, il fondamento del divieto non può rinvenirsi nell’esigenza di preservare i soggetti contro questo rischio, posto che il nostro ordinamento conosce la figura dei contratti aleatori, non ripudiando, in linea di principio, l’idea che l’entità della prestazione sia incerta al momento della conclusione del contratto50. Per tale motivo, il fondamento del divieto, per siffatta tipologia di patto è stato diversamente rinvenuto in una ragione di natura morale: il divieto manifesterebbe un giudizio di riprovevolezza del legislatore in ordine a quegli atti che pongano la morte di una persona quale presupposto di acquisto di beni ad essa ancora appartenenti; un siffatto negozio, alla fine, si risolverebbe in un’operazione speculativa su un’eredità di una persona ancora in vita51. Si tratta, invero, di qualcosa di diverso dal votum corvinum cui si è fatto sopra cenno: lì si trattava di scongiurare, o quantomeno di non ingenerare, il desiderio o l’auspicio della morte altrui; in questo caso si tratta di stigmatizzare l’atto in sé, siccome offensivo del sentimento comune: non l’intimo, empio, desiderio che ne scaturisce preoccupa il legislatore, bensì quella mancanza di rispetto per la persona del quale i ‘patti’ stessi sono manifesta espressione52. Sotto altro profilo, si è proposto, invece, di individuare il fondamento del divieto in parola ricorrendo alla logica contrattuale, tenendo conto, in particolare, dei principi e delle norme che permeano il nostro ordinamento in materia di oggetto del contratto53. I patti dispositivi, si afferma, se fossero ammessi, si risolverebbero in negozi il cui oggetto non presenterebbe adeguati livelli di determinatezza o determinabilità, onde la previsione espressa, in un certo confermativa delle regole in tema di oggetto del contratto, della loro nullità. Più precisamente, qualora il soggetto disponesse a titolo universale dei diritti che potrebbero spettargli su una successione d’altri non ancora aperta, il negozio avrebbe per oggetto un compendio patrimoniale del tutto incerto, posto che la sua consistenza si conoscerebbe solo alla morte del de cuius: l’oggetto del negozio sarebbe indeterminato, in quanto inconfigurabile54. Nel caso invece in cui l’atto dispositivo avesse per oggetto un bene determinato, sarebbe incerto il complessivo risultato giuridico e materiale che le parti si prefigurano: infatti, è ben vero che il disponente avrebbe contezza del valore del singolo bene di cui ha disposto, ma non potrebbe in alcun modo conoscere, anticipatamente, quale sarà l’incidenza del suo valore rispetto al valore complessivo della futura successione. Si rileva, dunque, un profilo di incertezza, o meglio di indeterminabilità, dell’oggetto del patto che concorre a fondare il divieto dei patti successori dispositivi55.



2.3. Segue: il fondamento del divieto patti successori rinunziativi



E veniamo ai patti successori rinunziativi. Una tesi rinviene il fondamento della regola del loro divieto nell’intenzione del legislatore di impedire che i soggetti, eventuali futuri eredi, possano compiere atti abdicativi troppo avventati56. La rinunzia ai diritti che possano spettare su una successione non ancora aperta, di cui parla l’art. 458 c.c., viene assimilata alla donazione di beni futuri (cui si è fatto cenno al paragrafo precedente), in quanto in essa, al contrario della compravendita, si verifica una dismissione del diritto priva di corrispettivo57. In tale figura negoziale il rischio di dissipazione del patrimonio è, dunque, significativamente alto e per tale ragione il legislatore ne avrebbe sancito la nullità. Una nullità che, si dice, se anche non fosse stata prevista dall’art. 458 c.c., si sarebbe potuta evincere ricavando la norma da una considerazione sistematica di alcune regole che sembrano essere espressione di un medesimo principio di tutela: il divieto della donazione di beni futuri, il divieto di rinunzia preventiva dell’azione di riduzione da parte dei legittimari (art. 557, 2° comma, c.c.), il divieto di rinunzia preventiva alla prescrizione di cui all’art. 2937 c.c.58. Un altro punto di vista riprende le argomentazioni svolte intorno alla determinabilità dell’oggetto del contratto, già impiegate per i patti dispositivi, e le sviluppa anche per i patti rinunciativi59. Essi, si afferma, comportano una decurtazione del patrimonio del rinunciante ed un vantaggio patrimoniale (se pure indiretto) per il beneficiario, producendo un effetto che li avvicina alla liberalità indiretta. Dalla disposizione dell’art. 771 c.c., che vieta la donazione di beni futuri, sarebbe inoltre ricavabile un principio generale per il quale, negli atti liberalità, si esige un più alto grado di serietà del volere, tale per cui l’entità e il valore del bene futuro deve avere una maggiore prevedibilità rispetto agli altri contratti. Ebbene, gli atti di rinunzia ad un diritto futuro non presenterebbero un grado di determinabilità sufficiente a garantire la serietà dell’intento dismissivo e, proprio per tale ragione, sarebbero vietati: il divieto dei patti successori rinunciativi, quindi, sarebbe espressione di questo generale principio di irrinunciabilità dei diritti futuri60.



3. Una (possibile) diversa prospettiva



Le ricostruzioni passate in rassegna mettono in luce un quadro ricostruttivo piuttosto eterogeneo. Le tesi prospettate, volte all’individuazione del fondamento dei patti successori, non solo giungono a conclusioni diverse ma pongono alla loro base punti partenza e presupposti diversificati. Talvolta si seguono percorsi più tecnici, che mettono in risalto le peculiarità dei negozi mortis causa e se ne evidenziano le caratteristiche, in un’ottica di differenziazione rispetto ai negozi inter vivos, e precipuamente rispetto al contratto. Altre volte, nel quadro di un’interpretazione sistematica più ampia, si risale alle fonti dell’acquisto mortis causa e si pone alla base del divieto il principio di tipicità. In altri contesti, si pone l’accento sull’interesse individuale che il divieto sarebbe preordinato a tutelare e ci si concentra sulla sfera del disponente, sulla necessità di tutelarne la libertà, la facoltà di cambiare idea o sull’opportunità di garantirgli la migliore ponderatezza delle decisioni. Non mancano, poi, come si è visto, riferimenti all’immoralità degli atti che il divieto intenderebbe bandire, siccome oltraggiosi di valori sociali meritevoli di tutela. Ciò che non pare scorgersi, nella pur ricca letteratura di settore, è una prospettiva di analisi fondata sulla centralità del diritto ereditario, di cui il divieto dei patti successori costituisce espressione fondamentale, all’interno dell’ordinamento nel suo complesso. Dove per centralità si intende la (possibile) rilevanza delle successioni mortis causa nel contesto di valori economici e sociali in cui esse operano, in relazione a norme e principi di rango superiore, primi fra tutti quelli di natura costituzionale. Questa prospettiva, come si può intuire, richiede che si faccia luce anzitutto in ordine alla possibilità di attribuire al sistema successorio una sua peculiare funzione sociale e, partendo da lì, si verifichi se e in che modo le sue norme possano dirsi promanazione od espressione dei suddetti superiori principi. Proprio a tal riguardo, si è autorevolmente rilevato come la prospettiva funzionale del diritto ereditario sia stata raramente esplorata: rari sono i contributi volti a tentare un inquadramento generale e sistematico della materia e a individuare le relazioni e i punti di contatto che potrebbero esserci con l’istituto della famiglia, i settori dell’impresa, del lavoro e dei diritti fondamentali della persona61.

In ragione di ciò, nel paragrafo che segue, si intende prospettare la possibilità di attribuire, al diritto ereditario, una sua specifica rilevanza sociale e politica, onde poterne, poi, dedurre i corollari in ordine alla posizione che può dirsi occupare nel nostro ordinamento la norma in esame.



4. La funzione del diritto ereditario



Si suole affermare che la successione mortis causa assolve alla funzione di dare assetto, sistemazione, disciplina, alle posizioni giuridiche, attive e passive, facenti capo a un soggetto che muore e che non si estinguono con la sua morte62. In questo senso, si rileva l’esistenza di un interesse generale a che il complesso dei rapporti giuridici, alla morte del suo titolare, passi ad un altro o ad altri soggetti, affinché ne divengano continuatori. La successione, assolvendo alla funzione di dare assetto ai rapporti giuridici di una persona che muore, soddisfa dunque l’esigenza sociale della continuazione della vita economica al di là della vicenda della morte della persona fisica63. Ma in cosa si concreta e come si declina siffatta esigenza? Una prima risposta, come è noto, viene data generalmente in questi termini: con la morte di una persona si pone il problema della sopravvivenza o meno dei rapporti giuridici di cui era titolare; per alcuni di essi, quelli di carattere strettamente personale, può giustificarsi la loro estinzione; per altri, l’estinzione sarebbe controproducente per il sistema nel suo complesso, in quanto il valore sociale ed economico dei beni che residuano e dei rapporti ancora in essere, richiede che si individui il soggetto che ne benefici e che se ne faccia carico64. Si comprende, però, come questa esigenza, che abbiamo definito sociale, presupponga, a monte, delle scelte di carattere politico, delle valutazioni, da parte del legislatore, di natura anche strategica e programmatica. Il legislatore che si trovi a legiferare in ordine ad un sistema ereditario ha non solo da risolvere problemi che implicano scelte di natura tecnica ma anche da assumere posizioni di rilevanza politica. La storia del diritto delle successioni insegna, infatti, che il diritto ereditario, che regolamenta le modalità di caduta in successione dei beni sotto il profilo oggettivo, soggettivo e stabilendo le modalità di trasmissione ed acquisto, non partecipa solo di problematiche tecniche ma affronta, ed anzi ne presuppone a monte l’esistenza, anche questioni sociali e politiche, variabili nel corso delle varie epoche65. Rientrano tra le potenzialità del diritto ereditario quella di privilegiare la formazione di una certa classe sociale a scapito di un’altra, quella di favorire la conservazione di certi patrimoni dalla loro disgregazione, quella di concorrere alla formazione di certi ceti sociali66. Basti pensare, a mo’ di rapido cenno, che la successione testamentaria, conosciuta fin dal diritto romano, venne quasi bandita nell’alto Medioevo, epoca che concepiva e favoriva la trasmissione ereditaria fondata sui vincoli di sangue, rispetto alla quale il testamento, evidentemente, costituiva deviazione. Successivamente, il diritto e la libertà di disporre tramite testamento riacquistarono un ruolo preminente grazie alle istanze clericali, posto che le disposizioni di ultima volontà dei fedeli apportavano ricchezza e sostanze nelle casse della Chiesa (si pensi alle cd. disposizioni a favore dell’anima). In Francia, nel periodo immediatamente antecedente alla Rivoluzione francese, come è noto, vigeva un regime teso a favorire la conservazione del potere nobiliare: scopo dei governanti era perpetuare la potenza, anche economica, del casato. E a tale scopo era preordinato anche il sistema ereditario. Eredi, continuatori dei rapporti facenti capo ai membri della famiglia, erano soltanto i maschi (cd. principio agnatizio), e tra di essi privilegiato era il primogenito, il maggiore d’età (cd. maggiorasco) al quale veniva trasmesso l’intero patrimonio (considerato indivisibile) unitamente al titolo nobiliare. Vigeva, dunque, un complesso di regole tese a favorire la conservazione unitaria del patrimonio del de cuius e la sopravvivenza del ceto nobiliare cui questi apparteneva. Ebbene, sappiamo che la Rivoluzione francese stravolse anche il sistema delle successioni, proprio con l’intento di interrompere il processo di asservimento del diritto ereditario al soddisfacimento delle ambizioni della nobiltà. Con tale intento, si stabilirono regole volte alla frantumazione dei patrimoni, e si introdussero restrizioni al potere dispositivo del de cuius, privilegiando la successione legittima, in un’ottica parità di diritti tra i successibili. In attuazione di tale processo ricostruttivo, si eliminò il fedecommesso, al quale si attribuiva l’effetto di predeterminare la successione futura; si introdusse il divieto dei patti successori, che privilegiano taluni soggetti a scapito di altri, prima dell’apertura della successione; si riconobbe la qualità di erede soli ai successori legittimi e si ridusse a un decimo del patrimonio la porzione disponibile, attribuibile solo tramite legati; naturalmente, si eliminarono gli istituti del maggiorascato e della primogenitura. Venne bandita la concezione della proprietà come privilegio della classe nobile e si affermò, da un lato, il principio della unità e mobilità dei patrimoni, dall’altro una visione più individualistica della successione legittima, in coerenza con la nuova concezione privatistica dei rapporti familiari. In questo contesto, intervenne l’opera riformatrice di Napoleone, il quale in un’ottica di orientamento dei risultati raggiunti dalla Rivoluzione, introdusse regole in favore della classe borghese, con l’intento di privilegiare la formazione di una società di piccoli proprietari. Con specifico riferimento al diritto ereditario, il codice napoleonico introdusse regole volte ad una rivalutazione della libertà testamentaria: al testatore venne attribuito il potere di istituire eredi e la successione legittima venne relegata a sistema suppletivo, destinata ad operare solo in assenza di disposizioni testamentarie. Le norme posta a tutela dei legittimari erano concepite come espressione della solidarietà del defunto verso i parenti più stretti, onde il sistema trovava la sua ratio nella volontà doverosa dell’ereditando, vale a dire nella volontà che si esplica secondo natura e ragione, destinata ad operare anche in contrasto con la volontà reale del disponente67. È stato messo in luce che il nuovo diritto ereditario ha prodigiosamente concorso a indebolire il rapporto tra nobiltà e proprietà della terra, facilitandone l’accesso alla borghesia68, contribuendo dunque, insieme ad altri fattori, alla formazione di una nuova classe sociale. Indubbia è l’influenza del codice napoleonico sulla struttura del codice civile italiano del 1865, che riconosce, come aveva fatto il codice francese, un’ampia autonomia testamentaria e introduce e regolamenta la quota di riserva in favore di parenti più stretti. E tuttavia, il diverso disegno politico di fondo perseguito dalla nostra nazione, favorisce una differenziazione della disciplina: il codice unitario è, infatti, espressione di una società interessata non tanto alla realizzazione di un’eguaglianza economica quanto alla circolazione (mobilità) dei beni e della ricchezza, ed alla loro redditività69. Questo spiega perché le successioni mortis causa vennero considerate esclusivamente come un modo di acquisto della proprietà (art. 720) e la loro disciplina inserita, per l’appunto, nel titolo II del Libro III intitolato “Dei modi di acquistare e di trasmettere la proprietà e gli altri diritti sulle cose”. È solo con il codice del ’42 che la disciplina delle successioni acquista una propria autonomia, arrivando ad occupare un intero libro del codice, per l’appunto il secondo, e tale circostanza venne messa in evidenza da autorevoli commentatori del nuovo impianto, che ebbero ad osservare come questa modificazione nel collocamento non esclude che la successione mortis causa sia un modo di acquisto della proprietà. Ma esalta – al di sopra di questo arido tecnicismo giuridico – la fondamentale ragione di essere autonoma di questa branca del diritto civile, che assicura il vigore alle famiglie e la loro compattezza anche nell’interesse nazionale70. Attraverso una rivalutazione del valore “famiglia” si afferma l’egemonia, la prevalenza di principio della delazione legittima su quella testamentaria. Si tratta di una prevalenza che ha portato, ad esempio, all’inammissibilità delle disposizioni testamentarie meramente negative, come la diseredazione; all’operatività dell’obbligo di collazione anche in presenza di una delazione testamentaria. In termini più generali, la prevalenza della successione legittima si afferma in quanto preordinata alla tutela di un istituto di interesse superiore qual è la famiglia. Se ne ricava così un quadro giuridico-economico che tende a rafforzare la tendenza alla conservazione e alla trasmissione della proprietà nell’ambito della famiglia, anche a scapito della sua mobilità71.

Sappiamo che pochi anni dopo entrò in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana, il ruolo della quale, anche nel diritto delle successioni, merita di essere evidenziato.



4.1. Segue: la successione ereditaria nella Costituzione



Come è noto, l’art. 42 Cost. contiene il solenne riconoscimento del diritto di proprietà, nelle sue declinazioni di pubblica e privata. Al quarto comma, menziona la successione legittima e la successione testamentaria, sancendo che solo la legge può stabilirne norme e limiti, e che solo la legge può stabilire i diritti dello Stato sulle eredità. Si è rilevato come la riserva di legge in materia ereditaria, contenuta nella Costituzione, sia rimasta quasi sempre in secondo piano, nei commenti all’art. 42, in una posizione, per così dire, secondaria rispetto a quella occupata dalle questioni che pongono la proprietà, nei suoi aspetti pubblicistici e privatistici, i suoi modi di acquisto e l’espropriazione per motivi di interesse generale. Nello stesso tempo, si è detto che la previsione costituzionale della successione è più rilevante di quanto non emerga ad una prima lettura, se non altro, perché come ogni norma costituzionale, anche questa vive e si perfeziona nel tempo e nel contesto di principi, contenuti interpretativi, regole applicative al quale appartiene, vedendo così ridefinita, incessantemente, la sua posizione dinamica nell’ordinamento72. È un fatto, dunque, che nel momento (anzi, nello stesso momento, nella stessa sede) in cui riconosce la proprietà privata, la Costituzione riconosce espressamente la successione mortis causa quale mezzo di trasmissione della stessa: esiste una stretta correlazione, sancita all’interno della Costituzione, anzi di una stessa norma costituzionale, tra riconoscimento del diritto di proprietà e successione mortis causa. L’interprete non può, allora, sottrarsi al compito di dare evidenza e conferire significato a siffatta circostanza. Perché il legislatore costituente ha dapprima riconosciuto la proprietà privata e, a seguire, ha dichiarato la riserva di legge sulla successione legittima e testamentaria? Viene data una risposta in questi termini. Si afferma che la successione costituisce il logico corollario del riconoscimento del diritto di proprietà: una volta che si ammetta la proprietà privata, se ne deve ammettere la circolazione, anche sotto la forma della successione in favore dei privati ed anche predisponendo mezzi che ne consentano la trasmissione per il tempo successivo alla morte del proprietario. Tra successioni e proprietà esiste, quindi, un legame inscindibile, tale per cui il diritto ereditario non configura solo un modo di acquisto della proprietà ma ne è anche complemento naturale73 o, sotto altro punto di vista, può dirsi che la proprietà è il fondamento politico della successione mortis causa: si tratta di una connessione che esprime il carattere di accessorietà del diritto ereditario rispetto al diritto di proprietà74. Nella seduta antimeridiana del 13 maggio 1947, in seno all’Assemblea Costituente, il Presidente della III Sottocommissione, On. Gustavo Ghidini, si espresse in questi termini: “La menzione del diritto successorio è stata fatta per volontà e desiderio espresso di coloro che volevano che fosse messo l’accento sul diritto di proprietà privata appunto perché tale diritto trova la sua espressione più caratteristica nel diritto successorio”75. D’altronde, se non si riconoscesse la successione ereditaria in favore dei privati, occorrerebbe immaginare un sistema basato sulla sola successione dello Stato o su regole di allocazione del tutto indipendenti dalla volontà e dall’autonomia del soggetto, realizzandosi una significativa compressione del diritto di proprietà76. Invece, consentendone la circolazione in conformità della legge, anche in caso di morte del proprietario, il diritto ereditario contribuisce alla realizzazione della funzione sociale della proprietà77 e di tal guisa acquisisce una sua propria dignità costituzionale78. Naturalmente, con ciò non si vuole dire che la funzione sociale delle successioni ereditarie coincida con quella della proprietà: un siffatto legame non può essere valutato in termini assoluti ma dipende dal modo in cui l’ordinamento giuridico concepisce la proprietà79, di cui, come si è visto, il sistema successorio costituisce complemento. Così concepita, la relazione di matrice costituzionale tra proprietà e trasmissione ereditaria può dirsi non solo formale ma anche e soprattutto funzionale, e per di più inviolabile, in quanto per l’appunto di rango costituzionale, con la conseguenza per cui: se il diritto di proprietà è inviolabile come altri diritti fondamentali della persona, e la proprietà è una delle forme naturali della libertà dell’uomo, e se, d’altro canto, la successione ereditaria è una proiezione irrinunciabile di questo diritto, anch’essa fa parte integrante di quel patrimonio costituzionale che viene definito come irretrattabile, vale a dire indisponibile anche ai procedimenti di revisione della Carta fondamentale80. Ma un’altra funzione di rilevanza costituzionale è attribuita al sistema ereditario: quella di contenere i consumi entro limiti socialmente accettabili e favorire il risparmio in tutte le sue forme, in ossequio alla stessa norma costituzionale contenuta nell’art. 47, per la quale “La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”. È evidente, infatti, che consentire, ed anzi garantire, la trasmissione ereditaria della proprietà induce i privati a (o, comunque, mette i privati nella condizione di) non dissipare le proprie ricchezze, le proprie risorse, in vista di una loro trasmissione alle generazioni future, alla cui formazione partecipa, per ragioni naturali, la discendenza. La successione si atteggia così come un fattore che, insieme ad altri, incentiva il risparmio, poiché dà concretezza a questa finalità costituzionale, costituendo elemento per la costruzione di un solido sistema economico81. Ci si avvede come i Costituenti operarono, anche con riguardo a questo settore, avendo riguardo ai valori fondanti della società del tempo, che avrebbero concorso a costruire la società del futuro.

Scelsero di riconoscere e garantire la proprietà privata e, nello stesso tempo, di riconoscere e garantire la sua trasmissione per via ereditaria. Le esigenze della solidarietà familiare, già considerate nel sistema della successione legittima, vennero valorizzate mediante il richiamo a quest’ultima e sancendo la riserva di legge. Una riserva che, proprio in considerazione del fatto che il riconoscimento della successione mortis causa si poggia su valori fondamentali della società, non può considerarsi del tutto libera. Il legislatore che legiferi in materia successoria incontra un forte limite rappresentato dai valori fondamentali sanciti dalla Costituzione, tra i quali, per quanto qui rileva, il solidarismo familiare, anche nella sua declinazione del principio di contribuzione, da considerarsi canone fondamentale del diritto ereditario, poiché vige sia quando il familiare è in vita, sia per il tempo successivo alla sua morte82. La trasmissione ereditaria non può essere disciplinata in modo arbitrario bensì secondo modalità che tengano conto degli assetti dei due paradigmi principali su cui essa si regge: la proprietà e la famiglia. La prima considerata anche nell’ottica della funzione sociale che la Costituzione le attribuisce; la seconda considerata nella dimensione del solidarismo familiare, che costituisce un limite all’autonomia dei privati, anche sotto l’aspetto del disporre delle proprie sostanze per il tempo successivo alla propria morte83.



5. I riflessi della funzione sociale del diritto ereditario sul divieto del patto successorio



Poste le doverose premesse, occorre a questo punto chiedersi se la prospettata funzione sociale del diritto delle successioni eserciti una qualche influenza sulla disciplina dei patti successori e quindi sulla norma che ne vieta la stipulazione. I valori di cui partecipa, e che in concreto realizza, il sistema successorio sono in qualche modo tenuti in considerazione dal divieto di cui all’art. 458 c.c.? O, da altro punto vista, i patti successori, ove se ne stabilisse la validità, sarebbero compatibili col sistema successorio e l’insieme dei valori di cui esso è intriso? Si tenta un ragionamento ricostruttivo. Si è visto che il legislatore che legiferi in campo ereditario non è del tutto libero nel regolamentare la materia: deve tener conto dei due paradigmi sulla base dei quali essa è concepita, e cioè la proprietà e la famiglia. La proprietà assolve anche ad una funzione sociale che, evidentemente, può comprimere l’autonomia dei privati. La considerazione della famiglia impone di tenere conto del solidarismo familiare, che parimenti può costituire limite all’autonomia privata. Il Costituente, nel momento in cui ha riconosciuto le successioni mortis causa, ha fatto espresso riferimento, non alla successione tout court, bensì a quella legittima – le cui regole di allocazione sono previste dalla legge – e a quella testamentaria – concretizzando, così, il riconoscimento dell’autonomia privata. Non ha, invece, fatto alcun riferimento alla successione tramite contratto: né può dirsi che la norma contenga un riferimento implicito alla successione contrattuale, in quanto, come detto, essa non richiama le successioni mortis causa in genere bensì solo quella legittima e quella per testamento. Ora, se vale quanto detto prima, può ipotizzarsi che, nel momento in cui il legislatore costituente ha inteso riconoscere la proprietà, attribuendole però anche una funzione sociale, abbia, nello stesso tempo, indicato quali siano i mezzi attraverso i quali una siffatta funzione si realizzi al meglio, con esclusione, evidentemente, degli altri. Vale a dire: se la Costituzione avesse inteso mettere sullo stesso piano tutte le possibili forme di trasmissione mortis causa, tra le quali il contratto, avrebbe fatto un richiamo più generico alle successioni, oppure avrebbe espressamente richiamato anche quella che trova fonte nel contratto stesso. Ma ciò non è avvenuto: il richiamo ha avuto luogo solo per quella legittima e per quella testamentaria, con ciò ritenendo, si ipotizza, che siffatte specie di successione, e solo esse, siano idonee a far sì che la successione mortis causa assolva al suo duplice ruolo di contribuire alla realizzazione della funzione sociale della proprietà e di realizzare il solidarismo familiare. In questa materia, il contratto è del tutto estraneo all’impianto costruito dalla Costituzione e un siffatto vuoto potrebbero avere un significato. Potrebbe avere il significato di disconoscere qualsiasi ruolo del contratto nella materia successoria: il contratto, le logiche sottese alla sua disciplina, partecipano e si fanno portatori di valori diversi, certamente fondamentali per il nostro ordinamento ma non idonei a contribuire alla funzione sociale del diritto ereditario. Qui si tratta di qualcosa di diverso dal giudizio di adattamento e, nello stesso tempo, di più ampio: si tratta di realizzare che le uniche due forme che il Costituente ha individuato, per la realizzazione mediata della funzione sociale della proprietà e per la tutela mediata del solidarismo familiare, sono la legge e il testamento. Questa potrebbe essere la ratio del richiamo a queste sole due forme di successione e della riserva di legge posta nella stessa disposizione. Né può dirsi, con sicurezza, che una siffatta scelta sia irragionevole o non abbia una sua logica. Già si è vista la difficoltà di coordinare o adattare la materia contrattuale a quella testamentaria. Il sistema contrattuale partecipa di una logica di scambio, che impone la considerazione della sfera patrimoniale di tutte le sue parti, non solo di chi trasferisce; per cui le sue regole sono volte, da un lato, a favorire la circolazione della ricchezza, dall’altro a tutelare gli interessi delle parti, ma il tutto in un’ottica, come detto, di scambio; mentre rimane estraneo alla sua logica il valore della conservazione del patrimonio in favore delle generazioni future e la logica del risparmio, che abbiamo visto avere dignità costituzionale. Tali ragioni potrebbero essere idonee ad escludere, o per lo meno a far dubitare, che nel nostro ordinamento possa essere introdotta una successione mortis causa di natura contrattuale; dunque, potrebbero essere idonee a far ritenere estranei al sistema i patti successori istitutivi.

NOTE

1 Per i precedenti tentativi di riforma da parte del legislatore e le proposte ad esso avanzate nel corso degli ultimi vent’anni, si veda: V. CianCiolo, Il diritto ereditario e le prospettive di riforma sul divieto dei patti successori, in Diritto24, https:// www.diritto24.ilsole24ore.com, del 27 giugno 2019, 4 (consultato il 31 luglio 2019).

2 v. CianCiolo, op. loc. cit.

3 v. roPPo, Per una riforma del divieto dei patti successori, in Riv. dir. priv., 1997, 7. Altre approfondite motivazioni e correlate indicazioni bibliografiche si leggono in: G. ZanChi, Percorsi del diritto ereditario attuale e prospettive di riforma del diritto ereditario, reperibile sul sito www.juscivile.it, 2013, 10 (consultato il 31 luglio 2019).

4 Per gli approfondimenti del caso non può che farsi rinvio alla bibliografia citata nel testo.

5 Sinteticamente sul punto: G. CaPoZZi, Successioni e donazioni, I, 2015, 39 ss.

6 Il riferimento è a A. CiCu, Le successioni. Parte generale. Successione legittima e dei legittimari. Testamento, Milano, 1947 ed a C. GiannaTTaSio, Delle successioni. Disposizioni generali. Successioni legittime, in Commentario del codice civile, a cura di magistrati e docenti, Torino, 1959.

7 v. BarBa, I patti successori e il divieto di disposizione della delazione. Tra storia e funzioni, Napoli, 2015, 32 ss.

8 Dedica ampio spazio all’analisi della giurisprudenza in materia: V. BarBa, op. cit., 32-53.

9 10 11 12

a. CiCu, op. cit., 295.

C. GiannaTTaSio, op. cit., 20.

v. BarBa, op. cit., 34, nota 44.

v. BarBa, op. cit., 52. Ed invero, come si vedrà nel paragrafo che segue, la

dottrina prevalente e successiva suole adottare questa argomentazione proprio per spiegare il fondamento del divieto dei soli patti successori istitutivi.

13 Relazione alla Maestà del Re Imperatore del Ministro Guardasigilli (Grandi) presentata all’udienza del 16 marzo 1942-XX per l’approvazione del testo del codice civile, Libro II, Delle successioni, reperibile sul sito del Consiglio Nazionale Forense, sezione Collana Studi storici e giuridici: https://www.consiglionazionaleforense.it (consultato il 31 luglio 2019).

14 l. Coviello Jr., Diritto successorio, Bari, 1962, 246. Si suole affermare, in realtà in maniera tralatizia, che analogo principio si troverebbe espresso in: Cass. civ., sez. II, 14 luglio 1983, n. 4827, in Mass. Giust. Civ., 1983, fasc. 7; ma, mette conto rilevare che, nel caso sottoposto all’esame dei giudici, si discuteva della possibilità di convertire, ex art. 1424 c.c., un patto successorio istitutivo in un testamento valido. La cassazione negò questa possibilità, richiamando, tra l’altro, proprio il principio di tipicità della delazione ereditaria: la massima che ne è scaturita, dunque, si è formata in riferimento ad un patto successorio (solo) istitutivo, con discutibile estensibilità del ragionamento sul fondamento del divieto anche alle altre due forme di patto successorio.

15 C. CaCCavale, Il divieto dei patti successori, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da P. reSCiGno e coordinato da M. ieva, 2a ed., Padova, 2010, 37, 38.

16 C. CaCCavale, op. ult. cit., 38.

17 G. GroSSo, a. BurdeSe, Le successioni. Parte generale, in Trattato di diritto

civile italiano, diretto da F. vaSSalli, XII, 1, Torino, 1977, 93. Nello stesso senso, come si è visto in precedenza alla nota 14: Cass. civ., sez. II, 14 luglio 1983, n. 4827, in Mass. Giust. Civ., 1983, fasc. 7.

18 Sul punto però ancora critico è C. CaCCavale, op. loc. ult. cit., il quale evidenzia come, in realtà, il limite della tipicità sia già contenuto nell’art. 457 c.c., di cui l’art. 458 costituisce semmai applicazione. Tipicità e divieto, si dice, sono due facce dello stesso fenomeno: la compressione dell’autonomia negoziale. Dunque, affermare che l’ordinamento ha vietato i patti istitutivi in quanto intende circoscrivere la delazione alla legge e al testamento, non rappresenta una spiegazione del divieto stesso e non fornisce ancora risposta alla domanda che ne indaga le ragioni.

19 Adotta l’argomento riferendolo ai soli patti dispositivi: G. GiaMPiCColo, voce Atto mortis causa, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 233.

20 Adotta l’argomento riferendolo sia ai patti dispositivi che a quelli rinunciativi, questi ultimi considerati un sottotipo dei primi: l. Ferri, Disposizioni generali sulle successioni (Art. 456-511), in Comm. cod. civ. Scialoja-Branca, 3a ed., Bologna-Roma, 1997, 104 e 106. Sembra non fare alcuna distinzione tra patti successori: A. liSerre, L’apertura della successione, la delazione e l’acquisto dell’eredità, in Trattato di diritto privato, diretto da P. reSCiGno, Successioni, I, 5, 1997, 41 (ove l’autore però parla di teoria riferibile alla tradizione e non sembra manifestare, in merito, opinioni contrarie o favorevoli).

21 C. CaCCavale, op. ult. cit., 39; R. lenZi, Il problema dei patti successori tra diritto vigente e prospettive di riforma, in Riv. not., 1988, 1216.

22 Esempi menzionati dagli autori di cui alla nota precedente.

23 In tal senso, ad esempio: C. CaCCavale, op. cit., 40 ss.; D. aChille, Il divieto dei patti successori. Contributo allo studio dell’autonomia privata nella successione futura, Napoli, 2012, 53.

24 In un contesto di rassegna ed analisi dei principi generali del diritto civile nel nostro ordinamento, si veda: P. STanZione, B. TroiSi, Principi generali del diritto civile, Torino, 2011, 108.

25 Ma la tesi non è pacifica. In tal senso: G. Bonilini, Autonomia testamentaria e legati. I legati così detti atipici, Milano, 1990, 64 ss.; id., Il testamento. Lineamenti, Padova, 1995, 10 ss.; id., Il negozio testamentario, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, Milano, 2009, 9 ss. Nel senso, invece, che anche il testamento incontri il limite della meritevolezza degli interessi perseguiti, tra gli altri e più di recente: C.M. BianCa, Diritto civile, II, 2, Le successioni, 5a ed., 2015, Milano, 255.

26 G. Bonilini, Il negozio testamentario, cit., 16.

27 E, riteniamo, con siffatta libertà, anche a garantire la tendenziale sponta-

neità del volere, intesa come genuinità della volontà del testatore, scevra da condizionamenti esterni. A noi pare, cioè, che la spontaneità del volere sia l’aspetto soggettivo (interiore) della libertà che si intende garantire, e le regole preordinate alla sua tutela siano l’aspetto, per così dire, regolamentare. Sembra però trattare la spontaneità come aspetto distinto, e di per sé rilevante, rispetto alla revocabilità: C. CaCCavale, op. cit., 43 ss., ove l’autore afferma che il valore perseguito dal legislatore non può essere quello di realizzare la perfetta spontaneità della volontà del testatore, posto che, in ogni momento e in ogni circostanza, la volontà di ciascun individuo è inevitabilmente condizionata da fattori, oggettivi e soggettivi, esterni. Una cosa, però, è parlare di perfetta spontaneità del volere, di certo umanamente non realizzabile, altra è discorrere di tendenziale spontaneità, di certo perseguibile, e di tutela della stessa attraverso gli strumenti che il legislatore ritenga idonei allo scopo.

28 C.M. BianCa, op. cit., 31; C. CeCere, Patto successorio, in Dig. disc. priv. Sez. civ., agg. 2003, t. II, Torino, 2003; C. GanGi, La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, vol. I, 2a ed., Milano, 1964, 40; G. GroSSo, a. BurdeSe, op. cit., 93; F. MeSSineo, Manuale di diritto civile e commerciale, VI, Diritto delle successioni per causa di morte, 9a ed., Milano, 1962, 104; l. Ferri, op. cit., 101, quest’ultimo autore parla di fondamento politico della norma, il quale sarebbe idoneo a spiegare anche per quale ragione negli Stati (come la Germania) in cui il testamento è meno antico come istituto, il patto istitutivo sia riconosciuto ed espressamente disciplinato: ivi sarebbe meno sentita la necessità di tutelare la libertà di disporre del testatore. In giurisprudenza, in motivazione, contengono riferimenti all’intangibilità della libertà di revoca del disponente: Cass. civ., sez. II, 17 agosto 1990, n. 8335, in Giust. civ., 1991, I, 953, Cass. civ., sez. III, 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, 1163.

29 C.M. BianCa, op. loc. ult. cit., il quale, da siffatti rilievi, fa discendere l’estensione del divieto a tutti i negozi attraverso i quali taluno disponga, positivamente o negativamente, della propria successione in favore o contro un determinato successibile o una categoria di successibili. Si fa l’esempio (ivi, nota 5) di una proposta irrevocabile di contratto che produca effetti dopo la morte del proponente (che si risolverebbe in un legato di opzione) o ancora di cambiali azionabili dopo la morte dell’emittente.

30 In tal senso: G. GroSSo, a. BurdeSe, op. cit., 94.

31 C. CaCCavale, op. cit., 42, 43, ove l’autore rileva altresì che, mantenendo ferma la premessa che vede nella tutela della volontà del disponente il fondamento del divieto in parola, si potrebbe arrivare alla logica (ma inaccettabile) conclusione di ritenere valido un siffatto patto che dovesse prevedere, per l’appunto, il diritto del disponente di recedere dal rapporto; mentre il patto è invece irrimediabilmente invalido per la previsione della nullità testuale di cui all’art. 458 c.c.

32 F. MaGliulo, Il divieto del patto successorio istitutivo nella pratica negoziale, in Riv. not., 1992, 1418.

33 r. lenZi, op. cit., 1222.

34 S. landini, L’opzione nella vicenda successoria, in Riv. dir. civ., 2004, 6, 835 ss. e soprattutto 847, 848. Riprende analoghe considerazioni: D. aChille, op. cit., 83.

35 Logica di cui occorrerebbe tener conto anche nell’esercizio del diritto di recesso, non consentito in violazione, ad esempio, dei principi di buona fede e correttezza: come evidenzia ancora D. aChille, op. loc. ult. cit., il quale cita, in modo pertinente, la sentenza sul noto caso Renault, che ha rappresentato una tappa importante nella teorica dell’abuso del diritto: Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, in Resp. civ. e prev., 2010, 2, 345.

36 S. landini, op. cit., 848; D. aChille, op. cit., 84.

37 Così conclude S. landini, op. cit., 848 (ed ivi le precisazioni alla nota 36),

la quale, dunque, ritiene che siano colpiti dal divieto quegli atti inter vivos (tra i quali si fa rientrare il patto di opzione post mortem) che abbiano per oggetto situazioni giuridiche soggettive riferibili alla sfera del disponente e che siano volti a produrre effetti in un momento successivo alla sua morte.

38 C. CaCCavale, op. cit., 46 ss.

39 Ivi, 46.

40 Si vedano le considerazioni dell’autore testé citato, riportate alla nota 27.

41 Ivi, 47, 48.

Ivi, 47.

43 Sullo specifico argomento, autorevolmente: C. GraSSeTTi, Interpretazio-

ne dei negozi giuridici mortis causa (diritto civile), in Noviss. dig. it., VIII, Torino, 1962, 907; P. reSCiGno, Interpretazione del testamento, Napoli, 1952, in particolare 44 ss. In giurisprudenza, da ultimo: Cass. civ., sez. II, 31 maggio 2018, n. 13868, in Riv. not., 2018, 6, II, 1216.

44 C. CaCCavale, op. cit., 48.

45 In quest’ordine di idee: l. Ferri, op. cit., 104, il quale afferma come que-

sto diverso fondamento politico spieghi anche per quale ragione la nullità dei

patti dispositivi sia prevista anche in ordinamenti, come quello tedesco, che am-

mettono, invece, il patto istitutivo o l’istituzione contrattuale (per un confronto

comparatistico attuale si veda, come già accennato: V. CianCiolo, op. cit., 3).

46 C.M. BianCa, op. cit., 33.

47 d. aChille, op. cit., 144, 145.

48 La regola si deve, come è noto, a Cass. civ., sez. unite, 15 marzo 2016, n. 5068, in Riv. not., 2016, 3, 521.

49 d. aChille, op. loc. ult. cit., 145; C. CaCCavale, op. cit., 51.

50 C. CaCCavale, op. cit., 52.

51 C.M. BianCa, op. cit., 33; C. CaCCavale, op. cit., 53.

52 C. CaCCavale, op. cit., 53, ed ivi, a seguire, i corollari che l’autore ne ricava

in ordine all’ambito di applicazione del divieto. 53 d. aChille, op. cit., 146.

54 Ibidem.

55 Così conclude D. aChille, op. cit., 147. C. CaCCavale, op. cit., 55.

56 C. CaCCavale, ibidem.

57 C. CaCCavale, ivi, 56.

58 d. aChille, op. cit., 164-168.

60 d. aChille, op. cit., 168, ove l’autore per sostenere l’inammissibilità degli atti di rinuncia ai diritti futuri fa anche riferimento alla mancanza, in essi, di una valida causa negoziale.

61 P. PerlinGieri, La funzione sociale del diritto successorio, in Rass. dir. civ., 2009, 1, 131, ove ci si spinge a dire che un siffatto “sforzo ricostruttivo deve, nondimeno, essere compiuto, se si vuole addivenire alla risoluzione dei molti problemi pratici che le recenti e macroscopiche trasformazioni intervenute nel contesto sociale ed economico [...] sollevano continuamente”.

62 Sul punto si veda, per tutti, G. Bonilini, Concetto e fondamento della successione mortis causa, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, Milano, 2009, 3 ss.

63 G. Bonilini, op. ult. cit., 31.

64 In ordine alle possibili soluzioni astratte che si presentano al legislatore che si trovi a configurare le regole del diritto ereditario, si veda: G. GroSSo, a. BurdeSe, op. cit., 3 ss.

65 Si è autorevolmente rilevato come il sistema successorio sia, da un lato, legato alla naturalità della vita umana, poiché ha come suo presupposto la fine della vita della persona, e dall’altro si risolva in un prodotto della politica legislativa: a. FalZea, Relazione introduttiva, in Tradizione e modernità del diritto successorio dagli istituti classici al patto di famiglia, a cura di S. delle MonaChe, Padova, 2007, 5.

66 Sul punto si leggano le preziose ricostruzioni di: A. liSerre, Evoluzione storica e rilievo costituzionale del diritto ereditario, in Trattato di diritto privato, diretto da P. reSCiGno, Successioni, I, 5, Torino, 1997, 7-32; G. PanZa, F. PanZa, Successioni in generale tra codice civile e costituzione, in Trattato di diritto civile del Consiglio Nazionale del Notariato, diretto da P. PerlinGieri, VIII, 2, Napoli, 1-20.

67 G. Solari, Individualismo e diritto privato, Torino, 1959, 183; sul punto anche G. PanZa, F. PanZa, op. cit., 5.

68 G. Bonilini, op. ult. cit., 38.

69 a. liSerre, op. ult. cit., 17; G. PanZa, F. PanZa, op. cit., 6.

70 l. BaraSSi, Le successioni per causa di morte, Milano, 1947, 3.

71 G. PanZa, F. PanZa, op. cit., 8, 9.

72 a. d’aloia, La successione mortis causa nella Costituzione, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni, diretto da G. Bonilini, Milano, 2009, 43, 44.

73 a. d’aloia, op. cit., 44.

74 l. MenGoni, Successioni per causa di morte. Successione legittima, in Trattato

di diritto civile e commerciale già diretto da CiCu-Messineo, continuato da Mengoni, 2a ed., Milano, 1999, 11.

75 Reperibile sul sito: www.dellarepubblica.it>lacostituzione>assemblea costituente, consultato il 31 luglio 2019.

76 d’aloia, op. cit., 44.

77 G. PanZa, F. PanZa, op. cit., 13.

78 In questi termini: A. d’aloia, op. cit., 45.

79 P. PerlinGieri, op. cit., 134.

80 a. d’aloia, op. cit., 45.

81 a. d’aloia, op. cit., 45; A. liSerre, op. cit., 24; G. Bonilini, op. ult. cit., 33.

82 P. PerlinGieri, op. cit., 132.

83 a. d’aloia, op. loc. ult. cit. Doveroso segnalare che, secondo autorevole

voce, non sarebbe possibile concepire alcuna funzione sociale, in senso costituzionale, del diritto ereditario, ed il richiamo alle successioni operato dall’art. 42 Cost. avrebbe l’unica valenza di sancire il prelievo fiscale dello Stato sulle eredità: P. reSCiGno, La successione a titolo particolare e universale, in Trattato breve delle successioni e donazioni, diretto da P. reSCiGno e coordinato da M. ieva, 2a ed., Padova, 2010, 5. Per una critica a tale tesi: P. PerlinGieri, op. cit., 133 ss.



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Indice della giurisprudenza di legittimità

Cass. civ., sez. II, 14 luglio 1983, n. 4827

Cass. civ., sez. III, 11 novembre 1988, n. 6083 Cass. civ., sez. II, 17 agosto 1990, n. 8335 Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106 Cass. civ., sez. unite, 15 marzo 2016, n. 5068 Cass. civ., sez. II, 31 maggio 2018, n. 13868