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Note sull’addebito: quando il diavolo tenta di mettere lo zampino...anche nelle aule di giustizia (nota a Trib. Milano, 18 gennaio 2017)

autore: L. Maffei

Ha destato molto clamore nel circuito mediatico e nei social network, la recente Sentenza del Tribunale di Milano - Sez. IX Famiglia, emessa il 18.01.2017 in composizione collegiale (G.E. Dott. Gennari - Presidente Dott.ssa Cattaneo), con cui è stato definito un giudizio di separazione giudiziale tra coniugi. Le perplessità e le critiche, non solo degli utenti della giustizia ma anche di alcuni esponenti del mondo della scienza medica-psichiatrica e di alcuni operatori del diritto, scaturiscono dalle motivazioni in base alle quali il Collegio meneghino sembra aver escluso l’addebito della separazione chiesta da un marito nei confronti della moglie, nonostante le prove addotte ed emerse in sede istruttoria. C’è da dire che anche la moglie, nel caso di specie, ha formulato richiesta di addebito in capo al marito per condotte contrarie ai doveri coniugali, tra cui violenza economica, violenze morali, psicologiche e fisiche, ma anche tale richiesta viene rigettata dal Collegio meneghino, sulla base però di motivazioni sicuramente meno interessanti di quelle poste a base del rigetto della richiesta di addebito nei confronti della donna e su cui ci si vuole soffermare. Ed infatti, le violazioni dei doveri matrimoniali evidenziate dal marito quali cause del fallimento irreversibile dell’affectio coniugalis e della comunione di vita morale e materiale con la moglie, vengono ricondotte a comportamenti a dir poco inspiegabili, insopportabili e tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza tra marito e moglie (nella specie: violente convulsioni motorie, ore ed ore di preghiere, frequentazione sistematica di un frate cappuccino, continui pellegrinaggi – circa 45 nell’arco di sei anni –, uso di un saio anche per occupazioni domestiche, triplice voto di povertà, castità ed obbedienza, necessità di sottoporsi a pratiche di esorcismo). Ma secondo il Collegio, tali condotte non sarebbero state poste in essere con coscienza e volontà dalla donna e quindi alla stessa imputabili, in quanto causate da una coartazione esterna o estranea alla sua persona e quindi non volute e non intese nei loro effetti dalla donna. In altri termini, come si legge nel testo della motivazione, la donna sarebbe stata “agita”, per cui le numerose manifestazioni di “ossessione religiosa e i comportamenti compulsivi” “disturbi di carattere spirituale”, sarebbero state frutto, come dichiarato dai testimoni escussi, da “fenomeni esterni e non dipendenti dalla sua volontà”. Come affermano i Giudici del Tribunale di Milano, queste strane ed inspiegabili condotte, risultano tutte confermate dall’istruttoria processuale ma anche dalla stessa signora che “lungi dal respingere i fatti descritti dal marito, ha dichiarato che non gradiva parlarne, peraltro confermando la veridicità materiale di alcuni di essi”, oltre che dalle numerose testimonianze tra cui i figli e la sorella della donna e un padre spirituale, il quale avrebbe riferito addirittura di fenomeni di poltergeist, verificatesi nella casa familiare.

Per il Collegio giudicante, questo vasto campionario di condotte è “difficilmente compatibile con i doveri nascenti dal matrimonio” e tale quindi da compromettere “l’armonia coniugale”. Sussistono pertanto le invocate violazioni dei doveri matrimoniali, ma nonostante ciò, la separazione non può essere addebitata alla signora, come chiede il marito. Sono gli stessi Giudici che nel testo della motivazione si pongono esplicitamente la domanda, quasi immaginando gli interrogativi che si sarebbero propagati come cerchi concentrici, all’esito della pubblicazione del provvedimento giudiziario: “Ma perché la separazione non può essere addebitata alla signora?” Questa la risposta del Collegio: “perché difetta – per stessa ammissione del marito – il requisito della imputabilità soggettiva di questi comportamenti”. E d’altronde, la Cassazione è chiara nel dire: “La dichiarazione di addebito della separazione, implica la imputabilità al coniuge del comportamento, volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri del matrimonio” (Cass. n. 2584372013). Prosegue il Tribunale meneghino: “qui la signora è altrettanto chiaratamente ‘agita’; ella non agisce consapevolmente. A prescindere dalla causa del suo malessere – di natura organica o meno – è la stessa difesa del resistente (n.d.r. ossia del marito) a dire che il malessere spirituale ha sicuramente provocato atroci sofferenze alla signora, tormenti che ‘non vi è dubbio che non siano stati direttamente voluti dalla nostra controparte come conseguenza diretta delle proprie scelte di vita’”. Risultano inoltre allegati agli atti di parte della signora, attestazioni mediche (relazione psichiatrica e test specifici - MMPI e Rorschach), da cui si evince che “la signora non risulta affetta da alcuna conclamata patologia tale da poter spiegare i fenomeni da lei riferiti e, in parte osservati dal medico. In definitiva la signora non ha colpa”. La conseguenza dell’esclusione dell’addebito e del rigetto della domanda formulata dal marito, è quindi il riconoscimento del diritto della donna alla percezione di un assegno di mantenimento posto a carico del coniuge e quantificato in € 650,00 mensili, determinato tenendo conto della capacità economico-reddituale del marito e dello stato di disoccupazione della signora. Tanto precisato, occorre interrogarsi sul perché la sentenza abbia destato cosi tanto scalpore nell’opinione pubblica e se soprattutto, tale scalpore sia fondato. A parere di scrive, i primi commenti a caldo peraltro nemmeno troppo tecnici, sembrano essere stati alquanto frettolosi, in quanto si è voluto trarre dalla sentenza e forse da un lemma in particolare, ossia dalla parola “agita” una conclusione ad effetto, molto suggestiva ma tecnicamente fuorviante: si è voluto far dire ai Giudici di Milano che la colpa della separazione sarebbe, della “fiera con coda aguzza” (Dante Inf. XVII) che tanto inquieta per ragioni diverse, sia i credenti che i laici!

Sulla base di una lettura disancorata dagli atti processuali e dall’analisi stringente della parte motiva, si è quasi voluto attribuire alla sentenza in esame, un ragionamento sillogistico del tipo: i comportamenti strani e inspiegabili non ricollegabili a vizi mentali (fenomeni di poltergeist, convulsioni parossistiche ecc.) sono espressione di forze demoniache; la donna in questione, immune da vizi mentali, ha posto in essere condotte di tale specie; la colpa della separazione è quindi del diavolo! Francamente una tale costruzione logica appare una grossa forzatura se ci si sofferma ad analizzare i criteri giuridicoprocessuali su cui la sentenza si è basata ed è stata motivata, seppur in maniera poco approfondita. A sommesso parere di chi scrive, la risposta alla domanda sul perché la separazione non sia addebitabile alla donna, nonostante lo strepitus fori che la pronuncia ha suscitato, è molto più semplice e meno fantasiosa di quanto si possa pensare, in quanto logica conseguenza dell’applicazione di determinati principi che sovrintendono e regolamentano il processo e il libero convincimento del Giudice. I Giudici milanesi, nonostante la particolarità della vicenda, hanno applicato alcuni dei criteri che normalmente guidano il Giudice nell’adozione di un provvedimento giudiziale: a) il principio dell’onere della prova ex art. 2697 1°comma c.c., secondo cui “Chi vuol fare valere un diritto in giudizio, deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”. In base a tale irrinunciabile principio, il marito richiedente l’addebito, aveva l’onere di provare i comportamenti costituenti la violazioni dei doveri coniugali da parte della moglie e, ovviamente, il nesso causale tra tali condotte e la intollerabilità della prosecuzione della convivenza (Cassazione civile sez. VI, 24 agosto 2016 n. 17317). Su questo punto il marito, secondo quanto è dato comprendere dalla motivazione della sentenza, ha fornito sì la prova dell’esistenza di condotte lesive dei doveri coniugali ex art. 143 c.c. ma nello stesso tempo ha fornito una ricostruzione insufficiente e soprattutto contraddittoria, riferendo al contrario di condotte e fatti inspiegabili, molto dolorosi e non direttamente voluti dalla stessa moglie. Infatti in più punti della difesa, l’uomo rende dichiarazioni contrarie alle sue stesse tesi (afferma che la moglie subisce tormenti che “non vi è dubbio non siano stati direttamente voluti come conseguenza diretta delle proprie scelte di vita”, afferma di aver assistito a fenomeni inspiegabili e impressionanti ecc.). Da quanto è dato comprendere, sembra che egli non abbia nemmeno contestato la documentazione medica allegata dalla donna, attestante l’insussistenza di una patologia psichiatrica. E d’altronde, probabilmente il marito non ne ha ravvisato nemmeno l’utilità processuale, in quanto, seppur fosse stata ammessa una CTU medico-psichiatrica (che invece pare non sia stata né richiesta né disposta dal Tribunale), i risultati non sarebbero stati più vantaggiosi da un punto di vista processuale. Ed invero:

– ove si fosse accertata una patologia mentale della donna, il risultato sarebbe stato il riconoscimento di una piena o semi-infermità mentale, che molto probabilmente avrebbe escluso l’imputabilità di tali condotte e quindi l’addebito alla moglie;

– se al contrario, fosse stata ribadita l’assoluta capacità di intendere e di volere della donna, il risultato non sarebbe stato probabilmente diverso da quello verificatosi, visto che già la documentazione medica prodotta dalla donna ne affermava la piena capacità di intendere e di volere e, nonostante ciò, la decisione del Collegio ha ritenuto la donna non imputabile. Ciò che ha inciso quindi in modo rilevante sulla decisione del Tribunale, al fine di rigettare la domanda di addebito in capo alla donna, è stata invece propria una contra se pronuntiatio del marito, il quale pur avendo avanzato richiesta di addebito nei confronti della moglie, in modo contraddittorio e sfavorevole a sé stesso, ne ha riconosciuto la mancanza di colpa, la sofferenza non auto-provocata, l’inspiegabilità di certe condotte, peraltro tutto suffragato dalle numerose testimonianze e dalle altre risultanze processuali. A ciò si è aggiunto anche il comportamento processuale della stessa donna che: “lungi dal respingere i fatti descritti dal marito, ha dichiarato che non gradiva parlarne, peraltro confermando la veridicità materiale di alcuni di essi”. Quindi, in base al principio di cui all’art. 2735 c.c., il Collegio meneghino ha dato rilevanza alle c.d. ammissioni contenute negli scritti difensivi e sottoscritte dal procuratore ad litem con la precisazione che:

– ove sottoscritte anche dalla parte assumono il valore di dichiarazioni confessorie;

– ove al contrario risultano essere sottoscritte unicamente dal procuratore (come forse accaduto nel caso di specie), sono pur sempre elementi liberamente valutabili ed apprezzabili dal Giudice per la formazione del proprio convincimento (per tutte, Cass. n. 20701/2007) od integranti il principio di non contestazione. Ragion per cui le dichiarazioni del marito, sia se rese nel’ambito dell’udienza presidenziale ex art. 707 c.p.c., sia se versate in atti tramite le deduzioni del proprio legale, hanno probabilmente costituito se non una vera e propria ammissione del richiedente l’addebito in ordine alla non riferibilità di certe inspiegabili condotte “poltergeist” alla coscienza e volontà della moglie, quanto meno un argomento per fondare il libero convincimento del Giudice in materia di prove libere, secondo quanto previsto in chiave generale dall’art. 116 comma 2 c.p.c. (es. le risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero ex art. 117 c.p.c. e quindi le dichiarazioni dei coniugi rese in sede di udienza presidenziale ex art. 707 c.p.c. che, pur non avendo valore confessorio, possono fornire al giudice elementi di convincimento). D’altronde per pacifica giurisprudenza, anche l’argomento di prova può da solo essere sufficiente a fondare il convincimento del Giudice (tra le tante, cfr. Cass. nn. 20819/2009 e 12145/2002). E tra l’altro, per il principio di acquisizione, tutte le risultanze istruttorie, qualunque sia la parte ad iniziativa della quale sono state assunte, concorrono indistintamente alla formazione del libero convincimento del Giudice (ex pluribus e tra le ultime, cfr. Cass. n. 21909/2013), senza che la loro provenienza possa condizionare la decisione in un senso o nell’altro, e senza che possa escludersi l’utilizzabilità di una prova fornita da una parte per trarne argomenti favorevoli alla controparte. b) il ricorso alle presunzioni ex art. 2729 c.c., la sussistenza dei cui presupposti è riservata al Giudice di merito, ossia quei ragionamenti logici che consentono di desumere l’esistenza di un fatto ignoto muovendo da un fatto noto, ragionamenti lasciati al libero apprezzamento del Giudice. Non si può escludere che nel caso di specie, i Giudici abbiano potuto far ricorso alle presunzioni, quale possibile ulteriore criterio di decisione per escludere la capacità della donna di intendere e di volere gli effetti di quei comportamenti e quindi la non riferibilità alla stessa delle condotte lesive dei doveri coniugali. Ed infatti, muovendo dai risultati dall’istruttoria ossia dal fatto noto che la donna non risultava affetta da patologie mentali, dal fatto noto che gli strani comportamenti provocavano comunque atroci sofferenze e conseguenze negative anche per la stessa autrice, è ragionevole desumere che i Giudici siano giunti al fatto ignoto: quindi a ritenere, id quod plerumque accditi, che si fosse in presenza di una totale mancanza di autodeterminazione e/o di libero arbitrio da parte della donna con la conseguenza che non vi fosse l’imputabilità, pur essendo la stessa priva di patologie mentali. D’altronde è pacifico che quanto alla domanda di addebito … omissis… non è richiesto l’intento lesivo nella condotta del coniuge cui la separazione è addebitabile, ma è sufficiente la consapevolezza da parte sua della violazione dei doveri coniugali (Cass. 25843/2013). Ebbene questa assenza di consapevolezza della violazione dei doveri coniugali, è proprio ciò che hanno ravvisato i giudici milanesi, in conformità a quanto richiesto dall’art. 151 c.c. ove si prevede che “la separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza”. La norma citata contempla quindi, quali fatti che possono rendere intollerabile la convivenza, anche fatti assolutamente indipendenti dalla volontà dei coniugi. In tal caso il richiamo è al principio dell’imputabilità soggettiva ex art. 2046 c.c., ossia il requisito giuridico che assolve alla funzione preliminare di verificare se l’agente possa essere tenuto a rispondere delle conseguenze dannose della sua eventuale condotta colpevole. L’imputabilità è regolata, nel codice civile, all’art. 2046 che esclude la responsabilità di colui che, al momento in cui ha commesso il fatto, era incapace di intendere e di volere, salvo che l’incapacità non sia stata determinata da sua colpa. La definizione dell’imputabilità presente nell’art. 2046 c.c. ricalca quella presente nell’art. 85 del c.p. e, tuttavia, diversamente dal codice penale non vengono, poi, puntualmente individuate le fattispecie di incapacità di intendere e di volere. In sede civilistica, è dunque compito del Giudice quello di individuare, di volta in volta, se sussista l’incapacità di intendere e di volere dell’agente ai fini dell’imputabilità dell’evento dannoso. Ceto, ci si potrebbe interrogare sul se i criteri sin qui analizzati, che hanno condotto i Giudici ad una tale decisione, avrebbero potuto essere richiamati in modo più chiaro e convincente, anche perché un volta volta formatosi, il convincimento del Giudice va esplicitato in motivazione, dando conto del perché sono stati ritenuti più attendibili o comunque preferibili alcuni elementi probatori rispetto ad altri, anche se non è necessaria una comparazione analitica di tutte le prove raccolte, essendo sufficiente il riferimento alle prove poste alla base della decisione, senza necessità di specifica confutazione espressa di ogni argomentazione e rilievo contrari (fra le tante, Cass. n. 17097/2010), in quanto “non si richiede al Giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire un’adeguata motivazione logica dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse” (Cass. Sez. Un. n. 7930/2008). Ci si può chiedere inoltre se, nel dubbio circa l’obiettività e fondatezza della valutazione medica fornita solo come produzione di parte dalla donna, attestante la sua capacità di intendere e di volere, il Collegio non avrebbe fatto meglio a disporre in conformità al combinato disposto degli artt. 191 c.p.c. e 61 c.p.c., la consulenza tecnica d’ufficio che, per dottrina e giurisprudenza unanimi, è un mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria), sottratto alla disponibilità delle parti e affidato al prudente apprezzamento del giudice del merito (Cass. civ., sez. lavoro 4 febbraio 1999, n. 996), il quale vi ricorre quando risulta necessario, per accertare i fatti del procedimento, l’impiego di conoscenze tecniche o scientifiche particolari che vanno al di là della cultura media, e delle quali non dispone (Taruffo, Lezioni sul processo civile, Comoglio-Ferri-Taruffo, il Mulino, Bologna, 2a edizione, 1995, pag. 679). In tal caso e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti, una CTU specialistica medico-psichiatrica, avrebbe potuto condurre ad un accertamento del perito super partes, nominato dal Tribunale, circa la veridicità e fondatezza della documentazione versata in atti dalla donna, in modo da avere un riscontro obiettivo sull’assenza di patologie mentali della donna oppure se le sue capacità (di intendere e/o di volere) erano totalmente o grandemente scemate, come di solito si legge nei quesiti posti in sede giudiziale agli psichiatri. D’altronde il fine della perizia psichiatrica, per evitare di introdurre elementi di eccessiva ambiguità all’interno del processo, è quello di valutare il grado di consapevolezza del soggetto rispetto ai fatti commessi e le eventuali interferenze patologiche che possano aver influito su tale consapevolezza. Il Giudice poi, cui spetta poi l’ultima parola da un punto di vista sia formale che sostanziale nel processo, deve valutare le risultanze peritali alla luce di ogni altra risultanza processuale, verificando così la coerenza e, di conseguenza, l’utilità del contributo psichiatrico alla decisione finale. Se fosse stata ammessa una tale indagine peritale, probabilmente si sarebbe eliminato o ridotto significativamente il dubbio sulla reale capacità o incapacità di intendere e di volere della donna o sul grado di capacità di autodeterminazione, o sulla sua reale volontà di produrre gli effetti di quei determinati comportamenti ecc., con la conseguenza che la decisione del Tribunale avrebbe ricevuto un crisma di maggior evidenza obiettiva e solidità. In tal caso l’istruttoria sarebbe stata completa e se all’esito, la diagnosi del perito d’ufficio fosse stata identica a quella di parte, ossia avesse escluso qualunque forma di patologia psichiatrica in danno della signora escludendo vizi mentali o alterazioni della capacità intellettiva o volitiva, il Tribunale avrebbe potuto comunque, nell’esercizio del suo potere discrezionale, disattendere le conclusioni peritali, seppur motivando sulla base di tutti i principi innanzi richiamati o appellandosi proprio al principio dell’insufficienza della prova circa la piena riferibilità alla donna dei suoi comportamenti, potendo quindi comunque rigettare la domanda di addebito. D’altronde, il principio dell’onere della prova in senso oggettivo, consente al Giudice di emettere in ogni caso una pronuncia di accoglimento o di rigetto della domanda, anche quando nonostante l’attività probatoria svolta dalle parti – oppure in sua mancanza – egli sia rimasto nel dubbio circa la verità dei fatti. Ma si può ragionevolmente pensare, che il Collegio milanese non abbia ritenuto necessario ricorrere ad un tale mezzo istruttorio, a fronte di una corposa documentazione medica prodotta dalla stessa donna e chiaramente contraria al suo stesso interesse. Ed infatti, sarebbe stato molto più dubbia e sospetta, una documentazione medica che avesse attestato la presenza di patologie mentali o psichiatriche in capo alla donna, al fine di escluderne in nuce la capacità di intendere e di volere onde sottrarsi alla pronuncia di addebito, piuttosto che affermare e provare pacificamente la sua piena capacità di intendere e di volere, come accaduto nel caso in questione. Questa considerazione ha probabilmente indotto i Giudici a non ammettere la CTU specialistica, ritenendola frustranea e superata dalla stessa prova contra se offerta dalla parte. Certo, in attesa del passaggio in giudicato della sentenza o piuttosto di un suo gravame, la mancanza di una motivazione che renda ben tracciabili questi passaggi logico-giuridici, lascia qualche dubbio in chi ne legge il decisum, non essendo stata chiarita la causa dei comportamenti inspiegabili (testualmente nella sentenza “a prescindere dalla causa del suo malessere, di natura organica o meno”) anche se, lungi da quanto si è voluto leggere tra le pieghe della motivazione, si ha motivo di ritenere che le suggestioni mefistofeliche siano rimaste al di fuori del perimetro motivazionale del Collegio milanese e che il diavolo… pur avendo tentato di metterci lo zampino, non ci sia riuscito!