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Vincoli potestativi, libertà matrimoniale e responsabilità nel fidanzamento romano

autore: L. Ingallina

Sommario: 1. Sponsalia: il fidanzamento romano. - 2. Il rapporto tra fidanzamento e il matrimonio. - 3. La na-tura del vincolo di fidanzamento. - 4. Fidanzamento e libertà. - 5. Promettere il fatto di un terzo.



Uno dei temi in oggi maggiormente discussi in ambito di diritto di famiglia riguarda la tutela della libertà personale nell’ambito dei rapporti familiari. Fenomeni di compressione della personalità entro i contesti coniugali o, comunque, relazionali-affettivi sono all’ordine del giorno e vengono declinati nei più disparati comportamenti. La prevaricazione da parte di un componente all’interno di un nucleo di persone legate da vincoli familiari costituisce chiara manifestazione di condotta idonea a configurare un illecito che, a seconda dei casi, può assurgere a fattispecie di rilevanza penale e ad illecito di natura endo-familiare. La visione storicamente consapevole dell’evoluzione del diritto di famiglia fornisce sovente preziosi spunti di valutazione e, prima ancora, di riflessione, garantendo all’interprete del diritto vigente una maggiore sensibilità sociale ed esegetica; in particolare, l’analisi del modello romanistico consente di apprezzare in prospettiva diacronica la capacità di un ordinamento di rispondere – più o meno sensibilmente – alla struttura della conformazione sociale di riferimento. Diversi assetti culturali richiedono differenti schemi legali, suscettibili non tanto di giudizi di valore, ma spesso solo di valutazioni di adeguatezza tecnico-giuridica. Dal passato è spesso possibile ricavare informazioni sulla capacità dell’ordinamento di ricalcare un modello giuridico su quello storico-sociale di riferimento, assecondandone le istanze, in continuo divenire.



1. Sponsalia: il fidanzamento romano



Si tratta anche in questo caso di un istituto rilevante e peculiare del diritto di famiglia romano, soggetto a mutare la propria funzione, la propria struttura e la propria disciplina entro un arco temporale che occupa tredici secoli di esperienza giuridica. La sua pregnanza è dimostrata dalla costante attenzione da parte dei giuristi romani, nonché dalla dottrina romanista che, da sempre, ne studia gli aspetti e l’evoluzione1.

Di solito precede la costituzione di un nuovo nucleo familiare, configurando quindi un rapporto che antecede al matrimonio, al quale è generalmente preordinato; con gli sponsalia, non ci si impegna solo a costituire e a mantenere un rapporto di fidanzamento, ma si promette il matrimonio futuro; l’istituto infatti si concretizza in una promessa di nuptiae futurae che, in epoca antica, sino al I secolo a.C., si pone in essere attraverso una sponsio2 formale, nella maggior parte dei casi sorretta e ga rantita da una ulteriore stipulazione ‘penale’, che prevede il pagamento di una somma di denaro per il caso in cui la sponsio ‘di fidanzamento’ – la promessa di matrimonio – venga disattesa. In età classica, quando non sarà più possibile richiedere un risarcimento3 per l’inadempimento della sponsio preordinata al matrimonio, il fidanzamento non si contrarrà più mediante questa promessa solenne rivolta al promissario alla presenza di testimoni; in quanto, in questa forma, l’istituto cadrà infatti in desuetudine e verrà sostituito da un impegno giuridicamente informale e privo di cogenza, in piena libertà e senza obbligo di adempimento di celebrazione delle nuptiae. In età classica dunque, se l’‘atto’ sarà privo di requisiti di forma ad substantiam, il ‘rapporto’ che ne deriva sarà tuttavia produttivo di significative conseguenze giuridiche in ambito civile e penale. ‘Fidanzarsi’ in epoca classica costituisce dunque un atto libero ma consapevole, che comporta comunque un’assunzione di responsabilità etica, sociale e giuridica. Solo dopo il IV secolo d.C. il fidanzamento assumerà una connotazione che si avvicina al negozio contrattuale: lo sponsus4 , al momento dell’assunzione dell’impegno, verserà alla donna una caparra, detta arrha sponsalicia, che perderà nel caso di inadempimento alla promessa matrimoniale. Qualora invece il matrimonio non avvenga per motivi imputabili alla donna, questa dovrà restituire il quadruplo della somma e, solo col tempo, il doppio della caparra5 . Il fidanzamento antico conferma dunque l’impronta ontologicamente patriarcale della famiglia romana; il pater esercita il suo potere sui propri sottoposti arrivando ad ingerenze che riguardano anche la sfera delle scelte personalistiche ed affettive dei suoi figli. È il padre a promettere la propria figlia al pretendente ed è lui a rispondere nel caso in cui questa promessa venga disattesa. Questo schema compromette la libera manifestazione della sfera individuale dei figli ed esprime un modello di responsabilità giuridica peculiare.



2. Il rapporto tra fidanzamento e il matrimonio



Sponsalia e nuptiae sono istituti giuridicamente connessi, ma indipendenti sotto il profilo formale. La definizione che Fiorentino – giurista del II sec. d.C. e autore di un manuale istituzionale – dà del fidanzamento contribuisce a chiarire la natura del rapporto che intercorre tra i due istituti: “il fidanzamento consiste in una promessa e una contro-promessa di nozze future”6.

Gli sponsalia costituiscono primariamente un ‘fatto’7 determinativo di rapporti, che necessita di una disciplina peculiare, specifica e, per certi aspetti, svincolata dall’istituto del matrimonio8 al quale sono comunque logicamente preordinati.



3. La natura del vincolo di fidanzamento



Probabilmente gli sponsalia, in origine, coinvolgono la (sola) sfera religiosa9 ; di conseguenza, i soggetti, al momento dell’impegno, che culminava con una libagione agli dei10, as sumono una responsabilità davanti alle divinità. È possibile dunque ritenere11 che la sponsio di fidanzamento inizialmente produca effetti sul piano del ius sacrum, senza implicazioni giuridiche, che poi verranno introdotte dal ius civile. È dunque la fides a rendere vincolante un accordo che, talvolta, si manifesta esteriormente con gesti simbolici – come una stretta di mano – volti a suggellare in ambito terreno il vincolo orizzontale tra gli esseri umani12. Sulla base di una attestazione di Gaio13 e di alcuni versi virgiliani14, si può evidenziare15 come anche il fidanzamento religioso, così come il matrimonio ‘confarreato’16, presuppongano una partecipazione in prima persona da parte dei diretti interessati, i quali, evidentemente assumono una responsabilità diretta e personale davanti alla divinità; di fronte agli dei, gli sponsi ed i nubendi assumono quindi la ‘responsabilità’ delle conseguenze religiose senza il tramite dei loro aventi potestà. Questo impegno assunto in prima persona ha un’importanza significativa, atteso che, in ambito strettamente giuridico, chi si assume direttamente l’impegno della promessa di matrimonio spesso non è il ‘diretto interessato’, bensì il suo avente potestà. Quando gli sponsalia avranno effetti ex iure, ossia sul piano del diritto, il coinvolgimento del piano sacro non verrà meno (del tutto), come sembra attestare la stessa commedia plautina: il coinvolgimento divino anticipa le conseguenze giuridiche dell’atto17. La stessa sponsio di fidanzamento, già intrisa di valori religiosi, col tempo determina così (anche) conseguenze giuridiche. Ben presto, ma ancora in età arcaica, il fidanzamento si contrae con una promessa solenne, effettuata mediante una sponsio, dunque con uno scambio formale di una domanda e di una risposta congrua, che ha come fine la creazione di un vincolo obbligatorio18. Conosciamo da Gellio19, erudito del I sec. d.C., l’intera procedura con la quale il fidanzamento veniva contratto e, dalla descrizione, si evince con chiarezza la natura del rapporto. Il locus di Gellio, altresì arricchito dell’autorevolezza giuridica di personalità quali Servio e Nerazio Prisco20, costi tuisce una fonte preziosissima, densa di informazioni, circa il fidanzamento romano nella sua fase originaria. Il brano infatti ci informa chiaramente che il fidanzamento della filia familias, ovvero di colei che si trovava sottoposta alla potestas paterna, veniva ‘contratto’ dal pater mediante una stipulazione, ovvero una promessa solenne con cui si impegnava a concederla in un matrimonio futuro. Il promissario era colui al quale veniva promessa la fanciulla e poteva identificarsi proprio nel fidanzato, oppure nel di lui pater, qualora il giovane fosse stato ancora sottomesso alla sua potestas. Chi riceve la promessa, nel caso in cui il matrimonio non avvenga, è garantito da un’azione processuale per ottenere una sorta di ‘indennizzo’ subìto in conseguenza della mancata celebrazione, consistente nel pagamento di una somma di denaro determinata nel corso del giudizio preposto alla tutela del promissario deluso. La fonte riconosce senza dubbio il potere-dovere del giudice insignito della decisione di accertare la sussistenza o meno di eventuali cause o circostanze che possano aver potuto giustificare l’inadempimento della promessa. In difetto di ‘esimenti’, si procedeva con la valutazione pecuniaria del valore della causa e dunque del pregiudizio subito dal promissario deluso e, quindi, con la condanna al pagamento di una somma di denaro corrispondente all’accertamento del valore del torto subito, rectius dell’inadempimento21. Sono preziose anche le informazioni di carattere terminologico e giuridico: il fidanzamento assumeva il nome di sponsalia; la fanciulla promessa prendeva il nome di sponsa. Chi, specularmente, impegnava sé stesso al matrimonio futuro con quella fanciulla era chiamato sponsus. Anche Plauto attesta ripetutamente la presenza della sponsio e ci sono elementi che autorizzano a pensare che il commediografo utilizzi questo termine consapevole del suo significato e della sua pregnanza giuridica22. Le informazioni ricavate da Gellio debbono essere incrociate con quanto ci riporta Varrone23.

Stando alle fonti possiamo dedurre che la sponsio di fidanzamento poteva essere unica o duplice: nel primo caso vi era esclusivamente l’impegno da parte dell’avente potestà sulla ragazza; nella seconda ipotesi anche il pretendente sponsus, a sua volta, prometteva24. Nel Lazio e a Roma la sponsio avviene secondo quanto prescritto dai mores e dal diritto; si può cogliere la doppia dimensione dell’istituto arcaico di fidanzamento, quella morale, che deve ossequiare i costumi, e quella giuridica, regolata dal diritto. Probabilmente è proprio il mos stesso ad imporre la sponsio ai fidanzati25 e quindi l’obligatio verbis consentirebbe agli sponsi di consolidare giuridicamente un obbligo già imposto dai consolidati costumi. Si potrebbe anche sostenere che il mos si limiti semplicemente a richiedere solo una particolare ‘forma’ per il fidanzamento, per cui la sponsio avrebbe unicamente la funzione di assecondare gli oneri formali imposti dagli antichi costumi. La comparazione delle fonti reca indizi del fatto che l’istituto delle origini coinvolga più aree: quella sacra, quella sociale e quella giuridica. Se infatti Servio26 non fa esplicito cenno al sacrum, riferendosi esclusivamente alla sfera morale-sociale ed al ius, le fonti più tarde non ne escludono il coinvolgimento sacrale. I ‘protagonisti’ dell’atto sono il ‘fidanzando’ futuro marito (qui uxorem ducturus erat) e colui dal quale si fa promettere la fanciulla, ossia il pater; l’oggetto della promessa consisteva nel fatto che il promittente avrebbe concesso in matrimonio la donna (eam in matrimonium datum iri); atteso che, al momento del matrimonio, il padre avrebbe dovuto manifestare nuovamente il proprio consenso – già espresso al momento del fidanzamento – è ragionevole ritenere che, con la sponsio di fidanzamento, il pater si assumeva la responsabilità giuridica di (ri)prestare il proprio ‘consenso’ alle nuptiae futurae. A questa sponsio poteva quindi seguirne un’altra: il promissario, destinatario della ragazza (qui uxorem ducturus erat), a sua volta prometteva (a chi concedeva la ragazza) che l’avrebbe presa in sposa; mentre il primo sponsor promette il proprio futuro consenso – anche se indirettamente sembra promettere un atto, rectius un fatto altrui – il secondo sponsor promette il proprio ‘atto’ di matrimonio. La lettura congiunta delle fonti (Servio e Varrone) consente di sostenere che la doppia stipulazione costituisse quantomeno una prassi consolidata, se non addirittura un vero e proprio schema giuridico27; sicché, la formula degli sponsalia vedrebbe da un lato la promessa formulata dal pater ed avente ad oggetto un dare in matrimonium la sottoposta, dall’altro quella effettuata dal futuro marito ed avente ad oggetto il ducere eam in matrimonium28. Ma le fonti, in particolare Varrone29, dicono di più. La promessa di matrimonio poteva articolarsi in modo più complesso: alla sponsio avente ad oggetto la puella poteva seguirne una seconda, con la quale si prometteva del denaro per l’ipotesi in cui non si adempisse al contenuto della prima promessa; essa consisteva in una stipulatio poenae, per mezzo della quale si assicurava un ‘risarcimento’30 al fidanzato deluso. Specularmente, anche il fidanzato (o suo padre) potevano stipulare una penale per il caso in cui avessero ingiustificatamente opposto il proprio rifiuto al momento delle nozze. Anche la promessa di denaro per l’ipotesi del rifiuto poteva quindi essere reciproca e costituiva una sorta di risarcimento conseguente alla violazione della ‘fiducia’ riposta nel matrimonio31. L’intenzione di dare la propria figlia in isposa nasce come scelta che si concretizza in un atto volontario e si conclude come vincolo necessario, dal quale il padre della sposa resta sponsu alligatus32; infatti Varrone specifica che qui spoponderat filiam, despondisse dicebant, quod de sponte eius, id est de voluntate, exierat: non enim si volebat, dabat, quod sponsu erat alligatus33. Probabilmente la seconda promessa, avente ad oggetto una somma di denaro, avrebbe semplificato l’iter processuale: un conto è infatti accertare il pregiudizio subìto per la mancata promessa, un altro è condannare al pagamento di una somma di denaro già previamente concordata, senza la necessità di svolgere una complessa istruttoria. Quanto alla natura delle due promesse si può sostenere che la prima sponsio, quella che ha ad oggetto il matrimonio, ha una connotazione direttamente a-patrimoniale, anche se indirettamente patrimoniale, ‘in quanto’ e ‘se’ ‘garantita’ dalla stipulatio poenae34, mentre è la seconda ad essere intrinsecamente connotata da patrimonialità, dal momento che l’oggetto della promessa è proprio il denaro del promittente.



4. Fidanzamento e libertà



Strettamente connesso al tema del fidanzamento antico è il ‘problema’ del consenso dei diretti interessati. Il maschio sui iuris35 pone in essere in prima persona il proprio atto – gesto – senza costringimento indotto dai vincoli potestativi. La puella, al contrario, può ‘ritrovarsi’ fidanzata per volontà e per mezzo di un atto del pater familias. Specialmente in questo caso non trova dunque conferma giuridica la considerazione etimologica che propone Festo36, per cui spondere potrebbe derivare da sponte37. Il tema della capacità di agire, intesa quale idoneità ad assumere l’impegno matrimoniale rappresenta dunque un aspetto nevralgico quando si affronta il tema del fidanzamento ed in particolare quello della responsabilità che ne consegua. Se indubbia era tale capacità nel maschio sui iuris, diversamente, il figlio alieni iuris ‘era impegnato’ con una promessa paterna; se si trattava di una ragazza, lo sponsor, cioè colui che prometteva il matrimonio futuro, era certamente l’avente potestà. Il pater della fanciulla si impegnava a concedere la figlia; il genitore del maschio si impegnava affinché la figlia fosse presa in sposa e, di conseguenza, condotta in matrimonio. La puella veniva infatti ‘impegnata’ dal padre, la sua voluntas non rilevava, il fidanzamento spesso avveniva a sua insaputa38 e, forse, talvolta, anche contra suam voluntatem. Se la ragazza era uscita dalla patria potestas, essendo donna, risultava comunque parte passiva nel fidanzamento, in quanto i suoi tutori e persino la madre potevano decidere al suo posto e sulla base di valutazioni di tipo prevalentemente economico39, che andavano ben al di là della dimensione affettiva della fanciulla40. Al momento degli sponsalia la voluntas e il consensus della puella non assumono alcuna rilevanza: chi si impegna giuridicamente sono il pater della ragazza, la cui promessa ha per oggetto il dare in matrimonium la figlia41, e, eventualmente, il futuro marito, che si impegna a ducere eam in matrimonium; nell’ipotesi in cui il futuro marito fosse alieni iuris, era il pater di quest’ultimo a promettere che il figlio prendesse in sposa la figlia del promittente. Nel primo caso il futuro marito prometteva un fatto proprio e l’inadempimento comportava l’assunzione di una responsabilità che, per quanto attiene all’elemento psicologico, potremmo modernamente ascrivere alla categoria del dolo, inteso quale coscienza e volontà del mancato adempimento. Nella seconda ipotesi l’inadempimento può manifestarsi in un duplice modo: in un caso il pater promittente potrebbe ordinare al filius di non contrarre matrimonio, ed allora la responsabilità per l’inadempimento dipenderebbe da un fatto proprio volontario del promittente stesso, il quale, intenzionalmente viene meno all’impegno giuridico. Se, diversamente, il matrimonio non viene contratto in quanto è il filius alieni iuris, ovvero sotto la potestà del padre, a disattendere le aspettative del genitore promittente, la condotta materiale contraria all’oggetto della promessa viene effettivamente tenuta dal sottoposto, anche se la responsabilità giuridica per l’inadempimento ricadrebbe in ogni caso sul pater promittente; vero è che l’inadempimento giuridico dipende sì da un fatto volontario, ma che tuttavia esorbita dal diretto controllo di chi ha promesso; infatti la volontà effettiva di contrarre il matrimonio promesso è del giovane, ma la responsabilità è del genitore, che risponde per il ‘comportamento altrui’. Occorre riflettere dunque sul tipo di responsabilità che assume il pater ed in base alla quale risponde nell’ipotesi in cui il ma trimonio non avvenga. Il comportamento del filius è volontario, ma la capacità e, di conseguenza, la responsabilità di quest’ultimo sono limitate; quando il filius non conduce la donna in sposa e, dunque, non pone in essere il comportamento doveroso oggetto della promessa paterna, il suo mancato agire, di fatto, realizza più che altro un non facere che, solo in quanto tale, integra l’inadempimento della sponsio. Insomma, nel caso di promessa formulata dal padre, ciò che costituisce l’effettivo oggetto della promessa, ossia il futuro matrimonio, dipende da un facere altrui e non da un ‘agire’ del diretto promittente42: in altre parole, il padre promette che si faccia il matrimonio; perché questo venga compiuto sono infatti necessari due elementi: il consensus paterno ma anche il comportamento attivo del giovane. Il pater risulta direttamente responsabile in caso di mancata manifestazione del proprio futuro consenso43, ma è anche indirettamente responsabile nel caso in cui il proprio figlio non conduca in matrimonio la fanciulla; l’omessa conferma del consenso alle nozze da parte del genitore costituisce infatti un inadempimento volontario e perciò imputabile in via diretta al promittente; diversamente, il fatto di non ducere la ragazza in matrimonio è un comportamento inadempiente che si concretizza in forma omissiva, appunto in un non facere che, dipendendo da un soggetto che è terzo rispetto alla sponsio, viene ricondotto solo mediatamente e indirettamente al promittente; in quest’ultimo caso l’inadempimento è scevro di intenzionalità e volontarietà e quindi non può essere ascritto al pater a titolo di ‘dolo’. Sembra quindi profilarsi una responsabilità per culpa, per così dire, ‘in instituendo’, dato che il pater non ha saputo fare in modo che il proprio sottoposto ponesse in essere il facere promesso, probabilmente per incapacità a far rispettare il proprio comando, la propria volontà potestativa, denunciando quindi una sorta di incapacità nel far valere il proprio potere e la propria potestas. Non convince invece l’ipotesi di una ‘responsabilità oggettiva’, tanto per ragioni storiche quanto e soprattutto perché di fatto il comportamento di un sottoposto coinvolge quasi sempre l’avente potestà; il legame potestativo infatti è significativo e la disubbidienza filiale è ascrivibile ad un difetto di educazione e controllo da parte del pater. Almeno con riferimento al periodo antico, è più che ragionevole escludere che una ragazza assumesse contestualmente il ruolo di soggetto promittente e di fidanzata. A ciò si aggiunge che spesso occorreva anche una capacità patrimoniale, poiché la promessa di fidanzamento soleva essere accompagnata dalla ‘stipulazione penale’, la cui somma sarebbe stata versata nell’ipotesi in cui le nozze non venissero celebrate per causa riconducibile al soggetto che ha promesso44. Sulla base degli studi più antichi45 sembra potersi negare che il padre prometta un atto ‘altrui’, trattandosi, al contrario, di un impegno che ha per oggetto un atto ‘proprio’: confermare cioè il proprio consenso al momento del matrimonio della sottoposta; si può ritenere che sotto il profilo giuridico la filia sia ancora ‘libera’ di contrarlo o meno46, in quanto, come rilevato, non si è personalmente assunta alcuna ‘obbligazione’; tuttavia ella è vincolata al pater in forza del rapporto potestativo47. Anche il filius alieni iuris è sponsus ma non sponsor, ossia impegnato da un impegno giuridicamente assunto da altri, il pater; come s’è visto, le conseguenze giuridiche dell’eventuale inadempimento ricadranno infatti sull’avente potestà, anche se la responsabilità assunta dal genitore è subordinata in fatto alla condotta del sottoposto. Già fin d’ora, fatte queste premesse, siamo in grado di affermare che gli sponsores sono obbligati e responsabili in virtù delle sponsiones, mentre gli sponsi, i veri ‘interessati’ al rapporto di fidanzamento, lo sono in virtù della sottoposizione e dunque per via dell’ubbidienza dovuta all’avente potestà48. Nel fidanzamento non era infatti inconsueto che i giovani accettassero passivamente la volontà paterna49; difficilmente si verificava infatti che, soprattutto una fanciulla, disattendesse le statuizioni del genitore50, fatti salvi casi di ribellione51. Si deve osservare altresì che, diversamente, con riferimento al conseguente rapporto matrimoniale, specialmente in età successiva, non può ritenersi sufficiente la sola volontà paterna, essendo necessario che i coniugi persistano nella volontà di rimanere uniti in matrimonio52.



5. Promettere il fatto di un terzo



L’avente potestà che spondet la propria filia di fatto promette il matrimonio della sottoposta; implicitamente sembra dunque promettere un comportamento, dunque un fatto ‘altrui’; si può a questo punto sollevare l’interrogativo circa la possibilità che si configuri una sorta di promessa del fatto del ‘terzo’. Al di là delle considerazioni storiche sulla configurabilità dell’obbligazione che investa un soggetto terzo, occorre restare fermamente ancorati alla fattispecie in esame. Se infatti un pater familias ‘fidanza’ la propria figlia, promette sì un fatto che riguarda la sfera giuridica e personale della sottoposta, ma impegna (giuridicamente) solo sé stesso ed il proprio patrimonio, in quanto la stipulazione non può produrre effetti nella sfera giuridica di altri che non siano le parti del negozio53. Anche la stipulazione di garanzia non può di certo – e forse a maggior ragione – essere considerata una promessa del fatto di terzo, né una promessa che comunque lo vincoli giuridica mente; si tratta piuttosto di una promessa di denaro che però dipende da un ‘comportamento altrui’. Se poi si tiene conto del fatto che la fanciulla è una filia familias, alieni iuris, e che, in quanto tale, agisce o non agisce in qualità di sottoposta del pater familias, si potrebbe in via transitiva affermare che ad agire – o non agire – sia il pater familias, attraverso la figlia; la tesi assume la connotazione di congettura e si ritiene più plausibile che il padre prometta un ‘fatto proprio’: la conferma del proprio consenso alle nozze della figlia54. Sotto il profilo strettamente familiaristico emerge ancor più come il pater non prometta tout-court il fatto di un terzo, ma il fatto di un soggetto che gli appartiene di diritto, che è suo sottoposto e che, agendo o non agendo, sposandosi o non sposandosi, lo coinvolge anche nel compimento di negozi giuridici, venendo così a determinarsi una sovrapposizione tra l’agire del pater ed il facere della filia; ad ogni modo solo il pater promittente è il soggetto chiamato a rispondere ex sponsione55 nel caso in cui il sottoposto si rifiuti di contrarre matrimonio. Un’ultima considerazione: occorre inoltre tenere a mente che, con riferimento al matrimonio, il consenso del pater familias costituisce una condizione necessaria, che di fatto poteva anche esplicarsi in un gesto rituale e formale come la coemptio: il ‘gesto’, come accennato, rappresentava una vendita immaginaria avente ad oggetto la fanciulla, rectius costituiva uno strumento col quale adempiere alla promessa di matrimonio, peraltro marcatamente incisivo sulla sfera potestativa del pater promittente. Essa infatti consentiva il compimento del c.d. matrimonium cum manu, forma matrimoniale che, oltre che dare luogo alle nuptiae promesse, recide i diritti potestativi col genitore. La coemptio era posta in essere dal pater in qualità di immaginario venditore e, ai nostri fini, è lecito sostenere che costituisse l’‘oggetto’ stesso della promessa di fidanzamento; questa prospettiva ci conferma che l’oggetto della promessa sia quindi un atto proprio del pater stesso56. Il comportamento della fanciulla può dunque ridursi, almeno per la fase arcaica, ad un mero fatto, ad un ‘accidente casuale’, che può ‘in fatto’ costituire un impedimento all’adempimento di quell’obbligo giuridico che viene assunto unicamente dal pater. Insomma, chi obbliga un soggetto terzo al fidanzamento non genera né sposta su di esso una responsabilità giuridica, ma è legittimato ad agire in sua vece in quanto su di esso esercita un potere, ex sanguine come nel caso di una madre, per ragioni attinenti al munus come nel caso del tutore, ex iure potestatis come nel caso del pater57. Chi promette sarà legato al promissario da vincolo formalmente assunto di fronte a testimoni; chi è promesso dovrà sottostare a quest’obbligo per effetto dei vincoli potestativi ed il promissario sarà col tempo processualmente garantito da un’azione civile che gli consentirà di percepire una somma che lo compensi del pregiudizio subito. Il fidanzamento romano, sino a quando non verrà riconosciuto una sorta di generale principio di libertà nelle scelte matrimoniali, rappresenta così un modello ‘legalizzato’ di compressione della libertà personale di alcuni dei componenti del nucleo familiare.

NOTE

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Aspetti giuridici ed antiquari 2. Sponsalia Matrimonio Dote, Roma, 2005; Botta, Ancora in tema di

accusatio adulterii del minor XXV annis, in Fides Humanitas Ius. Studi L. Labruna, 1, Napoli, 2007,

439-463; BraMante, Patres filii e filiae nelle commedie di Plauto. Note sul diritto nel teatro, in

Diritto e teatro in Grecia e a Roma (a cura di Cantarella, GaGliardi), Milano, 2007, 95-116;



BartoCCi, Spondebatur pecunia aut filia. Funzione ed efficacia arcaica del dicere spondeo, Torino,

2012; piro, Spose bambine. Risalenza diffusione e rilevanza giuridica in età romana, Milano, 2013;

Maiuri, Sacra privata. Rituali domestici e istituti giuridici in Roma antica, Roma, 2013, in particolare

41-48; aStolfi, Il matrimonio nel diritto romano classico, Padova, 2014; CaSCione, Antichi modelli

familiari e prassi corrente in età protoimperiale, in Ubi tu Gaius. Modelli familiari, pratiche sociali e

diritti delle persone nell’età del principato, a cura di Milazzo, Milano, 2014, 23-94; CaSola, L’età del

fidanzamento secondo Modestino, in Diritto@Storia, 12, 2014; laMBerti, La familia romana e suoi

volti. Pagine scelte su diritto e persone in Roma antica, Torino, 2014; inGallina, Profili di

responsabilità nel fidanzamento romano. Rilevanza e manifestazione del “consensus”, in Rivista di

Diritto Romano, XVI-XVII, 2016-2017 (n.s. I-II), http://www.ledonline. it/rivistadirittoromano/;

Cantarella, Come uccidere il padre. Genitori e figli da Roma a oggi, Milano, 2017, in particolare 40-

41; in generale sul rapporto tra padri e figli, rizzelli, Padri romani. Discorsi, modelli, norme, Lecce,

2017.

2 Da intendersi qui come promessa, pronunciata oralmente, di fronte a testimoni, socialmente e

giuridicamente vincolante.

3 Rectius il pagamento di una somma di denaro corrispondente al pregiudizio derivante dal

mancato adempimento della promessa di matrimonio.

4 Il fidanzato.

5 Ex multis, Bonfante, Corso di diritto romano, 1, cit. 307-314; volterra, Stu-

dio sull’‘arrha sponsalicia’, in RISG, 2, 1927, 581-670 (ora in Scritti giuridici, 1, Napoli, 1991, 3-218);

id., Studio sull’‘arrha sponsalicia’ 2. L’arrha sponsalicia nella legislazione di Giustiniano, in RISG, 4,

1929, 3-33 (ora in Scritti giuridici, 1, Napoli, 1991, 93-123); id., Studio sull’‘arrha sponsalicia’ 3.

L’origine orientale dell’arrha sponsalicia, la sua penetrazione ed applicazione nel diritto cristiano e

bizantino, in RISG, 5, 1930, 117-146 (ora in Scritti giuridici, 1, Napoli, 1991, 125-215); di Marzo,

Lezioni sul matrimonio romano, cit., 28-33; Brutti, Diritto privato nell’antica Roma, Torino, 2011,

211; volterra, Lezioni di diritto romano. Il matrimonio romano, Roma, 1960-61, 445-457; volterra,

Diritto di famiglia, Bologna, 1946, 170-185; aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, Padova,

1994, 151 ss.; Ferretti, Le donazioni tra fidanzati nel diritto romano, Milano, 2000, 149-158 et

passim; fayer, La familia romana, 2, cit., 95-102, 120-140, et passim.

6 D.23.1.1, Flor. 3 inst.: Sponsalia sunt mentio et repromissio nuptiarum futurarum. Il passo è

contenuto nel Digesto di Giustiniano. L’intero primo titolo del XXIII libro del Digesto è dedicato al

fidanzamento e raccoglie 18 passi: una definizione ed una questione terminologica tratte appunto

dalle Istituzioni di Fiorentino (D.23.1.1 e D.23.1.3, Flor. 3 inst.); due frammenti della monografia di

Ulpiano, giurista imperiale che scrive sotto la dinastia dei Severi, dedicata agli sponsalia (D.23.1.2 e

D.23.1.12, Ulp. l.s. de sponsalibus) e che riguardano sia aspetti terminologici, sia questioni relative

al consenso; dello stesso giurista si trovano due brani del commento a Sabino (D.23.1.4, Ulp. 35 ad

Sab. e D.23.1.6, Ulp. 36 ad Sab.), ove Ulpiano si occupa ancora di consenso e della sua

manifestazione, nonché due frammenti del commento all’Editto (D.23.1.9, Ulp. 35 ad ed. e

D.23.1.18, Ulp. 6 ad ed.), rispettivamente dedicati alla validità di un fidanzamento di una puella –

una fanciulla – poi maritata quando era ancora infradodicenne e alle modalità valide ai fini del

fidanzamento; ancora un frammento tratto dai Disputationum libri di Ulpiano (D.23.1.10, Ulp. 3

disp.), che tocca il tema dell’ingerenza paterna sul fidanzamento della figlia, nonché quello della

ripetizione della dote; una testimonianza di Pomponio (D.23.1.5, Pomp. 16 ad Sab.) sul tema della

consapevolezza e, quindi ancora, del consenso; due passi del commento all’Editto di Paolo

(D.23.1.7, Paul. 35 ad ed. e D.23.1.13, Paul. 5 ad ed.), sulla rilevanza del consenso filiale agli

sponsalia; due attestazioni di Gaio (D.23.1.8, Gai. 11 ad ed. prov. e D.23.1.17, Gai. 1 ad leg. Iul. et

Pap.) che trattano del rapporto tra furor e consenso e delle cause di giustificazione; un frammento

dei Digesta di Giuliano (D.23.1.11, Iul. 16 dig.) che sottolinea la necessità del consenso da parte dei



diretti interessati agli sponsalia; ed ancora il noto frammento di Modestino (D.23.1.14, Mod. 4

diff.), specificamente dedicato all’età dei ‘fidanzandi’.

7 Prima ancora di esplicarsi in un vero e proprio ‘atto giuridico’ che richiede forme peculiari e che

determina effetti precipui nella sfera giuridica di più soggetti coinvolti.

8 Gli istituti mantengono infatti una propria autonomia, strutturale e normativa, sebbene siano

connotati da ingerenze reciproche: attribuiscono due status assolutamente incompatibili tra loro;

sarà una Costituzione imperiale del 258 a ribadirlo (C.5.3.5 Impp. Val. et Gall.: Ea, quae tibi ut

sponsae daturum se repromisit is, qui te ficto caelibatu, cum aliam matrem familias domi

reliquisset, sollicitavit ad nuptias, petere cum effectu non potest, cum tu sponsa uxore domi posita

non fuisti.): non si può infatti essere contemporaneamente coniuge di un soggetto e fidanzato di

un altro (sul punto cfr. ad esempio aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 88); la

differente identità tra sponsalia e nuptiae si coglie sia sotto il profilo affettivo-personalistico sia

per l’aspetto giuridico-formale; piuttosto, anche a tenore della definizione ‘istituzionale’ di

Fiorentino (D.23.1.1 Flor. 3 inst.: Sponsalia sunt mentio et repromissio nuptiarum futurarum), è

ragionevole considerare il fidanzamento come un ‘atto’-momento finalisticamente orientato verso

nozze future, oltre che come uno status che caratterizza un peculiare ‘rapporto’ tra soggetti e che

può esistere indipendentemente dalla celebrazione delle futurae nuptiae. Infatti, ciò che

caratterizza il fidanzamento non necessariamente connota anche il matrimonio e le conseguenze

del matrimonio non sono sempre – e tutte – sovrapponibili al rapporto di fidanzamento. Per tutti,

sul rapporto che intercorre tra i due istituti, si veda principalmente oreStano, La struttura giuridica

del matrimonio romano, cit., 341-347, ma anche di Marzo (Lezioni sul matrimonio romano, cit., 8-

33 e 45-47), che, commentando D.23.1.9, Ulp. 35 ad ed., pare evidenziare pel tramite del pensiero

di Labeone, Papiniano ed Ulpiano, l’autonomia istituzionale e giuridica del fidanzamento; nonché

tafaro (Pubes et viripotens nell’esperienza giuridica romana, cit., 173 e La pubertà a Roma. Profili

giuridici, cit., 200-205): l’Autore, riconosce che la visione di Giuliano è “singolare” e non conferma

l’idea di una “netta separazione concettuale, enunciata spesso dai giuristi del Principato, tra

matrimonio e fidanzamento”. Invero la ricostruzione di volterra (Lezioni di diritto romano, cit.,

391) ci appare al riguardo più che verosimile: la prassi sociale richiedeva che il matrimonio fosse

preceduto dal fidanzamento, ma, allo stesso tempo, era invalso l’uso di chiamare ‘sponsa’ la

donna che, unita al vir, non fosse ancora la sua consorte; deve dunque tenersi conto anche del

fatto che i giuristi facciano un uso estensivo del termine sponsa (D.27.6.11.3, Ulp. 35 ad ed.;

D.48.5.14.8, Ulp. 2 de adult.; D.41.9.1.2, Ulp. 31 ad Sab.); il rapporto tra fidanzamento e

matrimonio è diffusamente trattato da aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., passim.

9 Cfr. tra gli altri CoSta, Storia del diritto romano privato dalle origini alle compilazioni

giustinianee2, Torino, 1925, 310 e 336; perozzi, Istituzioni di diritto romano. 2. Obbligazioni. Diritto

ereditario. Donazioni2, Milano, 1928, 207 ss.; SeGré, Una ipotesi sull’origine della stipulatio, in AG,

108, 1932, 180; aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 6; BraMante, Patres filii e filiae

nelle commedie di Plauto, cit., 96; Maiuri, Sacra privata, cit., 45-49.

10 Maiuri, Sacra privata, cit., 47.

11 Cogliamo gli spunti di voCi (Diritto sacro romano in età arcaica, in Studi di diritto romano, 1,

Padova, 1985, 211-282), per arrivare alla ricostruzione di aStolfi (Il fidanzamento nel diritto

romano, cit., 3), nell’efficace sintesi presentata dall’autore.

12 Verg. Aen. 4.99-100; 7.54-58; 7.432-434; 12.42; cfr. anche roMano, Matrimonium iustum.

Valori economici e valori culturali nella storia giuridica del matrimonio, Napoli, 1996, 57.

13 1.112.

14 Serv. ad Aen. 4.103; ad georg. 1.31.

15 Si veda aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 8.

16 Si tratta del più antico rito nuziale che si concretizza in una cerimonia



religiosa a cui prendono parte il pontifex maximus, il Flamen Dialis, gli sposi e dieci testimoni. I

nubendi stanno seduti con il capo velato tenendosi reciprocamente la mano destra (dexterarum

iunctio) e pronunciano parole solenni tra cui quelle pronunciate dalla futura sposa: Ubi tu Gaius,

ego Gaia); dividono quindi una focaccia di farro – da cui il nome della cerimonia – offrendola agli

dei, manifestando quindi un simbolo della prossima comunione di vita; cfr. lovato, puliatti,

Solidoro, Diritto privato romano2, Torino, 2017, 197.

17 Un passo di Festo (p. 440 L), erudito del II sec. d.C., riporta il pensiero di Verrio Flacco,

grammatico latino vissuto verso la fine del I secolo, ed effettivamente attesta la presenza di

libagioni agli dei poste in essere al momento della promessa di fidanzamento: Spondere. Verrius

putat dictum, quod sponte sua, id est vuluntate, promittatur. Deinde oblitus inferiore capite

sponsum et sponsam ex Graeco dicta[m] ait, quod spondáj interpositis rebus divinis faciant. Non si

tratta solamente di un gesto conviviale, ma di un richiamo alla testimonianza divina su un atto

umano che, per l’effetto della presenza degli dei, deve acquisire valore e formalità. Sul piano

letterario va ricordato che Catullo stesso, poeta del I a.C., autore del Liber dedicato in parte alla

celebrazione del proprio amore con la fanciulla Lesbia, è consapevole che anche il mero ‘patto

d’amore’, celebrato tra due innamorati non legati da alcun legame coniugale, è idoneo a

‘vincolare’ i due soggetti, quanto meno sul piano della fides. Il tradimento della ragazza amata in

danno del poeta ingenera nello stesso uno stato di dolor profondo ed una grande ira, oltre che

determinare la frattura del ‘foedus amicitiae’ stretto tra i due fidanzati – rectius amanti, al

momento dello scambio delle promesse d’amore; una frattura idonea a suscitare persino l’ira degli

dei che, contrariamente alla ragazza ed al terzo fedifrago, meminerunt – ricordano, rectius non

dimenticheranno – che un patto d’amore è stato concluso. Sono in proposito estremamente

rappresentativi alcuni versi del Carme 87 vv. 3-4: nulla fides ullo fuit umquam foedere tanta /

quanta in amore tuo ex parte reperta mea est; 109 vv. 5-6: ut liceat nobis tota perducere vita /

aeternum hoc sanctae foedus amicitiae; l’espressione sanctae amicitiae ha un importante valore:

sanctus (< sancire, nell’accezione di ‘consacrare’) evidenzia che il patto non può e non deve essere

violato, in questo caso inteso come vincolo di amicitia, che comporta un rapporto affettivo più

intimo, solido ed affidabile rispetto all’amor. Idem 72 vv. 3-8: [...] Dilexi tum te non tantum ut

vulgus amicam, / sed pater ut gnatos diligit et generos. / Nunc te cognovi; qua re etsi impensius

uror / multo mi tamen es vilior et levior. / Qui potis est? Inquis.

Quod amantem iniuria talis / cogit amare magis, sed bene velle minus: amare e bene velle nella

letteratura antecedente a Catullo sono usati con valenza quasi sinonimica; qui sono contrapposti

per indicare il primo l’amore sensuale, che può recare iniuria, il secondo l’affetto che racchiude

comunque in sé l’amicizia, la stima e la benevolenza. Catullo usa anche il termine diligere che,

rispetto ad amare esprime meno l’elemento fisico-sensuale, passione (v. 5: uror) e maggiormente

quello sentimentale, la tenerezza (v. 8: bene velle); il carme è strutturato sull’opposizione psichica

affetto/sensualità; cfr. traina in Gaio Valerio Catullo. I Canti, intr. e note di traina; trad. di

Mandruzzato, Milano, 19969, 15 e 337 nt. 2; fedeli, Introduzione a Catullo, Bari, 19984, 61.

Dobbiamo però anche osservare come il termine amica, preso dalla commedia, significhi ‘amante’

o ‘concubina’. Non è però di questo avviso della Corte (Due studi catulliani, Genova, 1951, 229),

che mette in evidenza un concetto assai diverso: l’amicizia espressa in Catullo non è legata

all’utilità o al piacere ma è pura e disinteressata, perfetta, da cui l’epiteto sancta (c. 57 v. 6). La

violazione del foedus sembra persino rientrare in un generico concetto di contrarietà al diritto, in

quanto l’infedeltà costituisce violazione del foedus che lega due persone che si amano; se

l’amicizia tra Catullo e Lesbia è sancta lo è anche il foedus che la sancisce, un concetto religioso,

ma che implica gli stessi effetti di un’‘obbligazione contrattuale’, un patto, che poi sarà violato

unilateralmente dalla puella quando perpetrerà il suo tradimento. “La felicità, cui il foedus mira, è

semplicemente contrattuale: rispetto reciproco dei patti, completa reciproca fiducia” (ibidem). È



qui di rilievo evidenziare che il poeta di Sirmione allude ad un presunto dovere di fedeltà – forse in

questo caso a mio avviso di valore più etico e religioso e meno giuridico – anche in relazione ad

un’unione svincolata da qualsivoglia convivenza e che quindi dovrebbe caratterizzare vieppiù

anche il concubinato e, passando attraverso gli sponsalia, ovviamente il rapporto coniugale. Sul

tema sono peculiari ancora le osservazioni di della Corte (Due studi catulliani, cit., 228), per il

quale il rapporto affettivo tra Lesbia e Catullo non può ovviamente considerarsi ‘matrimonio’, in

quanto esso mai fu contratto perché questa non era l’intenzione dei due, ma neppure

‘fidanzamento’ in quanto gli sponsalia mai furono celebrati; tanto meno ‘concubinatus’, poiché la

condizione honesta di Lesbia non avrebbe permesso questa soluzione. Rilevo come in effetti, al

tempo in cui scrive Catullo, poteva essere residuale la prassi di formalizzare il fidanzamento con

una sponsio, la promessa verbale solenne che determinava un vincolo giuridico effettivo ed

efficace. Stando ancora all’analisi svolta da Della Corte, il rapporto tra Catullo e Lesbia si potrebbe

considerare stuprum, che Lesbia chiama eufemisticamente iocundus amor, mentre Catullo lo eleva

a sancta amicitia. Ciò non di meno il tradimento di Lesbia ha una rilevanza significativa; nel

contesto catulliano il termine iniuria indica i tradimenti della ragazza amata dal poeta, ma ha la

tipica importanza del linguaggio erotico degli elegiaci e di Catullo stesso; Della Corte (ibidem, 232)

definisce questa iniuria come “azione commessa da Lesbia contro il ius amantium, che è la fides,

che è il foedus pattuito”. Ma se dovessimo dare al termine iniuria il valore giuridico che gli spetta

dovremmo riconoscere al poeta una legittimazione attiva ad esperire l’actio iniuriarum, azione

penale che tutela il soggetto contro qualsivoglia attacco antigiuridico della sua sfera giuridica fisica

e materiale; un rimedio che qui assurge a carattere generale se ammettiamo che Catullo e Lesbia

non fossero legati né da fidanzamento né tanto meno da matrimonio.

18 Per tutti lovato, Diritto privato romano2, cit., 217.

19 Gell., Noctes Acticae 4.4.1-4: Quid Servius Sulpicius in libro, qui est de dotibus, scripserit de iure

atque more veterum sponsaliorum. Sponsalia in ea parte Italiae, quae Latium appellatur, hoc more

atque iure solita fieri scripsit Servius Sulpicius in libro, quem scripsit de dotibus: “Qui uxorem”

inquit “ducturus erat, ab eo, unde ducenda erat, stipulabatur eam in matrimonium datum... iri; qui

ducturus erat, itidem spondebat. Is contractus stipulationum sponsionumque dicebatur

“sponsalia”. Tunc, quae promissa erat, “sponsa” appellabatur, qui spoponderat ducturum,

“sponsus”. Sed si post eas stipulationis uxor non dabatur aut non ducebatur, qui stipulabatur, ex

sponsu agebat. Iudices cognoscebant. Iudex quamobrem data acceptave non esset uxor

quaerebat. Si nihil iustae causae videbatur, litem pecunia aestimabat, quantique interfuerat eam

uxorem accipi aut dari, eum, qui spoponderat, ei qui stipulatus erat, condemnabat”. Hoc ius

sponsaliorum observatum dicit Servius ad id tempus, quo civitas universo Latio lege Iulia data est.

Haec eadem Neratius scripsit in libro quem de nuptiis composuit.

20 Cfr. volterra, Lezioni di diritto romano, cit., 360-361; franCioSi, Famiglia e persone, cit., 152.

Servio Sulpicio Rufo, I sec. a.C., uomo politico e giureconsulto fu autore di celeberrimi responsi

giuridici che costituirono e rappresentarono una traccia per lo sviluppo del pensiero giuridico

successivo. Fondò anche una scuola che contò eminenti allievi. Nerazio Prisco operò sul finire della

repubblica; fece parte del consilium principis dell’imperatore Adriano e si dimostrò attento e

sensibile alla valorizzazione dell’etica e della morale, anche nella valutazione delle casistiche

relative al diritto di famiglia.

21 Non è agevole, per questa fase storica, usare termini quali ‘risarcimento’, ‘indennizzo’ o, più

semplicemente ‘danno’.

22 Ad es. Plaut. aul. 255-258; Poen. 1156-1157; trin. 1157-1163; Volterra (Lezioni di diritto

romano, cit., 361) ritiene che il termine venga utilizzato talvolta con valenza non tecnica e “talvolta

in termini scherzosi”; pare maggiormente plausibile pensare che possa essere scherzoso il



contesto, ma non l’utilizzo della parola, che sembra essere sempre intrisa delle implicazioni

giuridiche che le sono proprie.

23 Un grammatico del I sec. a.C.: Varro l.L. 6.69-72: Spondere est dicere ‘spondeo’, a sponte: nam

id ‹idem› valet et a voluntate. Itaque Lucilius scribit de Cret‹a›ea, cum ad se cubitum venerit sua

voluntate, sponte ipsam suapte adductam, ut tunicam et cetera[e] reiceret. Eandem voluntatem

Terentius significat, cum ait satius esse Sua sponte recte facere quam alieno metu [Ter. ad. v. 75].

Ab eadem sponte, a qua dictum spondere, declinatum ‹de›spondet et respondet et desponsor et

sponsa, item sic alia. Spondet enim qui dicit a sua sponte ‘spondeo’; ‹qui› spo‹po›ndit, est

sponsor; qui ‹i›dem ‹ut› faciat obligatur sponsu[s], consponsus. Hoc N‹a›evius significat cum ait

‘consponsi’ [CFR3.p. 34] Spondebatur pecunia aut filia nuptiarum causa: appellabatur et pecunia

et quae desponsa erat sponsa; quae pecunia inter se contra sponsu[m] rogata erat, dicta sponsio;

cui desponsa quae erat, sponsus; quo die sponsum erat, sponsalis. Qui spoponderat filiam,

despondisse dicebant, quod de sponte eius, id est de voluntate, exierat: non enim si volebat,

dabat, quod sponsu erat alligatus: nam ut in com‹o›ediis vides dici: Sponde‹n› tuam [a]gnatam

filio uxorem meo? [CFR3 134] Quod tum et praetorium ius ad legem et censorium iudicium ad

aequum existimabatur. Sic despondisse animum quoque dicitur, ut despondisse filiam, quod suae

spontis statuerat finem. A qua sponte dictum spondere, ‹respondere› quoque dixerunt, cum a‹d›

sponte‹m› responderent, id est ad voluntatem rogat[i]oris. Itaque qui ad id quod rogatur ‘non’

dicit, non respondet, ut non spondet ille statim qui dixit spondeo, si iocandi causa dixit, neque agi

potest cum eo ex sponsu. Itaqu‹e› is qui dicit in tragoedia: Meministin[e] te spondere mihi

[a]gnatam tuam?[TRF3, 305] quod sine sponte sua dixit, cum eo non potest agi ex sponsu.

24 Il fidanzato stesso; Gell. 4.4.2-3; Serv. ad Aen. 10.79; Isid. etym. 9.7.3-4; volterra, Lezioni di

diritto romano, cit., 360-361. Si veda fayer, La familia romana, 2, cit., 50-51.

25 Ad es. aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 31.

26 Per come riportato da Gellio 4.4.1-4.

27 Cfr. volterra, Sul diritto familiare di Ardea, cit., 671; si vedano i rilievi di di

Marzo, Lezioni sul matrimonio romano, cit., 8.

28 Va precisato come non si tratti di un’obbligazione reciproca, ma di due

sponsiones unilaterali e, per certi aspetti, convergenti sul medesimo oggetto, il matrimonio. Su

questa sorta di ‘schema’ della sponsio di fidanzamento si veda tra gli altri anche volterra,

Osservazioni intorno agli antichi sponsali romani, cit., 503.

29 l.L. 6.69-72.

30 Anche se ritengo che il termine sia anacronistico; sarebbe più corretto limitarsi a definirlo come

pagamento di una somma di denaro conseguente all’inadempimento.

31 Si vedano sul punto aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 24 e fayer, La familia

romana, 2, cit., 28, con ampia ricostruzione dottrinaria sulla fonte di Varrone. Efficace anche

l’ipotesi per cui la stipulatio poenae fosse una sorta di acquisto del ‘diritto di recesso’ dalla prima

sponsio; aStolfi lo rileva già in Varrone, i Comici, cit., 393. Il tenore letterale delle osservazioni di

volterra (Studio sull’“arrha sponsalicia”, cit., 20) fa supporre che Varrone in realtà si limiti ad una

semplificazione della sponsio: un esempio relativo alla pecunia ed uno relativo alla filia. Più

complessa la ricostruzione di alBaneSe: in Il processo privato romano delle legis actiones, Palermo,

1987, passim, ritiene che, con l’espressione spondebatur pecunia aut filia nuptiarum causa,

Varrone alludesse ad un’unica sponsio, che poteva avere ad oggetto alternativamente il denaro o

la propria filia familias; in un altro lavoro (Brevi studi di diritto romano, VIII “Verbis obligatio e

sponsalia in Varrone”, in Annali del seminario giuridico dell’Università di Palermo, 42, 1992, 134-

167, in part. 141-142) l’Autore sembra assumere invece una posizione più cauta, riconoscendo la

possibilità che Varrone alludesse anche ad una ‘stipulazione penale’ con due modalità alternative:

il pater poteva effettuare la promessa di una somma di denaro a titolo di penale, affiancandola



alla promessa principale avente ad oggetto la filia ed a garanzia della stessa; oppure poteva

pronunciare una promessa di pagamento di una somma a titolo di penale subordinata al mancato

adempimento della prestazione ‘principale’. Una terza ipotesi sembra comunque credibile: con

una sola sponsio il pater promette in alternativa o di dare la figlia in matrimonio, o di versare una

somma di denaro nel caso in cui le nozze vengano rifiutate da lui stesso o dalla filia. Dà conto in

modo esaustivo del dibattito dottrinario, con ampia discussione, BartoCCi, ‘Spondebatur pecunia

aut filia’, cit., 46-75 et passim. Si veda anche MiGlietta, “Servius respondit”. Studi intorno a

metodo e interpretazione nella scuola giuridica serviana, Prolegomena I, Trento, 2010, 485-486 e

nt. 953.

32 fayer, La familia romana, 2, cit., 31.

33 Varro l.L. 6.71; aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 23 nt. 36.

34 Si può tuttavia sostenere che, quando la competenza a giudicare sull’ina-

dempimento sarà trasferita in toto al pretore, venuta quindi meno la competenza dei censori,

anche la prima sponsio verrà connotata da patrimonialità, atteso che l’azione in giudizio

nell’ipotesi di inadempimento della promessa di matrimonio comporterà una valutazione

monetaria del pregiudizio subìto dallo stipulator disilluso, attraverso una valutazione discrezionale

del iudex privatus, previa eventuale taxatio del magistrato; poteva infatti succedere che il pretore,

al fine di evitare condanne troppo elevate, fissasse previamente un tetto massimo per la

condanna.

35 Ovvero ‘di proprio diritto’, non dipendente dal proprio avente potestà per intervenuta morte

del pater familias o per emancipatio, atto complesso e volontario con il quale un pater familias

libera un proprio sottoposto dal vincolo potestativo.

36 Erudito del II sec. d.C. Fest., 440 L.: Spondere. Verrius putat dictum, quod sponte sua, id est

voluntate, promittatur. Deinde oblitus inferiore capite sponsum et sponsam ex Graeco dicta[m]

ait, quod spondás interpositis rebus divinis faciant.

37 Cfr. fayer, La familia romana, 2, cit., 20; alBaneSe, Brevi studi di diritto romano. VII “Verbis

obligatio e sponsalia in Varrone”, in AUPA, 43, 1992, 138. Sul passo di Varrone cfr. anche la

disamina di BartoCCi, ‘Spondebatur pecunia aut filia’, cit., 82-90 et passim.

38 Cfr. aStolfi, Il fidanzamento, cit., 22; fayer, La familia romana, 2, cit., 45.

39 È di certo emblematico a tal proposito l’episodio della fanciulla di Ardea riportato dallo storico

Livio (4.9): la vicenda raccontata si svolge nel contesto della guerra tra Volsci e Romani, sotto il

consolato di M. Geganio Macerino e T. Quinzio Capitolino nel V secolo a.C., tra gli abitanti di

Ardea, un centro laziale caratterizzato da alterne vicende nell’ambito delle alleanze e dei conflitti

con Roma: in città la parte plebea, per lo più operai ed artigiani, si era unita ai Volsci, mentre la

classe nobiliare, costituita in gran parte da latifondisti, sosteneva l’Urbs. Due giovani contendenti,

di opposto ceto sociale, aspiravano alla stessa fanciulla; la madre della ragazza era intenzionata a

concederla al pretendente ricco, mentre i tutori avrebbero preferito l’innamorato plebeo: in

quell’occasione la volontà della madre sulla scelta del futuro sposo prevalse su quella dei tutori, ai

quali il pretore diede torto a vantaggio della genitrice. Quello di cui Livio ci informa è importante: il

ricorso al pretore è dovuto al fatto che l’intervento della madre, desiderosa di concedere la figlia al

giovane nobile, interessato solo alle belle forme della fanciulla, sembra sovrastare il potere dei

tutori, di rango plebeo e sostenitori dell’altro pretendente, di umili origini, ma seriamente

innamorato della ragazza. A seguito del contrasto tra tutori e genitrice, il collegio adito asseconda

le ragioni della madre, autorizzando il matrimonio col giovane nobile. I fatti vanno degenerando, in

quanto i tutori plebei, sostenuti dalla folla, si ribellano contro la decisione e ne deriva una lotta di

classe, di cui lo storico riferisce una dettagliata cronaca; sul punto si veda anche aStolfi, Il

fidanzamento, cit., 25. Molto più tardi, con riferimento ad un’altra vicenda, una Costituzione di

Antonino Caracalla e Settimio Severo, per risolvere un contrasto tra madre, tutori e parenti della



ragazza sulla scelta del futuro marito, indicherà come necessario l’intervento del preside della

provincia; C.5.4.1: cum de nuptiis puellae quaeritur nec inter tutorem et matrem et propinquos de

eligendo futuro marito convenit, arbitrium praesidis provinciae necessarium est: il salto

cronologico tra l’episodio della fanciulla di Ardea (V sec. a.C.) e il caso risolto con una constitutio di

Severo e Caracalla (199 d.C.) sembrerebbero indizi per confermare la scarsa rilevanza della

voluntas e del consensus della sponsa al momento della promessa di matrimonio, quanto meno

con riferimento ad un lungo arco temporale. aStolfi (Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 39 e

51), osserva che già dall’ultimo secolo della repubblica il consenso della sponsa sarà sempre più

significativo, sino a divenire fondamentale.

40 Comprovano il ruolo passiva della ragazza rispetto al fidanzamento promesso da aventi potestà

o tutela anche le fonti letterarie, ad es. Gell. 4.4.2, Varro. l.L. 6.70; Arnob. adv. gent. 4.20; Serv. ad

Aen. 10.79; sembra fare eccezione Isid. etym. 9.7.3, ma per aStolfi (Il fidanzamento nel diritto

romano, cit., 32 e 38 nt. 73), non sembra attendibile, perché il poligrafo sovrappone il concetto

formatosi nel periodo arcaico con quello assestatosi nel periodo classico; fa eccezione anche

Festo, 329 L., che, tuttavia, si sta riferendo alla cerimonia religiosa relativa all’ultimo secolo della

repubblica.

41 Anche con riferimento al matrimonio, in questa fase il consenso del pater familias sembra

essere non solo necessario, ma anche sufficiente (aStolfi, Il matrimonio nel diritto romano

preclassico, cit., 96; fayer, La familia romana, 2, cit., 17). Si trovano spunti di riflessione in roMano

(Matrimonium iustum, cit., 28), e che, entro un contesto comparativo delle posizioni di lévi

StrauSS (Le strutture elementari della parentela, a cura di CireSe, trad. di CireSe, Serafini, Milano,

1969 (rist. 2003), passim) e di franCioSi (Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla

storia della famiglia romana, Napoli, 19955, 100-117) sullo scambio matrimoniale,

incidentalmente, sembra individuare nella sponsio paterna una promessa di vendita futura della

figlia, attraverso una coemptio. L’interpretazione degli sponsalia come una sorta di precursore del

‘preliminare di compravendita’ va effettivamente confrontata con i diversi modi per contrarre

matrimonio, tra cui proprio la coemptio, una sorta di vendita immaginaria della propria figlia a fini

matrimoniali. Le solide affermazioni di Volterra (Osservazioni intorno agli antichi sponsali romani,

cit., 502) consentono di ribadire che il vero oggetto della promessa di fidanzamento esternata dal

pater è il suo consensus all’atto di matrimonio, rectius alla concessione della figlia; consenso di cui,

eventualmente, la coemptio può costituire strumento di manifestazione. Il pater promette il

proprio consenso alle future nozze della filia che, una volta contratte, si reggeranno tuttavia anche

sul consensus reciproco dei due coniugi (501), anche se il pater può interrompere il rapporto

ricorrendo alla ductio (aStolfi, Il matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 100).

42 volterra (Osservazioni intorno agli antichi sponsali romani, cit., 502) sembra ritenerlo un

obbligo di facere, ma per l’Autore il soggetto che ‘facit’ è lo stesso pater familias.

43 D.23.2.34.pr. Pap. 4 resp.: generali mandato quaerendi mariti filiae familias non fieri nuptias

rationis est: itaque personam eius patri demonstrari, qui matrimonio consenserit, ut nuptiae

contrahantur, necesse est. Si veda volterra, Osservazioni intorno agli antichi sponsali romani, cit.,

504. Sulla rilevanza del consensus paterno si rinvia ancora ad aStolfi, Il matrimonio nel diritto

romano preclassico, cit., 94-102.

44 Convince a tal proposito la lettura di aStolfi (Varrone, i Comici e il fidanzamento arcaico, in

SDHI, 55, 1989, 392-394, in part. 393), secondo il quale per il pater, con la stipulatio poenae, era

possibile acquistare il proprio ‘diritto di recedere’ dalla sponsio di fidanzamento della sottoposta.

45 volterra, Osservazioni intorno agli antichi sponsali romani, cit., 502-504.

46 voCi, Storia della patria potestas da Augusto a Diocleziano, in IURA, 31, 1980, 37-100 (= Studi di

diritto romano, 2, Padova, 1985, 397-463, in part. 404); aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano

(1989), cit., 11.

47 Così aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 11 e 37.

48 Ibidem, 13.

49 volterra, Lezioni di diritto romano, cit., 369; fayer, La familia romana, 2,

cit., 49.

50 volterra, Lezioni di diritto romano, cit., 369.

51 Ad es. Plaut. cist. 497-498, ove addirittura a ribellarsi è il fischio maschio.

52 volterra, Lezioni di diritto romano, cit., 369. L’osservazione dell’Autore è

però riferibile alla sola evoluzione classica. Sembra più corretto affermare che in fase arcaica il

consensus paterno è condizione necessaria e sufficiente per l’‘atto’ di matrimonio e deve

sussistere per l’intera durata del rapporto coniugale, ancorché congiuntamente a quello dei

coniugi. Il genitore può, in qualsiasi momento, servirsi del suo potere coercitivo al fine di porre in

essere la ductio con la quale può ancora sottrarre la filia al maritus; cfr. anche aStolfi, Il

matrimonio nel diritto romano preclassico, cit., 100. In fase classica, al consenso paterno deve

necessariamente aggiungersi quello della diretta interessata; si veda aStolfi, Il matrimonio nel

diritto romano classico, Padova, 2014, passim.

53 Ad es. aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit., 40-41. Le considerazioni storico

giuridiche non mancano e si rinviano ad altra sede le dovute considerazioni.

54 Sul tema si veda volterra, Lezioni di diritto romano, cit., 370 con i rilievi posti da aStolfi (Il

fidanzamento nel diritto romano, 1989, cit., 12, e ed. 1994, 11).

55 Ovvero in base alla promessa.

56 Cfr. volterra, Lezioni di diritto romano, cit., 369; ne troviamo ulteriore conferma ripercorrendo

il testo varroniano (Varro l.L. 6.71): Qui spoponderat filiam, despondisse dicebant, quod de sponte

eius, id est de voluntate, exierat [...] Sic despondisse animum quoque dicitur, ut despondisse

filiam, quod suae spontis statuerat finem.

57 Si veda aStolfi, Il fidanzamento nel diritto romano, cit.,