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La violenza di genere: la prospettiva della normativa sovranazionale, le criticità del diritto interno

autore: R. D'Onofrio

Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il diritto interno: le fattispecie di diritto sostanziale. - 3. Il diritto interno: le norme di diritto processuale La tutela della vittima nel procedimento. - 4. La tutela dalla vittimizzazione secondaria. - 5. Rimedi risarcitori. - 6. Conclusioni.



1. Introduzione



Le fonti sovranazionali offrono, già allo stato, un idoneo e completo supporto giuridico al tema della violenza di genere. Tra le fonti comunitarie che possono essere ricordate, merita certamente menzione la Risoluzione del Parlamento Europeo del 26 novembre 2009 sull’eliminazione della violenza contro le donne, la quale si conclude nel senso che: “1. la violenza degli uomini nei confronti delle donne non costituisce meramente un problema di salute pubblica, ma anche una questione di diseguaglianza tra donne e uomini, ambito in cui l’Unione europea ha il mandato per intervenire; 2. la violenza degli uomini nei confronti delle donne costituisce una violazione dei diritti umani, segnatamente il diritto alla vita, alla sicurezza, alla dignità, all’integrità mentale e fisica nonché alla scelta e alla salute sessuale e riproduttiva; 3. la violenza degli uomini nei confronti delle donne ostacola la partecipazione delle donne alle attività sociali, alla vita politica, alla vita pubblica e al mercato del lavoro e può portare le donne all’emarginazione e alla povertà; 4. la violenza contro le donne come madri esercita, direttamente e indirettamente, un impatto negativo duraturo sulla salute mentale ed emotiva dei loro figli, e può innescare un ciclo di violenza e di abusi che si perpetua di generazione in generazione”. Nella direzione sovranazionale, va rimarcato l’impegno dell’ordinamento giuridico interno consistito nell’intervenuta ratifica, con legge 27 giugno 2013, n. 77, della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, aperta alla firma degli Stati (sia di quelli membri del Consiglio d’Europa che degli Stati terzi) sottoscritta ad Istanbul l’11 maggio 2011. La Convenzione intende assicurare che gli Stati parte adottino livelli avanzati (e comuni) di prevenzione e contrasto della violenza contro le donne, di protezione delle vittime e di punizione dei responsabili. Oltre a definire le diverse tipologie di violenza (violenza contro le donne; violenza domestica; violenza contro le donne basata sul genere), la Convenzione prevede che gli Stati dispongano di un adeguato sistema di prevenzione, protezione e sostegno delle vittime e di punizione degli autori delle violazioni. L’articolo 17 della Direttiva “sulla vittima” chiarisce che tale è la violenza che possa procurare qualunque danno fisico, sessuale, emotivo, psicologico, economico “contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere, della sua espressione di genere, che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere”. L’articolo 3 della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e lotta contro la violenza nei confronti delle donne dell’11 maggio 2011) distingue fra “violenza nei confronti delle donne” e “violenza contro le donne basata sul genere”, con quest’ultima intendendo “la violenza contro una donna in quanto tale”. Secondo la definizione accolta e condivisa a livello internazionale l’espressione “violenza contro le donne” comprende “tutti gli atti di violenza contro il genere femminile che si traducono, o possono tradursi, in lesioni o sofferenze fisiche, sessuali o psicologiche per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che nella vita privata”. Per questa definizione, senza esaustività, possono qui ricordarsi: lo studio approfondito del Segretario generale delle Nazioni Unite su tutte le forme di violenza nei confronti delle donne (2006), i lavori sugli indicatori della violenza elaborati dalle Nazioni Unite sulla violenza nei confronti delle donne (2008), la Risoluzione 61/143 delle Nazioni Unite sul rafforzamento delle azioni condotte per eliminare tutte le forme di violenza nei confronti delle donne (2006). L’articolo 3, lettera b) della Convenzione di Istanbul definisce come “violenza domestica” tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza L’articolo 16 di questa Convenzione (rubricato: Programmi di intervento di carattere preventivo e di trattamento) prevede che “le Parti adottano le misure legislative e di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi rivolti agli autori di atti di violenza domestica, per incoraggiarli ad adottare comportamenti non violenti nelle relazioni interpersonali, al fine di prevenire nuove violenze e modificare i modelli comportamentali violenti. Le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per istituire o sostenere programmi di trattamento per prevenire la recidiva, in particolare per i reati di natura sessuale. Nell ‘adottare le misure di cui ai paragrafi 1 e 2, le Parti si accertano che la sicurezza, il supporto e i diritti umani delle vittime siano una priorità e che tali programmi, se del caso, siano stabiliti ed attuati in stretto coordinamento con i servizi specializzati di sostegno alle vittime”. La legge n. 77 del 27 giugno del 2013 contiene una ratifica “secca” della Convenzione di Istanbul: essa prevede le sole clausole di ratifica e di esecuzione dell’accordo internazionale, riservando ad un successivo approfondimento l’adozione delle disposizioni necessarie a rendere il nostro ordinamento del tutto conforme alla Convenzione in ragione del valore e della rilevanza sociale dei beni giuridici coinvolti. Del resto, molte disposizioni della Convenzione hanno natura auto-esecutiva (self executing) e non richiedono l’adozione di nuove norme. È il caso, ad esempio, degli articoli 36, 37, 38, 39, 41, 46, 56 della Convenzione medesima i quali prevedono l’obbligo di sanzionare penalmente condotte come la violenza sessuale, il matrimonio forzato, la mutilazione degli organi genitali femminili, l’aborto e la sterilizzazione forzati, il favoreggiamento della prostituzione. Va rimarcato che, anche a seguito di interventi legislativi (da ultimo, la legge 1 ottobre 2012, n. 172, recante ratifica della Convenzione di Lanzarote sulla protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale) siffatte condotte sono già, in gran parte, sanzionate dal codice penale nell’ambito dei delitti contro l’incolumità individuale, contro la libertà personale e contro la libertà morale.

2. Il diritto interno: le fattispecie di diritto sostanziale Il legislatore dedica attenzione alla tematica della violenza di genere, sia pure, più sotto il profilo della tutela della sicurezza pubblica che dell’effettiva valorizzazione dei diritti fondamentali delle donne o, più genericamente, di coloro che subiscono violenza per l’appartenenza ad un dato genere. Il codice penale, invero, contempla numerose fattispecie dirette a reprimere gli atti di violenza nei confronti delle vittime vulnerabili: maltrattamenti contro familiari e conviventi, puniti con la pena della reclusione da due a sei anni (art. 572); violenza sessuale, punita con la reclusione da cinque a dieci anni (art. 609-bis); violenza sessuale aggravata, punita con la reclusione da sei a dodici anni o da sette a quattordici anni (art. 609-ter); atti sessuali con minorenne, puniti con la reclusione da cinque a dieci anni, salvi i casi particolari previsti dalla norma (art. 609-quater); corruzione di minorenne, punita con la reclusione da uno a cinque anni (art. 609-quinquies); violenza sessuale di gruppo, punita con la reclusione da sei a dodici anni (art. 609-octies). In considerazione della esigenza di avanzare lo stadio di tutela delle vittime di violenza si è configurata la fattispecie del reato di “Atti persecutori” (c.d. stalking), di cui all’art. 612-bis c.p., introdotta dall’art. 7 del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, che rappresenta una tappa fondamentale nella lotta contro un fenomeno negli ultimi anni di forte e drammatica incidenza nel tessuto sociale. Le pene per il reato di atti persecutori sono le più severe tra quelle previste per i delitti contro la libertà morale: l’articolo 1-bis del decreto-legge 1 luglio 2013, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2013, n. 94, ha innalzato il limite massimo della pena da quattro a cinque anni di reclusione. E tanto allo scopo di rendere applicabile al delitto di stalking la custodia cautelare in carcere dal momento che veniva innalzata, con il medesimo intervento normativo, la pena edittale massima, da quattro a cinque anni, dei reati per i quali era prevista la possibilità di applicare la misura tutelare massima, ossia la custodia cautelare in carcere. La pena base, inoltre, è aumentata (fino a un terzo) se lo stalker:

– è il coniuge legalmente separato (o divorziato);

– è stato legato da una relazione affettiva con la vittima;

– oppure se il reato è commesso con strumenti informatici telematici. La pena è ulteriormente aumentata fino alla metà (dunque, sino a nove mesi nel minimo e a sette anni e mezzo nel massimo) quando il fatto è commesso:

– in danno delle cosiddette “fasce deboli” (i minori, le donne in stato di gravidanza, le persone disabili);

– con armi;

– da persona travisata. Queste pene fanno sì che per tale reato siano possibili sia l’arresto obbligatorio in flagranza, sia l’applicazione di misure cautelari personali, compresa la custodia in carcere. Del tutto peculiare è il regime sulla procedibilità: il reato, nella sua fattispecie base, è procedibile a querela di parte ma il termine per la proposizione della querela è allungato a sei mesi, allo scopo di consentire una maggiore meditazione da parte della “vittima”. Quanto al regime della remissione di querela, la stessa è consentita solo nell’ambito del processo, ossia davanti all’organo giurisdizionale e la querela è, tuttavia, irrevocabile nei casi di: – minacce reiterate; – nei modi di cui all’articolo 612 comma II (ossia in caso di minaccia grave o commessa nei modi di cui all’articolo 339 c.p. (ossia “con armi, da persone travisate o da più persone riunite o commessa con scritto anonimo”). Nelle ipotesi aggravate (di reato commesso in danno delle cosiddette “fasce deboli” ossia i minori, le persone disabili) si procede d’ufficio e così anche nelle ipotesi di connessione del reato ad altro procedibile d’ufficio. La procedibilità è poi di ufficio nelle ipotesi in cui l’autore del reato abbia subìto l’ammonimento del Questore ai sensi dell’articolo 8, comma II, d.l. 23 febbraio 2009 n. 11, convertito nella legge 23 aprile 2009 n. 38. L’istituto in argomento è catalogabile come “misura di prevenzione per condotte di violenza domestica” ed è strumento nevralgico di prevenzione della violenza domestica. La caratteristica dell’ammonimento, con le innovazioni introdotte a seguito del d.l. n. 93/2013, come convertito, è data dal fatto che, anche in difetto di querela per i delitti di stalking ed anche di lesioni, di cui all’articolo 582 comma II c.p., sia consumate che tentate, purché commesse “nell’ambito di violenza domestica, il questore può procedere, assunte le informazioni necessarie da parte degli organi investigativi e sentite le persone informate sui fatti, all’ammonimento dell’autore del fatto”. L’ammonimento, secondo alcuni, sarebbe atto non autonomamente impugnabile, in quanto l’ammonito si limita a dover rispettare le leggi; è prevalso, però, l’orientamento contrapposto secondo il quale l’ammonito è dotato di interesse diretto, concreto ed attuale all’impugnazione in quanto da siffatto provvedimento deriva la procedibilità di ufficio e l’aggravamento del delitto di atti persecutori (cfr. Tar Calabria, Sez. I 4 novembre 2010 n. 1171 secondo il quale l’ammonimento è atto amministrativo di protezione contro il fenomeno dello stalking). Per dottrina maggioritaria, poi, l’ammonimento è misura di prevenzione poiché applicabile a soggetti socialmente pericolosi e finalizzato a controllarne la pericolosità per prevenire la commissione dei reati. È proprio, solo, nel ristrettissimo ambito della delineazione del confine della “violenza domestica” rilevante ai fini dell’emissione della misura dell’ammonimento del Questore che il nostro legislatore di urgenza, nel decreto legge 14 agosto 2013 n. 93 (poi convertito nella legge 15 ottobre 2013 n. 119) che detta l’unica definizione di “violenza domestica” presente nel nostro ordinamento positivo interno: “Ai fini del presente articolo, si intendono per violenza domestica uno o più atti, gravi ovvero non episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima”. Sempre al fine di arginare “il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato”, nelle forme della decretazione d’urgenza, è l’intervento normativo teso “ad inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori ditali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica”: decreto legge 14 agosto 2013, n. 93, convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, recante “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”. Si è intervenuti sia sulla disciplina delle fattispecie di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori e violenza sessuale, agendo sulla leva sanzionatoria e configurando nuove aggravanti, che sul versante della legge processuale prevedono misure precautelari e meccanismi di tutela della persona offesa in occasione della revoca o sostituzione di quelle cautelari. Il decreto ha quindi introdotto delle nuove aggravanti del delitto di violenza sessuale (art. 609-ter c.p., numeri 5, 5-ter e 5-quater con applicazione di pena da sei a dodici anni di reclusione), portando altresì da sedici a diciotto anni il limite di età della persona offesa per il quale rappresenta aggravante speciale il fatto che il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo o il tutore: la prima per il caso che la vittima del reato sia una donna in stato di gravidanza, la seconda per quello in cui la stessa sia il coniuge, anche separato o divorziato, dell’agente ovvero persona che a quest’ultimo è legata o è stata legata in passato da relazione affettiva, a prescindere da uno stato di convivenza.



3. Il diritto interno: le norme di diritto processuale



La tutela della vittima nel procedimento Il d.l. 93 del 2013 introduce obblighi informativi in favore delle vittime dei reati che siano manifestazione della violenza di genere Nella specie, all’articolo 101 c.p.p.p., risulta introdotto l’obbligo per il Pubblico Ministero e per la Polizia Giudiziaria, al momento dell’acquisizione della notizia di reato, di informare la persona offesa della facoltà di nominare un difensore di fiducia e di accedere al patrocinio a spese dello Stato. Siffatto obbligo è generale ma soltanto le vittime dei reati di maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, mutilazione degli organi genitali femminili hanno diritto all’accesso gratuito al patrocinio a spese dello Stato a prescindere dalle condizioni economiche. Relativamente al rafforzamento della posizione della persona offesa all’esito della richiesta di archiviazione, il legislatore ha novellato l’articolo 408 c.p.p. introducendo il comma III bis il quale prevede l’avviso di deposito della decisione del Pm di chiedere al Gip l’archiviazione dei procedimenti che abbiano ad oggetto i reati di maltrattamenti in famiglia od i delitti commessi con violenza alla persona vada notificato alla persona offesa, con elevazione del termine per l’opposizione, originariamente, da dieci a venti giorni mentre, a seguito dela cosiddetta “riforma Orlando” (la quale ha previsto l’elevazione del termine a venti giorni per tutte le opposizioni all’archiviazione) da venti giorni ai trenta attuali. Nell’ipotesi in cui, invece il Pubblico Ministero, all’esito delle indagini, ritenga di dovere esercitare l’azione penale, egli deve notificare l’avviso di conclusione delle indagini anche alla persona offesa solo nell’ipotesi in cui la stessa sia vittima dei reati di maltrattamenti in famiglia e stalking ai sensi della novella di cui al comma I dell’articolo 415-bis c.p.p. Anche se, in questo caso, non sono chiare le conseguenze dell’avviso non essendo stata calibrata la norma con la previsione della persona offesa dei suddetti reati di poter richiedere, ad esempio, l’accesso al fascicolo delle indagini. Né è chiaro quali siano le conseguenze del mancato avviso alla persona offesa, ossia se lo stesso possa o meno comportare la nullità della richiesta di rinvio a giudizio come nell’ipotesi di omessa notifica dell’avviso conclusione indagini all’indagato. Altra rilevante novità in termini di obbligo di avviso alla persona offesa riguarda il subprocedimento cautelare. L’art. 1, comma 2, della legge 4 aprile 2001, n. 154, modificato dall’art. 1 della legge 6 novembre 2003, n. 304, prevede specifiche provvedimenti cautelari nell’ambito delle misure contro la violenza nelle relazioni familiari: da un lato, in sede penale, l’ordine di allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.), che a seguito della novella apportata con il decreto legge n. 93 del 2013 consente l’adozione di modalità di controllo con strumenti elettronici o tecnici; dall’altro, in sede civile, l’ordine di protezione contro gli abusi familiari (art. 342-bis c.c.). A tale schermo protettivo si sono, quindi, ulteriormente aggiunti gli artt. 282-ter c.p.p. (Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) e 282-quater c.p.p. (Obblighi di comunicazione dei provvedimenti di cui ai due articoli precedenti alla autorità di pubblica sicurezza, per l’eventuale adozione di provvedimenti in materia di armi e munizioni, ed alla persona offesa e servizi socio-assistenziali del territorio), introdotti sempre dalla l. 23 aprile 2009, n. 38. Con l’introduzione del comma II-bis dell’articolo 299 c.p.p., limitatamente a tutti i procedimenti riguardanti tutti i delitti commessi con violenza alla persona, i provvedimenti di revoca, sostituzione o applicazione con modalità meno gravose delle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare, del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, e, dopo la legge di conversione, anche, degli arresti domiciliari, della custodia cautelare in carcere ed in altri luoghi di custodia e del divieto/obbligo di dimora, vanno comunicati, a cura della polizia giudiziaria, al difensore della persona offesa o, in mancanza di questi, alla stessa persona offesa ed ai servizi socio-assistenziali. Siffatto obbligo di comunicazione è stato introdotto per ottemperare, lo Stato, a quanto disposto dall’articolo 6 n. 5 della Direttiva Vittima e dall’articolo 56 lettera b) della Convenzione di Istanbul. L’adattamento, però, imposto dal legislatore interno appare, ancora una volta, carente e lacunoso dal momento che l’obbligo informativo non sussiste qualora l’ordinanza che impone una delle misure cautelari sopra elencate sia annullata, revocata o modificata all’esito dell’impugnazione cautelare (riesa me, appello, ricorso per Cassazione) o in caso di scadenza della misura per decorrenza dei termini o nell’ipotesi in cui il ristretto evada. Ulteriore obbligo informativo alla persona offesa di tutti i delitti commessi con violenza alla persona, è previsto qualora il Pubblico Ministero o l’imputato, sia nel corso del procedimento – e purché non in sede di interrogatorio di garanzia (articolo 299 comma III c.p.p.) – sia dopo la chiusura delle indagini preliminari (articolo 299 comma IV-bis c.p.p.) richiedano la i di revoca, sostituzione o applicazione con modalità meno gravose delle misure cautelari dell’allontanamento dalla casa familiare, del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, e, dopo la legge di conversione, anche, degli arresti domiciliari, della custodia cautelare in carcere ed in altri luoghi di custodia e del divieto/ obbligo di dimora. In questi casi la richiesta deve essere notificata, a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo caso, essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere il domicilio nel procedimento. L’obbligo informativo è strumentale a consentire alla persona offesa, entro due giorni, a presentare memorie difensive. Ove essa non eserciti siffatta prerogativa nei termini, il giudice è legittimato a provvedere. Ebbene, laddove la norma fosse interpretata nel senso che sussiste un onere di notifica alla persona offesa solo laddove la stessa abbia esplicitamente eletto o dichiarato il domicilio nel procedimento, allora ricorre un vuoto normativo nel punto in cui non è previsto un onere informativo alla persona offesa di reati a vittima vulnerabile, non solo di nominare un difensore di fiducia, ma anche di dichiarare od eleggere domicilio nel procedimento.



4. La tutela dalla vittimizzazione secondaria



Ricorrono, poi, una serie di norme procedimentali finalizzate al raccoglimento della prova senza ingenerare alcuna “vittimizzazione secondaria” della persona offesa vulnerabile ed alla migliore conservazione della prova. Lo statuto del raccoglimento della prova dichiarativa deve essere improntato alla finalità di evitare che la persona offesa vulnerabile debba subire una “vittimizzazione” nelle modalità di raccoglimento della prova nel processo e di consentire un raccoglimento della prova che sia efficace e genuino. Già in fase di indagini il legislatore ha previsto che nei procedimenti in ordine ai reati di maltrattamenti in famiglia, pedopornografia minorile, violenza sessuale ed atti persecutori, il comma I-ter dell’articolo 351 c.p.p. stabilisce che laddove debbano essere assunti a sommari informatori dei minori, siffatta assunzione debba avvenire mediante l’ausilio di esperti in psicologia o psichiatria infantile, con estensione di siffatto principio anche alle ipotesi di assunzione di informazioni dalla persona offesa maggiorenne versante in condizioni di particolare vulnerabilità e che in queste ultime ipotesi si devono trovare accorgimenti per evitare che le persone offese vengano in contatto con l’indagato e per evitare la ripetizione dell’esame a meno che ciò non sia assolutamente necessario. Non sono, tuttavia, tracciate o tracciabili con nitidezza le conseguenze della mancata osservazione di siffatte garanzie se non in termini di utilizzabilità della prova.

Nel nostro ordinamento, poi, non è prevista una possibilità diretta della persona offesa di richiedere l’incidente probatorio ma solamente una facoltà della stessa di richiedere al Pubblico Ministero di chiederlo, a sua volta, senza che, peraltro, sia prevista qualsivoglia conseguenza per l’ipotesi del diniego, da esprimersi con decreto motivato (articolo 394 c.p.p.). Tuttavia, l’articolo 392 c.p.p. al comma 1-bis prevede la possibilità di accesso all’incidente probatorio in tutti i casi nei quali si debba assumere la testimonianza della persona offesa minorenne ovvero anche maggiorenne anche al di fuori dei casi tassativi di ammissione dell’incidente probatorio, per i procedimenti in ordine ai reati di maltrattamenti in famiglia, pedopornografia minorile, violenza sessuale ed atti persecutori. Ricorre dunque una presunzione di urgenza nell’assunzione della prova laddove vi sia una persona offesa vulnerabile. Con intervento del legislatore nel 2015, poi (d.lgs. 15 dicembre 2015 n. 212), si è proceduto ad estendere il regime di favore per l’assunzione della testimonianza in tutti i casi di reati in danno di persona offesa che versi in condizioni di particolare vulnerabilità Ai sensi dell’articolo 398 comma V-bis c.p.p., poi, per i procedimenti in ordine ai reati di maltrattamenti in famiglia, pedopornografia minorile, violenza sessuale ed atti persecutori è previsto che la vittima minorenne debba essere sentita con modalità particolari e protette disposte dal giudice con ordinanza; ove occorra, l’audizione può avvenire anche al di fuori del Tribunale presso strutture attrezzate per l’ascolto e la registrazione audiovisiva; nelle ipotesi di indisponibilità di mezzi, la testimonianza va assunta con la forma della perizia e l’interrogatorio va registrato e trascritto. La grossa innovazione, per l’assunzione della prova in tutti i procedimenti a vittima vulnerabile, senza alcuna distinzione tipologica, è dato dal comma V-ter dell’articolo 398 c.p.p. (introdotto con d.lgs. 4 marzo 2014 n. 24) il quale stabilisce che, a richiesta di parte, il giudice possa stabilire che quando all’assunzione della prova siano interessate persone maggiorenni in stato di particolare vulnerabilità, desunta anche dalla tipologia di reato, vadano rispettate le forme di cui al comma V bis. In ogni caso, il d.lgs. 15 dicembre 2015 n. 212 ha introdotto il comma V-quater all’articolo 398 c.p.p. secondo il quale quando occorre procedere all’esame di una persona offesa che versi in condizione di particolare vulnerabilità si applicano le disposizioni di cui all’articolo 498 comma IV-quater c.p.p. Siffatta norma richiama lo statuto della prova dichiarativa raccolta al dibattimento:

– laddove la persona da sentire sia un minorenne, l’esame è condotto dal Presidente con l’eventuale ausilio di un familiare e di un esperto in psicologia infantile a meno che non si stabilisca, con ordinanza sempre revocabile, che si possa procedere con le ordinarie modalità della cross examination (art. 498 comma IV c.p.p.);

– ove lo faccia richiesta una parte o lo ritenga necessario il Presidente si applicano le modalità di cui all’articolo 398 comma V bis c.p.p. (art. 498 comma IV bis c.p.p.);

– nei casi di processi per i reati di maltrattamenti in famiglia, pedopornografia minorile, violenza sessuale ed atti persecutori, ove sia necessario escutere un minore od un maggiore infermo di mente, a richiesta di questi o del suo difensore può essere disposto che lo stesso sia esaminato con il vetro specchio;

– nelle ipotesi sia necessario escutere una “persona offesa che versa in una condizione di particolare vulnerabilità” laddove lo richiedano la stessa od il suo difensore il giudice ne dispone l’audizione con modalità protette (art. 498 comma IV-quater c.p.p.). Se ne deduce, dunque, che in base allo statuto dell’assunzione della prova dichiarativa vigente nell’attuale ordinamento interno, in tutti i casi di vittima che versi in particolare vulnerabilità, sia che la prova sia assunta in sede di incidente probatorio sia che la stessa venga raccolta al dibattimento, a richiesta della stessa o del suo difensore, il giudice dovrà disporne l’escussione con modalità protette. Altra norma posta a presidio della tutela della persona offesa vulnerabile dalla vittimizzazione secondaria è stabilito dall’articolo 20 lettera b) della Direttiva sulla vittima, laddove si suggerisce agli Stati Membri di limitare il numero delle audizioni delle vittime vulnerabili per evitare di incorrere nella cosiddetta “usura del teste”, così evitando che il processo finisca con il diventare una nuova, seppur diversa, violenza. Pertanto il legislatore interno, con il richiamato d.lgs. 15 dicembre 2015 n. 212 ha stabilito che nel caso di processi per reati di pedopornografia o violenza sessuale, laddove il testimone minore degli anni sedici od il maggiore, persona offesa, purché particolarmente vulnerabile siano già stati sentiti in sede di incidente probatorio, le relative dichiarazioni ben possono essere acquisite ex art. 238 c.p.p., con le sole due eccezioni per i casi in cui le parti ne chiedano l’escussione su casi e circostanze diversi da quelle delle precedenti deposizioni od il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario per specifiche esigenze (articolo 190-bis c.p.p. comma 1-bis). Fa da contraltare a siffatta normativa il principio secondo il quale nei casi di processi particolarmente delicati, quali quelli di pedopornografia o di violenza sessuale, la persona offesa può chiedere che si proceda a porte chiuse mentre l’eccezione alla pubblicità dell’udienza è sempre ammessa allorquando le vittime di questi reati siano dei minori (articolo 472 comma III-bis c.p.p.) ai danni di un minorenne. Inoltre vi è sempre la facoltà di procedersi a porte chiuse nel caso di esame di minorenni (art. 472 comma IV c.p.p.). Il legislatore opera, in questi casi, un bilanciamento di interessi fra il principio, necessitato e generale, della pubblicità delle udienze, principio imposto anche in ambito Convenzionale e mirante alla tutela della democraticità del processo rispetto alla, contrapposta, necessità di salvaguardia di alcune persone offese vulnerabili che si trovino a dover subire processi delicati in materia sessuale. Ancora, ai sensi dell’art. 132-bis disp. att. c.p.p., è stata assicurata priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e nella trattazione dei processi relativi ai delitti di violenza sessuale, maltrattamenti e stalking. Quanto, poi, al rafforzamento della tutela delle prerogative delle vittime vulnerabili, è opportuno ricordare che il Legislatore è intervenuto, in particolare, sull’articolo 76 comma 4-ter del d.P.R. n. 115 del 2002 (come risultante per effetto delle modifiche apportate dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009, n. 38, e sostituito dall’art. 9, comma 1, l. l ottobre 2012, n. 172 e dal d.l. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla l. 15 ottobre 2013, n. 119), prevedendo che la persona offesa dai reati di cui agli articoli 572, 583-bis, 609-bis, 609-qua ter, 609-octies e 612-bis, nonché, ove commessi in danno di mìnori, dai reati di cui agli articoli 600, 600-bis, 600-ter, 600-quinquies, 601, 602, 609-quinquies e 609-undecies del codice penale, può essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato anche in deroga ai limiti di reddito previsti dalla legge. Il beneficio dell’esenzione dei costi del processo è stato dunque attivato proprio in favore di quelle persone che risultino essere state vittime di maltrattamenti, comportamenti vessatori o comunque di violenza. Con riguardo ai procedimenti di separazione e divorzio e ai procedimenti in genere aventi ad oggetto le convivenze di fatto, la persona vittima di violenza può appellarsi all’istituto dell’ordine di protezione, di cui agli articoli 342-bis c.c., 736- bis c.p.c. oppure agli strumenti di cui agli artt. 330, 333 e.c. (decadenza e limitazione della responsabilità genitoriale), là dove siano coinvolti anche i bambini.



5. Rimedi risarcitori



A chiusura della disamina giova ricordare che il risarcimento del danno si configura come rimedio tuttora vigente per rimediare ai pregiudizi che la vittima delle violenze abbia subito anche nell’ambito di cui si discute. Secondo il diritto vivente (v. Corte cost., sentenza 15 dicembre 2010 n. 355), l’attuale sistema della responsabilità civile per danni alla persona, fondandosi sulla risarcibilità del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. e non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ., è essenzialmente un sistema bipolare. La Corte di Cassazione, riconducendo ad organicità tale sistema, ha elaborato taluni criteri, legati alla gravità della lesione, idonei a selezionare l’area dei danni effettivamente risarcibili (citata sentenza n. 26972 del 2008). Nel caso di danno richiesto a fronte di una violenza di genere, la risarcibilità del danno non patrimoniale è senz’altro ammessa ricorrendo la lesione di valori costituzionali. Con specifico riferimento poi alla persona straniera che subisca crimini nel territorio italiano, merita di essere ricordata la direttiva 29 aprile 2004, n. 2004/80/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’indennizzo delle vittime di reato), pubblicata nella G.U.U.E. 6 agosto 2004, n. L 261; direttiva trasposta in Italia con il d.lgs. 9 novembre 2007, n. 204 e la l. 7 luglio 2016, n. 122 (legge europea 2015-2016). Questo atto normativo eurounitario stabilisce un sistema di cooperazione volto ad aiutare le vittime di reato a ottenere un indennizzo, indipendentemente dal luogo dell’Unione europea (UE) in cui il reato è stato commesso; il sistema si applica sulla base dei sistemi di indennizzo nazionali dei paesi dell’UE per le vittime di reati internazionali violenti commessi nei relativi territori. Lo scopo della Direttiva è quello di assicurare un indennizzo adeguato delle vittime che, invero, può essere difficile perché: l’autore del reato non possiede le risorse finanziare necessarie; non è stato possibile identificare o perseguire l’autore del reato (la possibilità di ottenere un indennizzo dall’autore del reato è trattata nella direttiva 201 2/29/UE, che fissa norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato). La Direttiva impone che le vittime:

– vengano indennizzate indipendentemente dal loro paese di residenza o dal paese dell’UE in cui è stato commesso il reato;

– ricevano un indennizzo equo ed adeguato (l’importo esatto è lasciato alla discrezione del paese dell’UE in cui è stato commesso il reato). In virtù della Direttiva, tutti i paesi dell’UE sono tenuti a istituire sistemi nazionali che garantiscano un indennizzo equo e adeguato. In Italia, si è provveduto, da ultimo con le norme introdotte dalla legge 20 novembre 2017 n. 167 (legge europea 2017), pubblicata nella G.U. del 27 novembre 2017 n. 277 (v. art. 6). In virtù del modello introdotto nel 2016, come modificato nel 2017, è riconosciuto il diritto all’indennizzo a carico dello Stato alla vittima di un reato doloso commesso con violenza alla persona e comunque del reato di cui all’articolo 603-bis del codice penale, ad eccezione dei reati di cui agli articoli 581 e 582, salvo che ricorrano le circostanze aggravanti previste dall’articolo 583 del codice penale. L’indennizzo è elargito per la rifusione delle spese mediche e assistenziali, salvo che per i fatti di violenza sessuale e di omicidio, in favore delle cui vittime, ovvero degli aventi diritto, l’indennizzo è comunque elargito anche in assenza di spese mediche e assistenziali. Quanto all’indennizzo, trova applicazione il decreto ministeriale del 31 agosto 2017, pubblicato nella G.U. n. 237 del 10 ottobre 2017 (“Determinazione degli importi dell’indennizzo alle vittime dei reati intenzionali violenti”). Ai sensi dell’articolo I del cennato d.m., gli importi dell’indennizzo di cui all’art. 11 della legge 7 luglio 2016, n. 122, sono determinati nella seguente misura:

a) per il reato di omicidio, nell’importo fisso di euro 7.200, nonché’, in caso di omicidio commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, nell’importo fisso di euro 8.200 esclusivamente in favore dei figli della vittima;

b) per il reato di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante della minore gravità, nell’importo fisso di euro 4.800;

c) per i reati diversi da quelli di cui alle lettere a) e b), fino a un massimo di euro 3.000 a titolo di rifusione delle spese mediche e assistenziali.



6. Conclusioni



Per quanto il nostro ordinamento abbia tentato di dare attuazione a tutta una serie di rimedi, di diritto sostanziale e processuale, a presidio delle ragioni delle vittime vulnerabili, è innegabile che ciò sia avvenuto in totale assenza di sistematicità e senza introdurre uno statuto sereno ed organico. L’affastellamento dei successivi interventi del legislatore (dal 2009 in poi con l’introduzione del reato di atti persecutori e delle misure cautelari di cui agli articoli 282-bis e ter c.p.p. e così via) ha portato all’introduzione di tutta una serie di disposizioni, inserite mediante le aggiunte di commi bis, ter e quater ad articoli del codice di procedura penale preesistenti, molto spesso senza coordinamento e, soprattutto, in difetto di una disciplina di respiro. Così, spesso, ingenerandosi confusione negli stessi interpreti ed operatori che sono chiamati, in vari ambiti e settori, a dare applicazione al, non lineare, impianto normativo. Né va sottaciuto come le convenzioni internazionali in materia di diritti umani delle donne ratificate dall’Italia impongono di non considerare le donne vittime di violenza soggetti “deboli” ma come, piuttosto, di soggetti “vulnerabilizzati” a causa della violenza subìta. Siffatta lettura della violenza maschile sulle donne, imposta tanto dalla Cedu che dalla Convenzione di Istanbul, modifica il contenuto dell’obbligo dello Stato. Non si è in presenza di un obbligo di tutela, come erroneamente e forse in mala fede per anni interpretato dal legislatore, bensì dell’obbligo di rimozione degli ostacoli esistenti per l’effettivo godimento, da parte delle donne, dei loro diritti fondamentali

NOTE

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