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Scelte di fine vita: il lessico e le regole Panorama internazionale e le prospettive italiane

autore: L. Gaudino

Sommario: 1. Scelte di fine vita: perché parlarne? - 2. Scelte di fine vita: come parlarne. - 3. Il consenso informato. - 4. Il rifiuto delle cure e le direttive anticipate. - 5. Il suicidio medicalmente assistito (aid-in dying). - 6. L’eutanasia (volontaria). - 7. Un dibattito incessante: le ultime novità. - 7.1. La Francia. - 7.2. Il Canada. - 7.3. Il Messico. - 8. La dimensione sovranazionale. - 9. La situazione italiana. - 10. Come procedere.



1. Scelte di fine vita: perché parlarne?



Le ragioni che, negli ultimi decenni, hanno determinato il sorgere – a livello forse planetario, ma sicuramente nelle realtà economicamente e socialmente più avanzate – di un dibattito sul fine vita sono molteplici.1 Fra queste, un ruolo fondamentale ha svolto il progresso scientifico e tecnologico nel campo della biomedicina: anche in virtù di questo la fine della vita – nel passato, il più delle volte, un evento che il medico si limitava a constatare – è diventata un momento che impone di prendere delle decisioni; di operare delle scelte. Pensiamo in particolare alle tecniche di rianimazione, che salvano tante vite ma sovente determinano – quale frutto non voluto di un intervento riuscito a metà – condizioni nel passato sconosciute: Stato Vegetativo (persistente, permanente), locked-in syndrome; dipendenza totale da macchinari. Pensiamo poi alle tante malattie di lunga durata, a esito infausto, ancora non curabili e causa di sofferenze fisiche e psicologiche (non a caso la casistica giurisprudenziale sul fine vita figura sovente innescata da soggetti affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica). Ma è lo stesso aumento della speranza di vita a costringerci ad affrontare complesse condizioni croniche (Alzheimer, demenza senile…). E come trascurare, ancora, il fatto che proprio lo sviluppo delle tecniche dei trapianti d’organo abbia costretto addirittura a ripensare il concetto stesso di morte, con l’accoglimento del criterio della morte cerebrale (l. 579/93)? Sotto un diverso profilo, l’abbandono – seppur non completamente compiuto – della medicina paternalistica ha reso la persona malata non più fruitore passivo delle decisioni del medico – visto come unico depositario del sapere e perciò decisore supremo – bensì protagonista della propria vicenda: la nostra è l’era del “consenso informato”. Tutto ciò ha determinato una diffusa maggiore consapevolezza e una domanda di diritti: diritto alle migliori cure, anche palliative; rivendicazione della signoria su di sé anche nei momenti più difficili. Insomma: per quanto sgradevole possa essere – in una società che cerca di rimuovere l’idea stessa della morte –, quello delle scelte di fine vita è un momento al quale sempre più frequentemente siamo chiamati, per noi o per chi ci è vicino.



2. Scelte di fine vita: come parlarne?



Il territorio nel quale ci stiamo muovendo è estremamente delicato. Si parla di vita e di morte. Sono in gioco le dimensioni più profonde dell’esistenza: le diverse visioni della vita; la molteplicità di scelte etiche, convinzioni filosofiche, credenze religiose. E tutto ciò è ovviamente fonte di grandi divisioni. Ma, per evitare che il confronto si riduca a una sterile contrapposizione di inconciliabili petizioni di principio è opportuno trovare una base comune di riferimento lessicale, partendo dalla quale misurare poi le – inevitabili e forse giuste – distanze sulle regole che devono governare questo terreno. Qui, forse più che altrove, le parole sono importanti, poiché nel nostro caso, quando “grande è la confusione sotto il cielo”, la situazione è tutt’altro che eccellente. Nella confusione diventa difficile distinguere i falsi problemi – quelli che servono solo a creare un clima rissoso da talk show televisivo – da quelli veri, che giustificano le divisioni, che non possono essere accantonati, che impongono la fatica della ricerca di soluzioni il più possibili condivise e pure l’accettazione e il rispetto delle irriducibili distanze. Ebbene: è sufficiente seguire anche distrattamente il dibattito (in realtà, soprattutto quello nostrano) per verificare come il linguaggio non sia affatto neutro; e come il più delle volte l’uso delle parole riveli l’intenzione di tranciare ogni discorso, con l’obiettivo di vincere e di imporre i propri dogmi, più che di convincere l’interlocutore. Un esempio eclatante è rappresentato dall’utilizzo del termine “eutanasia” nel caso di Eluana Englaro. Si è parlato, in quella vicenda, di “deriva eutanasica”. Già il termine “deriva” ha un sapore negativo; quanto al riferimento all’eutanasia, il messaggio che viene trasmesso è più o meno il seguente: “l’eutanasia è un male al pari dell’omicidio, la sospensione delle cure è eutanasia (seppure per omissione), la sospensione delle cure è un male (è omicidio)”. A ciò si aggiunge un uso altrettanto “mirato” e volutamente scorretto dei termini medici: in particolare con la sovrapposizione indistinta delle diagnosi di coma e di stato vegetativo; condizioni in realtà fra loro affatto diverse. Ciò è funzionale a un discorso volto a negare l’autodeterminazione della persona, facendo leva sull’incertezza prognostica e sulla possibilità di risvegli miracolosi (mai documentati). Tutto ciò è frutto di un’inversione di percorso, ove il giudizio – o il pre-giudizio – precede l’indagine e nega l’ascolto. È evidente, da questi espedienti lessicali, l’intenzione di evitare una reale discussione, di tranciare ogni possibilità di dialogo per creare invece l’impressione di essere di fronte a due schieramenti contrapposti: pro-vita v. pro-morte (cattolici v. laici). Il che ovviamente non corrisponde al vero ed è di ostacolo a un approccio sereno alle questioni. Allora, prima di dividersi sul “che fare”, su quali regole debbano governare questo momento, è opportuno dare un nome alle cose. Anche questa – si dirà – è una scelta, che va motivata. Ebbene, la scelta più corretta – per il giurista, ma non solo – non può non essere fondata sulle regole che, essendo già operative nelle molteplici realtà, consentono di confrontare fra loro le risposte che i vari ordinamenti hanno allestito. Vedremo come sia possibile riordinare le scelte operate nei diversi Paesi in funzione del grado di autonomia riconosciuto al paziente e – dal confronto delle diverse esperienze – trarre preziosi elementi di comprensione dei problemi e di valutazione delle diverse soluzioni in campo.



3. Il consenso informato



Come sopra accennato, il secolo scorso ha visto la progressiva affermazione del principio del consenso informato, a scapito dell’approccio paternalistico che aveva caratterizzato l’esercizio della medicina nei tempi passati. Questo principio è ormai talmente condiviso, negli ordinamenti della western legal tradition, che non dovrebbe essere necessario soffermarsi – in questa sede – più di tanto; e magari limitarsi a ricordare come sia implicito – nel concetto di consenso – il dissenso: cioè la possibilità di rifiutare le cure, anche se life saving. Da non trascurare, inoltre, il fatto che l’accettazione delle terapie riguarda pure il versante delle cure palliative, compresa la terapia del dolore e compreso il profilo – di grande importanza teorica ed etica – del c.d. “doppio effetto”: alla luce del quale si ritiene da tutti eticamente corretto somministrare antidolorifici in dosi tali da accelerare la morte, se l’intenzione è quella di combattere il dolore non altrimenti affrontabile e non già di cagionare il decesso; e ciò è alla base della liceità della “sedazione profonda” nelle fasi terminali della vita. Però, notizie su ciò che accade nel “mondo reale” suggeriscono l’opportunità di interrogarci brevemente su cosa si deve, cosa si può, cosa non si deve dire al paziente, con riguardo alla terapia. Prendere sul serio il consenso informato non significa adempiere a ciò che rischia di diventare una fastidiosa prassi burocratica, bensì valorizzare al massimo grado i due termini, che corrispondono a due ben distinti momenti: a) l’informazione; b) il consenso. La cosa migliore, per capire di cosa parliamo, è ricorrere a un esempio. Ipotizzando una diagnosi di neoplasia, il ventaglio delle risposte che il malato potrebbe ricevere può comprendere:

A) chirurgia (tradizionale o robotica);

B) farmacoterapia (chemioterapia e/o terapia ormonale);

C) radioterapia;

D) omeopatia;

E) una serie di alternative miracolistiche, caldeggiate da migliaia di siti web e persino in trasmissioni televisive di successo (somministrazione di tisane, urinoterapia, cristalloterapia, viaggi in santuari dal potere taumaturgico…).

Si può sempre discutere circa la validità di una o dell’altra opzione; tuttavia, è possibile affermare, con una certa sicurezza, che: le ipotesi A), B), C) debbano essere comunicate al paziente, con tutti i dettagli sui rischi e i benefici di ciascuno; precisando altresì che la preferenza del medico per una di esse non giustifica il suo silenzio sulle altre: la scelta finale è sempre del paziente. Qualche perplessità può sussistere su D), ma non v’è dubbio che il paziente al quale si prospetti questa via alternativa debba comunque essere già stato correttamente e senza pregiudizi informato sulle altre terapie (che sono scientificamente validate). Ancor più sicuro è che tutto ciò che è raggruppato al punto E) non debba essere oggetto di comunicazione da parte del medico. Quanto al come, le informazioni devono tener conto del soggetto che le riceve: la sua preparazione, la sua competenza, la sua personalità, il suo stato emotivo: senza dimenticare che, tra i diritti del paziente, v’è pure quello di non sapere, e di delegare eventualmente altri a dialogare con i medici. Tutto questo, ovviamente, avrà importanza anche sotto il profilo della responsabilità del medico, se e quando la questione si porrà.



4. Il rifiuto delle cure e le direttive anticipate



Il principio del consenso informato, e del diritto a rifiutare le cure, porta a interrogarsi sul fatto se la signoria su se stessi debba essere cancellata una volta persa la capacità di manifestare la propria volontà. Si tratta, cioè – visto che una decisione deve inevitabilmente essere presa – di stabilire se la perdita di capacità determini uno spostamento del potere decisionale in capo a un soggetto diverso dalla persona interessata (sarà il medico? o qualche familiare? oppure tutto verrà sempre delegato al giudice?). Il punto – condiviso dai vari ordinamenti – è che l’incapacità non trasforma il soggetto in oggetto: è in gioco la dignità della persona. L’idea che lo stato di incapacità non debba portare a un’ablazione della personalità e del diritto di ciascuno di decidere per sé è alla base del riconoscimento della validità dello strumento denominato – nelle varie realtà che il problema hanno affrontato – living will, instrucciones previas, Patientenverfügung, directives anticipées; testamento vital, e che da noi alimenta il dibattito sulle direttive/disposizioni anticipate di trattamento (testamento biologico). Le normative mediante le quali si mira ad assicurare alla persona la possibilità di mantenere il controllo del proprio destino in caso di eventualità future prevedono – a grandi linee – la facoltà di redigere un documento contenente:

a) le volontà del soggetto con riguardo alle terapie alla quali intende o meno sottoporsi in caso di futura incapacità;

b) la designazione di un rappresentante (o, meglio, un “portavoce”, un nuncius) con il compito di garantire la ricostruzione e il rispetto delle volontà del paziente (power of attorney, personne de confiance). Un – senz’altro incompleto (la situazione è davvero dinamica) – elenco dei Paesi che hanno adottato strumenti del genere, per via legislativa e/o giurisprudenziale, oppure in virtù delle norme deontologiche o dell’adesione alle Carte sovranazionali, comprende: USA, Canada, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, Argentina, Uruguay, Panama, Cile, Messico, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Ecuador, Costa Rica, Inghilterra e Galles; Olanda, Belgio, Lussemburgo; Francia; Spagna; Portogallo; Austria; Germania; Danimarca; Finlandia; Svizzera; Slovenia, Ungheria; Bulgaria; Repubblica Ceca; Estonia; Lituania; Slovacchia; Grecia; Norvegia; Scozia; Irlanda del Nord; Irlanda; Israele. Molti sono in Paesi nei quali la discussione e aperta (Brasile, Venezuela, Cina, Giappone…). In Italia, come vedremo, attualmente la regola ha natura giurisprudenziale.



5. Il suicidio medicalmente assistito (aid-in dying)



Il suicidio assistito comporta che l’atto finale sia posto in essere direttamente dall’interessato. Il ruolo del medico può essere quello di favorire, mediante la prescrizione dei farmaci, la realizzazione della volontà del paziente. Su questi temi, la regola più condivisa è quella che prevede un divieto generale privo di eccezioni: regola ritenuta necessaria per proteggere i soggetti vulnerabili da indebite influenze e pressioni esterne. Tuttavia negli ultimi anni – anche su sollecitazione di una casistica giurisprudenziale che ha visto in prima linea persone colpite da SLA – alcuni Paesi hanno adottato regole diverse. In Oregon – e sulla sua scia nello Stato di Washington, in Vermont, California, Colorado, New Mexico, Montana – la legislazione ha disciplinato, prevedendo procedure, garanzie e controlli, il suicidio medialmente assistito dei malati terminali. In Canada – dopo che la Corte Suprema aveva dichiarato l’incostituzionalità del divieto di morte medicalmente assistita (caso Carter v. Canada) – il legislatore è intervenuto nel 2016 disciplinando compiutamente la materia. In Svizzera l’art. 115, c.p., vieta l’istigazione o l’aiuto al suicidio, ma solo se attuati per motivi egoistici. In Germania il nuovo § 217 del codice penale (del 2015) vieta l’aiuto al suicidio, quando effettuato su basi imprenditoriali o associative Più complessa la situazione in Inghilterra. Qui il suicidio assistito è senz’altro vietato (Suicide Act 1961), tuttavia la stessa legge subordina l’incriminazione a una decisione del Director of Public Prosecution. La regola operativa risulta in tal modo ben più complessa di quanto possa apparire leggendo solo la legge. Stimolato dalla House of Lords, il Director of Public Prosecution ha infatti emanato un ampio documento (Policy for Prosecutors in Respect of Cases of Encouraging or Assisting Suicide) nel quale vengono individuati i fattori idonei a considerare nell’interesse pubblico la scelta di attivare l’azione penale. La regola – la cui validità è stata confermata anche di recente dalla Corte Suprema – è che il Prosecutor non è tenuto (a fronte di una richiesta di “via libera”) a garantire in anticipo che non attiverà l’azione penale nei riguardi di chi presta il suo aiuto al suicidio di un malato (la casistica riguarda soprattutto l’organizzazione dei viaggi verso le organizzazioni svizzere). È solo una valutazione expost che può comportare il riconoscimento che tale azione non risulterebbe conforme al public interest. Le statistiche circa l’esito di tale valutazione sono significative: lo stesso Prosecutor ci informa (sul suo sito web) che, a fronte di centinaia di casi (gran parte dei quali relativi a persone che hanno aiutato malati a recarsi in Svizzera), al momento si registra una sola condanna.



6. L’eutanasia (volontaria)



Dal punto di vista normativo – e sempre in base alla terminologia internazionalmente diffusa – il termine “eutanasia” dovrebbe essere riservato all’intervento del medico che intenzionalmente pone fine alla vita del paziente: è così che viene definito, ad esempio, il comportamento ritenuto lecito in Olanda, subordinatamente a determinate condizioni:

a) che la richiesta provenga da un paziente capace di intendere e volere, sia volontaria e ben ponderata;

b) che la sofferenza del richiedente sia insopportabile e non alleviabile;

c) che il richiedente sia stato informato circa la sua malattia e le sue scelte;

d) che non vi siano alternative ragionevoli;

e) che sia stato raccolto il parere di un altro medico esperto e indipendente;

f) che si sia posto termine alla vita con la dovuta competenza professionale;

g) che sia stato poi stilato un rapporto e che questo sia stato consegnato a un apposito comitato regionale di controllo. Non è necessario che il soggetto si trovi in uno stato terminale, poiché il fulcro della legge è la sua sofferenza insopportabile e l’assenza di alternative. Il modello Olandese si ritrova nelle normative adottate in Belgio e in Lussemburgo. In Canada (prima in Quebec e poi a livello federale), le leggi consentono l’aide médicale à mourir-Medical Assistance in Dying, che comprende la somministrazione diretta del farmaco. In Colombia è stata la Corte Suprema (20 maggio 1997, n. 329) a escludere la punibilità dell’omicidio pietoso su richiesta del paziente.



7. Un dibattito incessante: le ultime novità

Per comprendere come il tema sia universalmente sentito, e il dibattito sia incessante, merita dar conto con maggiori dettagli di alcune recenti novità.



7.1. La Francia Nel 2005 in Francia viene emanata la c.d. “loi Leonetti” (Loi n° 2005-370 du 22 avril 2005 relative aux droits des malades et à la fin de vie), con la quale vengono introdotte le directive anticipées. Il dibattito è poi proseguito – anche grazie all’esperienza maturata con la legge del 2005 –, e ha portato all’approvazione della LOI n° 2016-87 du 2 février 2016 créant de nouveaux droits en faveur des malades et des personnes en fin de vie, e del Décret n° 2016-1066 du 3 août 2016 modifiant le code de déontologie médicale et relatif aux procédures collégiales et au recours à la sédation profonde et continue jusqu’au décès prévus par la loi n° 2016-87 du 2 février 2016 créant de nouveaux droits en faveur des malades et des personnes en fin de vie. Questi due interventi normativi hanno modificato molteplici articoli del Code de la Santé Publique. La guida è rappresentata dai i diritti del malato: autonomia (diritto di decidere); diritto alle cure più appropriate; diritto al trattamento delle sofferenze; diritto di non correre, in tutte le fasi, rischi sproporzionati ai benefici; diritto a un fine vita degno, accompagnato dal miglior trattamento della sofferenza e a tutte le cure palliative.

Il modello francese prevede ora:

A) il consenso informato del paziente per ogni attività diagnostica o terapeutica (va indagata anche la volontà di minori o soggetti a tutela);

B) il medico deve rispettare il rifiuto del paziente e, se ciò mette a rischio la vita, la volontà va ribadita dopo un periodo ragionevole; può essere chiesto l’intervento di un altro medico; C) se il soggetto non è più capace di esprimersi, la guida è sempre la volontà dell’interessato, e va ricostruita:

C1) se presenti, in base alle directives anticipées (da rispettare, salvo in caso d’urgenza, per il tempo necessario a valutare la situazione, oppure che si rivelino manifestamente inappropriate o non conformi alla situazione medica);

C2) in loro assenza, mediante la testimonianza della personne de confiance, se nominata, o di parenti o proches;

D) il rifiuto o la rimozione possono riguardare qualsiasi terapia, comprese nutrizione e alimentazione assistite;

E) è possibile chiedere la sedazione terminale nei casi di morte imminente (anche a seguito di rinuncia delle cure) e di sofferenze refrattarie ai trattamenti;

F) una procedura collegiale è prevista per tutta una serie di situazioni (decisioni circa obstination déraisonnable; attivazione di sedazione terminale; cessazioni di terapie che mettono a rischio la vita…);

G) sono previsti il controllo continuo della situazione e del funzionamento delle regole, e affidato un preciso ruolo al Comitato consultivo nazionale d’etica per le scienza della vita e della salute, viene favorito lo svolgimento del dibattito pubblico su questi temi, si prevede infine la convocazione di “Stati generali”. Per gli incapaci interviene la personne de confiance o uno degli altri soggetti indicati dalla legge; limitazioni o cessazioni di terapie che mettono a rischio la vita devono rispettare la procedura collegiale e le direttive anticipate. Per quanto possibile, si deve cercare il consenso anche di minori e maggiorenni sotto tutela. Nell’insegnamento clinico si prevede l’obbligo del rispetto del malato anche da parte degli studenti.



7.2. Il Canada



Nel 1993 la Corte Suprema respinge i dubbi di costituzionalità avanzati nei riguardi del divieto di suicidio assistito (caso Rodriguez v. British Columbia), ritenendo tale soluzione l’unica via per tutelare le persone vulnerabili, pur nella consapevolezza che ciò comporta il sacrificio dell’autodeterminazione di chi – impossibilitato dalla malattia a farlo – intende suicidarsi prima che le proprie condizioni portino a una morte angosciosa. Nel 2014 la provincia del Quebec approva la legge su “les soins de fin de vie” che prevede – oltre al diritto al rifiuto delle cure, anche mediante direttive anticipate, al diritto alle cure palliative e alla “sedazione palliativa continua” – la possibilità per il paziente di ottenere (art. 3, 6° co.) l’“aide médicale à mourir”, cioè “un soin consistant en l’administration de médicaments ou de substances par un médecin à une personne en fin de vie, à la demande de celle-ci, dans le but de soulager ses souffrances en entraînant son décès”. L’intervento è riservato ai soggetti che lo richiedano in maniera formale, secondo modalità strettamente regolamentate. In particolare, è necessario che si tratti di soggetti in fin di vita, colpiti da una malattia grave e incurabile tale da determinare un decadimento irreversibile della capacità e le cui sofferenze fisiche o psichiche non siano trattabili in condizioni che essi stessi ritengano tollerabili. Va segnalato come le stessa legge, nel disciplinare le direttive anticipate per il caso di futura incapacità, escluda dal loro contenuto la richiesta di aiuto a morire: una domanda in tal senso deve evidentemente provenire da un soggetto nel pieno delle proprie capacità. Nel 2015 la Corte Suprema (caso Carter v. Canada) – approva l’anticipatory overruling operato dalla corte di primo grado (che era stata ribaltata in appello) e dichiara l’incostituzionalità dei divieti assoluti di aiuto al suicidio e di omicidio del consenziente, dando un termine al Parlamento per intervenire. Particolarmente significativo, nella lunga e articolata motivazione, è il riconoscimento che il divieto in questione incide sul diritto alla vita di quanti, ove impossibilitati ad ottenere un aiuto esterno e colpiti da malattia progressivamente invalidante, potrebbero essere indotti a suicidarsi anzitempo, finché ancora in grado di farlo autonomamente. Il 17 giugno 2016 il parlamento canadese emana il Bill C-14: “An Act to amend the Criminal Code and to make related amendments to other Acts (medical assistance in dying)”. In base a questa legge:

a) rimangono puniti l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio;

b) medici, infermieri, farmacisti e chi li assiste (si precisa: assistenti sociali, psichiatri, psicologi, terapeuti, medici infermieri e altri operatori sanitari) non sono punibili se prestano la loro assistenza nella morte del paziente, nel rispetto della legge (e non sono punibili nemmeno in caso di ragionevole ma errata convinzione che la situazione sia legittima);

c) si consente l’aiuto medico nella morte (Medical Assistance in Dying, Aide médicale à mourir), che comprende la somministrazione diretta o la consegna di sostanze al paziente;

d) riserva queste procedure a chi abbia diritto all’assistenza sanitaria pubblica, sia maggiorenne e capace, sia affetto da problemi di salute gravi e irrimediabili (definiti in dettaglio dalla legge: condizione incurabile, declino irreversibile della capacità; sofferenze intollerabili non trattabili in maniera accettabile; morte naturale prevedibile), abbia formulato una richiesta volontaria senza pressioni esterne, abbia formulato il consenso dopo essere stato informato circa i mezzi per alleviare le sofferenze e in particolare circa le cure palliative;

e) devono essere rispettate precise procedure e formalità prescritte (informazioni, richiesta scritta, reiterata, partecipazione di testimoni e professionisti indipendenti);

f) il ministero emana regolamenti volti a tenere sotto controllo l’applicazione della legge e a fornire guidelines.



7.3. Il Messico



Città del Messico ha di recente modificato il proprio status: da Distrito Federal a Ciudad de México: Stato con una propria Costituzione e un proprio Congresso. La nuova Costituzione, attualmente in discussione, vede tra gli articoli già approvati molti passi di grande interesse. In particolare, l’art. 11 (Ciudad de libertades y derechos) approvato il 4 gennaio 2017, prevede:

A. Derecho a la autodeterminación personal Toda persona tiene derecho a la autodeterminación y al libre desarrollo de una personalidad. Este derecho humano fundamental deberá posibilitar que todas las personas puedan ejercer plenamente sus capacidades para vivir con dignidad. La vida digna contiene implícitamente el derecho a una muerte digna.



L’art. 14 (Ciudad solidaria), ribadisce poi il Derecho a la vida digna, secondo linee che sono in corso di raffinazione e poi disciplina (punto D) in maniera dettagliata il Derecho a la salud, con particolare riguardo al consenso informato.



8. La dimensione sovranazionale



Come abbiamo visto, le varie soluzioni – benché raggruppabili secondo alcune opzioni tipiche – figurano essere state adottate sempre a livello di singolo Stato. Tuttavia, la lettura della casistica testimonia come il dibattito sorvoli senza difficoltà i confini nazionali: basta ricordare come i giudici canadesi – nel loro overruling della pronuncia del 1993 – abbiano fatto tesoro delle esperienze maturate in altre realtà (dall’Oregon all’Olanda) e come quella stessa pronuncia sia stata rapidamente oggetto di considerazione – con esiti diversi – da parte delle corti del Sudafrica (caso Stransham-Ford v. Minister of Justice And Correctional Services and Others) e della Nuova Zelanda (caso Lecretia Seales v. Attorney General). D’altro canto, gli stessi giudici italiani (come accaduto nel caso Englaro) non mancano di considerare con attenzione i suggerimenti provenienti da legislazioni e arresti giurisprudenziali di altri Paesi. Esiste, però, pure una dimensione veramente sovranazionale. Anzitutto, nell’ambito del Consiglio D’Europa, la Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Convenzione di Oviedo) del (1996), dedica due passaggi alle questioni che ci interessano. Al consenso informato è dedicato l’art. 5:



Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso.



Delle “direttive anticipate” si occupa l’art. 9:



I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione. Non possiamo non stigmatizzare il fatto che, benché l’Italia abbia da tempo ratificato la Convenzione (l. 28 marzo 2001, n. 145), essa non sia pienamente operativa poiché mancano alcuni passaggi formali che i vari governi succedutisi negli anni hanno trascurato di effettuare (il che non ha peraltro impedito ai nostri giudici di farvi riferimento quale guida interpretativa per il diritto interno). Va menzionata, poi, la Recommendation no. 1418 (1999) in cui si parla di rispetto e tutela della dignità del morente, dei diritti alle cure palliative, all’autodeterminazione, al rispet to di advance directive or living will. E ancora più di recente, incontriamo la Guide on the decision-making process regarding medical treatment in end-of-life situations del Committee on Bioethics (DH-BIO) of the Council of Europe (2014). Quanto all’Unione Europea, la Carta dei diritti fondamentali, dopo aver affermato (Art. 1) l’inviolabilità della dignità umana si occupa (art. 3) del “Diritto all’integrità della persona”:

1. Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica.

2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati:

– il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge,

– il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone,

– il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro,

– il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani. Volutamente il testo non si addentra oltre sui nostri temi: e ciò proprio perché redatto nella consapevolezza di avere già sullo sfondo un documento specifico, qual è la Convenzione di Oviedo. Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa più volte. Nella maggior parte dei casi, si è trattato di sfide portate – da parte di soggetti affetti da malattia invalidanti, che impediscono loro di suicidarsi senza aiuti esterni – alle norme interne che vietano l’aiuto al suicidio. La norma con maggiore frequenza invocata è rappresentata dall’art. 8 CEDU, che assicura il rispetto della vita privata e familiare; ma si sono chiamati in causa pure gli artt. 2 (diritto alla vita); 3 (proibizione della tortura); 5. (Libertà e sicurezza); 9 (libertà di pensiero, di coscienza e di religione); 14 (divieto di discriminazione). Parliamo dei casi Sanles v. Spain (2005); Pretty v. United Kingdom (2002); Nicklinson and Lamb v. the United Kingdom (2015); Haas v. Switzerland (2011); Koch v. Germany (2012) e, da ultimo, del caso Lambert v. France (2015). Dalla lettura di tutti questi casi emerge una precisa direttiva: la scelta su come operare il bilanciamento fra rispetto dell’autonomia dei malati e tutela dei soggetti vulnerabili spetta ai legislatori nazionali; legittime pertanto sia le normative che pongono divieti, sua quelle più permissive (posizione tutto sommato analoga a quella sposata dalla Corte Suprema U.S.A. nel 1997; casi Vacco v. Quill e Washington vs. Glucksberg).



9. La situazione italiana



La situazione a casa nostra – disegnata soprattutto dal formante giurisprudenziale – può esser così sintetizzata:

a) il consenso informato “si configura quale vero e proprio diritto della persona” (Corte cost. 438/2008);

b) il rifiuto delle cure si estende alla cessazione/rimozione di quelle in precedenza accettate, anche se necessarie al mantenimento in vita (casi Englaro: Cass. 21748/2007; Welby: Trib. Roma 23 luglio 2007; Piludu: Trib. Cagliari 16 luglio 2016);

c) la volontà va rispettata anche se il soggetto non è più capace di esprimerla; spetta al tutore decidere – non “al posto del” ma “con” l’incapace (Cass. su caso Englaro);

d) per effetto di un intervento (volutamente?) “scoordinato”, la l. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze) prevede (art. 40): “Ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute” (per i conviventi – non per i coniugi? non per i soggetti uniti civilmente? – è possibile ora designare il fiduciario con pieni poteri in materia di salute; al fiduciario andranno, ovviamente, impartite le direttive). Di fronte a ciò, e al silenzio del legislatore, molti Comuni si sono attivati per istituire registri delle dichiarazioni anticipate. La Regione FVG ci ha provato nel 2015 ma la sua legge è stata dichiarata incostituzionale (Corte cost. 262/2016), perché avrebbe invaso un campo riservato alla legislazione nazionale. Il nuovo Codice di Deontologia Medica (2014), all’art. 38: si occupa delle “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, invitando i medici a tenerne conto.



10. Come procedere



Prima di dare spazio alle cronache parlamentari, è opportuna qualche riflessione. Parlando di diritti della persona, la storia ci insegna che – nel nostro come negli altri Paesi occidentali – questo territorio è stato costantemente caratterizzato da una tendenza espansiva, frutto di un’interazione fra i vari attori sociali, che ha assunto la forma di un “circolo virtuoso”, così schematizzabile:

Sul tema dell’autodeterminazione del paziente, il nostro Paese, dopo il caso Englaro, si è fermato al secondo passaggio (fase 2). E, possiamo dire, ciò non è stato un male, se ricordiamo quale fosse il contenuto del d.d.l. “Calabrò” (approvato nella precedente legislatura dalla Camera e poi decaduto), formulato come il famoso “Comma 22”del romanzo di Joseph Heller: in esso si vietava prima l’accanimento terapeutico consentendo poi, con le disposizioni anticipate, di rinunciare al solo accanimento terapeutico, precisando anco ra che “alimentazione e idratazione artificiale non sono mai accanimento”. Se è senz’altro vero che – grazie alla Costituzione, alle fonti internazionali e alla nostra giurisprudenza – si può confermare che “nessuna legge è meglio di una cattiva legge”; resta il fatto che molte considerazioni spingono verso l’approvazione di una “buona legge”. Esigenze di certezza e di serenità. Certezza per i medici, che non possono operare sempre con i timori di quale sia il comportamento corretto; per i malati e per le loro famiglie, che non devono aggiungere alle sofferenze della malattia quelle necessarie per far valere il loro diritti. Serenità per i protagonisti: medici e pazienti devono conoscere quali sono i comportamenti corretti e poter agire senza timori. Esigenze di semplicità: protocolli (non eccessivamente) formalizzati evitano il ricorso “difensivo” alla giurisdizione. Al momento (febbraio 2017), alla Camera è all’esame il frutto del lavoro del Comitato ristretto della Commissione XII (Affari sociali). I tratti caratterizzanti di questo testo sono:

1) affermazione del principio del consenso informato e della relazione di cura fondata su autonomia del paziente e competenza del medico (precisando che il tempo della comunicazione è tempo di cura);

2) diritto del paziente di ricevere o meno tutte le informazioni, indicando eventualmente un familiare o una persona di fiducia a ciò delegata;

3) diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento (compresa alimentazione e idratazione artificiali);

4) coinvolgimento nelle decisioni, per quanto possibile, di minori e incapaci;

5) vincolatività (salva l’insorgenza di novità terapeutiche non considerabili al momento della redazione) delle Disposizioni Anticipate di Trattamento; nomina di un fiduciario (in assenza del quale verranno coinvolti i familiari);

6) pianificazione condivisa delle cure in caso di patologie croniche e invalidanti, da rispettare in caso di perdita di capacità.

Il testo – che palesemente fa tesoro di quanto la dottrina da tempo va elaborando – appare nelle sue linee ispiratrici condivisibile, e tuttavia il suo percorso si annuncia non privo di ostacoli, frapposti da quanti (viste anche le proposte di legge depositate) appaiono ancora affezionati al “modello Calabrò”. Questo lo stato dell’arte al momento. Il resto seguirà il destino degli equilibri politici – ai quali negli ultimi lustri figurano essere stati sacrificati i diritti e la dignità delle persone: di tutte le persone (quando si parla di fine vita e di malattia “siamo tutti coinvolti”) – e dipenderà dall’incerta durata dell’attuale legislatura. Il timore è che l’Italia continui a rappresentare – su questi temi – un’eccezione rispetto al panorama dei paesi occidentali; un primato del quale è difficile andare fieri.

NOTE

* Intervento al convegno di Bari, 24 febbraio 2017.