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Fiori d’arancio e narcisi. Profili giuridici del rapporto di coppia con il narcisista patologico

autore: M. Sensale

Sommario: 1. Premessa. - 2. Diritto e processo canonico. - 3. Diritto civile: invalidità del vincolo. - 4. Segue: separazione e divorzio. - 5. Segue: ordini di protezione. - 6. Diritto penale. - 7. Conclusione.



straziami, ma di baci saziami Ripp, Creola



1. Premessa



Il diritto è una scienza pratica, nasce ed esiste per regolare realtà sociali. Tra le più refrattarie sono le vicende di famiglia, nelle quali “i costumi sono più forti del diritto”1 . I rapporti familiari sono condizionati da forze incoercibili e da istinti primordiali, oltre che da elementi religiosi e dalla tradizione, che “agisce fortemente anche su menti che in ogni altro ambito sentono poco o nulla l’eredità di idee e di sentimenti delle generazioni precorse”2 . Per questo ho scelto di iniziare la mia breve relazione da un ambito all’apparenza periferico rispetto all’ordinamento giuridico dello Stato italiano e – fatta eccezione per un ristretto numero di specialisti – di minor interesse per il giurista pratico. Un ambito che tuttavia esprime una matrice culturale tuttora dominante nella società italiana e al quale istintivamente si associano i “fiori d’arancio” del titolo di questo convegno, dedicato al rapporto di coppia con il narcisista patologico, per la cui identificazione e configurazione scientifica non posso che rifarmi ai relatori precedenti, Fausta Nasti (psicologa-psicoterapeuta sistemico relazionale) e Federico Mantile (neuropsichiatra infantile), nonché alla gentile moderatrice Maria Giovanna Castaldo, avvocato specialista della materia3 .



2. Diritto e processo canonico



In occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario del Tribunale della Rota Romana, nel 2008 il Papa Benedetto XVI richiamava all’ordine i tribunali ecclesiastici nazionali e regionali, invitandoli ad essere più restrittivi nel dichiarare la nullità dei matrimoni secondo le leggi canoniche. Del resto, “una tendenza che va verso più larghe concessioni alle nullità” era già segnalata nel delizioso saggio/romanzo I minibigami, di Giulio Andreotti4 . Osservava il Papa che “nella Chiesa, proprio per la sua universalità e per la diversità delle culture giuridiche in cui è chiamata ad operare, c’è sempre il rischio che si formino, sensim sine sensu, ‘giurisprudenze locali’ sempre più distanti dall’interpretazione comune delle leggi positive e persino dalla dottrina della Chiesa sul matrimonio”5 . Da molti anni si registrava una notevole diversità di prassi interpretative nei tribunali ecclesiastici di molti paesi occidentali, dove si pronunziavano a volte sentenze a favore della nullità con una facilità che le faceva assomigliare ad un vero e proprio divorzio cattolico, ottenuto più rapidamente e con minori oneri che nei tribunali civili. Sintomatici della eccessiva “generosità” dei tribunali ecclesiastici locali erano considerati, dal Papa emerito, casi di nullità dichiarata per l’accertato “disturbo della personalità di tipo narcisistico” e per una serie di altri disturbi della personalità che la reprimenda papale supponeva non sufficienti a giustificare la declaratoria di nullità del matrimonio. Beninteso, la giurisdizione canonica riguarda qui soltanto la nullità dell’atto matrimoniale, ossia del consenso scambiato dai nubendi, non il successivo rapporto e ciò che possa guastarlo anche per circostanze sopravvenute, indipendentemente dalla validità del vincolo sacramentale e giuridico. Ma la forza condizionante della tradizione e del costume religioso può indurre le persone, a volte a livello inconscio, a mettere in bilancio, contro il proprio benessere e la propria serenità, sacrifici di sé che si percepiscono come meritori, salvifici, e come oscuramente imposti dal carattere sacrale e per ciò solo vincolante delle nozze. Ma i rimedi giuridici contro il narcisista patologico non sono offerti da una singola norma specifica e risolutiva, vanno piuttosto cercati nella giustapposizione di norme disparate e di diversa estrazione. Sicché non è affatto inutile verificare se già il codice di diritto canonico contenga principi e disposizioni che, prima ancora che sul piano pratico, diano alle vittime della patologia in esame conforto ed appiglio già sul piano della coscienza e della coerenza religiosa. Il riferimento normativo è al canone 1095 codex juris canonici, secondo il quale “sono incapaci di contrarre matrimonio […] coloro che per cause di natura psichica, non possono assumere gli obblighi essenziali del matrimonio”. Le cause di natura psichica devono consistere in patologie conclamate6 , accertabili mediante perizia, che nel diritto canonico è vero e proprio mezzo di prova. Al perito, psicologo o psichiatra, si richiede, oltre alla competenza specialistica e alle conoscenze sul matrimonio e le sue proprietà essenziali derivate dall’insegnamento cattolico, anche la condivisione della dottrina antropologica cristiana, per la quale l’uomo, fatto a immagine e somiglianza del Creatore, è dotato di libero arbitrio, chiamato naturalmente all’amore coniugale e all’impegno verso l’altra persona. Il perito, esaminata la condizione psichica e la eventuale psicopatologia attuale e al momento delle nozze, esprime una valutazione diagnostica, per poi verificare anche l’idoneità psichica di una o entrambe le parti ad accedere ad eventuali nuove nozze (ove il precedente vincolo sia dichiarato nullo). La valutazione del perito deve comunque rifarsi ad un modello scientifico. Tra i diversi orientamenti, in ambito canonico si privilegiano il modello psicodinamico, quello biopsico-sociale e il modello antropo-fenomenologico. Ma possono risultare utili pure altri orientamenti, come quelli di tipo cognitivo, altrettanto validi scientificamente e non in disaccordo con la visione antropologica cristiana. Viene inoltre raccomandato di adottare una classificazione della patologia lineare, chiara, comprensibile e semplice, una classificazione condivisa dalla maggioranza della comunità scientifica quale quella del DSM dell’APA (American Psychiatric Association) o dell’ICD dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). La metodologia valutativa psico-forense in ambito canonico è analoga a quella seguita in altri ambiti. In sintesi consiste in una indagine sullo stato mentale del periziando, attuale e al momento della celebrazione del matrimonio, in senso ampio: anamnesi, esame della personalità, rilevazione del livello cognitivo, valutazione di eventuale sintomatologia o presenza di psicopatologia e della possibilità di simulazione/dissimulazione. Non è qui possibile dilungarsi sulle modalità dell’accertamento peritale canonistico, per le quali si rinvia all’accurata analisi di Mario Meloni7 . Qui preme soprattutto evidenziare come vi sia sicuramente spazio – nonostante le preoccupazioni del Papa emerito – per affermare già nel giudizio canonico che il matrimonio contratto con un narcisista patologico è radicalmente nullo, perché un simile soggetto è inidoneo ad assicurare al coniuge quella comunione di vita e d’intenti materiale e spirituale, quell’impegno globale di devozione che costituiscono l’essenza del vincolo nuziale.



3. Diritto civile: invalidità del vincolo



La consapevolezza della nullità – secondo il diritto canonico – del matrimonio contratto con il narcisista patologico è un buon inizio sul piano culturale, se si considera il retaggio della tradizione e della religione che connota la società italiana, in cui forse ancora il matrimonio conta più dell’amore; ma è ben lungi dall’essere la soluzione del problema. Anche il diritto civile, in un’ottica diversa, considera invalido, a certe condizioni, un negozio matrimoniale inficiato da una così rilevante patologia di uno degli sposi. L’art. 122 c.c., sulla “violenza ed errore”, riguarda i casi in cui “il matrimonio può essere impugnato da quello dei coniugi il cui consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne allo sposo” – così il 1° comma, del quale non ci occupiamo – e “da quello dei coniugi il cui consenso è stato dato per effetto di errore sull’identità della persona o di errore essenziale su qualità personali dell’altro coniuge” (2° comma). “L’errore sulle qualità personali è essenziale” – dice il 3° comma – “qualora, tenute presenti le condizioni dell’altro coniuge, si accerti che lo stesso non avrebbe prestato il suo consenso se le avesse esattamente conosciute e purché l’errore riguardi” – tralasciando le altre ipotesi che qui non interessano – “l’esistenza di una malattia fisica o psichica o di una anomalia o deviazione sessuale, tali da impedire lo svolgimento della vita coniugale”. “L’azione non può essere proposta” – precisa il 4° comma – “se vi è stata coabitazione per un anno dopo che […] sia stato scoperto l’errore”. Il fatto costitutivo dell’annullabilità del matrimonio, prefigurata dal n. 1 dell’art. 122, 3° comma, non è la malattia in sé, ma l’errore del coniuge che, per averla ignorata o non esattamente conosciuta (nel senso che non la conosceva o che, pur conoscendola, ne ignorava l’attitudine ad influire negativamente sullo svolgimento della vita coniugale), si è indotto al matrimonio senza la consapevolezza dell’oggettivo impedimento. Al riguardo deve tenersi conto del fatto che, nella materia, l’esattezza della conoscenza s’intende riferita non necessariamente alla diagnosi tecnica (patogenica e strutturale) della malattia, ma anche soltanto alle sue manifestazioni esteriori socialmente percepibili e da chiunque mediamente valutabili quanto al loro tasso di incidenza sulle relazioni intersoggettive in generale e sulla vita coniugale in particolare8 . Per giurisprudenza consolidata, è a carico del coniuge che impugna il matrimonio ai sensi dell’art. 122 c.c. l’onere di provare, secondo le regole generali, l’esistenza della malattia dell’altro coniuge, la mancata conoscenza della stessa prima della celebrazione del matrimonio, l’influenza di detta mancata conoscenza sul proprio consenso, mentre è rimesso al giudice l’apprezzamento della rilevanza dell’infermità ai fini dell’ordinario svolgimento della vita familiare, in relazione alle normali aspettative del coniuge in errore, da valutare avendo riguardo alle condizioni, alla personalità, alla posizione sociale del richiedente nonché ad ogni altra circostanza obiettiva emergente dagli atti. Si segnalano due sentenze confermative del rigetto di altrettante domande di annullamento del matrimonio, rispettivamente proposte:

– per la thalasso-dreapanocitosi della moglie, malattia ritenuta non impeditiva, se opportunamente curata, di una normale vita di relazione, con particolare riguardo ai doveri nascenti dal matrimonio e alla possibilità di intrattenere rapporti sessuali con il marito e di portare a termine una gravidanza9 ;

– per l’orchite epididimite del marito, patologia curabile con ordinaria terapia antibiotica10. In entrambi i casi si trattava di malattie fisiche, ritenute non influenti sul consenso alle nozze e non ostative all’ordinario svolgimento della vita di coppia. Ma, nel caso del narcisismo patologico, mi pare sia possibile dire che, per sua natura ed evoluzione, la malattia sia sempre incompatibile con la vita di coppia rettamente intesa – con i suoi connotati di rispetto, solidarietà, condivisione, reciproca dedizione e mutua assistenza – al punto da doversi presumere che, se conosciuta dal coniuge al momento delle nozze, il consenso non sarebbe stato mai espresso. Ciò perché il narcisismo patologico non è una malattia che possa rendere difficile la vita di coppia, ma è la negazione in radice – a tacere dei pericoli di persecuzione e violenza – del senso stesso della vita di coppia. La difficoltà di fornire un’adeguata tutela a chi sia vittima del narcisismo patologico del coniuge (o del partner, quale che sia l’assetto giuridico della coppia e l’organizzazione quotidiana del suo ménage) deriva dalle particolari e ambigue modalità con le quali la malattia si manifesta, al punto di essere riconosciuta come tale quando la manipolazione psicologica, tipica del comportamento del narcisista, ha già fatto danni alla vittima e comunque l’ha posta in una situazione di soggezione, frustrazione e incapacità di organizzare un’utile difesa. Si tratta di una vittima – senza con questo voler entrare in un ambito scientifico che non mi compete – che spesso presenta particolare fragilità, scarsa autostima, bisogno di amore e di appartenenza – non a caso si parla abitualmente di “amore malato” o “amore tossico” – spesso isolata dai suoi parenti e amici, a volte indotta a rinunciare al lavoro e a tutto quanto possa contribuire alla costruzione di una propria identità e autonomia. Dunque una vittima particolarmente vulnerabile e appartata, soggiogata, in qualche modo plagiata, che rende difficile la tempestiva risposta delle istituzioni e di quella giudiziaria in particolare.



4. Segue: separazione e divorzio



Il giurista non può appagarsi della considerazione astratta che il matrimonio contratto col narcisista patologico è nullo o annullabile e comunque invalido. Al di là delle suggestioni floreali del titolo del convegno, è fin troppo evidente che l’amore tossico non è un problema del negozio matrimoniale – se non per il retaggio culturale a cui ho accennato – ma soprattutto della coppia. Anche il nostro paese, in una prospettiva europea, tende ormai a considerare il matrimonio essenzialmente come rapporto, fondato sul permanere del consenso di entrambi i coniugi, indipendentemente da ogni formalizzazione pubblicistica e da ogni favor per la conservazione di unioni ormai esaurite. In quest’ottica, di sostanziale svalutazione dell’atto costitutivo del rapporto matrimoniale, assume sempre maggior rilievo il profilo della convivenza, per non parlare della pluralità dei modelli familiari infine entrati, ad onta delle strenue resistenze di uno stato extracomunitario confinante, anche nell’ordinamento italiano11. E allora non mi soffermerò sui tradizionali e generali rimedi della separazione e del divorzio. Neppure è il caso di dedicare spazio all’addebitabilità della separazione, quando l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza sia eziologicamente riconducibile al compimento, da parte di uno dei coniugi, di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio, quelli tipici previsti dall’art. 143 c.c. e quelli posti a tutela della personalità individuale di ciascun coniuge in quanto singolo e membro della formazione sociale familiare ex artt. 2 e 29 della Costituzione. Vale la pena tuttavia di segnalare, in tema di addebito della separazione, la ben nota sentenza della Suprema Corte, secondo la quale la nozione di mobbing, mutuata dal campo la voristico – in cui fotografa situazioni patologiche che possono sorgere in presenza di un dislivello tra gli antagonisti, dove la vittima si trova in costante posizione di inferiorità rispetto ad un’altra o ad altre persone – riportata in un ambito, quale quello familiare, caratterizzato dall’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi, assume un rilievo meramente descrittivo, inidoneo a scalfire la regola secondo cui l’addebito della separazione postula la prova rigorosa sia del compimento, da parte di uno di essi, di specifici atti consapevolmente contrari ai doveri del matrimonio, sia del nesso causale tra tali atti ed il determinarsi dell’intollerabilità della convivenza o del grave pregiudizio dei figli. E dunque la Suprema Corte, confermando la sentenza impugnata, che aveva ritenuto improprio il riferimento al mobbing in ambito familiare, ha disatteso il motivo di ricorso teso a configurare il comportamento del coniuge mobber come integrante, di per sé, una violazione degli obblighi sanciti dall’art. 143 c.c.12. Peraltro, la più recente giurisprudenza della Cassazione giunge a considerare il richiamo all’addebito addirittura eccentrico rispetto alle linee generali della riforma del diritto di famiglia del 1975 – la quale esalta l’elemento affettivo al di là dei vincoli formali e coercitivi – e al principio del consenso che condiziona la costituzione e la conservazione del rapporto matrimoniale, regolando giorno per giorno ogni aspetto della vita coniugale, giacché il venir meno del consenso basta a giustificare la separazione per intollerabilità (soggettiva, unilaterale) della convivenza, anche senza una indagine sulle cause della separazione e sui comportamenti dei coniugi, anche in assenza di conflitto ed in virtù della condizione di mera disaffezione e distacco di uno dei coniugi13. Non a caso si parla spesso del tramonto dell’istituto dell’addebito quale unico o preminente rimedio della violazione dei doveri coniugali, laddove altri rimedi sono valorizzati dal legislatore (ordini di protezione; provvedimenti ex art. 709-ter c.p.c.) e dalla giurisprudenza (illecito endofamiliare)14. Quanto al divorzio, è appena il caso di ricordare che la relativa pronuncia, anche senza previa separazione giudiziale, può essere chiesta nei confronti del coniuge che abbia riportato gravi condanne in sede penale per i reati indicati dall’art. 3 della legge 1° dicembre 1970 n. 898, ivi compresi i reati di cui agli artt. 570 (violazione degli obblighi di assistenza familiare), 572 (maltrattamenti contro familiari e conviventi) e 643 (circonvenzione di persone incapaci) del codice penale. È chiaro che in questi casi al divorzio si giunge, per fortuna, quando il problema dei maltrattamenti è già emerso, tanto da aver portato ad un processo penale e ad una condanna passata in giudicato. Tuttavia – e la disposizione non è irrilevante nei casi di manipolazione psicologica del narcisista perverso – la domanda di divorzio, pur a seguito delle predette condanne penali, “non è proponibile… quando la convivenza coniugale è ripresa” (art. 3 legge 898/1970).

Purtroppo tale evenienza è tutt’altro che remota, perché – come è stato autorevolmente evidenziato – “la relazione narcisistica è governata dal possesso e non dall’amore, per questo il narcisista ha bisogno di tornare dalla vittima mosso dalla necessità di riconfermare la propria influenza su di essa e assicurarsi che non gli sia sfuggita. Può farlo a distanza di giorni, di settimane, di mesi o di anni dalla fine della relazione, ma lo farà sempre e, quasi sempre, i suoi ritorni sconcerteranno l’ex partner e sortiranno un effetto paralizzante sulla vita affettiva della preda”. “Chi dipende sentimentalmente da un narcisista patologico può, anche dopo lungo tempo dall’interruzione del legame, travisare il ritorno come un’azione meditata e romantica, come il segno del cambiamento sperato che si realizza e che prospetta un amore sereno […]. Purtroppo, il narcisista perverso non riserva nulla di simile e, anche se la ‘vittima’ potrebbe saperlo, fa spesso in modo di accorgersene troppo tardi”15. Ma occorre fare un passo indietro ed esaminare brevemente le opportunità che l’ordinamento offre alla vittima per tirarsi fuori da un amore tossico prima che sia troppo tardi. Soprattutto prima che ai fiori del titolo debbano aggiungersi i crisantemi.



5. Segue: ordini di protezione



In ambito civile, la legge 4 aprile 2001 n. 154 – intitolata “Misure contro la violenza nelle relazioni familiari” – ha introdotto nel libro primo del codice civile il titolo IX bis intitolato “Ordini di protezione contro gli abusi familiari”, costituito dagli artt. 342-bis e 342-ter. Il tema di oggi, limitato al rapporto di coppia, ci esime dalla ricognizione delle vittime e dei destinatari delle norme, nell’ambito di un nucleo di convivenza che, naturalmente, tutela relazioni di fatto anche al di fuori di rapporti formali di coniugio, di parentela e di affinità. Presupposto per l’applicabilità della norma è comunque la situazione di convivenza tra il soggetto attivo e quello passivo della violenza. L’espunzione dall’art. 342-bis dell’inciso “qualora il fatto non costituisca reato perseguibile d’ufficio”, ad opera della legge 6 novembre 2003 n. 304, esprime l’abbandono della originaria scelta legislativa di introdurre misure protettive civili e penali alternative le une alle altre. La riforma fu quanto mai opportuna perché subordinare l’esercizio dell’azione civile alla non perseguibilità d’ufficio in sede penale rendeva elevato il rischio che il giudice civile dovesse dichiarare inammissibile il ricorso proprio nei casi più gravi e dunque nei casi in cui maggiormente la vittima ha bisogno di protezione. Con la nuova formulazione, la tutela in sede civile concorre con la tutela penale quando più grave sia la violenza, indipendentemente dalla volontà della persona offesa e perfino contro la sua volontà. È stato osservato che le norme in questione configurano un intervento del giudice “estremamente penetrante, che incide […] sulle libertà fondamentali e sembra muoversi in controtendenza alle nuove esigenze manifestatesi nel diritto di famiglia, attente e rispettose dell’autonomia negoziale dei coniugi nel momento della crisi familiare”. È tuttavia evidente che “di autonomia negoziale si può parlare quando i coniugi si tro vano su un piano di formale e sostanziale parità: la violenza invece fa sicuramente venir meno tale condizione”16. Non c’è dubbio che il giudice debba governare questo potere assai ampio in modo particolarmente cauto e rispettoso dei diritti di tutti i soggetti coinvolti. Ma è anche vero che le particolari modalità dell’esposizione a rischio delle vittime di narcisisti patologici impongono che il legislatore affidi al giudice un potere di intervento per un verso penetrante, per altro verso duttile, onde si possa, con l’ausilio di esperti, sostenere e implementare la ridotta capacità e volontà della persona vulnerabile di tirarsi fuori dalla spirale della manipolazione psicologica del convivente. Peraltro, la previsione normativa contempla un ampio spettro di possibili pregiudizi: alla vita, alla salute fisica, all’incolumità familiare, alla salute psichica, alla libertà. E un ampio spettro di possibili vittime, ivi compresi i minori. Sia pure nell’ambito di una diversa procedura, in cui si trattava di regolare gli incontri tra un minore e il padre non convivente, il giudice di legittimità ha mostrato di avere ben chiara la gravità di un “disturbo narcisistico di personalità con aspetti ideativi di tipo persecutorio e difficoltà di gestione dell’emotività che si riflettono sul suo funzionamento affettivo e relazionale e che limitano le sue capacità di identificazione con il mondo infantile e l’accessibilità all’accoglienza e all’ascolto delle istanze autentiche del figlio”, tale da imporre la previsione di visite paterne in spazio neutro e alla presenza di un operatore qualificato17. Non sempre le prescrizioni date dal giudice della separazione o del divorzio, nell’ambito di una organizzazione complessiva e tendenzialmente stabile dei rapporti familiari, sono sufficienti a garantire di fatto la protezione tempestiva delle persone vulnerabili, onde diviene necessario il ricorso agli ordini di protezione. Un profilo peculiare dell’istituto è la capacità di incidere su diritti fondamentali della persona, riconosciuti e garantiti dalla Costituzione, come la libertà personale (art. 13), la libertà di circolazione e soggiorno (art. 16), la proprietà privata (art. 42). Infatti il giudice, ritenuta la sussistenza di un grave pregiudizio, può disporre l’allontanamento dalla casa familiare e vietare di frequentare determinati luoghi da parte di chi tenga la condotta violenta. L’ordine di allontanamento può essere assunto anche nei confronti di chi sia proprietario esclusivo della casa familiare. In tal caso nella casa rimarrà il coniuge o convivente non proprietario, naturalmente anche al di fuori dei presupposti che, nei giudizi di separazione e divorzio, limitano l’assegnazione della casa a chi non ne sia proprietario soltanto in quanto convivente con figli minorenni o figli maggiorenni ma non economicamente autosufficienti. Del resto, sono completamente eterogenei i presupposti dei due provvedimenti: in un caso si tratta di conservare ai figli l’ambiente domestico nel quale sono cresciuti, perché risentano il meno possibile della disgregazione del nucleo familiare; nell’altro si tratta invece di impedire che la perdurante convivenza possa essere di ulteriore pregiudizio per la vittima di violenza, sicché il sacrificio dell’allontanamento viene imposto all’autore della violenza indipendentemente dal titolo di proprietà. Più complesso è il rapporto tra l’ordine di protezione ex artt. 342-bis e 342-ter c.c. – esteso dall’art. 5 legge 154/2001 ai casi in cui soggetto passivo della violenza familiare sia persona diversa dal coniuge o convivente, onde sarebbero ricompresi anche i minori – e le previsioni contenute negli artt. 330 e 333 c.c., come novellati dalla legge 28 marzo 2001 n. 149, riguardanti l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore. Ma non mi soffermo sui rapporti di sovrapposizione o di specialità tra i due rimedi e sulle rispettive competenze del tribunale ordinario e del tribunale minorile in quanto esulano dal tema del convegno. Peraltro, vale la pena osservare che la giurisprudenza è concorde nel ritenere che integrano abuso o maltrattamento del minore (tale da determinare l’allontanamento del genitore dalla casa familiare) anche le situazioni di violenza indiretta – o “assistita”, come si dice con sgradevole forzatura sintattica – che si verificano quando il minore assiste a scene di violenza poste in essere da un genitore a danno dell’altro. È molto frequente che il giudice debba porre rimedio ad atteggiamenti inadeguati dell’adulto che in concreto risultano pregiudizievoli per l’intero nucleo familiare. La violenza indiretta è una particolare e perniciosa forma di violenza morale. Il contenuto dell’ordine di protezione corrisponde a quello delle misure cautelari adottabili in sede penale in forza del nuovo art. 282-bis c.p.p., con qualche marginale differenza. Il giudice, infatti, una volta accertata la situazione di violenza (nell’accezione di cui all’art. 342-bis) può disporre l’allontanamento del coniuge, convivente o familiare colpevole, prescrivendogli altresì, ove occorra, di non avvicinarsi alla casa familiare e ai luoghi frequentati da colui che ha invocato l’ordine di protezione “ed in particolare al luogo di lavoro, al domicilio della famiglia d’origine, ovvero al domicilio di altri prossimi congiunti o altre persone ed in prossimità dei luoghi di istruzione dei figli della coppia”. Gli ordini di protezione, proprio perché misure di tipo provvisorio, hanno una durata limitata nel tempo, determinata dal giudice, con decorrenza dall’avvenuta esecuzione del provvedimento e comunque non superiore a un anno. In tale lasso di tempo i coniugi (o conviventi) devono essere in grado di risolvere la situazione conflittuale, accettando di ritornare sotto lo stesso tetto, ovvero optando per la separazione (o l’allontanamento volontario). Il termine può essere prorogato “su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi, per il tempo strettamente necessario”. Si tratta di una previsione criticata per l’ampio potere discrezionale attribuito al giudice. D’altra parte, la varietà e la delicatezza delle situazioni alle quali l’istituto intende porre rimedio sono tali da rendere opportuna una sua flessibilità, che si apprezza in special modo nel caso del quale ci occupiamo, in cui l’affrancazione della vittima del narcisista patologico può risultare laboriosa e richiedere un tempo adeguato. Purtroppo la cronaca non lesina esempi di rapporti di coppia che, all’esito di procedure di protezione, sono tornate alle vecchie dinamiche violente talvolta sfociate nel delitto. L’art. 3 della legge 154/2001 ha introdotto il capo V bis nel titolo II del libro IV del codice di procedura civile, intitolato “Degli ordini di protezione contro gli abusi familiari” e costituito dal solo art. 736-bis, che regola il procedimento – in camera di consiglio (e sono applicabili, in quanto compatibili, gli artt. 737 ss. c.p.c.) – di adozione degli ordini di protezione. Si discute se le misure di protezione possano essere chieste in pendenza di un giudizio di separazione o divorzio, quando si sia già svolta l’udienza presidenziale e siano stati assunti i provvedimenti provvisori e urgenti in base all’art. 708 c.p.c. o rispettivamente all’art. 4 legge 898/1970. L’accennato possibile conflitto di norme e di competenze – sia apparente o reale – non esclude, in concreto, che, dopo e nonostante l’ordinanza presidenziale che abbia autorizzato i coniugi a vivere separatamente, non cessi affatto la condotta violenta del coniuge abusante (che magari si rechi sul posto di lavoro dell’altro coniuge o vada a scuola a prendere o tentare di incontrare il figlio in difformità dalle prescrizioni del giudice). È dunque difficile ritenere che l’ordinanza presidenziale e la pendenza del giudizio di separazione o divorzio sia formalmente preclusiva degli ordini di protezione ex artt. 342-bis e ter c.c. La competenza per gli ordini di protezione è del tribunale del luogo di residenza o domicilio dell’istante. La domanda può essere proposta anche dalla parte personalmente, senza il patrocinio di un avvocato. La decisione è assunta dal giudice monocratico, il quale può emettere anche un ordine di protezione inaudita altera parte, salvo successiva conferma in contraddittorio. Il giudice ha ampi poteri istruttori. Il suo decreto, immediatamente esecutivo, è oggetto di reclamo al collegio, del quale non fa parte il giudice che ha emesso il decreto impugnato. Diversamente da un provvedimento cautelare, il decreto che dispone l’ordine di protezione non è strumentale ad una decisione da assumersi a cognizione piena, ma – ancorché privo dei requisiti della definitività e decisorietà18 – realizza in modo conclusivo la temporanea tutela degli interessi azionati in giudizio. Il giudice che ha emesso l’ordine di protezione è anche giudice della sua esecuzione, potendosi avvalere della forza pubblica e dell’ufficiale sanitario.



6. Diritto penale



L’elusione di un obbligo di protezione imposto dal giudice integra il reato di cui all’art. 388, 1° comma, c.p. (“mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice”). In ambito penale, rilevano le tradizionali fattispecie di reato di cui agli artt. 570 (“violazione degli obblighi di assistenza familiare”) e 572 (“maltrattamenti contro familiari e conviventi”) c.p. Poi – con specifica attinenza al comportamento del narcisista patologico – v’è il reato di stalking, ossia di “atti persecutori” (art. 612-bis c.p.), introdotto dalla legge 23 aprile 2009 n. 38, che inserisce la fattispecie fra i delitti contro la libertà morale. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che nel delitto previsto dall’art. 612-bis c.p., che ha natura abituale, l’evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso e la reiterazione degli atti considerati tipici costituisce elemento unificante ed essenziale della fattispecie, facendo assumere a tali atti un’autonoma ed unitaria offensività, in quanto è proprio dalla loro reiterazione che deriva nella vittima un progressivo accumulo di disagio che infine degenera in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dalla norma incriminatrice19.

La reiterazione della condotta tipica, che caratterizza il delitto di atti persecutori, è ostativa ex lege alla causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis c.p., senza necessità di esplicita motivazione20. Le reiterate molestie non devono essere commesse necessariamente in luogo pubblico, aperto al pubblico, ovvero con il mezzo del telefono, come invece previsto per la contravvenzione di cui all’art. 660 c.p.21. Peraltro vanno diffondendosi condotte persecutorie attuate prevalentemente o esclusivamente in luoghi virtuali come i social networks22. È configurabile il delitto di atti persecutori anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco di tempo molto ristretto, a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice23. Il reato si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, per cui il termine finale di consumazione, in mancanza di una specifica contestazione, coincide con quello della pronuncia della sentenza di primo grado che cristallizza l’accertamento processuale; pertanto non si configura violazione del principio del ne bis in idem in caso di nuova condanna per fatti successivi alla data della prima pronuncia24. Il carattere di reato abituale improprio, a reiterazione necessaria delle condotte, rileva anche ai fini della procedibilità, con la conseguenza che, nell’ipotesi in cui il presupposto della reiterazione venga integrato da condotte poste in essere anche dopo la proposizione della querela, la condizione di procedibilità si estende anche a queste ultime, poiché, unitariamente considerate con le precedenti, integrano l’elemento oggettivo del reato25. Il delitto di atti persecutori può concorrere con quello di lesioni personali26. In tema di rapporti fra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, salvo il rispetto della clausola di sussidiarietà prevista dall’art. 612-bis, 1° comma, c.p. – che rende applicabile il più grave reato di maltrattamenti quando la condotta valga ad integrare gli elementi tipici della relativa fattispecie – è invece configurabile l’ipotesi aggravata del reato di atti persecutori (prevista dall’art. 612-bis, 2° comma, c.p.) in presenza di comportamenti che, sorti nell’ambito di una comunità familiare (o a questa assimilata), ovvero determinati dalla sua esistenza e sviluppo, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare e affettivo o comunque della sua attualità temporale. Resta il dubbio se il discrimine temporale vada individuato nell’interruzione del rapporto di convivenza27, onde sarebbe configurabile il reato di atti persecutori già in regime di separazione, o nel divorzio28. Sul piano processual-penalistico, vengono in rilievo, ai fini della tutela contro la violenza del coniuge o del convivente, il divieto di dimora (art. 283, 1°comma, c.p.p.), con il quale il giudice prescrive all’imputato di non dimorare in un determinato luogo e di non accedervi senza l’autorizzazione del giudice che procede. Il divieto di dimora, in conformità del principio di personalizzazione delle misure, deve essere armonizzato con le esigenze d’alloggio, di lavoro e di assistenza dell’imputato, salvaguardandole ove possibile. La misura è idonea a soddisfare le esigenze cautelari di impedire l’inquinamento delle fonti di prova e, per quanto più ci riguarda, la reiterazione del reato, quando i relativi pericoli siano collegati a situazioni o a circostanze ambientali locali (anche semplicemente domestiche) ed appaia sufficiente l’allontanamento dell’interessato. La tutela della integrità psico-fisica di chi rimane nella dimora è un effetto solo indiretto della misura cautelare in questione, che partecipa delle finalità generali comuni a tutte le misure cautelari. Il divieto di dimora, ai fini della congruità della misura rispetto alle esigenze cautelari considerate in concreto, può essere abbinato alla misura dell’obbligo di dimora in un determinato luogo, così da impedire alla persona violenta di avvicinarsi ai luoghi nei quali è più probabile la reiterazione della condotta criminosa. La nuova misura dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.), introdotta, come già detto, dalla legge 154/2001, è molto più specifica e diretta nell’individuare il fine della misura medesima, ovvero “l’incolumità della persona offesa”, e le modalità della sua applicazione, ovvero le necessarie limitazioni alla libertà di locomozione dell’imputato o dell’indagato.



7. Conclusione



La ricorrente espressione empirica “amore tossico” rende bene l’idea della manipolazione psicologica da parte del narcisista e della progressiva sottomissione della vittima verso una condizione molto complessa e delicata, una discesa agli inferi accostata da taluni al disturbo post-traumatico da stress, con perdita delle difese immunitarie, crollo dell’autostima, attacchi di panico, ansia, difficoltà a dormire e ad alzarsi la mattina, disturbi dell’alimentazione, difficoltà nella vita sociale, familiare e lavorativa, difficoltà di concentrarsi, paralisi psichica, anestesia emozionale, disperazione, ritiro sociale, compromissione della relazione con gli altri, cambiamento delle caratteristiche precedenti di personalità. In breve, una vera e propria intossicazione dello spirito e di riflesso del corpo. Per uscirne, è necessaria la mobilitazione di reti istituzionali e l’opera specialistica, laboriosa, paziente, di esperti psicologi e psicoterapeuti, rispetto alla quale i rimedi giuridici sono di mero supporto o di riferimento finale. Ciò mi consente perfino di dubitare dell’utilità di questa mia relazione.

NOTE

Sintesi della relazione presentata al convegno “Fiori d’arancio e narcisi. Effetti giuridici e

psicologici della relazione col narcisista patologico”, tenuto a Napoli il 1° giugno 2017, organizzato

dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Napoli, con il patrocinio della Associazione Uguaglianza e

Libertà e dell’Ordine degli Psicologi della Campania.

1 grassetti, Famiglia (dir. priv.), in Noviss. Digesto it., VII, Torino, 1961, 48.

2 JeMolo, Il matrimonio, Torino, 1957, 36.

3 Per una esauriente sintesi divulgativa sul narcisismo patologico nel rappor-

to di coppia, MacKenzie, Questo amore fa male, Firenze, 2016. Merita di essere segnalato anche

hirigoyen, Molestie morali, Torino, 2000.

4 anDreotti, I minibigami, Milano, 1971, 9.

5 http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2012/january/documents/ hf_ben-

xvi_spe_20120121_rota-romana.html (consultato il 2 aprile 2018).

6 Barolo, Cause psichiche e nullità del matrimonio, in Quaderni di diritto ecclesiale, 2011, 2, 189 ss.

7 Meloni, La perizia psichiatrica e psicologica in ambito canonico, in Psicologia e Giustizia, 2013, 2.

Si veda pure serrano ruiz, La perizia nelle cause canoniche di nullità matrimoniale, in Dir. eccl.,

1993, I, 53 ss.

8 Cass. civile, 14 aprile 1994 n. 3508, in Giust. civ., 1994, I, 2186.

9 Cass. civile, 7 marzo 2006 n. 4876, in Il diritto di famiglia e delle persone,

2007, I, 1563 ss., con nota di DanoVi, Il concorso tra nullità civile e nullità canonica del matrimonio

(ovvero, quando l’uomo non osa separare ciò che anche Dio ha sciolto).

10 Cass. civile, ord. 13 febbraio 2017 n. 3742, in Famiglia e diritto, 2017, 857 ss., con nota di gelli,

Patologia del coniuge, errore e annullamento del matrimonio.

11 casaBuri, griMalDi (a cura di), Unioni civili e convivenze, Ospedaletto, 2016; cianciolo, Unioni

civili e convivenze, Sant’Arcangelo di Romagna, 2016.

12 Cass. civile 19 giugno 2014 n. 13983, in Giur. it., 2015, 1600 ss., con nota di Megna, Irrilevanza

del mobbing familiare per l’addebito della separazione.

13 Cass. civile 21 gennaio 2014 n. 1164, in Famiglia e diritto, 2015, 38 ss., con nota di toMMaseo,

La separazione giudiziale: basta volerla per ottenerla. In dottrina, anche casaBuri, Sillabo dei

principali errori sulla separazione giudiziale dei coniugi. Ovvero giudici, etica di Stato, intollerabilità

della convivenza, in Corriere del merito, 2005, 1245.

14 Cass. civile 4 maggio 2011 n. 18853, in Guida al diritto, 2011, 42, 12 ss., con nota di Fiorini, La

violazione dei doveri matrimoniali integra gli estremi dell’illecito civile.

15 secci, Gli innumerevoli ritorni del narcisista perverso, in http://lifestyle.tiscali. it (consultato il 2

aprile 2018).

16 Franco, Linee guida della legge 4.04.2001 n. 154, in www.iussit.com (consultato il 2 aprile

2018).

17 Cass. civile, 29 gennaio 2015 n. 1730.

18 Cass. civile 15 gennaio 2007 n. 625, in Famiglia e diritto, 2007, 571 ss., con nota di presutti,

Ordine di protezione e ricorso ex art. 111 comma 7 Cost.: una preclusione davvero giustificata?

19 Cass. penale, V, 5 novembre 2014, dep. 11 dicembre 2014, n. 51718, in Resp. civ. e prev., 2015,

II, 847 ss., con nota di solinas, Stillicidio persecutorio e offensività del delitto di stalking. Anche

qualche riflesso ermeneutico distorto, nello speculum della dogmatica del reato abituale.

20 Cass. penale, V, 28 febbraio 2017, dep. 27 marzo 2017, n. 14845.

21 Cass. penale, V, 14 gennaio 2016, dep. 24 marzo 2016, n. 12528.

22 castalDo, Il cyberstalking ossia lo stalking al tempo della giustizia 4.0, in

Nuova Temi Ciociara, 2018, 31, 79 ss.

23 Cass. penale, V, 13 giugno 2016, dep. 15 settembre 2016, n. 38306, che ha ritenuto immune da vizi la sentenza di merito che aveva affermato la sussistenza del reato in relazione a condotte tutte tenute nell’arco di una sola giornata.

24 Cass. penale, V, 3 aprile 2017, dep. 8 maggio 2017, n. 22210.

25 Cass. penale, V, 11 luglio 2016, dep. 3 ottobre 2016, n. 41431.

26 Cass. penale, V, 19 gennaio 2017, dep. 1° marzo 2017, n. 10051.

27 Cass. penale, VI, 19 maggio 2016, dep. 19 luglio 2016, n. 30704, ha ritenuto immune da vizi la

sentenza che aveva configurato il concorso tra i due reati, sul presupposto della diversità dei beni

giuridici tutelati, ritenendo integrato quello di maltrattamenti in famiglia fino alla data di

interruzione del rapporto di convivenza e poi, dalla cessazione di tale rapporto, quello di atti

persecutori.

28 Cass. penale, V, 4 maggio 2016, dep. 4 ottobre 2016, n. 41665. Così già Cass. penale, VI, 24

novembre 2011, dep. 20 giugno 2012, n. 24575, in Cass. pen., 2013, sez. 4.1, 1050, con nota di

Feraco, I rapporti tra delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di stalking.