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La giurisdizione forense nella ristrutturazione della crisi familiare

autore: C. Fossati

Sommario: 1. I limiti della giurisdizione. - 2. Le dinamiche delle relazioni familiari. - 3. L’approccio del legale. - 4. La comunità professionale e la pratica collaborativa. - 5. Le procedure di negoziazione assistita da avvocati. - 6. La negoziazione assistita integrata. - 7. La tutela dell’interesse e l’ascolto del minore nella negoziazione assistita e nella pratica collaborativa. - 8. Il cambio di prospettiva e le potenzialità dell’avvocatura.



Dalla constatazione dei limiti della giurisdizione, alle prassi invalse presso le Corti, inadeguate nel dare risposte efficaci alle coppie in crisi, la giustizia in materia di famiglia ha dimostrato il sostanziale fallimento del modello contenzioso. Le relazioni familiari necessitano di un trattamento differenziato rispetto ad un qualunque altro aspetto trattato dal diritto civile. Gli aspetti emotivi e psicologici delle crisi interpersonali hanno un peso che non va trascurato. L’intervento dell’avvocato può essere opportunamente integrato da quello dell’esperto delle relazioni familiari, per una risposta molto più aderente alle necessità delle persone. L’atteggiamento, la propensione dell’avvocato nella gestione delle crisi familiari ha un peso rilevante nelle possibilità di sviluppo di una cultura della “mediazione”. Inseriti in un contesto che fa delle liti il terreno di confronto quotidiano, gli avvocati faticano ad uscire da un circolo vizioso che amplifica, anziché attenuare i contrasti. In molti tuttavia condividono la sterilità di un approccio avversariale e sono alla ricerca di un nuovo modo di svolgere la professione. Le procedure di negoziazione assistita introdotte dalla legge 162/2014 consentono di dare voce a questa esigenza e di impostare un nuovo paradigma di intervento: la prospettiva collaborativa nella giurisdizione forense. Il ceto forense ha nelle proprie mani uno strumento efficacissimo per dare la svolta e fornire un contributo determinante ai fini della pacificazione e risoluzione delle controversie. Dipende dall’avvocatura, dalla sua capacità di rinnovarsi, la sfida per la conquista di un ruolo sociale ed istituzionale di primario rango costituzionale.



1. I limiti della giurisdizione



Sempre più spesso e da più parti, nelle sedi dedicate alla formazione, all’aggiornamento professionale, alla specializzazione, si segnala la progressiva presa d’atto di quanto gli strumenti del diritto durano fatica a dare risposte soddisfacenti al bisogno di orientamento e ristrutturazione delle relazioni familiari in crisi1 . Gli avvocati, di pari passo con il crescere dell’esperienza professionale, assumono per primi l’amara consapevolezza dei limiti della giurisdizione. La farraginosità delle procedure, i tempi del processo che non rispondono affatto alle esigenze delle persone, l’irrazio nale competenza ripartita su più uffici – tribunale ordinario, tribunale per i minorenni, giudice tutelare – con conseguente elevato grado di incertezza e moltiplicarsi dei giudizi; la diversità e disomogeneità dei riti, la frequente delusione conseguente al rigetto delle istanze istruttorie fin dal primo grado di giudizio, rappresentano elementi di una diffusa insoddisfazione verso il sistema giudiziario. La constatazione dei limiti della giurisdizione: le frequenti prassi giudiziarie che vedono respingere tout court le istanze istruttorie delle parti, specie se afferenti a prove orali, in favore di incarichi sempre più spesso extragiudiziari, mandati a vario titolo attribuiti ai servizi sociali del territorio, da incarichi di istruzione della vertenza, a deleghe di supporto ed intervento, sino all’affido dei figli in situazioni di elevata conflittualità. È in atto una sostanziale trasformazione delle prassi in uso presso i Tribunali ordinari verso l’adozione di quelle, da tempo segnalate come critiche, in uso presso i Tribunali per i Minorenni. Servizi sociali talvolta impreparati a dare risposte in ambito giudiziario, disorientati ogni qual volta il fascicolo si chiude presso il Tribunale ordinario dal quale hanno ricevuto l’incarico, con conseguente possibile – e paradossale – segnalazione al Tribunale per i Minorenni al solo fine di “riprodurre” un’autorità giudiziaria di riferimento, con effetto domino e moltiplicarsi delle procedure. Servizi del territorio chiamati a molteplici ruoli, non di rado in condizioni di perenne conflitto d’interessi, dovendo essi assolvere istituzionalmente compiti diversificati e poco coerenti: dalla funzione di aiuto e sostegno alle famiglie, a quella – invisa ai più – di segnalazione, a quella di controllo e di esecuzione delle prescrizioni dell’autorità giudiziaria. Si assiste a sempre più frequenti incarichi ad esperti, le note consulenze tecniche d’ufficio, le quali per lo più si svolgono in completa assenza di regole, sia quanto alle competenze effettive degli iscritti agli elenchi tenuti presso l’autorità Giudiziaria, sia quanto alla procedura da rispettare, interamente demandata alla correttezza del consulente di volta in volta nominato, al quale vengono assegnati svariati ed eterogenei compiti e quesiti: dall’incarico di tentare la riconciliazione fra i coniugi, alla mediazione familiare, all’ascolto dei minori, per poi passare alla valutazione sulla capacità genitoriale, funzionale alla decisione sull’affidamento dei figli, fino all’assegnazione della casa. Consulenti tecnici che di volta in volta si ritrovano a rivestire i panni del consulente d’ufficio o del consulente di parte, con elevato rischio di mercificazione dei ruoli.



2. Le dinamiche delle relazioni familiari



Dall’altra le caratteristiche dei soggetti feriti, coinvolti nel conflitto familiare. Molte volte il conflitto è scatenato dal solo desiderio di vedere affermata, alla conclusione del giudizio, la responsabilità del fallimento dell’unione in capo all’altro coniuge o compagno, pur in assenza di effettive conseguenze sul piano giuridico, l’addebito apparendo rimedio residuale e inefficace. Può accadere che le parti formulino o difendano tenacemente le rispettive domande giudiziali non perché siano effettivamente interessate al loro accoglimento, ma solo per dimostrare a se stesse e agli altri di avere prevalso, o ancor peggio, per mera ritorsione. Quando questo atteggiamento viene tenuto – consapevolmente o inconsapevolmente – in relazione alle scelte relative all’affidamento e alla crescita dei figli, gli effetti possono essere devastanti, talvolta irreversibili. Gli avvocati combattono le loro battaglie con l’armamentario messo loro a disposizione nei tribunali: strumenti spesso inadeguati, che non consentono un’assistenza sensibile e personalizzata della quale invece le famiglie hanno bisogno in un momento di drastico cambiamento qual è quello della separazione e del divorzio. Le aspettative di giustizia si infrangono frequentemente contro una realtà incapace di dare risposte. I giudici, quando possono parlare liberamente, riconoscono di non essere le persone più indicate per risolvere le controversie personali familiari. Un giudice che aveva subito un pesante ed estenuante conflitto familiare, ebbe a riconoscere che solo a seguito di quell’esperienza personale dilaniante aveva compreso quanta sensibilità occorra nel trattare questa delicata materia. In occasione del II Forum regionale ligure ONDiF2 intitolato “Il cortocircuito giudiziario nelle procedure minorili e di diritto di famiglia” più volte i relatori3 fecero riferimento ai limiti della giurisdizione, tante volte oggetto di provvedimenti di censura da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo adita in ordine alla frequente violazione del diritto alla vita privata e familiare riconosciuto dall’art. 8. Emerse anche in quella sede la constatazione di come questioni di siffatta natura possono essere risolte più efficacemente dai partner stessi, i quali conoscono meglio di chiunque altro la propria condizione inter-relazionale ed hanno un interesse nel futuro proprio e dei loro figli. Il tutto naturalmente se condotti e guidati in questo percorso di consapevolezza da professionisti qualificati ed eticamente convinti della superiore efficacia di un procedimento stragiudiziale, anche per far valere i diritti.



3. L’approccio del legale



Il tendenziale approccio dell’avvocato ad una soluzione non conflittuale delle crisi familiari ha un peso decisivo, conta per oltre l’ottanta per cento, ai fini della scelta da parte del cliente di uno strumento alternativo di risoluzione della controversia. Esperienza comune a molti avvocati è quella per cui allorché si presenta in studio un nuovo cliente, dapprima questi racconta la sua personale vicenda, ma è solo quando arriva a comunicare il nome del difensore del partner (in genere chiamato da subito – nella prospettiva avversariale – controparte), è solo allora che chi lo assiste può già intuire quante chances vi saranno di evitare il conflitto. Di qui la progressiva constatazione in ordine all’importanza del fattore psicologico, emotivo, di quanto il supporto legale abbia bisogno anche del sostegno degli esperti delle relazioni e della psiche e appunto il lavoro di costoro debba o possa essere interfacciato con il lavoro del difensore; l’importanza della scelta procedurale, nonché dell’atteggiamento mentale del legale di controparte: a seconda del tipo di approccio che può essere dato alle controversie familiari, queste ultime possono essere incanalate, instradate verso una soluzione non contenziosa, o il contrario. Negli anni scorsi, a partire dal 2013, a Genova, si è avviato, con diverse figure professionali, un gruppo di lavoro multidisciplinare4 , comprendente avvocati, psicologi, mediatori familiari, assistenti sociali, magistrati, con i quali è stato possibile realizzare diverse attività, da incontri di discussione, alla supervisione, alla condivisione dei casi, alla formazione. Un’esperienza proficua sul piano umano, esperienziale, multidisciplinare. Sul versante professionale il gruppo è pervenuto alla considerazione che vale la pena proporre convintamente, sin dal primo incontro o contatto con il cliente, il lavoro integrato avvocato-psicologo, allo scopo di promuovere quanto più possibile un approccio olistico ai bisogni della persona. Chi ha sperimentato un siffatto lavoro strutturato ne ha potuto constatare la validità ed efficacia, dal momento che consente di fornire alle parti in lite un adeguato supporto emotivo ed una cornice legale a garanzia del rispetto degli interessi e diritti delle parti e dei figli. La particolare duttilità del metodo adottato permette di applicarsi ad un numero elevato di casi. Laddove, come capita, la crisi familiare necessiti di una pronta risposta, la possibilità di redigere e stipulare accordi parziali o provvisori permette di fornire nell’immediato un contenimento concreto, corrispondente alle esigenze di rapida composizione della crisi, per poi potersi dedicare con tutta l’attenzione ed il tempo necessari all’esame delle questioni più complesse, ai risvolti emotivi, alle esigenze di supporto e di ascolto.



4. La comunità professionale e la pratica collaborativa



Antecedente storico e metodologico della negoziazione assistita è da rinvenirsi nelle prassi e tecniche collaborative nate negli Stati Uniti ad opera degli avvocati Stuart Webb e Ronald D. Ousky5 . Tra i fondamenti di questa metodologia troviamo l’obbligo di lealtà, già previsto in via generale dal codice di procedura civile6 , nonché dal codice deontologico forense (attuale art. 97 ), il quale presenta, nella normativa sulla negoziazione assistita un profilo di maggiore incisività, ciò che comporta che il difensore è chiamato ad adottare una diversa ottica rispetto all’attività contenziosa ed alla difesa degli interessi di parte. Si può affermare che la negoziazione assistita, sebbene caratterizzata dalla contrapposizione degli interessi delle parti, debba svolgersi in un’ottica di cooperazione reciproca8 : i legali sono chiamati a promuovere e favorire tale cooperazione con i rispettivi clienti, adottando una particolare attenzione al tema in occasione della necessaria informativa iniziale, nonché in sede di parere preliminare, perorando profusamente la causa della gestione stragiudiziale e diretta dei propri interessi, non disgiunti dagli interessi preminenti dei figli e da quelli dell’altra parte. Ne consegue che non rispondono a questa prospettiva tutti i comportamenti – degli avvocati, ma anche dei rispettivi clienti – dilatori, omissivi, ispirati ad una qualsivoglia omertà od opacità, adottati al fine di arrivare ad ogni costo ad un accordo che soddisfi esclusivamente le posizioni di una sola parte. È solo prestando attendo ascolto alle ragioni espresse dalle parti, in presenza delle stesse (in questo senso la negoziazione assistita senza le parti pare una contraddizione in termini), che entrambi i difensori possono entrare in relazione empatica con le stesse e trovare un punto di condivisione che riduce massimamente le asperità delle rivendicazioni personali. La cooperazione fra i legali è l’elemento distintivo di maggiore evidenza, che differenzia la negoziazione assistita dalla mediazione: nel procedimento di mediazione gli avvocati hanno il ruolo di difensori delle parti ed è previsto l’intervento di un terzo in posizione imparziale; diversamente nella negoziazione assistita alle parti, ma soprattutto agli avvocati, è affidato un ruolo attivo, di perseguimento dell’accordo, essendo chiamati al raggiungimento di un esito positivo. In questa ottica si spiega la scelta di campo, molto netta, dei professionisti collaborativi, per un mandato limitato9 , che non consente la prosecuzione dell’incarico in sede contenziosa in caso di insuccesso della procedura. È come se i legali fra loro stringessero un patto che vede come obiettivo la soluzione pacifica del contenzioso. La pratica collaborativa, così come la negoziazione assistita, richiede una completa disclosure – ovvero trasparenza – degli elementi che caratterizzano la fattispecie. In tema di tutela della riservatezza potrebbe essere utile che sui documenti che devono essere scambiati o condivisi nel corso della negoziazione assistita sia apposto un timbro che li colleghi a tale procedimento (ad esempio: “documento coperto da obbligo di riservatezza ai sensi dell’art. 9 comma 2 d.l. 132/2014”), in modo da scongiurare che gli stessi possano essere riversati in un eventuale successivo contenzioso in caso di insuccesso della procedura stragiudiziale.

L’art. 9 d.l. 132/2014 prevede un limite di prova testimoniale sia in sede civile sia in sede penale: “i difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite”. L’applicazione anche a “coloro che partecipano al procedimento” delle disposizioni dell’art. 200 c.p.p. e l’estensione delle garanzie di libertà previste per il difensore dall’art. 103 c.p.p., in quanto applicabili, pare dare ingresso, pur non essendo espressamente previsto dalla disciplina della negoziazione assistita, alla possibilità di nominare esperti o periti di parte ovvero un consulente di nomina congiunta10, sempre nell’ottica di addivenire ad una soluzione concordata della controversia. In molti si è fatta strada la consapevolezza della opportunità di creare ed ampliare la comunità di professionisti collaborativi11. Nelle esperienze maturate da coloro che hanno scelto questo orientamento è comune la convinzione che il cambio di prospettiva, ovvero di paradigma, debba essere netto, senza fraintendimenti, senza incertezze12. Occorre in altri termini credere fermamente nella superiorità di un metodo che consenta alle parti di riappropriarsi delle scelte di vita, senza delegare a terzi, ma avendo al proprio fianco ed usufruendo di tutte le competenze professionali che il caso richiede. In questa nuova prospettiva si ritiene che l’approccio “collaborativo”, che la classe forense può garantire adottando un diverso paradigma d’azione, consenta una tutela integrale della persona, perché ha come obiettivo la cura dell’intero sistema delle relazioni personali e non guarda solo ai singoli componenti. Di qui la consapevolezza circa l’opportunità di promuovere in tutte le sedi reti di professionisti che intendano abbracciare questa scelta di fondo e siano pertanto in grado di incidere in maniera decisiva per il benessere delle persone in senso distensivo, anziché alimentare il conflitto. L’obiettivo è rendere più consapevole la scelta per questo tipo di concezione, per un diverso stile di difesa, a chi ha bisogno di orientarsi in questo settore. Sapere e far sapere alle persone che un numero sempre maggiore di professionisti adotta una diversa prospettiva che non passa per il tribunale rende più forte anche la comunità di avvocati conciliatori.



5. Le procedure di negoziazione assistita da avvocati



Un approccio di questo tipo è perfettamente compatibile ed usufruibile attraverso le procedure di negoziazione assistita da avvocati introdotte con il d.l. n. 132/2014, convertito con la legge n. 162/2014. Questo strumento si inquadra nella più ampia tendenziale diffusione delle procedure stragiudiziali dirette a raggiungere un accordo per comporre una controversia.

La normativa presenta alcune lacune che rendono talvolta complicato il lavoro dell’interprete. Con un errore già commesso in occasione dell’introduzione della mediazione obbligatoria13, il legislatore ha dato per scontato che gli avvocati siano pronti a condividere e diffondere uno strumento alternativo nuovo, senza il necessario supporto dato dalla formazione ed aggiornamento professionali. La formazione secondo gli stilemi tradizionali dell’avvocatura è basata su schemi avversariali, nei quali la rivendicazione dei diritti, l’applicazione delle norme, le strategie difensive, costituiscono assiomi prevalenti dai quali è difficile prescindere. I nuovi mezzi messi a disposizione, la mediazione, la negoziazione assistita, la pratica collaborativa, tutte le forme alternative al contenzioso giudiziario, richiedono un radicale cambio di prospettiva negli operatori del diritto, ciò che comporta l’acquisizione di nuove competenze, innovative capacità di comprensione, di ascolto, di adattamento. Questa pars construens che avrebbe dovuto preparare il terreno per renderlo fertile, necessaria a formare una nuova classe forense, è stata obliterata dal legislatore della legge 162/2014, e questo spiega in parte l’approccio riluttante di una parte dell’avvocatura ad utilizzare i nuovi strumenti. Nonostante ciò e pur con i limiti dell’introduzione nel sistema di categorie di pensiero nate e sviluppatesi in altri sistemi giuridici, a prevalere è la constatazione che all’avvocatura italiana è stata data un’opportunità eccezionale: quella di poter essere artefice del proprio cambiamento, dell’adattamento alle esigenze evolute di una società moderna. Da sempre chiamata ad una funzione privata e ancillare, subordinata al potere pubblico di ius dicere, di effettiva interpretazione ed applicazione del diritto, l’avvocatura può essere oggi protagonista di una rivoluzione che le consenta di poter svolgere autarchicamente il proprio ruolo sociale, di essere alternativa alle aule di giustizia, di rendere un “servizio giustizia” al passo con i tempi e con le esigenze delle persone, di fornire non solo una consulenza qualificata, bensì anche il prodotto finale di tale consulenza: la regolamentazione del caso concreto con effetto giuridicamente vincolante. L’introduzione della disciplina rappresenta un indubbio riconoscimento da parte del legislatore del ruolo fondamentale, insostituibile, che gli avvocati svolgono nell’ambito delle procedure alternative di risoluzione delle controversie in senso lato “separative”, soprattutto allo scopo di agevolare il raggiungimento di nuovi equilibri familiari. La negoziazione assistita può, quindi, trovare applicazione quando due coniugi, assistiti ciascuno da un proprio avvocato, convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per addivenire ad una soluzione consensuale della loro separazione personale, divorzio o modifica dei predetti, senza necessità di rivolgersi ad un tribunale, con un accordo qualificabile come “decisione”, valevole nel più ampio contesto giuridico europeo (ex Reg. UE n. 2201/2003). Il controllo giudiziario è demandato al Pubblico Ministero, attraverso un’inedita nuova funzione di verifica, mentre il rinvio al Presidente del Tribunale è solo eventuale, in caso di dubbi sulla corrispondenza degli accordi all’interesse dei minori coinvolti, ovvero di contrarietà dell’accordo a norme di ordine pubblico.

Secondo la previsione del comma 1 dell’art. 2 d.l. n. 132/2014 le parti devono essere assistite da avvocati iscritti all’albo, anche ai sensi dell’art. 6 del d.lgs. 2 febbraio 2001, vale a dire avvocati stabiliti14.



6. La negoziazione assistita integrata



Con la normativa sulla negoziazione assistita la legge ha assegnato agli avvocati un ruolo creativo di prassi potenzialmente virtuose. Noi avvocati sappiamo bene cosa non funziona nell’amministrazione della giustizia minorile e di diritto di famiglia. Siamo i soggetti più qualificati per dare risposte soddisfacenti al bisogno di tutela e di ascolto delle coppie in crisi e dei loro bambini. Sappiamo quanto il trascorrere del tempo può avere effetti devastanti per la relazione e le pronunce della Corte Europea servono da richiamo autorevole. Gli strumenti a disposizione dell’avvocato civilista sono spesso inadeguati a dare risposte a necessità impellenti e ingestibili nelle aule di tribunale (tra le tante si pensi alla scelta in ordine all’alimentazione del bambino, al rifiuto di sottoporlo ai vaccini, ai viaggi all’estero, alle scelte in tema di culto, ecc.). La pressoché infinita possibilità di risposte personalizzate data dalla cornice negoziale consente di fornire presidi adeguati e su misura alle specifiche esigenze di quella concreta realtà familiare, spesso in rapida trasformazione. Sino ad oggi, la cultura professionale dell’avvocatura era orientata a dare spazio agli aspetti astrattamente giuridici dei problemi, alle contraddizioni legislative utili alle proprie tesi difensive, al silenzio su circostanze anche importanti, ma non dimostrate. La sottrazione del procedimento al giudice per assegnarlo ai professionisti, pur se avvenuta nella limitata ottica di risolvere l’arretrato giudiziario, costituisce un potente stimolo al cambiamento. Se oggi gli avvocati sono chiamati a comporre il conflitto, non possono più litigare come se fossero ancora dentro il processo, altrimenti continuerebbero ad avere necessità del giudice. L’introduzione del nuovo istituto per la soluzione degiurisdizionalizzata del contenzioso matrimoniale valorizza l’autodeterminazione delle parti nel ricercare, con il supporto dei loro legali, una soluzione concordata del contenzioso di separazione o divorzio. Per fare questo servono soluzioni ardite, intelligenti, creative. Se di regola l’accesso alle procedure negoziali sarà alternativo al giudizio, nulla tuttavia impedisce che le parti possano optare per questa soluzione negoziata anche in pendenza del relativo giudizio, quando lo stesso si sia incagliato nelle secche di una difficile soluzione giudiziaria. Analogamente, seppure inspiegabilmente non prevista dal legislatore per le procedure relative a genitori non coniugati, il metodo della negoziazione secondo la pratica collaborativa sarà utilizzabile proficuamente anche in queste fattispecie, pur con la precauzione di sottoporre l’accordo al vaglio del Tribunale, non diversamente dall’autorizzazione del PM richiesta dalla legge 162/2014. La mancata estensione alle famiglie di fatto della normativa sulla negoziazione assistita discrimina ancora una volta a seconda se i figli siano nati o meno all’interno del matrimonio, e sotto tale profilo consente di sollevare profili di legittimità costituzionale. Illogica e parimenti soggetta a profili di illegittimità costituzionale anche l’esclusione dalle procedure di negoziazione assistita del patrocinio per i non abbienti. Servono quindi soluzioni che permettano il superamento dei limiti di un legislatore disattento. La negoziazione è una modalità per risolvere divergenze di interessi, attuabile quando ciascuna delle parti possiede ed è disposta a cedere qualcosa di valore per l’altra. Perché possa prodursi una situazione negoziale occorre che esista uno spazio negoziale. Lo spazio negoziale è dato dalla possibilità per le parti di prendere in considerazione più soluzioni e di non rimanere imprigionate nella propria personale visione. Ai legali in primo luogo il compito di creare le condizioni perché si realizzi uno spazio negoziale. Come è stato scritto recentemente15: “Occorre che le scuole di formazione per mediatori si pongano obiettivi alti: non basta trasmettere agli allievi come e cosa fare per facilitare la negoziazione tra le parti, ma anche e soprattutto perché farlo”. Occorre in altri termini avere una visione del proprio mestiere. “Per questo servono maestri che abbiano una lunga esperienza pratica della materia, ma che anche abbiano trovato e trovino il tempo necessario per prepararsi, aggiornarsi, agire e riflettere sulla loro attività di mediatori. È necessario sapere come, quando, in quali ambiti ed entro quali limiti deve svolgersi l’attività del mediatore, ma tutte queste competenze risulteranno vane e inefficaci, se non addirittura controproducenti, se chi le applica non si interroga sulle ragioni del suo lavoro. La mediazione – così anche la negoziazione collaborativa n.d.r. – non è solo una tecnica, né solo un’utopia: è una tecnica fortemente carica di utopia. Richiede al mediatore e alle parti in conflitto coraggio, praticità, pazienza, ma anche capacità di sognare e desiderare uno scenario diverso da quello carico di ostilità e distruzione che oggi è davanti a loro. Tecnica, immaginazione e ostinazione per immaginare e realizzare una pace giusta fra diversi”16. L’art. 9 d.l. 132/2014 prevede un limite di prova testimoniale sia in sede civile sia in sede penale: “i difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite”. L’applicazione anche a “coloro che partecipano al procedimento” delle disposizioni dell’art. 200 c.p.p. e l’estensione delle garanzie di libertà previste per il difensore dall’art. 103 c.p.p., in quanto applicabili, conforta nel sostenere che, pur non essendo espressamente contemplato nella disciplina della negoziazione assistita, sia possibile – ed altamente auspicabile nella prospettiva qui avanzata – la nomina di esperti, ovvero di un unico consulente neutrale di nomina congiunta – il consulente psicoforense – nell’ottica della migliore trattazione degli aspetti emotivi e delle riserve mentali per preparare il terreno ad una soluzione concordata della controversia. La negoziazione assistita da avvocati, integrata con il lavoro dell’esperto, individuato sulla base dei bisogni specifici di quel singolo caso, avrà maggiori chances di successo, fornirà alle parti un percorso personalizzato ed una maggiore garanzia di tenuta degli accordi che si andranno a modellare. L’esperto potrà svolgere di volta in volta funzioni di mediazione, di facilitazione della comunicazione, di ascolto dei minori, di supporto alla genitorialità, di coordinamento genitoriale, anche fuori dalla stanza di negoziazione. Il compito da attribuire all’esperto varierà in funzione dei casi, ed essendo ogni caso diverso potranno darsi differenti tipi di sostegno. Sarà importante vincere l’iniziale diffidenza sia delle parti, sia degli avvocati, promuovendo occasioni di lavoro in team, in modo che l’esperto possa far emergere e lavorare sulle emozioni difficili da elaborare per neutralizzarle e scinderle dalle componenti prettamente legali. Il lavoro del team potrà proseguire anche con sessioni separate, nelle quali da un lato l’esperto aiuterà le parti alla comprensione della fase di transizione che stanno attraversando e preparerà il campo per la negoziazione dei diritti. Con la normativa sulla negoziazione assistita il legislatore ha fornito all’avvocatura un “assist” clamoroso, uno strumento straordinario per cambiare la prospettiva di intervento. Si è parlato di giurisdizione forense17, come di una terza via per risolvere l’annoso problema dei tempi lunghi della giustizia civile, riconoscendo il legislatore alla classe forense la capacità di ergersi a protagonisti della definizione non contenziosa della crisi delle relazioni familiari. Ma non è solo una mera questione di riduzione dei tempi della giustizia, a venire in evidenza è soprattutto l’opportunità di rendere un servizio molto più accurato e qualificato, tagliato su misura per le persone.



7. La tutela dell’interesse e l’ascolto del minore nella negoziazione assistita e nella pratica collaborativa



Invero scarsa può dirsi l’attenzione data dal legislatore della negoziazione assistita al profilo della tutela dell’interesse e dell’ascolto del figlio. Quello dell’interesse del minore è da sempre un tema sfuggente, al centro dei più ampi dibattiti teorici, dai quali tuttavia risulta assai arduo conseguire una corretta e concreta applicazione ai casi concreti. All’indomani della riforma della filiazione autorevole dottrina scriveva: “La tutela dell’interesse superiore del minore nell’amministrazione della giustizia civile minorile esige, per essere effettiva, strumenti adeguati che riguardano non soltanto il rito processuale, ma anche un’adeguata preparazione nei magistrati, se non anche l’apporto professionale di esperti della condizione minorile. Su questo punto le leggi del 2012 e 2013 sulla filiazione sono state alquanto evasive, poiché se da un lato introducono regole che, attuando il diritto del minore capace di discernimento di esprimere liberamente la propria opinione su ogni questione che lo interessa, gli consentono di partecipare in modo attivo e informato ai processi che coinvolgono i suoi interessi, dall’altro lato si limitano a ridurre le competenze in materia civile del tribunale per i minorenni”18. Nella negoziazione assistita, in presenza di figli minori o maggiorenni portatori di handicap, il controllo demandato al PM è un controllo di merito delle scelte effettuate, sia in punto diritti di visita, sia in punto obblighi di mantenimento. Vi è chi19 dubita della effettività della tutela, vale a dire del fatto se la scelta di affidare agli strumenti dell’autonomia negoziale anche l’assetto dei rapporti tra i genitori e i figli, sia pure con il vaglio del PM, dia sufficienti garanzie di rispondenza di tali accordi all’interesse superiore del minore. La norma (art. 6 comma 3) richiede che gli avvocati diano atto di aver tentato di conciliare le parti, di averle informate della possibilità di esperire la mediazione familiare, e dell’importanza che il minore trascorra tempi adeguati con ciascuno dei genitori. Questi adempimenti restano tuttavia una vuota declamazione di principi se non vengono declinati nella fattispecie concreta. E per farlo si rende ancora una volta assai opportuno interessare del caso un esperto dell’infanzia. Nella consapevolezza, da parte degli avvocati, dell’importanza dell’apporto di altre figure professionali quali esperti della relazione e della condizione minorile, è possibile recuperare attraverso l’inserimento di una fase ad “istruttoria mista” la componente psicosociale invero così poco soddisfacente quando svolta nella sede giudiziaria. L’autonomia negoziale, posta al servizio delle persone e gestita da professionisti esperti, può diventare la risposta più adatta alle richieste di aiuto in ambito familiare. Il mezzo attraverso il quale si può compiere questa rivoluzione è dato dalla convenzione di negoziazione assistita, nella quale si può dare ingresso ad una regola procedurale qualificante e colmare le lacune della scarna previsione legislativa. Così con il primo atto con il quale si formula la scelta di fondo a favore di una soluzione “privata” del contenzioso familiare, si può procedere alla nomina anche dell’esperto delle relazioni ed all’eventuale ascolto del minore. Lo svolgimento della procedura è rimesso alla libera determinazione delle parti: in tal modo i legali possono rendere la relativa istruttoria più soddisfacente di quanto non lo sia quella mediamente ottenibile in sede di giudizio. Al consulente tecnico di nomina giudiziale, in genere chiamato a rispondere a quesiti che lo coinvolgono in chiave valutativa, rivolta al passato, potrà in tal modo sostituirsi un consulente di nomina stragiudiziale che offra alle parti una consulenza mirata e proiettata al futuro, finalizzata a traghettare le parti da un vecchio equilibrio, o da uno squilibrio, ad un rinnovato equilibrio.



8. Il cambio di prospettiva e le potenzialità dell’avvocatura



Il legislatore con la normativa sulla negoziazione assistita ha assegnato agli avvocati un ruolo fondamentale, di creazione di prassi potenzialmente dirompenti e virtuose. La cassetta degli attrezzi dell’avvocato civilista è però piuttosto limitata nel dare risposte a necessità impellenti, spesso ingestibili nelle aule di tribunale. Il diverso modo istituzionale di risolvere il conflitto può contribuire fin dall’inizio a modificare la qualità del conflitto stesso, che può nascere nella diversa prospettiva della soluzione. Alla classe forense, la legge ha assegnato un’opportunità che al momento non sembra essere stata apprezzata in tutto il suo valore evolutivo: quella di rappresentare le persone che vengono assistite in un dialogo che, anziché adeguarsi necessariamente alle regole rigide del diritto e del processo, possa orientarsi più apertamente verso la comprensione degli avvenimenti che hanno dato luogo alla lite, senza il timore che essi arrechino pregiudizio alle ragioni dell’uno o dell’altro, con la consapevolezza che costituiscano il mezzo per trovare la giusta soluzione: è come se si trattasse della ricerca di una verità diversa da quella processuale, fondata sulla prova, e più aderente alla realtà delle cose che effettivamente accadono, anche se non processualmente provate. Il nuovo ruolo richiesto all’avvocato consente di rivalutare la sua professionalità per farla fuoriuscire dalla risalente modalità litigiosa che il processo in qualche modo impone, per approdare a nuove sfide: verso la comprensione del cambiamento della professione e delle esigenze della società. Una possibilità, peraltro, non estranea al ruolo da tempo svolto dall’avvocato, giacché la transazione ex art. 1965 c.c. è istituto da tempo noto ed applicato, e tuttavia utilizzato spesso con mentalità da trattativa di posizione: le “reciproche concessioni” che la stessa norma prevede, non hanno quel carattere “trasformativo” che oggi viene richiesto nel trattare secondo la nuova ottica la possibile conciliazione della lite20. Un sfida dunque altamente qualificante e dirompente degli schemi sino ad oggi in uso, che dovrebbe entusiasmare la classe forense chiamata ad affiancare al sistema giudiziario esistente un’innovativa forma di giurisdizione, plasmata dalle mani esperte di professionisti dotati di una grande esperienza ed umanità, grazie a doti in parte maturate nel corso dell’esperienza di lavoro, in parte da acquisire attraverso un netto cambio di mentalità e di approccio, ciò che non è poi così difficile realizzare, solo che lo si voglia fare.

NOTE

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