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Il ruolo dell’avvocato nelle procedure di negoziazione assistita. Le nuove norme deontologiche

autore: A. Mengali

Sommario: 1. La negoziazione assistita “da uno più avvocati”. - 2. La certificazione di autografia delle sottoscrizione. - 3. Il controllo sui requisiti di validità della convenzione di negoziazione assistita. - 3.1. Diritti indisponibili e controversie di lavoro. - 3.2. Le norme inderogabili e l’ordine pubblico. - 4. Le nuove norme deontologiche. - 4.1. Il dovere di informativa al cliente. - 4.2. L’art. 9 del D.L. 132/14. Incompatibilità tra avvocato “negoziatore” e arbitro. - 4.3. Segue: il dovere di lealtà. - 4.4. Segue: il dovere di riservatezza della negoziazione



1. La negoziazione assistita “da uno più avvocati”



La negoziazione assistita da uno o più avvocati, che per le materie indicate all’art. 3 del D.L. 132/14 è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, consiste in un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza dei propri avvocati. Analogamente ai procedimenti di mediaconciliazione di cui al D.lgs. n. 28/2010, la negoziazione assistita è una forma di risoluzione non aggiudicativa della controversia, che tende a favorire il raggiungimento di un accordo transattivo tra le parti. Qualora il procedimento vada a buon fine, l’accordo, sottoscritto dalle parti e dagli avvocati che le assistono, sarà titolo esecutivo, nonché titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. b), la procedura di negoziazione assistita può essere esperita ogniqualvolta la controversia non riguardi diritti indisponibili o non verta in materia di lavoro. Si intende in questa sede approfondire il ruolo dell’avvocato nel procedimento sopra delineato, sia sotto il profilo delle obbligazioni che questi assume nei confronti delle parti, sia con riferimento ai profili deontologici. È infatti stato unanimemente osservato che l’avvocato non si limita a quanto previsto dall’art. 2, comma 6, del D.L. 132, secondo il quale gli avvocati “certificano l’autografia delle sottoscrizioni apposte alla convenzione sotto la propria responsabilità professionale”. Un primo problema da affrontare è quello del numero degli avvocati coinvolti nella procedura. La norma fa riferimento all’assistenza di “uno o più avvocati”, dunque deve evincersi che sia possibile, per le parti, concludere la convenzione con l’assistenza di un solo legale, che cerchi di favorire un accordo tra le parti. Si è osservato come la soluzione sia scarsamente opportuna, e si sono sollevati dubbi sulla possibile situazione di conflitto di interessi del legale che assista entrambe le parti1 . In realtà non pare sussistere un potenziale conflitto di interessi per l’avvocato che si limiti ad assistere le parti nella procedura di negoziazione, in quanto in quel caso l’avvocato svolgerebbe niente più e niente meno che una funzione di conciliatore2 ; diverso se quello stesso avvocato assumesse in seguito un mandato giudiziale da una delle parti nei confronti dell’altra, su cui torneremo infra. Non si concorda invece sul fatto che nella procedura di negoziazione “non è previsto alcuno spazio per i difensori”3 , in quanto, laddove ciascuna parte si faccia assistere dal proprio avvocato, questi, pur dovendo favorire per quanto possibile la conciliazione, agiranno su mandato e nell’interesse del proprio assistito. La disposizione in commento fa sorgere problemi anche dal punto di vista processuale. Premesso che, laddove l’accordo sia stipulato senza l’assistenza di alcun avvocato, esso debba essere considerato nullo, come è stato correttamente evidenziato4 , la previsione che un solo avvocato possa assistere le parti nella procedura di negoziazione lascia aperta la possibilità che il destinatario dell’invito di cui all’art. 3 (in caso la negoziazione assistita sia condizione di procedibilità della domanda giudiziale) ri sponda allo stesso personalmente, anziché tramite il proprio avvocato. Tale situazione pare potersi delineare anche in caso di negoziazione “facoltativa”, almeno se si ritiene che l’art. 4 del D.L. 132/2014, che disciplina, tra le altre cose, la forma e il contenuto dell’invito nonché gli effetti della sua mancata accettazione, si applichi a prescindere che la negoziazione sia condizione di procedibilità. L’interpretazione estensiva (al di là dei dubbi di carattere letterale) pare in linea con lo spirito della riforma, che è quello di favorire la composizione della lite, posto che le previsioni di cui all’art. 4 predetto rispondono alla ratio di incentivare la conciliazione tra le parti5 . Ciò chiarito, per l’ipotesi in cui il destinatario dell’invito lo accetti senza l’assistenza di un difensore, la norma non prevede espressamente che la parte cui è rivolto l’invito debba farsi assistere da un avvocato (diversamente da quanto prevede per la parte che rivolge l’invito, cfr. art. 3, comma 1 D.L. 132/14), anzi, indirettamente, sembrerebbe prevedere esattamente il contrario, poiché, come detto, consente che la convenzione sia conclusa anche con l’assistenza di un solo legale. Si pone quindi il problema di stabilire come debba comportarsi l’avvocato che ha rivolto, per conto del proprio cliente, l’invito alla controparte, e si veda rispondere da questa nel senso della disponibilità a siglare la convezione, ma senza l’assistenza di un avvocato. È difatti evidente che, laddove l’avvocato sottoscriva l’accordo di negoziazione assistendo entrambe le parti, sarà vincolato a queste sia dal punto di vista civilistico (inerente al rapporto di mandato professionale) che dal punto di vista deontologico, non potendo pertanto, se non in palese violazione dei propri obblighi, assistere una delle parti in una successiva controversia nei confronti dell’altra, laddove la procedura di negoziazione non vada a buon fine. Di ciò gli interpreti hanno già dato conto, richiamando l’art. 24, comma 3, del nuovo codice deontologico, ritenendo che l’avvocato che assiste da solo le parti nella negoziazione assistita sarà tenuto, almeno sul piano deontologico, a non accettare l’incarico di difesa di alcuna di esse nel successivo eventuale giudizio6 . Con riferimento invece alla negoziazione assistita in materia di famiglia, di cui all’art. 6 del D.L. 132/2014 conv. in L. 162/2014, i problemi sopra richiamati non si pongono. L’art. 6 predetto, al comma 1, è infatti chiaro nello stabilire che la negoziazione assistita possa svolgersi solo con la presenza di “almeno un avvocato per parte”. Tale previsione, si è sostenuto, costituisce conferma che, diversamente, per la negoziazione assistita obbligatoria e facoltativa, in materie diverse da quelle previste dall’art. 6 predetti, sia sufficiente l’assistenza di un solo avvocato per entrambe le parti7 . Tornando alla negoziazione assistita relativa alle controversie civili di cui agli artt. 2 ss. del D.lgs n. 132, è stato osservato che l’avvocato possa essere nominato “da una sola parte per condurre le trattative nel proprio esclusivo interesse diretta mente con la controparte”8 , tuttavia la soluzione non convince fino in fondo, perché la legge prevede che la parte debba essere assistita da un avvocato (anche) nel suo interesse, non (solo) nell’interesse dell’altra. È difatti evidente che il ruolo dell’avvocato non si limiti all’assistenza nella redazione del contratto – convenzione (se così fosse, si potrebbe dubitare dell’incompatibilità tra l’attività di redazione della convenzione per conto di una parte e la successiva difesa della controparte in giudizio), ma è esteso all’assistenza delle parti nella cooperazione “in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia”. In ogni caso, anche a voler considerare il ruolo dell’avvocato alla stregua di un “notaio” della procedura, difficilmente si può pensare che gli sia imposto di certificare, ai sensi dell’art. 2, comma 6, del D.L. 132/14 (anche) l’autografia della sottoscrizione della controparte, attività che, come la legge ha cura di evidenziare, si svolge sono la propria responsabilità professionale. Per ovvie ragioni, pertanto, non potendo la legge imporre al professionista un “contratto (di mandato) obbligatorio”, l’avvocato della parte che ha proposto l’invito potrà rifiutarsi (ma non sarà obbligato a farlo) di assistere anche la controparte. Quid juris, pertanto, se la controparte risponde all’invito personalmente e l’avvocato della parte che lo ha formulato si rifiuta di assistere entrambe? Dalla disamina che precede, e ribadendo che l’assistenza di un avvocato è un elemento che non può assolutamente essere considerato facoltativo (si veda ancora la definizione della procedura di negoziazione di cui all’art. 2, comma 1, del D.L. 132, nonché la necessità dell’autenticazione della sottoscrizione ai sensi del successivo comma 6 della medesima disposizione), pare doversi concludere, almeno ai fini della procedibilità della domanda in ipotesi di negoziazioni obbligatorie, per l’irrilevanza della risposta che equivarrà pertanto a mancata adesione all’invito. Qualche dubbio in più sorge con riferimento agli effetti di cui all’art. 4 del D.L. 132/2014 derivanti dalla mancata adesione all’invito, poiché se da una parte si può ritenere, per le ragioni predette, che l’adesione all’invito senza l’assistenza di un avvocato non sia valida, pare irragionevole, alla luce della ratio della disposizione che è quella di sanzionare la parte non collaborativa, prevedere conseguenze negative per la parte che ha comunque manifestato la volontà di aderire alla procedura. Ad ogni modo ben avrebbe fatto il legislatore a prevedere espressamente la necessità, per la parte cui è rivolto l’invito, dell’assistenza di un legale di fiducia, che di fatto, almeno secondo chi scrive, va desunta dal sistema.



2. La certificazione dell’autografia delle sottoscrizioni



Come correttamente osservato gli art. 2, comma 5 e del D.L. 132/14 e 5, comma 2, estendono ad un atto stragiudiziale il potere di autentica della firma già previsto per gli avvocati in relazione agli atti processuali. Si tratta della certificazione di autografie delle forme poste dalle parti (o dalla parte assistita) in calce alla convezione ed in calce all’eventuale accordo conciliativo. Con riferimento al primo caso, la legge prevede espressamente che ciò avvenga “sotto la propria responsabilità professionale”.

Si è giustamente osservato come si tratti di un previsione “sovrabbondante” che non è “facilmente spiegabile”9 , essendo già di per sé evidente la responsabilità di un avvocato che certifica una sottoscrizione non autentica.



3. Il controllo sui requisiti di validità della convenzione di negoziazione assistita



L’avvocato avrà il compito, oltre che di certificare l’autografia della sottoscrizione del proprio assistito, ai sensi dell’art. 2, comma 6, D.L. 132/14, di verificare i requisiti di validità della convenzione. Tra questi essenziale il requisito della forma scritta a pena di nullità previsto dall’art. 2, comma 4, del D.L. 132/14. Dovrà, inoltre, ai sensi dell’art. 2, comma 2, lett. a), essere indicato un termine per l’espletamento della procedura, in ogni caso non inferiore a un mese e non superiore a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo tra le parti10. È interessante, invece, in questa sede, soffermarsi sulla necessità che la convenzione abbia ad oggetto diritti disponibili e che non verta in materia di lavoro, così come prevede l’art. 2, comma 2, lett. b) del D.L. citato.



3.1. Diritti indisponibili e controversie di lavoro



L’art. 2, comma 2, lett. b) del D.L. n. 132/14 prevede, come detto, che la controversia oggetto della convenzione di negoziazione “non deve riguardare diritti indisponibili o vertere in materia di lavoro”. Alla luce del dettato normativo, pochi dubbi possono sorgere sulla invalidità della convenzione di negoziazione che riguardi controversie aventi ad oggetto diritti indisponibili o che vertano in materia di lavoro. Tuttavia, pare di dover distinguere tra i requisiti di validità della convezione di negoziazione e quelli di validità dell’accordo, eventualmente raggiunto all’esito della procedura. Con riferimento ai diritti indisponibili, nulla quaestio: invalida sarà tanto la convenzione di negoziazione che il successivo accordo. Diverso il caso delle controversie di lavoro, poiché se l’eventuale convenzione è senz’altro nulla, gli effetti dell’accordo conciliativo non possono che ricadere nella disciplina dell’art. 2113 c.c., pertanto l’accordo sarà semplicemente annullabile nel termine ivi previsto. È stato giustamente osservato, difatti, che la mancanza o la presenza di gravi anomalie nella convenzione farà sì che l’accordo eventualmente sottoscritto dalle parti avrò “il valore di una conciliazione o transazione, ovvero di atti validi ma che non accedano ai benefici della specifica disciplina di legge”11. Nell’ipotesi di negoziazione avente ad oggetto la materia lavoristica, in particolare, non si produrranno gli effetti di cui all’art. 4, comma 1 del D.L. 132/14 (effetti della mancata risposta all’invito o del suo rifiuto), e neanche gli effetti dell’accordo di cui all’art. 5 (esecutività e titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, suscettibilità di trascrizione previa autenticazione di un pubblico ufficiale), ma non può escludersi l’efficacia negoziale dello stesso in base allo ius commune, dunque ai sensi e nei limiti di cui all’art. 2113 c.c. (invalidità relativa).



3.2. Le norme inderogabili e l’ordine pubblico



Si è osservato che i limiti alla “negoziabilità” riguardano solo la disponibilità dei diritti e non anche la inderogabilità delle norme che regolano la materia oggetto di lite; in realtà anche in questo caso occorre distinguere tra convenzione di negoziazione e successivo accordo, poiché la scelta di consentire una negoziazione di controversie in materia disciplinata da norme inderogabili (o di ordine pubblico) è assolutamente neutra rispetto alla validità o invalidità del successivo accordo. In altre parole, la possibilità o meno di incidere in materia disciplinata da norme inderogabili, all’esito dell’accordo raggiunto in seno alla procedura di negoziazione, sarà la stessa consentita per un contratto di transazione di analogo contenuto, ossia esso dovrà essere compatibile con dette norme inderogabili e con l’ordine pubblico. Il D.L. 132/14, a tale proposito, ha espressamente previsto, all’art. 5, comma 2, che gli avvocati “certificano […] la conformità dell’accordo alle norme imperative e all’ordine pubblico”. Le parti, dunque, sono libere di procedere alla negoziazione assistita anche qualora alla fattispecie dedotta in lite debbano applicarsi norme inderogabili, purché la stessa possa essere oggetto di disposizione da parte dei litiganti. Da questo punto di vista, è evidente il parallelismo con il regime dell’arbitrato così come riformato dal D.Lgs. n. 40/2006 e le pronunce rese in materia arbitrale costituiscono un importante indice ai fini della delimitazione dell’ambito della disponibilità dei diritti. L’accordo raggiunto all’esito della negoziazione dovrà tuttavia essere compatibile con le eventuali norme inderogabili applicabili e con l’ordine pubblico, ciò che, come detto, dovrà essere certificato dagli avvocati (o dall’avvocato). Il controllo circa la conformità dell’accordo alle norme imperative (e all’ordine pubblico) sarà quindi svolto dagli avvocati delle parti, che dunque sottoscrivono l’accordo non solo al fine di certificare l’autografia delle firme, ma anche per escludere che i contenuti dello stesso siano incompatibili con disposizioni di legge inderogabili o con principi fondamentali dell’ordinamento. L’avvocato sarà pertanto chiamato a favorire l’accordo transattivo tra le parti, ma allo stesso tempo dovrà garantire che lo stesso non sia incompatibile con le norme imperative (ove applicabili) e con l’ordine pubblico. Alla luce di ciò vi è chi ha osservato che il dovere di certificare la conformità dell’accordo alle norme inderogabili ed all’ordine pubblico è suscettibile di allargare le frontiere della responsabilità professionale degli avvocati, non più limitata nei confronti dei propri clienti ma estesa anche ad eventuali danni patiti da terzi per effetto della nullità dell’accordo, alla stregua di quanto accade per la responsabilità del notaio12. L’osservazione è suggestiva, tuttavia non pare che si possa far discendere una tale forma di responsabilità (extracontrattuale) da una norma che, se individua un nuovo specifico obbligo degli avvocati (che si estende, come correttamente osservato, oltre l’ambito deontologico, nel quale vi è già il divieto di “suggerire negozi nulli”, cfr. art. 23, comma 6 del codice deontologico forense), non può che incidere, in assenza di diverse indicazioni, sulle obbligazioni che il professionista ha nei confronti del proprio assistito (fermo restando che non pare ad ogni modo potersi configurare, per analoghe ragioni, un ampliamento della responsabilità oltre la soglia degli artt. 1176, comma 2, e 2236 c.c.13). Con riferimento alla negoziazione assistita in materia familiare si è osservato che, alla luce del necessario controllo del PM ai sensi dell’art. 6, comma 2, del D.L. 132, la responsabilità degli avvocati ai sensi dell’art. 5 comma 2, ritenuto applicabile anche a detto ambito, sia limitata al caso in cui l’accordo non superi il vaglio dello stesso PM14.



4. Le nuove norme deontologiche



La disciplina della negoziazione assistita introduce nuove norme di carattere deontologico rivolte agli avvocati. Alcune di esse hanno efficacia anche dal punto di vista processuale. Sottesa a tutte le disposizioni, che esamineremo nei prossimi paragrafi, è la ratio di favorire la conciliazione tra le parti imponendo alla classe forense, considerata storicamente restia (si ritiene, come da molti condiviso, a torto) a favorire accordi bonari tra i litiganti, di tenere comportamenti indirizzati ad agevolare la composizione delle liti.



4.1. Il dovere di informativa al cliente



L’art. 2, analogamente a quanto già previsto per i procedimenti di media conciliazione dal D.lgs. n. 28/10, prevede, al comma 7, che sia “dovere deontologico degli avvocati informare il cliente all’atto del conferimento dell’incarico della possibilità di ricorrere alla convenzione di negoziazione assistita”. Tuttavia, a differenza che il legislatore del 2010, quello del 2012 si è limitato a prevedere per l’avvocato il dovere di informazione, senza sancire alcuna conseguenza di carattere sostanziale o processuale derivante dalla sua violazione, né imponendo la produzione nell’eventuale giudizio del documento contenente l’informazione. Si tratta, evidentemente, di una presa di coscienza dello scarso impatto di norme che fanno discendere conseguenze di ordine sostanziale (invalidità – relativa - del mandato) o processuale (informazione della parte rivolta dal giudice) dalla violazione di dovere di carattere prettamente deontologico.



4.2. L’incompatibilità tra avvocato “negoziatore” ed arbitro



La disposizione più importante, in riferimento ai doveri deontologici dell’avvocato, in tema di negoziazione assistita, è l’art. 9 del D.L. 132/14. Il primo comma della disposizione prevede che “i difensori non possono essere nominati arbitri ai sensi dell’articolo 810 del codice di procedura civile nelle controversie aventi il medesimo oggetto o connesse”. Si tratta di una precisa ipotesi di incompatibilità tra la funzione di avvocato “negoziatore” e quella di arbitro in controversie aventi il medesimo oggetto o connesse. Essa andrà ad integrare le ipotesi di cui all’art. 815 c.p.c. e sarà pertanto motivo di ricusazione in sede arbitrale. Si è giustamente osservato15 che esso va ad aggiungersi all’ipotesi prevista dall’art. 815, comma 1, n. 6), estendendo l’incompatibilità, oltre che al caso in cui l’arbitrato sia relativo alla stessa vicenda oggetto di negoziazione, anche il caso della semplice connessione tra le controversie. L’eventuale incompatibilità non avrà invece conseguenze in ordine alla validità del lodo. Se, difatti, l’art. 829, comma 1, n. 3 c.p.c. prevede la nullità “se il lodo è pronunciato da chi non poteva essere nominato arbitro a norma dell’art. 812”, è evidente come detta conseguenza sia limitata al caso di incapacità legale d’agire dell’arbitro, come previsto dall’art. 812 cui la citata disposizione rinvia. Va ricordato, infine, che, ai sensi dell’art. 9, comma 4 bis, D.L. 132/14, la violazione delle prescrizioni in commento costituisce per l’avvocato illecito disciplinare.



4.3. Segue: Il dovere di lealtà



Il dovere di lealtà per gli avvocati e le parti, sancito dall’art. 9 in commento, deve essere letto congiuntamente all’art. 2 del D.L. 132/14 a mente del quale “La convenzione di negoziazione assistita da uno o più avvocati è un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l’assistenza di avvocati…”. Nel corso della procedura di negoziazione gli avvocati e le parti hanno quindi l’obbligo di comportarsi con lealtà, e ciò all’evidente fine di fare il possibile per raggiungere il componimento della lite. Si è osservato che detto obbligo potrà difficilmente trovare una sanzione in caso di violazione, salvo il caso del rifiuto assoluto di negoziare16. Se ciò è sicuramente vero dal punto di vista processuale, dal momento che la legge prevede conseguenze solo in caso di mancata risposta o rifiuto dell’invito a procedere alla stipula della convenzione di negoziazione (art. 4, comma 1 D.L. 132/14), lo stesso non può dirsi, con riferimento agli avvocati, dal punto di vista deontologico, in quanto un comportamento contrario al dovere suddetto potrà costituire un illecito proprio in tale ambito, come prevede espressamente il comma 4 bis dell’art. 9 in esame.



4.4. Segue: Il dovere di riservatezza della negoziazione.



L’art. 9 del D.L. 132/14 prevede inoltre, a carico degli avvocati e delle parti, un obbligo di tenere riservate le informazioni ricevute durante la procedura di negoziazione. La disposizione, si è giustamente osservato, intende favorire la spontaneità del comportamento delle parti nel corso della negoziazione, analogamente a quanto previsto nei procedimenti di mediaconciliazione ai sensi dell’art. 10 d.lgs. n. 28/2010. Ma quale è la portata del dovere di riservatezza? Si tratta di un limite di ammissibilità della prova o di una norma che ha rilievo solo sul piano deontologico o penale? Si è già accennato al contenuto della disposizione di cui all’art. 9 D.L. 132/14, in merito alla tutela della riservatezza della negoziazione. La norma in commento, in particolare, ai commi da 2 a 4 bis, prevede che:

– è fatto obbligo agli avvocati e alle parti di comportarsi con lealtà e di tenere riservate le informazioni ricevute (comma 2, primo inciso);

– le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento non possono essere utilizzate nel giudizio avente in tutto o in parte il medesimo oggetto (comma 2, secondo inciso);

– i difensori delle parti e coloro che partecipano al procedimento non possono essere tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite (comma 3);

– a tutti coloro che partecipano al procedimento si applicano le disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’articolo 103 del medesimo codice di procedura penale in quanto applicabili (comma 4);

– la violazione delle prescrizioni di cui al comma 1 e degli obblighi di lealtà e riservatezza di cui al comma 2 costituisce per l’avvocato illecito disciplinare (comma 4 bis). Le suddette previsioni hanno contenuto analogo agli artt. 9 e 10 del D.lgs n. 28/10, dettato in materia di mediazione17. In particolare, quest’ultima disposizione, rubricata “inutilizzabilità e segreto professionale” prevede che:

– le dichiarazioni rese o le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni. Sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni non è ammessa prova testimoniale e non può essere deferito giuramento decisorio (comma 1);

– Il mediatore non può essere tenuto a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel procedimento di mediazione, né davanti all’autorità giudiziaria né davanti ad altra autorità. Al mediatore si applicano le disposizioni dell’articolo 200 del codice di procedura penale e si estendono le garanzie previste per il difensore dalle disposizioni dell’articolo 103 del codice di procedura penale in quanto applicabili (comma 2); Si ritiene tuttavia che tra le due richiamate discipline risalti una differenza, in particolare la mancanza all’art. 9. D.L. 132 di una (quantomeno opportuna) precisazione, contenuta invece nell’art. 10 del D.lgs. 28/2010, vale a dire la previsione espressa della inammissibilità della testimonianza “sul contenuto delle stesse dichiarazioni e informazioni”18. Il dubbio è allora se la nuova disciplina preveda un dovere di riservatezza il cui rilievo stia solo sul piano penale (consentendo – ma non obbligando – di opporre il segreto ex art. 200 c.p.p.) e, per gli avvocati, deontologico, oppure se essa investa anche anche l’ambito della prova civile nel processo susseguente alla negoziazione assistita. A ben vedere la nuova disciplina detta senz’altro una previsione che investe l’ambito del diritto probatorio, ossia la previsione di non utilizzabilità delle dichiarazioni e delle informazione nel successivo processo, ma mentre il legislatore del 2010, dopo l’analoga e pressoché identica previsione, aveva sentito il bisogno di precisare l’inammissibilità della testimonianza e del giuramento decisorio aventi ad oggetto quelle informazioni e quelle dichiarazioni, il legislatore del 2014 niente ha aggiunto. Una possibile interpretazione è quella secondo la quale ad essere non utilizzabili (e quindi inammissibili) siano solo i documenti (il termine utilizzo evoca senza dubbio più una prova costituita che una prova costituenda) aventi ad oggetto quelle dichiarazioni (scritte) e quelle informazioni, essendo invece la prova per testimoni (ed il giuramento) su quello stesso oggetto ammissibili, salvo costituire, per i soli avvocati, illecito deontologico deporre nonostante la facoltà (prevista per tutti i partecipanti al procedimento) di astenersi19. L’interpretazione prospettata appare avvalorata proprio dalla previsione, aggiunta solo in sede di conversione del D.L., delle conseguenze deontologiche (per gli avvocati) della violazione del divieto: perché altrimenti sanzionare come illecito deontologico un comportamento privo di effetti, data (in ipotesi) l’inammissibilità della testimonianza? Ciò è ulteriormente avvalorato dalla considerazione che, laddove la legge processuale prevede dei doveri di lealtà per le parti o gli avvocati, lo fa per limitare e sanzionare comportamenti che, seppur riprovevoli, sono capaci di produrre effetti giuridici all’interno del processo. Anche laddove si volesse estendere all’inammissibilità della prova per testi la previsione di non utilizzabilità delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite nel corso del procedimento, parrebbe comunque doversi individuare una seppur limitata conseguenza della diversa formulazione dell’art. 9 D.L. 132/2010 rispetto all’art. 10 D.lgs. n. 28/2010, e ciò con riferimento alla testimonianza resa da soggetti, diversi dalle parti e dai loro avvocati, che abbiano partecipato al procedimento. Come visto, infatti, solo le parti e i difensori sono destinatari dell’obbligo di riservatezza, per cui è comunque dubitabile che la previsione di “non utilizzabilità” di cui all’art. 9 D.L. 132/14 sia capace di rendere inammissibile la testimonianza di quelli, tanto più che è espressamente previsto che detti soggetti non siano tenuti a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese e delle informazioni acquisite, e non anche che la loro testimonianza sia inammissibile (come invece espressamente previsto dall’art. 10 D.lgs. 28/10). In altre parole, ammesso e non concesso che l’inutilizzabilità delle dichiarazioni e delle informazioni renda inammissibile la prova per testi avente ad oggetto queste ultime, la previsione pare doversi quantomeno limitare alla sola testimonianza dei soggetti destinatari del dovere di riservatezza. Si è infine giustamente osservato come la norma in commento non possa, in ogni caso, essere interpretata nel senso di vietare alle parti, nel successivo giudizio, di allegare fatti o di avvalersi di prove la cui conoscenza derivi dalle dichiarazioni rese dalle parti o dalle informazioni acquisite nel corso della negoziazione20. Una cosa è infatti il divieto di utilizzazione di ciò è avvenuto nel corso della negoziazione, ivi incluse le dichiarazioni di chi vi ha partecipato, altra sono i fatti della causa conosciuti durante la negoziazione.

NOTE

1 Così D. Borghesi, La delocalizzazione del contenzioso civile: sulla giustizia sventola bandiera bianca ?, in www.judicium.it., p. 13.

2 Cfr. R. Bolognesi, Il “contratto” sulla procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, in www.judicium.it, p. 9.

3 Cfr. R. Bolognesi, ibid.

4 Cfr. R. Bolognesi, op. cit., p. 9.

5 Ciononostante la dottrina maggioritaria è contraria a tale interpretazione, ritenendo che l’art. 4 del DL 132/14 si applichi solo alla negoziazione obbligatoria, cfr., anche per ulteriori riferimenti, F. cAmPione, La negoziazione assistita obbligatoria, in C. cecchellA, F. cAmPione, A. mengAli, P. ortolAni, a cura di C. cecchellA, La nuova giustizia civile, Milano, 2015, p. 110.

6 Cfr. R. Bolognesi, op. cit., p. 6.

7 Cfr. F. cAmPione, La negoziazione assistita facoltativa, in La nuova giustizia

civile, cit., pp. 98 s., secondo il quale questo è l’argomento dirimente ai fini dell’adesione a tale interpretazione.

8 Cfr. M. grADi, Inefficienza della giustizia civile e «fuga dal processo», in www. judicium.it, p. 85.

9 Così R. Borghesi, op. cit. p. 9.

10 Sulla sorte della convenzione in caso di mancata previsione del termine o di previsione di un termine non rientrante nella forbice di cui alla norma in esame cfr. R. Bolognesi, op cit., pp. 6-7

11 Cfr. R. Bolognesi, op. cit., p. 5.

12 Cfr. D. Borghesi, op. cit., p. 25.

13 In questo senso, invece, D. Borghesi, op. cit., p. 25

14 Cfr. M.A. luPoi, Separazione e divorzio, in Riv. trim dir. e proc. civ., 2015,

pp. 283 ss., spec. p. 290.

15 Cfr. M. grADi, op. cit., p. 95.

16 Cfr. M. grADi, op. cit., p. 93.

17 Di normativa, a tal fine, sostanzialmente identica parla F.P. luiso, La negoziazione assistita, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2015, pp. 649 ss., spec. § 7.

18 Secondo F.P. luiso, op. ult. cit., § 7, detta previsione si applica anche alla negoziazione assistita, poiché “se le dichiarazioni e informazioni non possono essere utilizzate, ovviamente non avrebbe senso esperire prove volte ad acquisirle al processo”.

19 Contra D. Borghesi, La delocalizzazione del contenzioso civile: sulla giustizia sventola bandiera bianca?, in www. Jusicium.it., p. 22, che ritiene che la disposizione ponga “un generale motivo di inammissibilità riferito al materiale istruttorio tratto dalla negoziazione”, con la conseguenza che i difensori non avrebbero una mera facoltà di non testimoniare, bensì un vero e proprio divieto.

20 Cfr. M. grADi, op. cit., p. 94.