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La funzione perequativa del contributo di mantenimento per i figli

autore: R. Ruggeri

Si va sempre più diffondendo la convinzione per cui, quando la coppia genitoriale si separa, possa soprassedersi alla previsione di un contributo al mantenimento dei figli che l’un genitore debba eventualmente1 corrispondere all’altro, sulla scorta dell’asserita adeguatezza e sufficienza del mantenimento c.d. diretto a far fronte alle esigenze della prole, a prescindere dalla sua rispondenza al principio di proporzionalità; e che, quando detto contributo risulti necessario, esso vada comunque determinato in ragione delle esigenze dirette dei figli, vale a dire delle voci di spesa che risultino loro direttamente imputabili. È pure in corso un progressivo (e in parte pericoloso, stanti le minori garanzie che assistono i due diversi titoli2 ) svuotamento dell’assegno mensile forfettario a vantaggio della previsione, sempre più analitica3 , delle spese “straordinarie”, di cui – spesso irragionevolmente – si onerano in pari quota i due genitori. L’una e l’altra tendenza si spiegano facilmente, atteso che spesso agevolano il reperimento di accordi separativi, favorendo la degiurisdizionalizzazione degli inerenti rapporti; del pari, i provvedimenti emessi sulla scorta di tali premesse sono meno frequentemente contestati e più volentieri rispettati, con risultati deflattivi del contenzioso indubbiamente apprezzabili4 . Ciò in quanto il genitore onerato del contributo, più spesso il padre, accetta di miglior grado soluzioni che da un lato comportino esborsi periodici ridotti, dall’altro gli diano l’impressione di non essere estromesso dalle decisioni che riguardano la vita dei figli (spesso le spese c.d. straordinarie riguardano le attività formative extrascolastiche o sportive, oppure le cure mediche necessarie alla prole). Chi scrive ritiene però che, sebbene siano apprezzabili gli sforzi volti ad agevolare il veloce e stragiudiziale reperimento di accordi tra genitori che riguardino i figli, sia necessario non perdere di vista il perseguimento dell’interesse di questi ultimi5 : i quali, non ancora dotati dall’ordinamento di una figura che ne tuteli autonomamente le ragioni né nel processo né, tantomeno, nel corso delle trattative o delle negoziazioni assistite che tale processo scongiurino, vedono spesso pretermessi non solo il loro punto di vista, ma, assai più gravemente, le loro legittime aspettative e i loro diritti. È quindi necessario esaminare le norme che riguardano il dovere contributivo dei genitori per verificare se esso possa effettivamente esaurirsi nel “mantenimento diretto” (vale a dire possa dirsi adempiuto semplicemente facendo fronte ai costi direttamente imputabili ai figli: vitto, vestiario, trasporto, utenze, costo delle attività sportive ed extrascolastiche, spese mediche e poco altro) o se esso vada determinato anche in ragione di altri concomitanti fattori (costi abitativi, tempi di cura, tenore di vita goduto dalla prole nel corso della convivenza genitoriale, aspettative legate alle possibilità patrimonial-reddituali dei genitori: in una parola, proporzionalità del contributo alla capacità di lavoro e alle sostanze dei genitori). Va in sintesi valutato se il principio di proporzionalità nella sua accezione tradizionale – secondo il quale per determinare il quantum del contributo economico riservando alla prole andrebbe operata una valutazione complessiva delle risorse (sostanze, capacità di lavoro professionale e domestico) dei genitori per indurne la misura di quelle che ciascuno di essi destinerà al mantenimento, all’educazione, all’istruzione, all’“armonico sviluppo” della prole – sia derogabile o no. Chi sostiene che il contributo al mantenimento dei figli sia assolto con il pagamento delle sole voci di costo loro direttamente imputabili, fa essenzialmente e piuttosto faticosamente leva – disconoscendo la portata sistematica delle norme generali (artt. 147, 148, 315 c.c.) – sulla lettera dell’art. 337- ter c.c., scindendolo da quelle. L’art. 337-ter c.c. viene considerato – giusta la lettera dell’art. 337-bis che, precedendolo, recita “in caso di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, nullità del matrimonio e nei procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio si applicano le disposizioni del presente capo” – norma speciale, dettata dal legislatore per regolare la specifica situazione separativa, verificandosi la quale non si darebbe la ricostruzione sistematica che fa perno sugli artt. 315 ss. e, soprattutto, 147 e 148 c.c., che vengono ritenute disposizioni riferite alla sola convivenza genitoriale. Se ne darebbe che il principio di proporzionalità, necessario in costanza di convivenza genitoriale, non lo sarebbe più proprio quando, con la crisi separativa, si fa più grave il rischio che i figli subiscano un impoverimento in conseguenza degli attriti verificatisi tra i genitori. Il principio di proporzionalità perderebbe forza proprio nel momento in cui più potrebbe tutelare le ragioni dei figli, per agevolare il reperimento di equi accordi tra genitori con dissimili capacità reddituali e di conseguenza non simmetrica forza contrattuale, che hanno forte probabilità – ove non sia sottolineata la forza di quel principio – di sfociare in patti a tutto danno delle parti senza o con il minor reddito, spinte ad accettare accordi poco rispondenti alla situazione in fatto e all’interesse dei figli ma comunque preferibili ad annose e dannose, quanto difficilmente satisfattive, vertenze giudiziarie. Tornando alla lettera della norma: il quarto comma dell’art. 337-ter c.c. recita: “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:

1) le attuali esigenze del figlio.

2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori.

3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore.

4) le risorse economiche di entrambi i genitori.

5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. Nell’esegesi proposta dai sostenitori del mantenimento diretto, tale norma (per tale considerandosi il dispositivo del comma, nemmeno dell’intero articolo) viene letta dando peculiare enfasi alla previsione – che viene effettivamente dettata quale ipotesi primaria, ma nel senso di ideale – per la quale “ciascun genitore provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito”; intendendosi invece come del tutto residuale (“ove necessario”), anziché enunciativa di fattispecie statisticamente assai più frequenti sebbene (e proprio perché) non ideali, l’ipotesi in cui il giudice debba, per “realizzare il principio di proporzionalità” (pur esplicitamente riaffermato), stabilire la corresponsione di un assegno periodico. A parere di chi scrive, l’interpretazione sistematica – vale a dire logicamente ordinata – anche del solo art. 337-ter c.c. (e ancor più ove esso sia ricondotto alle norme che disciplinano il dovere contributivo dei genitori verso i figli in generale) impone la previsione di un assegno nella quasi totalità dei casi: con la sola esclusione di quello (invero assai raro) in cui i genitori si occupino in modo effettivamente paritetico dei figli (mentre spesso la gran parte delle incombenze organizzative ricadono, anche dopo la vicenda separativa, sulle madri, nonostante negli accordi di separazione si dettino spartizioni minuziose dei giorni per settimana che ciascuno dei genitori trascorrerà con i figli, spesso per evitare collocamenti pregiudizievoli alla libera disponibilità della casa già coniugale), percepiscano pari reddito e godano di pari sostanze. Con altro salto logico, che pure non considera la ricostruzione sistematica dell’obbligo contributivo dei genitori verso i figli, si interpreta la proporzionalità del mantenimento al reddito del genitore come misura relativa a quello erogato dal genitore medesimo nel tempo trascorso dai figli presso di lui; e non come criterio volto a individuare un assetto globale, complessivo, già familiare, il cui minimum deve essere garantito anche quando i figli stiano con l’altro genitore. La collocazione delle risorse economiche e della valenza economica del lavoro domestico e di cura di entrambi i genitori, nonché del tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza genitoriale, tra i parametri alla stregua dei quali va commisurato un contributo economico in tesi solo eventuale è motivo sufficiente, per i sostenitori del mantenimento diretto, per prettermetterne la valenza di criteri generali di determinazione del mantenimento (necessariamente) dovuto.

Si ha quindi un doppio ridimensionamento del dovere contributivo verso i figli a ridosso della vicenda separativa: da un lato, di esso si dice (traendosi deboli argomenti da una lettura infine superficiale e non organica della norma) che debba essere prioritariamente6 adempiuto da ciascun genitore in via diretta, vale a dire adoperandosi personalmente e sostenendo direttamente le spese necessarie per i figli, senza versare somme nelle mani dell’altro genitore (“ciascun genitore provvede”); dall’altro si ridimensiona il principio di proporzionalità, inteso, dopo la vicenda separativa, come facente capo singolarmente alle sfere di ciascuno dei due genitori, considerate autonomamente e non complessivamente7 , oltre che riferito al solo reddito e non anche alle sostanze tutte del soggetto onerato. Si considera conseguentemente residuale e per nulla necessaria la previsione di un contributo economico che l’un genitore debba versare all’altro (il singolo genitore dovrà provvedere al mantenimento diretto con modalità proporzionate al proprio livello di reddito), senza dare il giusto rilievo ai criteri indubbiamente perequativi (vale a dire tesi ad equilibrare le condizioni esistenziali dei due genitori nello specifico interesse dei figli, che diversamente sarebbero ostacolati nel realizzare il loro diritto alla bigenitorialità) pur espressamente elencati dalla norma. Viene inoltre travisato il senso del “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti”: che deve invece leggersi, in ragione della inderogabilità del principio di proporzionalità sancita anche nel secondo comma del medesimo art. 337-ter c.c.8 , nel senso che i genitori, se vogliono, possono prevedere di contribuire al mantenimento dei figli in misura ulteriore rispetto a quella determinabile in base al principio di proporzionalità e alle sue concrete articolazioni (art. 337-ter co. 4, nn. 1-5 c.c.); non certo in misura inferiore (come sarebbe se il contributo erogando fosse limitato alle spese correnti) o comunque in contrasto con esso. Tanto è vero che è previsto l’intervento del giudice (anche in riguardo degli accordi intervenuti tra i genitori9 ) a che sia realizzato quel principio, che va quindi ritenuto indefettibile e inderogabile, nell’interesse dei figli. E proprio dal principio di proporzionalità unitariamente considerato (come la stessa lettera dell’art. 337-ter c.c.10 permette di fare, riproponendo esplicitamente e specificamente i criteri che altre norme sanciscono e l’elaborazione giurisprudenziale ha via via individuato per determinarne la portata concreta) si deve partire per affermare la natura prettamente e necessariamente perequativa dell’assegno di contributo al mantenimento dei figli, attraverso una lettura che si ponga come effettiva ed efficace garante dell’“interesse morale e materiale” di questi ultimi. È l’aspettativa dei figli di continuare a beneficiare del tenore di vita goduto in costanza di convivenza genitoriale a porsi come vero criterio discretivo del loro miglior interesse11, che va perseguito onerando i genitori di contribuire in modo almeno tendenzialmente proporzionale e comunque analogo – fatte le necessarie ponderazioni in ragione dei maggiori costi che la famiglia separata comporta – a quanto facevano prima della crisi familiare, sia in riguardo all’apporto economico che a quello domestico. Ove – come spesso accade – la crisi separativa comporti la necessità di rivedere tali modalità, ai figli deve essere garantita una tendenziale continuità esistenziale, sia quanto alla loro collocazione che alle opportunità di “armonioso sviluppo” di cui potevano fruire prima della rottura familiare: devono quindi essere loro assicurati i mezzi che le sostanze e il lavoro dei genitori (professionale e domestico, e la combinazione dei due) complessivamente consentono, oltre al mantenimento diretto. E deve essere assicurata loro una tendenziale uniformità del tenore di vita goduto presso ciascuno dei genitori, ciò che la funzione perequativa del contributo (vale a dire la sua funzione di attuare il principio di proporzionalità) specificamente impone e consente12. Parimenti perequativa è la funzione che il contributo al mantenimento è chiamato ad assolvere quando si tratti di remunerare (ma sarebbe forse più appropriato dire “conver tire”) il lavoro domestico (e di cura dei figli), spesso espletato dalle madri, che vedono corrispondentemente diminuire le loro possibilità di occupazione, carriera, progressione salariale, aspetti questi spesso considerati poco importanti da entrambi i genitori prima della crisi familiare. Omettere la considerazione dei dati italiani in punto condizione lavorativa e familiare femminile significa applicare in modo idealistico la legge sull’affido condiviso, e segnatamente di quello c.d. paritario13, che pretende invece concretezza; d’altro canto è indubbio che la maggiore collaborazione dei padri potrà comportare un progressivo riequilibrio dei ruoli. Non può però darsi per scontato, a tutt’oggi, che tale riequilibrio, che presuppone da un lato l’inserimento o il pieno reinserimento lavorativo di casalinghe o lavoratrici precarie o part time, dall’altro l’effettiva ridiscussione dei ruoli familiari già in costanza di convivenza genitoriale, sia oggi già attuale, a portata di mano o di facile attuazione: l’interprete dovrà perciò farsi carico, nel regolare o suggerire la disciplina della crisi separativa, di tali evidenti asimmetrie, ponendovi rimedio attraverso lo strumento che più si presta, per derivare la sua funzione da un principio inderogabile (la proporzionalità del contributo al mantenimento per la prole alle capacità reddituali, economiche, di lavoro domestico dei genitori), a fungere da elemento di bilanciamento nella crisi separativa, con valenza tutelante l’interesse dei figli.

NOTE

1 Eventualmente, vale a dire se non ricorrano le condizioni – invero piuttosto eccezionali – previste dalla legge per prescindere dalla statuizione sul punto: pari reddito e simili possibilità economiche dei due genitori, affidamento “paritetico” della prole a ciascuno di essi.

2 Va però evidenziato il confortante e recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, che con pronunce sempre più articolate e puntuali (Cass. civ. sez. VI, n. 12013 del 10 giugno 2016; Cass. civ. sez. VI, ord. n. 16175 del 30 luglio 2015 e Cass. civ. sez. I, n. 19607 del 26 settembre 2011) afferma la rimborsabilità delle spese c.d. straordinarie anche in difetto di previa concertazione, se compatibili (ecco un’altra applicazione del principio di proporzionalità del mantenimento dei figli alle risorse dei genitori) con il reddito e le sostanze del genitore tenuto al rimborso.

3 Vedansi i numerosissimi protocolli di cui, negli anni più recenti, si sono dotati i Tribunali di (quasi) tutta Italia, coronati infine (!) dalle linee guida emanate di recente dal CNF.

4 Pur secondo un metro, come si andrà a sottolineare, piuttosto superficiale.

5 Ex multis, art. 337-ter c.c.: “Il giudice adotta i provvedimenti relativi alla

prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa”.

6 O esclusivamente, ove si “riesca” ad ottenere un affido paritario, spesso disorientante e addirittura dannoso per figli che individuino in uno dei genitori la figura di attaccamento primario.

7 E quindi ciascun genitore dovrebbe mantenere i figli proporzionalmente al proprio reddito solo quando essi stiano presso di lui.

8 Il giudice “prende atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori”: la non contrarietà all’interesse dei figli non può che conseguire ad accordi che riconoscano il loro diritto a vedersi destinate – in ossequio al generale principio di proporzionalità – risorse maggiori (quelle determinate in ragione del principio di proporzionalità) e non minori (quelle destinabili per mantenimento diretto); rimettendosi poi ai genitori – quelle sì liberamente – le modalità effettivamente sostenibili con le quali spartire tra di loro il corrispondente obbligo),

9 In continuità logico-sistematica con la disposizione che riserva al giudice della separazione o del divorzio la possibilità di rifiutare l’omologa ai patti tra coniugi che non rispettino l’interesse dei figli.

10 Co. 4, lett. 1-5.

11 Corte d’appello di Venezia, 5 febbraio 2018, n. 274: “anche il parametro dell’indipendenza economica, espressamente previsto per i figli maggiorenni dall’art. 337-septies c.c. e richiamato nelle recenti decisioni della Corte di Cassazione, non rimane insensibile alla legittime aspettative del figlio, all’indirizzo educativo, al livello di istruzione e, in ultima analisi, al livello di benessere offerto dalla famiglia d’origine”.

12 Così Trib. Milano, sez. IX civ., 3 novembre 2014, rel. Buffone; confermato da Corte d’appello di Milano, 11 agosto 2014, est. Lo Cascio; Trib. Milano, sez. IX civ., 15 luglio 2015, est. Rosa Muscio

13 In relazione al quale molte sono le perplessità – in riguardo al suo effettivo integrare il miglior interesse dei figli – anche in sede internazionale: cfr. Caring for children after parental separation. Would legislation for shared parenting time help children?, University of Oxford, Department of Social Policy and Intervention, Family policy briefing 7, May 2011; l’Australia ha nel novembre 2011 riconsiderato la propria legge sull’affido condiviso (2006), che originariamente prevedeva la soluzione di affido c.d. paritetico come quella da assumere quasi automaticamente; con la novella sono state apportate modifiche significative dovute alla considerazione delle ricadute negative del c.d. tempo paritetico dei figli presso ciascuno dei genitori (“equal time”) non solo nei casi di violenza domestica pregressa ma anche nei casi di alta conflittualità tra i genitori dopo la separazione.