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Il processo brevior alla prova della delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità nell’ordinamento giuridico italiano: una “rondine fa primavera”? (nota a App. Lecce, 11 novembre 2018)

autore: P. Stefanì

1. Il 15 agosto del 2015 è stato approvato da Papa Francesco il Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, entrato in vigore il successivo 8 settembre dello stesso anno. Si tratta di un atto legislativo di riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio. Oltre ad alcune modifiche di carattere sostanziale del processo ordinario, una delle novità rilevanti contenute nel Motu Proprio è l’istituzione del cosiddetto processus brevior, disciplinato dal canone 1683 al canone 1687 del riformato codice di diritto canonico e dalle disposizioni contenute nelle Regole procedurali per la trattazione delle cause di nullità matrimoniale, dall’articolo 14 all’articolo 20. L’esigenza di rendere più snella la procedura di dichiarazione di nullità del matrimonio, che muove dalla preoccupazione della salvezza delle anime, che “oggi come ieri – si legge nel proemio introduttivo all’articolato normativo – rimane il fine supremo delle istituzioni, delle leggi, del diritto” della Chiesa cattolica, è alla base del progetto di riforma, che accoglie le indicazioni già contenute nella relazione finale del Sinodo straordinario dei Vescovi dell’ottobre del 2014, che aveva sollecitato processi più rapidi e accessibili. Dunque, il fine vero del progetto di riforma dei processi canonici è quello, scrive il Pontefice, di favorire “non la nullità dei matrimoni, ma la celerità dei processi, non meno che una giusta semplicità, affinché, a motivo della ritardata definizione del giudizio, il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio”. L’esigenza di rendere celeri e snelle le procedure di nullità non intacca in alcun modo il carattere giudiziale delle stesse. Ed è questo un aspetto importante del tema che tratteremo nel presente contributo, poiché, come è noto, la delibazione delle nullità matrimoniali canoniche nell’ordinamento dello Stato italiano, disciplinata dalla legge 121 del 1985, esecutiva dell’Accordo di Villa Madama del 1984 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, si fonda proprio sul carattere giurisdizionale e non amministrativo dei procedimenti dichiarativi delle nullità. A tal proposito, nel proemio introduttivo al Motu Proprio il Pontefice chiarisce che l’impianto “segue le orme dei miei Predecessori, i quali hanno voluto che le cause di nullità del matrimonio vengano trattate per via giudiziale, e non amministrativa, non perché lo imponga la natura della cosa, ma piuttosto lo esiga la necessità di tutelare al massimo grado la verità del sacro vincolo: e ciò è esattamente assicurato dalle garanzie dell’ordine giudiziario”. Come è stato giustamente osservato, il fine del Motu Proprio Mitis Iudex Dominus Iesus è quello di “congiungere la cura pastorale con l’azione giudiziaria, entrambe prospettate come azioni della Chiesa, ontologicamente distinte ma ecclesialmente collegate”1 .



2. La sentenza della Corte di Appello di Lecce, n. 7 del novembre del 2018, che risulta essere la prima decisione di una Corte di Appello che riconosce gli effetti civili di una sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità di matrimonio assunta con il processo “breve”, sarà analizzata attraverso le novità normative, sia pur assunte per sommi capi per esigenze legate al presente contributo, della disciplina del processus brevior. L’analisi delle disposizioni normative che regolano il nuovo processo all’interno del diritto processuale canonico, letta attraverso la decisione del giudice salentino, ci consentirà di mettere in luce gli aspetti che parte autorevole della dottrina canonistica2 ed ecclesiasticistica3 hanno considerato critici proprio in riferimento alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche disciplinata dal Concordato tra lo Stato e la Chiesa. In realtà, i dubbi e le perplessità avanzate dalla dottrina non paiono trovare alcun riscontro nella decisione della Corte di Appello di Lecce oggetto delle presenti considerazioni, la quale, anzi, mostra di trattare la delibazione della sentenza del Tribunale Ecclesiastico della Diocesi di Nardò-Gallipoli alla stregua di una “normale” decisione circa l’exequatur di sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio canonico. Peraltro, nella sentenza non è fatto alcun riferimento al processus brevior. La Corte di Appello, accertata la propria competenza in ragione del luogo della trascrizione del matrimonio canonico, prende in esame i principi concordatari che sono posti a presidio della delibazione delle sentenze ecclesiastiche. Innanzitutto, verifica la competenza del giudice ecclesiastico che ha pronunciato la sentenza e qui incontriamo la prima rilevante novità del processus brevior. Il Giudice competente non è il Tribunale Ecclesiastico Regionale, ma il Vescovo diocesano, secondo il can. 1683. Con il Motu Proprio Qua Cura, dell’8 dicembre 1938, erano stati istituiti per il solo territorio italiano, a motivo del rilevante numero di diocesi e, dunque, al fine di garantire l’uniformità della giurisdizione sulla disciplina delle nullità matrimoniali, i Tribunali Ecclesiastici Regionali con competenza esclusiva in materia di dichiarazione di nullità del matrimonio. Lo spostamento della competenza dal Tribunale Regionale a quello del Vescovo diocesano, che secondo il diritto canonico è comunque titolare della funzione giudiziaria all’interno della diocesi, ha fatto pensare ad un possibile vulnus della norma concordataria, in ragione della regola rebus sic stantibus posta a fondamento dei Trattati internazionali. Il riferimento ai Tribunali Ecclesiastici competenti al momento della stipula dell’Accordo di Villa Madama del 1984 dovrebbe essere inteso esclusivamente rivolto ai Tribunali Ecclesiastici Regionali, competenti al momento della stipulazione dell’Accordo di Villa Madama4 . Questa obiezione non pare possa essere condivisibile, sia perché il rinvio che la norma fa ai Tribunali Ecclesiastici non può non essere inteso alla stregua di un rinvio mobile, sia perché la materia è comunque soggetta al disposto costituzionale di cui all’articolo 7 I comma della Costituzione repubblicana del 1948, per il quale lo Stato e la Chiesa sono nel rispettivo ordine indipendenti e sovrani. Il rispetto dell’autonomia della Chiesa nel suo ordine non può non essere posto a tutela della disciplina della competenza del Vescovo sulla materia della validità dei sacramenti, qual è il matrimonio, posto che i sacramenti sono elementi fondamentali della “materia spirituale”, che è fondamento dell’ordine della Chiesa quale istituzione religiosa. La competenza del Vescovo in materia di validità del matrimonio sacramento non può, in sintesi, non rientrare in quella “specificità del diritto canonico”, che è principio fondamentale della materia dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa in tema di delibazione delle sentenze ecclesiastiche.



3. Altro aspetto fondamentale è la tutela del diritto alla difesa, del diritto al contraddittorio, del diritto al giusto processo, dell’ordine pubblico processuale, che si sostanzia nella disciplina della delibazione delle sentenze ecclesiastiche nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento italiano, cioè degli “elementi essenziali del diritto di agire e resistere in giudizio nell’ambito dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale […] che risultano rispettati quando risulti che le parti abbiano avuto la garanzia sufficiente per provvedere alla propria difesa”, secondo il costante indirizzo ormai della giurisprudenza costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione italiana. Scrive il Giudice di Appello a tale proposito che nella “fattispecie, inoltre, è pacifico che entrambe le parti abbiano partecipato regolarmente al giudizio; che la causa sia stata decisa con accoglimento della domanda di nullità del matrimonio per esclusione dell’indissolubilità e della prole della donna; che sia stata notificata la sentenza di primo grado con l’avvertenza di proporre appello nei termini previsti dalla legge canonica”. In questo passaggio sarebbero soddisfatti i dubbi dottrinali sollevati in riferimento al processus brevior. Si è sostenuto, infatti, che la necessità che il processo “più breve” prevedesse l’accordo tra le parti ledesse il principio del contraddittorio e il combinato disposto di cui agli artt. 8.2 della legge 121 del 1985 e dell’articolo 797 del c.p.c., oltre che facesse apparire la sentenza del Vescovo diocesano come un atto amministrativo, che si trattasse cioè di un atto formalmente giudiziario ma sostanzialmente amministrativo5 . In realtà, però, non solo la Corte di Appello di Lecce non pare seguire queste tesi, ma, è stato sottolineato, che comunque il contraddittorio tra le parti sarebbe garantito nella disciplina del processo “breve” dalla presenza obbligatoria e quale parte processuale del Difensore del Vincolo6 . Il Giudice in commento non mostra alcuna perplessità anche in riferimento ai dubbi circa la disposizione di cui al paragrafo 4 del can. 1687, relativa al rigetto dell’Appello che “evidentemente appare meramente dilatorio”. Una disposizione normativa che è apparsa eccessivamente generica e aperta ad ipotesi di eccesso di discrezionalità del Giudice ecclesiastico. I capi di nullità sono quelli classici della simulazione del consenso matrimoniale, riferiti all’esclusione della proprietà dell’indissolubilità e del fine della procreazione della prole, che non pone alcun problema all’ordine pubblico italiano “poiché la causa ivi ritenuta sussistente si atteggia in modo non dissimile dall’ipotesi della simulazione prevista dall’art. 123 c.c. […] non viene neppure in discussione, in particolare, la violazione dell’inderogabile principio di ordine pubblico della tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole, perché tale principio, ancorché inderogabile, si ricollega ad un valore individuale che appartiene alla sfera di disponibilità del soggetto ed è quindi rivolto a tutelare detto valore contro gli ingiusti attacchi esterni, non contro la volontà del suo titolare”. È, dunque, evidente che in un procedimento volto a riconoscere l’efficacia in Italia di un procedimento canonico che sorge con la necessaria condivisione, o accordo, dei due soggetti sarà molto difficile che uno di essi in sede di delibazione eserciti il diritto alla tutela dell’affidamento incolpevole e della buona fede.

NOTE

1 G. DaMMaCCo, L’indagine pregiudiziale e la preparazione al matrimonio, in AA.VV., Il nuovo

processo matrimoniale canonico. Una guida tra diritto e cura pastorale, Bari, 2018, 79.

2 G. boni, L’efficacia civile delle sentenze canoniche di nullità matrimoniale dopo il Motu Proprio

Mitis iudex (parte prima), in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica

(www.statoechiese.it), 2017, 2, 70 ss. Della stessa autrice, cfr. G. boni, L’efficaci civile delle

sentenze canoniche di nullità matrimoniale dopo il Motu Proprio Mitis iudex (parte seconda), in

ibidem, 69.

3 N. Colaianni, Il giusto processo di delibazione e le “nuove” sentenze ecclesiastiche di nullità

matrimoniale, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale. Rivista telematica

(www.statoechiese.it), 2015, 39, 29; M. ferrante, Riforma del processo matrimoniale e

delibazione, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 2016, 2, 313 ss.; A. fuCCillo, R. Santoro,

L’introduzione del processo matrimoniale canonico più breve e l’efficacia delle sentenze

pronunciate dai Vescovi diocesani, in A. fuCCillo, R. Santoro (a cura di), Diritto, religioni, culture. Il

fattore religioso nell’esperienza giuridica, Torino, 2017, 327 ss.; A. MaDera, Forme di pluralismo

nel settore matrimoniale: le nuove sfide delle “overlapping jurisdictions”, in Stato, Chiese e

pluralismo confessionale. Rivista telematica (www.statoechiese. it), 2017, 31, 37.

4 Colaianni, op. cit., 22.

5 Ibidem.

6 G. boni, op. cit., 2 ss.; boni, ferrante, op. cit., 329.