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Dignità del vivere e del morire. I diritti del malato, il giudice e la legge. Il caso Englaro

autore: G. Luccioli

Sommario: 1. Il principio di dignità. - 2. La sentenza Englaro: il consenso informato e il rifiuto delle cure nella prospettiva della dignità della persona. - 3. Le reazioni delle istituzioni e della politica alla sentenza Englaro. - 4. La legge sul consenso informato e sul fine vita all’esame del Parlamento. - 5. La via giurisprudenziale per dar voce alla volontà del malato attraverso l’amministratore di sostegno.



1. Il principio di dignità



Io credo che un approccio corretto alle tematiche che ci impegnano in questa tavola rotonda debba prendere le mosse dal principio di dignità. Il concetto di dignità ha radici antiche nella storia e nella filosofia, prima ancora che nel diritto, e si declina nelle varie culture e nei vari periodi storici in termini diversi. Nella prospettiva cristiana la dignità racchiude in sé il profilo statico della dote e quello dinamico della conquista, in quanto è intesa come dono divino ad ogni essere vivente creato a immagine di Dio, che tuttavia richiede di essere coltivato ed arricchito vivendo nel rispetto dei precetti evangelici. Nella elaborazione moderna la dignità si sostanzia nel reciproco rispetto tra gli esseri umani. In particolare, nella visione di Kant essa esprime un concetto morale connesso all’idea di valore: l’individuo non può mai essere un mezzo, uno strumento di qualcosa o di qualcuno, ma va considerato sempre come fine di se stesso, perché titolare di valori fondamentali non negoziabili. Ogni persona, in quanto essere razionale, è dotata di una propria dignità, che costituisce un elemento coessenziale al suo status del quale non può essere deprivata, ed al tempo stesso è portatrice della dignità dell’intera umanità. La declinazione del concetto di dignità in principi giuridici trova espressione già nelle Dichiarazioni dei diritti delle colonie americane del diciottesimo secolo e nella Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, lì dove enunciano che tutti gli uomini nascono egualmente liberi e indipendenti e sono titolari di una serie di diritti innati ed imprescrittibili. Più tardi, la centralità del valore della persona umana, al di là delle appartenenze nazionali e delle diverse culture, ideologie e religioni, e l’intangibilità della sua dignità ricevono pieno riconoscimento sia nelle Costituzioni del ventesimo secolo, sia nel Preambolo della Carta dell’ONU del 1945, sia ancora nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948, la quale all’art. 1 sancisce che tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. La Carta di Nizza nel suo Preambolo pone la dignità umana come primo valore fondativo dell’Unione, considerato indivisibile e universale, e nel primo articolo recita che la dignità umana è inviolabile e deve essere rispettata e tutelata. Nel corpo della Carta un intero titolo, il primo, è dedicato alla dignità umana, quale valore di riferimento nella tutela di specifici diritti, secondo una prospettiva concreta e relazionale, tanto da assumere un ruolo fondamentale nel processo di costituzionalizzazione del diritto privato europeo.

Quanto al nostro ordinamento, l’art. 3 della Costituzione, nell’affermare che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, antepone il principio di dignità a quello di eguaglianza e rende manifesto che eguaglianza e dignità non possono essere separate, in quanto la dignità sociale costituisce fondamentale principio regolatore dei rapporti tra le persone. L’art. 2 della Costituzione pone una diretta connessione tra il riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo e l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, così da configurare uno stretto collegamento tra solidarietà, dignità ed eguaglianza, onde l’elusione della prima si risolve nella violazione della dignità e dell’eguaglianza. Al tempo stesso, nel richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale il disposto dell’art. 2 Cost. rivela l’attenzione del costituente per le reali condizioni di vita di ogni essere umano, atteso che la dignità della persona non può esplicarsi se questa non è posta nelle condizioni di liberarsi dai bisogni che le impediscono di realizzare la propria soggettività. Si delinea pertanto nella Carta costituzionale una concezione essenzialmente dinamica della dignità, che attraverso il valore della libertà come possibilità dell’uomo e della donna di autodeterminarsi collega la pari dignità sociale al pieno sviluppo della persona umana. Non più contrapposte, vengono in tal modo a coesistere le due accezioni della dignità, come dote innata ed indisponibile e come risultato da raggiungere attraverso l’autodeterminazione di soggetti liberi e responsabili. E se pure è vero che la dignità acquisita, in quanto effetto del merito o del demerito dei comportamenti concretamente assunti, può portare al raggiungimento di posizioni differenziate, la dignità innata preclude ogni possibilità di trattamenti inumani o comunque lesivi dell’umanità della persona. Nell’elaborazione giurisprudenziale nazionale, internazionale e comunitaria degli ultimi anni il concetto di dignità è sempre più spesso evocato ove si ponga una esigenza di tutela dei diritti fondamentali delle persone, soprattutto di quelle più esposte e vulnerabili. Le implicazioni sul piano giuridico del valore della dignità investono infatti i temi più sensibili del vivere civile e coinvolgono una vasta gamma di contenzioso riguardante la vita, la salute, l’autodeterminazione, la stessa individualità biologica, i diritti dei lavoratori, lo stato di detenzione, l’immigrazione, la tutela delle donne. Il concetto di dignità viene così ad assumere un rilievo ben più pregnante della originaria connotazione etico-filosofica, per diventare un asse portante del sistema giuridico.

La centralità del valore della dignità della persona, intesa come il diritto dei diritti, come supercategoria da cui discendono tutti i diritti umani, appare particolarmente evidente nella giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di trattamenti sanitari e di biodiritto: segnalo, a mero titolo esemplificativo, che il principio di dignità della donna è stato invocato nella giurisprudenza della Corte di Cassazione in relazione alla maternità surrogata, una pratica sanzionata penalmente in Italia, che vede la gestante ridotta a mero contenitore di una vita destinata a non appartenerle mai. Richiamo ancora le molte pronunce della Corte Costituzionale che hanno fatto applicazione del principio di pari dignità sociale con riferimento ai diversi tipi di discriminazioni in ragione del sesso, della lingua, della razza, della religione, delle condizioni personali e sociali.



2. La sentenza Englaro: il consenso informato e il rifiuto delle cure nella prospettiva della dignità della persona



È appunto alla dignità del vivere e del morire – la seconda non meno importante della prima – che ha fatto riferimento la Corte di Cassazione nella nota sentenza relativa alla vicenda Englaro. Al tempo di detta pronuncia la tematica del fine vita, oltre che essere priva di alcuna regolamentazione giuridica, era pressoché inesplorata dalla giurisprudenza. E tuttavia compito ineludibile dei giudici era quello di dare una risposta alla domanda di giustizia tenacemente proposta da Beppino Englaro. Non mi soffermerò sui contenuti della sentenza, certamente noti ai presenti. Vorrei limitarmi in estrema sintesi a rilevare la centralità che assume nella decisione in discorso il principio di dignità della persona, che impone il riconoscimento del diritto di manifestare la propria volontà alla continuazione o alla cessazione delle cure. Il riferimento è all’art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce i diritti inviolabili della persona umana, nonché all’art. 32 della Costituzione, che dando sostanza nel nostro ordinamento al principio dell’habeas corpus, secondo l’antica formula che impegnava il sovrano a non mettere mano sul corpo dei cittadini, definisce la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo, adottando una definizione che si discosta dall’abituale riferimento all’inviolabilità dei diritti. Nel sancire che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge e che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti al rispetto della persona umana l’art. 32 detta una regolamentazione più stringente di quella contenuta nell’art. 13, che prevede la riserva di legge e di giurisdizione per ogni restrizione della libertà personale, ed esprime uno dei principi più forti della Carta costituzionale, in quanto pone il rispetto della dignità della persona come un limite che neppure la legge può superare. Il riferimento è ancora alla Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina del 4 aprile 1997, ratificata dall’Italia con legge 28 marzo 2001 n. 145, che pone come proprio oggetto e propria finalità la protezione dell’essere umano nella sua dignità e nella sua identità. La sentenza inoltre evidenzia che nella tutela della salute coesistono l’aspetto positivo del diritto alla cura e quello negativo del diritto al rifiuto del trattamento: un diritto quest’ultimo che trova riconoscimento esplicito nell’art. 8 della CEDU ed uno implicito nell’art. 5 della Convenzione di Oviedo, oltre che nell’art. 3 della Carta di Nizza. Come afferma Rodotà, il corpo inviolabile diventa così presidio di ogni essere umano, cui in nessun caso si può mancare di rispetto. Ne consegue che solo il consenso informato dà legittimazione e fondamento ad ogni trattamento sanitario, salvi ovviamente i casi eccezionali di trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge: in mancanza del consenso, che deve essere consapevole e fondarsi su un’alleanza terapeutica tra medico e paziente, l’intervento del medico non è lecito, anche quando ne derivi il sacrificio della vita, ed è suscettibile di essere valutato come reato. È opportuno al riguardo ricordare che il cammino che in Italia ha condotto all’affermazione del principio del consenso informato come presupposto di legittimità dell’operato del medico è stato lungo e complesso, ancora una volta in forte ritardo rispetto agli Stati Uniti, ove già intorno alla metà dello scorso secolo la casistica giurisprudenziale si era data carico di individuare le modalità secondo le quali il consenso doveva essere prestato. Nel nostro Paese si è passati faticosamente da una impostazione paternalistica orientata ad attribuire soltanto al medico il diritto-dovere di individuare ed attuare la scelta terapeutica, così esercitando il proprio potere sul corpo della persona malata, alla successiva assunzione del consenso come causa di giustificazione dell’atto medico lesivo dell’integrità psicofisica dell’individuo; ma anche tale passaggio è risultato ad una successiva riflessione non appagante, atteso che con il consenso il soggetto non rinuncia ad esercitare un diritto, ma al contrario fa valere il proprio diritto alla salute. Si è infine giunti al diffuso convincimento della essenzialità del consenso quale imprescindibile legittimazione giuridica di ogni attività diagnostica e terapeutica, e quindi al riconoscimento di esso come espressione di libertà. In tale prospettiva il consenso si pone come sintesi tra due diritti fondamentali, quello alla inviolabilità della persona, intesa come libertà nella quale è ricompreso il potere di disporre del proprio corpo, e quello alla salute. Come appare evidente, la necessità del consenso fa uscire il malato dal cono d’ombra della soggezione al medico e gli riconosce il ruolo di protagonista in ogni decisione che coinvolga la sua salute. E se pure il medico resta depositario della conoscenza e dell’esperienza che le cure richiedono, la libertà di determinazione del paziente assume comunque valore primario ed assorbente rispetto ai doveri del sanitario. Ne deriva una configurazione del rapporto tra il soggetto che cura ed il destinatario delle cure del tutto diversa da quella originariamente percepita, in quanto delinea una alleanza, una relazione dialettica e feconda tra il malato ed il medico, il quale informa, mettendo a disposizione il suo sapere, poi ascolta, poi aiuta il paziente nella decisione, che deve essere infine in ogni caso recepita e rispettata. Tali acquisizioni, da tempo fatte proprie da diverse leggi nazionali e regionali che disciplinano specifiche attività mediche, oltre che dalla giurisprudenza italiana di legittimità, di merito ed anche costituzionale (v. per tutte Corte Cost. 2008 n. 438; 2009 n. 253, entrambe pronunciate in un momento in cui erano ancora aspre le polemiche sul caso Englaro), nonché da quella europea e statunitense, ed anche dal codice italiano di deontologia medica (art. 35), rendono evidente che il consenso informato costituisce principio fondamentale in materia di tutela della salute e che il paziente è l’unico dominus della propria salute e l’unico soggetto cui appartiene la decisione sul se, come, quando e quanto curarsi, e quindi di rifiutare le cure, anche ove da tale rifiuto possa derivare la morte. A tali principi la sentenza n. 21748/2007 ha inteso ispirarsi, muovendo il suo percorso argomentativo proprio dalle norme costituzionali e dal principio personalistico che ispira l’intera Carta. La parte più delicata della motivazione riguardava la prova del consenso o del venir meno del consenso al trattamento terapeutico nei casi, come quello in esame, in cui il soggetto non sia in grado di esprimere e non abbia espresso in passato in modo esplicito le proprie scelte. La Cassazione ha percorso al riguardo l’unica strada percorribile, quella della ricostruzione della presunta volontà della ragazza in ordine alla prosecuzione o alla interruzione del trattamento attraverso un esame attento del suo stile di vita, dei valori coltivati nel corso della sua breve esistenza, della sua complessiva visione del mondo, dei suoi interessi, della sua concezione della dignità. In questa ricostruzione la Corte ha inteso riaffermare la centralità della persona, come individuo ancora in vita ed unico depositario della volontà di curarsi. Si è trattato chiaramente di una modalità di accertamento della volontà del tutto diversa da quelle tradizionalmente adottate in altre materie, ed in particolare in quella contrattuale, atteso che qui l’autodeterminazione non è stata identificata con manifestazioni esplicite della volontà, ma con il progetto esistenziale della persona nella sua complessità. Attraverso tale percorso la Corte ha deciso con Eluana, non per Eluana.



3. Le reazioni delle istituzioni e della politica alla sentenza Englaro



Le reazioni che accompagnarono la sentenza della Corte di Cassazione e successivamente il decreto della Corte di Appello che applicando i principi dettati in sede di legittimità autorizzò la cessazione del trattamento di idratazione e alimentazione forzata segnarono uno dei punti più bassi nel rapporto tra istituzioni, in plateale violazione del principio di divisione dei poteri e del giudicato. Aleggiarono epiteti di carnefici e assassini rivolti ai giudici da singoli parlamentari. Alcuni parlarono di prima sentenza di condanna a morte nella storia della Repubblica. Agli attacchi ingiuriosi contro gli autori della decisione, in una inaccettabile personificazione della sentenza – che era e rimaneva una sentenza della Corte di Cassazione – si accompagnarono iniziative politiche volte a contestare la legittimità della decisione e ad impedirne l’esecuzione. Ricordo in particolare il conflitto di attribuzione contro le due pronunzie sollevato da entrambi i rami del Parlamento dinanzi alla Corte Costituzionale, nell’assunto che esse avessero violato il principio di separazione dei poteri, trattandosi di decisioni solo apparentemente giurisdizionali, ma sostanzialmente normative ed invasive di una materia appartenente alla sfera tipica della discrezionalità legislativa. Il conflitto fu risolto dalla Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 334 dell’8 ottobre 2008 di inam missibilità, per non essere ravvisabili indici atti a dimostrare che i giudici avessero utilizzato i provvedimenti censurati come meri schemi formali per esercitare funzioni di produzione normativa o menomare l’esercizio del potere legislativo. Ricordo la lettera del 3 settembre 2008 del Direttore Generale della Sanità della Regione Lombardia che respingeva la richiesta di accogliere Eluana presso una struttura sanitaria regionale per procedere alla sospensione del trattamento. Tale atto fu successivamente annullato, in accoglimento del ricorso proposto da Beppino Englaro, dal TAR Lombardia con pronuncia del 26 gennaio 2009, poi confermata dal Consiglio di Stato con sentenza del 2 settembre 2014. Richiamo l’atto di indirizzo alle Regioni del Ministro della Salute del 16 dicembre 2008 che vietava alle strutture sanitarie pubbliche e private convenzionate con il SSN l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata dei malati, definite come sostentamento ordinario di base eticamente, deontologicamente e giuridicamente dovuto. Richiamo ancora la pronuncia della Corte di Strasburgo del 22 dicembre 2008 di irricevibilità delle istanze di alcuni cittadini ed associazioni italiane contro la decisione della Corte di Appello. Ricordo altresì l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, nello stesso giorno in cui iniziava presso la clinica La Quiete di Udine l’applicazione del protocollo per la progressiva riduzione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata, di un decreto legge diretto ad impedire la sospensione del trattamento, che il presidente Napolitano rifiutò di firmare, e la successiva approvazione in seduta straordinaria dello stesso Consiglio dei Ministri, in una spasmodica corsa contro il tempo, di un disegno di legge di contenuto identico a quello del decreto legge rifiutato, nell’assurda pretesa di una sua applicazione ad una vicenda già compiutamente definita con una pronuncia passata in giudicato. Ricordo infine le numerose iniziative intraprese presso la clinica di Udine, consistenti tra l’altro in controlli dei NAS e visite degli ispettori ministeriali, volte ad impedire l’applicazione del protocollo. A seguito della morte di Eluana, avvenuta il 9 febbraio 2009, il Governo ritirò il disegno di legge. La scansione di tali iniziative rende plasticamente evidente la strumentalizzazione di una vicenda così drammatica allo scopo di porre in essere una nuova battaglia della politica contro la magistratura, tra le tante che segnarono tristemente la storia di quegli anni, e specificamente per imporre il primato della politica attraverso una esplicita violazione della legalità costituzionale. Non si trattò infatti di un legittimo confronto sui valori in gioco, ma di una contrapposizione tutta incentrata sui poteri. Altrettanto aspro fu l’attacco di alcuni mezzi di informazione e di alcuni gruppi associativi di ispirazione cattolica nei confronti dei magistrati che avevano emesso le due decisioni. La gerarchia ecclesiastica usò toni durissimi, accusando il collegio della Cassazione di aver coltivato obiettivi politici e di essersi proposto di introdurre l’eutanasia con una sentenza. Non mancarono critiche anche da parte della dottrina. La contestazione più ricorrente fu quella di aver travalicato i limiti della giurisdizione ed aver violato, attraverso il canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata, l’obbligo fondamentale per i giudici di interpretare, e non creare la legge, usurpando le prerogative parlamentari.

Più specificamente, si contestò alla Corte di Cassazione di aver strumentalizzato il valore della dignità per una interpretazione evolutiva che in realtà si sostanziava in una manipolazione delle previsioni normative ed in un aggiramento del vincolo di soggezione del giudice alla legge. Le si imputò di aver recepito la distinzione tra vite degne e vite non degne di essere vissute, di aver disatteso il valore della indisponibilità ed inviolabilità assoluta della vita, che ha copertura costituzionale e promana dal carattere non solipsistico dell’esistenza, di aver erroneamente considerato l’idratazione e l’alimentazione forzata delle terapie, di aver attribuito al tutore un potere non sussistente, di aver ricostruito la volontà di Eluana circa l’interruzione delle cure in base ad elementi non formali, piuttosto che a manifestazioni documentali precise ed univoche. Si contestò infine alla Corte di Cassazione l’insistito richiamo ad orientamenti giurisprudenziali stranieri, ritenuti non rilevanti nell’ordinamento interno, e di aver in tal modo effettuato una indebita lettura aperta della Costituzione. Le implicazioni umane della vicenda possono in parte giustificare l’asprezza di tali censure, ma non valgono a conferire loro, a mio avviso, serio fondamento giuridico. In realtà il giudice non può eludere le domande di giustizia che gli sono rivolte dai cittadini, anche a fronte del silenzio del legislatore, e a tali istanze deve rispondere dando riconoscimento e tutela ai diritti che trovano fondamento nel quadro dei principi costituzionali e nelle Carte dei diritti fondamentali, come vivificate dalle relative giurisdizioni. Quanto alla contestazione di aver fatto un uso indebito o comunque eccessivo del metodo comparatistico, va ricordato che il ricorso a tale metodo costituisce da tempo, nella pratica delle Corti Supreme di molti Paesi occidentali, un fondamentale criterio ermeneutico per interpretare, adattare e completare il diritto interno, specialmente quando questo appaia poco chiaro, contraddittorio o carente. È convincimento della dottrina più consapevole che l’apertura del sistema interno al diritto internazionale e sovranazionale, desumibile dagli artt. 2, 3, 10, 11 e 117 comma 1 della Costituzione, consente di utilizzare la comparazione come strumento di ridefinizione semantica di istituti del diritto interno, tanto più ove siano in discussione diritti fondamentali e valori di dimensione universale. E tale approccio ermeneutico appare sempre più frequente nella giurisprudenza anche di legittimità del nostro Paese.



4. La legge sul consenso informato e sul fine vita all’esame del Parlamento



Da qualche tempo le tematiche relative al fine vita sono tornate nell’agenda dei lavori parlamentari, dopo un lungo periodo di apparente disinteresse. La Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati, a seguito dell’esame di vari progetti di legge in tema di consenso informato e dichiarazioni di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, lo scorso 7 dicembre ha adottato un testo base che unifica i sedici progetti presentati, il quale sta per approdare all’esame della Camera. Detto testo concerne il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento, e non l’eutanasia, che è stata oggetto di assegnazione congiunta alle commissioni Affari Sociali e Giustizia. L’articolato in discussione, pur non privo di qualche carenza e di qualche ambiguità, appare snello, equilibrato e lontano da impostazioni autoritarie, in quanto configura una relazione dialogica tra malato e sanitari, dà spazio al principio di autodeterminazione con la previsione delle Disposizioni Anticipate di Trattamento - DAT, sempre modificabili e revocabili, e prevede anche la possibilità di nomina di un fiduciario, con il compito di interloquire con i medici e con le strutture sanitarie. Punti fondamentali, fissati nell’art. 1 del testo, sono il consenso libero e informato, che unicamente legittima ogni trattamento sanitario, e la facoltà per il paziente di interrompere tutte le cure cui è sottoposto, incluse l’idratazione e l’alimentazione artificiale, esprimendo una volontà che il medico è comunque tenuto a rispettare. Il numero esorbitante degli emendamenti presentati, generalmente di segno contrario alla possibilità per il malato di rinunciare alle cure, e la rinnovata evocazione da parte di gruppi politici di termini impropri come eutanasia e suicidio di Stato, lasciano presagire un lungo ed infuocato dibattito parlamentare. L’auspicio è che il legislatore dia risposta alle istanze dei cittadini in questa delicatissima materia con spirito laico e libero dalle strettoie ideologiche dei valori non negoziabili, evitando i totalitarismi e la radicalizzazione delle posizioni, riconoscendo ad ogni persona il diritto di decidere se e fino a che punto sono per lei accettabili interventi sul suo corpo. Purtroppo tale radicalizzazione è ancora percepibile in recenti interventi della gerarchia ecclesiastica apparsi sulla stampa, lì dove si nega decisamente, in nome del principio di indisponibilità della vita, il diritto di autodeterminazione del malato e si ribadisce il ruolo primario del medico, che si assume non poter essere ridotto a mero esecutore della volontà del paziente. Al contrario, soltanto l’adesione ad un elementare principio di laicità può consentire la coesistenza delle due opzioni possibili, senza che l’una prevalga sull’altra: l’opzione di coloro che ritengono che la vita sia un bene disponibile e che sia diritto di ogni persona rifiutare le cure ritenute non accettabili e quella di coloro che sulla base dei propri convincimenti religiosi, filosofici, etici credono nella indisponibilità dell’esistenza e dei trattamenti diretti a procrastinarne la fine. Il pericolo da evitare è che la regola giuridica sia il risultato di uno scontro tra ideologie diverse e si risolva nella imposizione di una verità considerata l’unica possibile, che in quanto indiscutibile neghi ogni spazio ad altre verità e ad altri valori di riferimento. Il rischio è ancora una volta quello di una legge che sotto la spinta di una falsa ideologia propini come scelta di vita piuttosto che di morte un atto di imperio nei confronti dei più deboli.



5. La via giurisprudenziale per dar voce alla volontà del malato attraverso l’amministratore di sostegno



In attesa di una disciplina normativa del testamento biologico, la giurisprudenza ha individuato uno strumento ed un soggetto volti a dare voce al malato non più in grado di comunicare la propria volontà: con la sentenza n. 23707 del 2012 la Cassazione ha ravvisato nell’amministratore di sostegno il soggetto legittimato ad esprimere le intenzioni manifestate dall’amministrato quando era nel possesso delle sue facoltà fisiche e psichiche ed in previsione della sua incapacità, in ordine agli interventi sanitari che potessero rendersi in futuro necessari.

Tale strumento è stato considerato dalla Corte di legittimità come idoneo a dare forma giuridica immediata alle direttive anticipate di trattamento, recuperando il momento della malattia e del fine vita alla sfera di autodeterminazione della persona: l’amministratore è infatti tenuto a garantire il rispetto e l’attuazione della volontà espressa dall’amministrato, prestando per suo conto il consenso o il dissenso alle cure. Pronunce di giudici di merito sempre più frequenti utilizzano la figura dell’amministratore di sostegno per fornire risposte di giustizia alle richieste di malati terminali che chiedono di poter scegliere. Ricordo in particolare, tra gli altri, il decreto del giudice tutelare del Tribunale di Cagliari del 16 luglio 2016 (caso Piludu) che accogliendo la domanda dell’amministratore di sostegno ha autorizzato l’interruzione del trattamento sanitario nei confronti di un soggetto affetto da sclerosi multipla, in adesione alle scelte di fine vita dal medesimo in precedenza espresse. Rilevo tuttavia che tale approdo giurisprudenziale non rende superflua una disciplina legislativa del testamento biologico, attesi i limiti propri dell’istituto di cui agli artt. 404 ss. c.c. e la necessità dell’intervento del giudice sia in ordine alla scelta dell’amministratore di sostegno da nominare che al contenuto dell’attività che questi potrà svolgere. Il problema resta quindi non già se legiferare, ma come legiferare: ciò vale a dire che il nodo da sciogliere attiene alla volontà del Parlamento di applicare i principi dettati dalle Carte dei diritti e di assumere come valore ineludibile quello della dignità della persona, sapendo conciliare laicamente i valori della vita, della salute e della libertà di autodeterminazione. Nel nostro Paese negli ospedali, negli hospices ed anche all’interno delle case di abitazione tanti malati affetti da malattie gravissime e inguaribili, che li privano di ogni parvenza di dignità, aspettano di essere messi in condizione di decidere alla luce del sole quali terapie accettare e quali rifiutare, secondo regole chiare e precise, così come avviene in tanti Paesi d’Europa e del mondo. Si tratta di una possibilità che attiene alla sfera dei diritti civili.