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L’assegno di divorzio nelle recenti pronunce di merito

autore: M. Labriola

All’indomani del deposito della sentenza della Corte di Cassazione n. 11504 del 2017, oltre all’interesse mediatico per l’orientamento espresso che è apparso, prima facie, discostarsi decisamente dai noti precedenti della stessa Corte di legittimità, ci si è trovati in presenza di alcune pronunce di merito che, con argomentazioni non sempre omogenee tra loro, hanno contribuito a fornire un assetto piuttosto altalenante sulla natura e debenza dell’assegno divorzile.

È, altresì, vero che, come ha sostenuto il relatore della sentenza citata, dott. Lamorgese, l’originaria stesura dell’art. 5 co. 6 l. div. era formulata in un modo tale per cui la sua sintesi contribuiva, da un lato a prevedere un certo automatismo nell’attribuzione dell’assegno divorzile al coniuge debole, all’esito dello scioglimento del matrimonio, e, per altro verso, ad una notevole discrezionalità dei giudici nella quantificazione degli assegni. Le letture ed interpretazioni del dettato normativo hanno subito, comunque, una significativa modifica nel corso di quegli anni. D’altronde, è innegabile che solo dopo il riconoscimento legislativo che ha sancito la cessazione del matrimonio in Italia, l’assegno divorzile ha iniziato a rappresentare lo strumento principale di regolamentazione della crisi familiare. Alcune parti dell’articolo 5 scritto nel 1970 sono ancora presenti nel testo della riforma del 1987. Il segno di tali cambiamenti si ritrova nella nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite del 19901 , che ha rimarcato la natura esclusivamente assistenziale dell’assegno, superando così la necessità di compensare il contributo fornito da un coniuge all’altro, nell’ambito della famiglia. Questa decisione ha introdotto un nuovo ed importante punto di partenza. L’analisi va, in questo momento storico, spostata sul significato della parola assistenza che deve essere intesa in senso più prettamente civilistico. Le Sezioni Unite avevano risolto con il parametro del tenore di vita le criticità derivanti da una eccessiva discrezionalità dei giudici, suggerendo che fosse preliminarmente valutata la necessaria comparazione reddituale tra i coniugi al fine di compensarne le disparità. Quindi, principalmente, sostenevano che andasse garantito l’assegno assistenziale attraverso l’analisi della comparazione reddituale e, qualora in presenza di una disparità da bilanciare, si sarebbe reso possibile un riequilibrio all’interno della famiglia. Tuttavia, benché accolta con favore da molti giudici di merito, vi è chi, come il Tribunale di Udine, ha criticato l’allontanamento operato dal concetto, ormai consuetudinario, di tenore di vita, col recupero di quella modalità argomentativa che, dopo il 1990, non aveva più avuto per 27 anni ripensamenti. Non v’è dubbio, invece, che l’analisi della sentenza emessa dalla Corte d’Appello di Milano, relativa al divorzio tra il dott. Berlusconi e la sig.ra Bartolini (in arte Veronica Lario), non potrà prestarsi ad un agevole confronto con altre fattispecie di fatto e relative a molte coppie italiane, benché talune siano effettivamente benestanti. Ciò che più interessa del provvedimento della Corte d’Appello di Milano sono i principî richiamati in conformità alla nota sentenza della Cassazione n. 11504/17, che ha suscitato un dibattito ancora vivo e che avrà il suo epilogo con le risposte che perverranno dalle Sezioni Unite. In primo grado, il Tribunale di Monza, con sentenza del 23 giugno 2015, aveva attribuito alla sig.ra Bartolini, a titolo di assegno di divorzio, la somma mensile netta di € 26.000,00 – € 1.400.000,00 mensili lordi – pur in presenza di un patrimonio stimato in circa 50 milioni di euro, oltre al fatto di vantare un credito non riscosso di € 26.050.220,71 nei confronti dell’ex marito. In Corte d’Appello Silvio Berlusconi chiedeva, alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali, l’eliminazione dell’assegno divorzile. Con appello incidentale Miriam Bartolini domandava un aumento sino ad € 3.600.000,00 mensili. A onor del vero il patrimonio dell’appellante, sulla base delle classifiche Forbes degli uomini più ricchi del mondo, viene stimato in 9 miliardi di euro. Inimmaginabili cifre da capogiro. Le difese delle parti si incentravano, oltre che sull’indagine dei reciproci ingenti patrimoni, anche sulla necessarietà o meno di attribuire valore primario al rispetto del canone del tenore di vita condotto dai coniugi nel corso del matrimonio. La Corte, nella detta sentenza, ritenendo chiaramente che gli oneri di allegazione probatoria gravino su chi richieda l’assegno di divorzio, sollecitava la Bartolini a fornire dettagli che potessero consentire al collegio di “conoscere quantità e qualità delle spese sostenute da lei, che è titolare, in qualità di socio unico di società immobiliari, di un considerevole patrimonio immobiliare e ha la disponibilità di somme di danaro – considerando solo quelle ricevute a titolo di assegno dopo la separazione – di consistenza tale da consentirle un elevato tenore di vita anche negli anni futuri. Pur sollecitata in tal senso dalla Corte nel confronto orale in udienza, l’appellata non ha ritenuto di adempiere ad un tale onere probatorio, neppure allegando quali siano le spese attuali sostenute per mantenere il patrimonio immobiliare, che le è stato costituito nel corso del matrimonio dal marito, e quali sono le spese sostenute in relaziona al suo attuale tenore di vita”. Questo innovativo aspetto processuale, per cui l’onere della prova che con questo orientamento giurisprudenziale ricade sulla parte richiedente l’assegno, fa presumere, quindi, che, per le impugnazioni temporalmente successive alle pronunce nn.11504 e 15481 del 2017, sia sempre possibile l’utilizzo, così come previsto nei mezzi di impugnazione propri del rito camerale, dell’applicazione dell’art. 345 co. 3° c.p.c.. Si superano, in tal modo, le preclusioni tipiche del processo civile. Come è noto agli infaticabili interpreti della sentenza della S.C. n. 11504/17, il concetto di tenore di vita, così come determinato in precedenza dalla Cassazione a Sezioni Unite del 29 novembre 1990 n. 11490, per cui l’adeguatezza dei mezzi si misurava sulla sufficienza degli stessi ad assicurare il mantenimento del coniuge inteso come soddisfazione di tutte le sue esigenze di vita indipendentemente dallo stato di bisogno correlato ad una mera obbligazione alimentare, è stato eliminato tra i parametri di indagine sull’an e sul quantum dell’assegno divorzile. Quindi, il nuovo punto di partenza dei giudici di merito e di quelli di legittimità sarà quello di superare la elaborazione di un assegno quale strumento di riequilibrio delle posizioni economiche dei coniugi al fine di garantire la conservazione del medesimo tenore di vita. Dopo la giurisprudenza di legittimità, si sono espresse, in senso conforme, altre pronunce. Il Tribunale di Milano2 ha ritenuto, quale autosufficienza economica e limite minimo di sussistenza, un emolumento mensile di € 1.000 percepito dal coniuge debole, escludendo, conseguentemente, l’attribuzione di un assegno divorzile. Anche la Corte d’Appello di Bologna con la sentenza n. 1682/17, in riforma del provvedimento di primo grado, ha revocato l’assegno divorzile all’ex moglie, richiamando il principio dell’autosufficienza economica, individuando la soglia di € 1.200 quale limite minimo. Di contro, recentemente, come innanzi evidenziato il Tribunale di Udine, con un provvedimento del giugno 2017, ha continuato ad affermare la rilevanza del concetto di tenore di vita recuperando le previsioni dettate in sede di divorzio e relative alle indagini tributarie. Il Tribunale di Roma si è discostato da tali interpretazioni3 attribuendo un assegno divorzile di sole € 150. Con pronuncia in pari data, lo stesso Tribunale Capitolino4 ha di sposto il versamento di un assegno di € 1.600,00 in ragione del contributo che la moglie ha fornito all’attività del marito. Nella parte motiva, gli Ermellini, sottolineano come siano state prese in considerazione le deduzioni della Bartolini/Lario e non di Berlusconi al fine di valutare quanto le condizioni economiche della stessa possano consentirle, anche per il futuro, un tenore di vita elevato. Il concetto da cui parte la Corte lombarda, adeguandosi al nuovo orientamento giurisprudenziale, è quello della sostanziale differenza tra l’assegno di mantenimento e quello divorzile e, attesa la non ultrattività del matrimonio, a quest’ultimo va attribuita natura giuridica di mera funzione assistenziale, intesa come aiuto nei confronti di chi non sia assolutamente in grado di provvedere autonomamente ai propri bisogni. Attualmente, ci ricorda la Corte d’Appello, la sola comparazione dei redditi non è più elemento di per sé esaustivo ai fini della decisione. Le indagini del tribunale devono condurre alla cognizione sulla capacità o meno del coniuge più debole di raggiungere una autonomia economica, la parte deve poter dimostrare gli sforzi intrapresi per il reperimento di una attività lavorativa. Quindi, l’attenzione si è spostata sulle condizioni soggettive del coniuge debole: adeguatezza dei mezzi, indipendenza economica e condizioni soggettive. Non va, tuttavia, trascurato l’esame dei redditi dell’obbligato e cioè la verifica se questi sia in grado di garantire l’indipendenza dell’altro coniuge, senza subire un peggioramento delle proprie condizioni di vita. Il principio cardine che assicura tale equilibrio, sostengono i giudici, è appunto quello della autoresponsabilità dei coniugi. Tuttavia, i nuovi percorsi giurisprudenziali non hanno abbandonato i valori costituzionali di solidarietà familiare Nel corso di questi trent’anni (1987-2017) molte cose sono certamente cambiate nel diritto di famiglia, si è assistito ad un maggiore tecnicismo delle norme, tanto da far emergere la natura più economicistica della risoluzione della crisi familiare. Inoltre, è possibile, ormai, ritenere che la valutazione sulla inadeguatezza dei mezzi si sia ormai adattata a quanto sostenuto in questi anni dalla giurisprudenza in tema di mantenimento del figlio maggiorenne, ossia è imprescindibile una demarcazione più netta tra il giudizio sull’an e il giudizio sul quantum. Alla luce di una metodologia civilistica è emersa la necessità, nella valutazione sulla previsione dell’assegno divorzile, di due fasi decisorie distinte: a) una attributiva; b) una quantificativa. La Corte di Cassazione con la sentenza n. 11504/17 suggerisce che, in ragione della positiva decisione del giudice sull’an, per il quantum si rendono necessari altri parametri: la durata del matrimonio, le ragioni della decisione e la precedente eventuale addebitabilità della separazione a carico del coniuge creditore. Solo col superamento positivo della domanda sull’an sarà possibile valutare l’entità dell’assegno. I concetti di autoresponsabilità e autonomia del coniuge debole sono senz’altro condivisibili ma, in Italia, devono fare i conti con una attività lavorativa femminile di dimensioni notevol mente ridotte e sperequate rispetto a quella maschile. Che vi sia stato, comunque, in questi ultimi trent’anni, un positivo traghettamento delle donne da una funzione meramente accudente della famiglia alla possibilità di uscire dalle mura domestiche per concorrere all’economia familiare, si può sostenere senza tema di smentita. Al contempo, il permanere, nell’art. 37 cost. co. 2, di quella garanzia assistenziale per cui “le condizioni di lavoro (ndr. delle donne) devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una particolare protezione”, imprime ancora oggi, all’interno della famiglia portatrice di “ruoli” spesso ben differenziati e delineati, una sorta di legittimazione alla marginalità femminile. Ciò comporta che, in assenza di un adeguato inserimento della donna nel mondo del lavoro, un adeguato sostegno del welfare, soprattutto nelle situazioni maggiormente disagiate, permarrà una inadeguatezza dei mezzi di sussistenza. Un’ultima questione si pone all’interprete, cioè se sia possibile, dopo l’emissione della sentenza n. 11504/17, applicare l’art. 710 c.p.c. in assenza di un mutamento delle circostanze al solo fine di far valere il nuovo orientamento. Quasi uno ius superveniens. Infatti, uno degli aspetti di criticità processuale, a seguito del mutamento di orientamento giurisprudenziale, si rinviene nella necessità di modifica o revoca dei giudizi ancora pendenti (comprese le ordinanze presidenziali) e di quelli già conclusisi. Il processo civile italiano è caratterizzato dalla natura dispositiva della domanda, quindi se cambia l’onere probatorio di chi chiede l’assegno di divorzio, cosa succede se il giudizio è già incardinato con una differente prospettiva istruttoria? L’allegazione è dalla parte richiedente, quindi si dovrebbe ipotizzare una nuova fase istruttoria con prove inverse. La questione è stata, infatti, rimessa alle Sezioni Unite civili della Cassazione su iniziativa del Primo presidente Giovanni Canzio perché ritenuta questione di particolare importanza. A breve il decreto di fissazione dell’udienza che dovrebbe comunque essere prevista per aprile 2018. Al nuovo orientamento della S.C. della I sez., come sostenuto, si sono adeguati diversi giudici di merito, senza che si attendesse l’ultima parola delle Sezioni Unite. Tra le numerose istanze approdate sul tavolo degli Ermellini vi è quella redatta al prof. Bruno Sassani, docente di procedura civile a Tor Vergata a Roma. Egli ha espresso le proprie perplessità evidenziando come la I sez. della medesima Corte si fosse di molto allontanata dal precedente giurisprudenziale del 1990 senza tener conto delle norme del codice di procedura in base alle quali “se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso”. Intervento delle Sezioni Unite che era stato chiesto anche dalla Procura generale della Corte. Nel decreto di remissione si è, inoltre, sottolineato come vi sia un inevitabile “riflesso costituzionato” di questo cambiamento che sta terremotando il diritto di famiglia. In attesa del lavoro delle Sezioni Unite queste rimangono ancora questioni aperte.