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L’affaire Zhou alla consulta. La sopravvenienza di una pronuncia della Corte EDU non è un caso di revocazione, (nota a Corte Cost., sent. 27 aprile 2018, n. 93)

autore: V. Cianciolo

Il caso Zhou



La sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo Zhou c. Italia, emessa in data 21 gennaio 2014 – divenuta definitiva il 2 giugno 2014 a seguito del rigetto della richiesta di rinvio del caso in Grande Camera, presentata dal Governo ex art. 43 della Convenzione – costituisce senza dubbio una pietra miliare per l’affermazione definitiva dell’adozione mite in Italia. L’adozione mite nasce nel Tribunale per i minorenni di Bari nell’anno 2003, a seguito dell’approfondimento del rapporto tra affidamento familiare e adozione e all’individuazione di una terza via: quella dell’affidamento sine die, quando risulti impraticabile il rientro del minore nella famiglia di origine. Questo percorso ha dato luogo alla categoria del cosiddetto “semiabbandono permanente”. In tal caso si è ritenuto possibile procedere a una forma di adozione semplice, quella prevista dall’art. 44 lett. d) della legge 4 maggio 1983 n. 184 che consente l’adozione di bambini “quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”. In tal modo non viene interrotto il rapporto con i genitori d’origine, ma lo si perpetua, aggiungendo a questo primo rapporto parentale un altro adottivo. Per le sue caratteristiche e i suoi effetti questa adozione è stata qualificata come “mite” in contrapposizione all’adozione legittimante (definita “forte” e disciplinata dagli art. 6-25 della legge n. 184/1983), che interrompe definitivamente il rapporto giuridico genitori-figli e non ne prevede la perpetuazione neppure in via di fatto. L’adozione mite non produce strappi per l’allontanamento del bambino dalla famiglia ed è estremamente graduale. La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo Zhou contro Italia si inserisce quindi in un contesto particolarmente complesso. Si tratta di una decisione autorevole non solo per la Corte che l’ha pronunciata, ma anche per le modalità che hanno accompagnato la pronuncia.

a) Va infatti sottolineato anzitutto in proposito che la decisione è stata assunta all’unanimità. E ciò merita particolare attenzione quando si consideri che i giudici che l’hanno pronunciata sono portatori di culture giuridiche molto diverse tra loro. Il che comporta che l’adozione semplice trova pacifico riconoscimento negli ordinamenti giuridici di tutta Europa.

b) Inoltre, per giungere alla decisione, la Corte ha effettuato un approfondimento della conoscenza del sistema normativo italiano. Non si è limitata cioè ad analizzare le principali disposizioni, che richiama puntualmente nel testo, ma è andata oltre fino a studiare il diritto vivente. Gli orientamenti giurisprudenziali dei tribunali minorili sono stati quindi oggetto di una specifica ricerca, chiesta al Governo. In particolare la Corte dà atto dell’esito della richiesta effettuata e riferisce che parecchi tribunali hanno applicato come forma di adozione semplice l’adozione in casi particolari ex art. 44 lett. d), legge n. 184/1983 al di là dei casi previsti dalla legge. In particolare, su tredici tribunali interpellati – dice la sentenza –, sei hanno dato un’interpretazione estensiva della previsione dell’art. 44 lett. d). Inoltre, l’approfondimento è tale che il giudice europeo non solo richiama le diverse motivazioni addotte per giungere a tali decisioni dai Tribunali per i minorenni di Lecce e di Palermo, ma giunge anche a cogliere il mutamento di orientamento intervenuto nel Tribunale per i minorenni di Bari, distinguendo il quinquennio dal 2003 al 2008, nel quale tale Tribunale ha applicato l’adozione mite, dando un’interpretazione estensiva della norma citata, dal periodo successivo. Proprio il richiamo al diritto vivente e alla giurisprudenza dei tribunali che hanno pronunciato decisioni in base ad un’interpretazione estensiva ha portato poi la Corte europea a superare l’obiezione (proposta da ultimo dalla Corte d’appello di Venezia) relativa all’assenza nella legislazione italiana di disposizioni che consentano di procedere all’adozione semplice e a concludere che questa adozione aveva trovato applicazione “in certi casi in cui non vi era abbandono”.

Posto che i principi ispiratori dell’adozione mite trovano fondamento nel diritto europeo, ci si augura che questa sentenza possa avere l’effetto di modificare gli orientamenti giurisprudenziali italiani finora altalenanti e di indurre i giudici minorili del nostro Paese ad adeguarsi senza ulteriori dissensi ai principi che vi sono proclamati.

La sentenza della Corte Costituzionale La seconda sezione della Corte Edu in data 21 gennaio 2014, come è noto, aveva accolto il ricorso della signora J.Z. ritenendo all’unanimità sussistente la violazione dell’art. 8 della Convenzione – che protegge il diritto al rispetto per la vita privata e familiare – in relazione all’adozione del figlio della donna disposta dal Tribunale di Venezia. La ricorrente di nazionalità cinese ma residente in Italia dal 2000, era rimasta incinta di suo figlio nel 2003. Il padre del bambino con la quale la donna era venuta in Italia unitamente alle altre loro due figlie, successivamente tornate a vivere in Cina dai nonni, l’aveva abbandonata all’inizio della gravidanza. Nella citata sentenza CEDU del 2014 in sostanza, si ribadisce il principio, già affermato in altre sentenze, in forza del quale l’art. 8 consacra il diritto del genitore ad ottenere misure idonee al riavvicinamento al proprio figlio e l’obbligo per le Autorità nazionali di dotarsi di strumenti concreti per la realizzazione di questa finalità, fatta salva la necessità di verificare nella situazione specifica quale sia l’interesse principale da salvaguardare tra quelli in conflitto. Il Giudice delle leggi con la sentenza in esame ha disatteso la questione di legittimità costituzionale degli artt. 395 e 396 c.p.c., nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione delle sentenze civili nelle more passate in giudicato l’ipotesi dell’adeguamento ad una sopravvenuta pronuncia della Corte Edu di segno contrario, per asserita violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione al parametro interposto dell’art. 46, paragrafo 1, della Cedu, dovendo, in proposito, essere ribadita la differenza tra processi penali e civili e la necessità, con riferimento a questi ultimi, di tutelare i terzi, la cui posizione processuale non è assimilabile a quella delle vittime dei reati nei procedimenti penali. Già con la sentenza n. 123 del 2017 la Consulta aveva affrontato il tema dell’incidenza della finalità di conformarsi ad una sentenza della Corte Edu sulla possibilità di revocazione delle sentenze civili o amministrative passate in giudicato, affermando il principio secondo cui la riapertura del processo che non sia di natura penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, non costituisce un obbligo generale, in ragione del coinvolgimento di soggetti terzi, e – in ogni caso – esige una delicata ponderazione, alla luce dell’art. 24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, ponderazione rimessa in via prioritaria al legislatore. Anche questa volta, viene nuovamente affermata l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con riferimento alla norma evocata, rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma, Cost., poiché l’estensione dell’obbligo di conformazione discendente dall’art. 46, paragrafo 1, della Cedu deve tenere conto delle esigenze di tutela dei soggetti diversi dallo Stato che hanno preso parte al giudizio interno civile o amministrativo, diversamente dai processi penali, sicché la revocazione non può essere automatica e spetta al legislatore regolarne le condizioni nel rispetto delle posizioni dei terzi.