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Il nuovo che sa tanto di vecchio

autore: G. Luccioli

1. Negli anni 1989-90 era vivace il dibattito sulla interpretazione da dare a quel concetto di mezzi adeguati la cui non disponibilità l’art. 5 riformato della legge sul divorzio aveva posto come condizionante la spettanza dell’assegno. Lo sforzo esegetico era appunto rivolto a fornire concretezza ad un dato normativo che il legislatore del 1987 aveva omesso di precisare. Tale dibattito fu significativamente alimentato dalla sentenza n. 1652 del 1990, che innovando rispetto a precedenti orientamenti stabilì che ai fini dell’attribuzione dell’assegno la valutazione relativa alla adeguatezza dei mezzi economici del richiedente “deve essere compiuta con riferimento non al tenore di vita da lui goduto durante il matrimonio, ma ad un modello di vita economicamente autonomo e dignitoso, quale, nei casi singoli, configurato dalla coscienza sociale”. È importante riportare il passaggio centrale della contorta motivazione: “Questa conclusione aderisce, da un lato, ad una ricostruzione del sistema che non lascia spazio alla improbabile sopravvivenza di uno status economico connesso ad un rapporto personale definitivamente estinto (ma, se fosse vero il contrario, matrimonialmente indissolubile) e soddisfa, dall’altro, quelle esigenze solidaristiche che trovano non nel suo fittizio prolungamento, ma nella sua cessazione la propria ragione giustificatrice, liberando, ad un tempo, la condizione coniugale da connotazioni marcatamente patrimonialistiche, che, dando per acquisite e fornite di ultrattività posizioni, molte volte, di “pura rendita”, oltre a stravolgere l’essenza del matrimonio, ne possono favorire la disgregazione, deresponsabilizzando il beneficiario e, una volta che questa si sia verificata, assolverlo dall’obbligo di attivarsi per realizzare con le proprie risorse la sua personalità e acquisire, così, una dignità sociale effettiva e condivisa”. Detta pronuncia fu oggetto di ampie critiche al nostro interno ed anche in ambito accademico: attenta dottrina le contestò di aver assunto una posizione reazionaria ed individualistica, che ignorava il principio di solidarietà postmatrimoniale, di cui pure affermava la vigenza. I commentatori più avvertiti non mancarono di evidenziare che alla decisione poteva essere attribuita una certa valenza promozionale, nei limiti in cui intendeva incoraggiare la donna ad uscir fuori dalle pareti domestiche alla ricerca di una realizzazione esterna, ma che tale ricerca poteva essere vanificata dai condizionamenti che la donna – specie se non più giovane e priva di adeguate esperienze lavorative – continuava a subire nella società. Altri osservarono che un assegno divorzile così determinato rischiava di trasformare il divorzio, nella gran parte dei casi, in un ripudio a buon mercato del coniuge più debole. Intervennero infine le Sezioni Unite con le sentenze n. 11489, 11490, 11491 e 11492 del 1990, le quali, come è noto, affermarono che “il presupposto per concedere l’assegno è costituito dall’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente […] a conservare un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, senza che sia necessario uno stato di bisogno dell’avente diritto, il quale può essere anche autosufficiente economicamente” e che “la misura concreta dell’assegno – che ha carattere esclusivamente assistenziale – deve essere fissata in base alla valutazione ponderata e bilaterale dei criteri enunciati dalla legge (condizioni dei coniugi, ragioni della decisione, contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, reddito di entrambi, durata del matrimonio) con riguardo alla pronuncia di divorzio”. Le Sezioni Unite ebbero cura di precisare in motivazione che il diverso orientamento di Cass. n. 1652 del 1990 era smentito dai lavori preparatori della riforma del 1987, ed in particolare dalla Relazione al disegno di legge, e che l’avvenuta eliminazione ad opera della novella dei due criteri compensativo e risarcitorio (ora degradati a meri elementi di quantificazione) non escludeva che la funzione assistenziale residuale dell’assegno conservasse la precedente valenza. Osservarono altresì che lo scopo di evitare rendite parassitarie ed ingiustificate proiezioni patrimoniali di un rapporto personale ormai sciolto era garantito dalla prudente utilizzazione dei vari criteri di quantificazione, in una visione ponderata e globale. A tali principi la successiva giurisprudenza di legittimità si è costantemente ispirata, pur introducendo piccoli correttivi diretti a puntualizzare i singoli criteri. L’adesione agli enunciati delle Sezioni Unite ha consentito negli anni di rendere risposte di giustizia aderenti alla specificità delle situazioni fattuali esaminate, attraverso un percorso diretto a determinare innanzi tutto, quale dato di partenza, il tenore di vita preesistente e quindi a procedere, nella seconda fase, all’applicazione dei criteri di quantificazione, cui si riconosceva, anche singolarmente, una influenza tale non solo da incidere sotto il profilo quantitativo, ma anche da escludere in concreto la spettanza dell’assegno. È così accaduto che il diritto sia stato negato nel caso di matrimoni di brevissima durata, o anche nell’ipotesi di sostanziale parità delle condizioni reddituali e/o patrimoniali dei coniugi ovvero in presenza di un comportamento di uno dei due gravemente lesivo degli obblighi matrimoniali, per effetto del riconosciuto valore assorbente dei pertinenti criteri di quantificazione.



2. La recente decisione n. 11504 del 2017 ha inteso stravolgere tale orientamento, ritenendo opportuno correggere la motivazione della sentenza di appello il cui dispositivo di rigetto ha peraltro ritenuto conforme a diritto. A tale pronunzia vanno formulati numerosi rilievi critici, sia nel metodo che nel merito. Innanzi tutto essa non sembra condivisibile lì dove afferma che l’essere trascorsi quasi ventisette anni dalla sentenza delle Sezioni Unite rende non più attuale l’orientamento da esse espresso, così da esimere il Collegio dall’osservanza del precetto di cui all’art. 374, comma 3, c.p.c. È di chiara evidenza il cortocircuito che inficia tale ragionamento: la non attualità 2. La recente decisione n. 11504 del 2017 ha inteso stravolgere tale orientamento, ritenendo opportuno correggere la motivazione della sentenza di appello il cui dispositivo di rigetto ha peraltro ritenuto conforme a diritto. A tale pronunzia vanno formulati numerosi rilievi critici, sia nel metodo che nel merito. Innanzi tutto essa non sembra condivisibile lì dove afferma che l’essere trascorsi quasi ventisette anni dalla sentenza delle Sezioni Unite rende non più attuale l’orientamento da esse espresso, così da esimere il Collegio dall’osservanza del precetto di cui all’art. 374, comma 3, c.p.c. È di chiara evidenza il cortocircuito che inficia tale ragionamento: la non attualità di quell’orientamento era proprio la questione sulla quale le Sezioni Unite avrebbero dovuto esprimersi e della quale sono state non correttamente deprivate. Va inoltre osservato sul punto che non può essere invocato il decorso del tempo quando i principi enunciati dalle Sezioni Unite costituiscono tuttora diritto vivente, ponendosi come criteri fondamentali di riferimento nelle decisioni dei giudici di merito. Quanto al merito, vari passaggi motivazionali appaiono non condivisibili. In primo luogo, non è giuridicamente esatto affermare che una volta sciolto il matrimonio il rapporto coniugale “si estingue definitivamente sul piano sia dello status personale dei coniugi […] sia dei loro rapporti economico-patrimoniali”: a smentire l’assunto è sufficiente ricordare il diritto alla quota della pensione di reversibilità (art. 9), alla quota della indennità di fine rapporto (art. 12 bis), all’assegno a carico dell’eredità (art. 9 bis), che il legislatore ha riconosciuto al soggetto titolare di assegno di divorzio: la partecipazione dell’ex coniuge alla posizione economica dell’altro coniuge derivante dai rapporti richiamati trova pur sempre la sua ragione ultima nel fatto oggettivo della pregressa esistenza di un vincolo matrimoniale ormai disciolto. In secondo luogo, con il sostenere che il perimetro del tenore di vita induce inevitabilmente una indebita commistione tra le due fasi dell’an e del quantum e tra i relativi accertamenti e che addirittura ogni riferimento a detto tenore di vita finisce illegittimamente per ripristinare il rapporto coniugale in una indebita prospettiva di “ultrattività” del vincolo, la sentenza offre una lettura non corretta dell’itinerario ermeneutico tracciato dalla giurisprudenza contestata: ed invero, come già osservato, il tenore di vita pregresso costituisce soltanto il dato di partenza, l’elemento rilevante esclusivamente ai fini di una astratta spettanza dell’assegno, e su tale dato devono operare i vari criteri di quantificazione, che possono dispiegare anche effetti di esclusione del beneficio. Nessun diritto alla conservazione del tenore di vita, dunque, ma solo l’individuazione di un necessario parametro di riferimento dal quale prendere le mosse. Un parametro peraltro capace di tener conto e di includere la sinergia di apporti, sul piano meramente economico e su quello dell’attività di cura della famiglia, sul piano del lavoro retribuito esterno e di quello non retribuito interno, che hanno reso possibile il delinearsi di quel determinato “tenore di vita”. Appare pertanto evidente che soltanto l’assunzione come dato di riferimento di detto tenore di vita, e non già dell’autosufficienza economica, può consentire il riconoscimento dell’apporto, delle rinunce e dei sacrifici compiuti da uno dei coniugi in favore dell’altro e del nucleo familiare. Ed ancora, le considerazioni svolte circa l’avvenuto superamento della concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva e circa l’attualità della visione di esso come atto di libertà e di responsabilità in quanto tale dissolubile appaiono tanto ovvie da risolversi nella inconferenza: il principio di indissolubilità del vincolo, con le relative implicazioni, è venuto meno sin dal 1970. Non può peraltro non sottolinearsi che il riferimento ad una “illegittima locupletazione” cui è necessario porre termine appare del tutto sganciato da dati di realtà: prescindendo dai casi fuorvianti di ex coniugi titolari di grandi ricchezze, da indagini statistiche emerge che nel 2015 l’assegno medio liquidato è stato di 533 euro al mese, ma che per coloro che dichiaravano un reddito non superiore a 29.000 euro annui il suo ammontare è stato di circa 300 euro mensili. Altri dati evidenziano che soltanto nel 12% dei casi vi è attribuzione dell’assegno. Sembra pertanto corretto argomentare che l’assegno di divorzio, ove attribuito, piuttosto che consentire al beneficiario un tenore di vita analogo a quello goduto durante il matrimonio, lo costringe spesso a pesanti sacrifici per la sopravvivenza (senza peraltro negare le restrizioni cui può essere soggetto anche l’altro coniuge). Del tutto improprio è ancora aver tratto argomento, a sostegno della opzione interpretativa adottata, dalla disciplina dell’assegno di mantenimento del figlio maggiorenne non autosufficiente. È certamente vero che detto assegno è condizionato dalla mancanza senza colpa di indipendenza economica dei figli, ai sensi dell’art. 337 septies, primo comma, c.c., così da chiamare in causa il principio di “autoresponsabilità economica”, ma è altrettanto vero che tale emolumento trova ragione nel perdurante dovere dei genitori di assicurare alla prole anche dopo la maggiore età educazione ed istruzione, aiutandola nel difficile percorso verso il raggiungimento della autosufficienza, e resta per sua natura del tutto immune da ogni valutazione in termini di solidarietà postconiugale e di valorizzazione del contributo reso alla vita della famiglia. Anzi, a ben vedere tale erroneo accostamento riflette con particolare efficacia la visione limitata ed individualistica che ispira la decisione. Quanto poi al riferimento ad altri ordinamenti europei come esempi da imitare nella rigorosa adesione al principio di autoresponsabilità economica, può osservarsi in contrario che secondo radicata opinione fondata su dati di esperienza il nostro Paese fornisce gli strumenti meno efficaci, al momento della crisi del vincolo, a tutela del coniuge più debole che abbia dedicato durante il matrimonio tempo ed energie all’attività di cura della famiglia, al prezzo di definitive rinunce ad un futuro professionale conforme alle sue aspirazioni e alle sue capacità. Ricordo in particolare che nel Regno Unito il principio del clean break trova significativo temperamento nell’attribuzione di beni, e talvolta anche nella concessione di una somma periodica, al coniuge che si è dedicato alla cura dei figli. Anche nel sistema tedesco è possibile che il giudice, oltre la redistribuzione della ricchezza attraverso i conguagli imposti dal regime patrimoniale legale, disponga il pagamento di un assegno periodico di natura eminentemente assistenziale, Ricordo altresì che il sistema statunitense prevede il riequilibrio della situazione patrimoniale tra gli ex coniugi attraverso l’equa distribuzione dei beni acquistati anche separatamente durante il matrimonio. Segnalo ancora che secondo alcuni osservatori nel caso di matrimoni connotati da profili internazionali è frequente assistere a fenomeni di forum running, nei quale il coniuge più forte cerca di assicurarsi la giurisdizione del giudice italiano. Ma ciò che soprattutto colpisce nella lettura della sentenza in discorso è l’identità della ideologia ad essa sottesa con quella che ispirò la decisione n. 1652 del 1990 (è sufficiente mettere a confronto le due motivazioni): lo stesso spirito promozionale, lo stesso argomentare in termini di autosufficienza, la stessa disattenzione per la tutela dei soggetti deboli, lo stesso rifiuto di distinguere tra rendite effettivamente ingiustificate e riconoscimento dei sacrifici di una vita per le esigenze della famiglia. In conclusione, ancorare il giudizio alla mera autosufficienza vuol dire negare il contributo che il coniuge economicamente più debole ha dato alla vita matrimoniale, spesso sacrificando a vantaggio delle esigenze dell’altro coniuge e dei figli gran parte della propria esistenza. Questo non solo è giuridicamente sbagliato, ma è profondamente ingiusto. Togliere al coniuge più debole ritenuto autosufficiente il diritto all’assegno vuol dire anche togliergli il diritto alla quota della pensione di reversibilità, che sarà interamente percepita dal coniuge superstite, anche se il relativo vincolo matrimoniale abbia avuto durata brevissima, così come vuol dire togliergli il diritto alla quota del trattamento di fine rapporto e all’assegno a carico dell’eredità. Il principio di autoresponsabilità economica invocato esige che il soggetto debole si dia da fare, recuperi il tempo perdu to, si cerchi una qualsiasi occupazione, anche se avanti negli anni, anche se privo di qualsiasi professionalità da spendere in un mercato del lavoro così avaro di opportunità per tutti, e soprattutto per chi ha poco da offrire. Il distacco dalla realtà del nostro Paese e l’adesione ideologica ad un principio astratto di autosufficienza ha indotto la Corte di Cassazione ad una opzione interpretativa che certamente peggiora la condizione sociale delle donne che (forse) intendeva promuovere, aprendo nuovi fronti di contrasto all’interno della famiglia. Peraltro l’esigenza di porre un argine a casi limite ben poteva e può essere soddisfatta attraverso una corretta applicazione dei principi fissati dalle Sezioni Unite: ed in tal senso avevano già pronunciato nella specie i giudici di Milano, rigettando la domanda di attribuzione dell’assegno. Resta l’amara considerazione che ogni diritto acquisito non è per sempre. Resta la fiducia in un nuovo intervento delle Sezioni Unite, esattamente come avvenne nel 1990.