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La cura della persona al confine tra la vita e la morte: la legge sul biotestamento, le cure palliative

autore: M. Labriola

Il Sentato ha ultimato, in data 14 dicembre 2017, in Commissione l’esame della proposta di legge sul testamento biologico, approvando – senza modifiche rispetto al testo uscito dalla Camera il precedente 21 marzo – gli otto articoli che compongono il provvedimento1 . Benché tutte le professioni di fede abbiamo accolto il pensiero di un aldilà concependo, ciascuno a suo modo, un percorso di esistenza oltre la morte, prendere le distanze dal pensiero del dolore è la modalità più frequente per sentirsi non attinti dal senso di finitezza. Con un pensiero quasi inedito, Papa Francesco ha affermato come il malato non vada mai abbandonato, ma le cure non devono sfociare nell’accanimento terapeutico. La posizione della Chiesa ha trovato dei contorni molto definiti nella pastorale del Papa del 16 novembre 2017, che ha sollecitato chi amministra le cure a un “supplemento di saggezza”, sostenendo che è “moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito ‘proporzionalità delle cure’”. La particolarità di tale importante intervento pontificio è che evidenzia come, “il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali”, consenta di giungere a “una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’‘accanimento terapeutico’”. In quanto appare “insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”2 . Pertanto, “il malato terminale non ha bisogno di aggrapparsi a questa vita come se fosse l’ultima. Anzi, egli può rimettersi a questa realtà ultima con grande libertà, abbandono e consolazione; egli sa che la lotta contro la malattia ha senso finché la guarigione appare ancora possibile, ma sa anche che voler combattere ad ogni costo contro la morte è privo di senso, e da rimedio si trasforma in tormento. Anche il medico crede a una realtà ultima, sempre a confronto con la propria limitezza, non vede nella morte il suo nemico mortale né considera la vittoria su di essa un motivo di prestigio personale”3 . Gli eccessivi interventi di medicalizzazione, che col tempo si sono dotati di strumentazione tecnologica sempre più perfezionata, non rispondono al bisogno di una cura umanizzata; al malato terminale dovrebbe potersi consentire un dialogo col medico, per affrontare con lui la realtà della malattia senza essere assalito dal terrore e dal senso di abbandono. Per questo anche la struttura ospedaliera o l’organizzazione di cure domiciliari sono importanti e la possibilità della presenza costante delle persone care al paziente lo è altrettanto, per una cultura non corporea ma spirituale del trapasso. Le nozioni di cura e di sollievo della sofferenza hanno attraversato strade impervie prima di poter approdare ad una legislazione ed una giurisprudenza che autorizzasse una dispensa all’accanimento terapeutico, non solo sotto il profilo etico e deontologico, ma anche sotto l’aspetto della esclusione della responsabilità giuridica del medico. Così “La scelta d’interrompere o di non iniziare trattamenti di sostegno vitale costituisce decisione distinta rispetto a quella riguardante l’attivazione della sedazione palliativa profonda e continua, benché frequentemente a questa associata. Infine, il sintomo refrattario può ben essere un existential distress e la patologia senz’altro irreversibile, ma la morte non imminente: in questo modo, l’individuale desiderio di morire della persona gravissimamente handicappata, che tale condizione non voglia e non possa più sostenere, potrebbe giustappunto rinvenire, in tale sedazione, un mero succedaneo dell’atto eutanasico”. Appare rilevante, tuttavia, l’indagine sulle differenti modalità di approccio alle cure del paziente in fase terminale. Il quesito, sia etico sia giuridico, è quello di riuscire a distinguere le iniziative positive da quelle che potrebbero avere anche conseguenze oltre che lesive per il malato anche in contrasto col diritto interno e con il nostro ordine pubblico. Si è sostenuto, per esempio, che non vi sarebbe “ricaduta eutanasica” qualora si opti per l’astensione dall’accanimento terapeutico attraverso l’omissione delle cure o terapie utili al paziente, anticipando la morte naturale di una persona, purché le terapie palliative e del dolore siano fatte bene4 . Risulta, pertanto, evidente quanto questa ipotesi sia rispettosa della previsione deontologica medica per cui, in base all’art. 23, “Il medico non può abbandonare il malato ritenuto inguaribile, ma deve continuare ad assisterlo anche al solo fine di lenirne la sofferenza fisica e psichica”. Diversa è l’ipotesi del c.d. suicidio assistito che consiste nell’azione di un medico che aiuta una persona ad affrontare il suicidio, sulla base di una richiesta volontaria, procurandole i farmaci che la persona stessa si autosomministrerà. La conciliabilità tra questi profili di intervento medico ed il diritto va letta alla luce dei seguenti articoli: art. 5 cod. civ. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 1418 cod. civ.), artt. 575 e 40 co. 2 c.p. i quali annunciano che l’eutanasia attiva o passiva non consensuale integrano gli estremi del reato di omicidio volontario mediante omissione o condotta attiva (ex art. 575 c.p. con attenuante per aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale, art. 62 n.1), omicidio del consenziente (art. 579 con eventuali attenuanti).

Quindi il consenso o l’accordo con il malato non assolvono il medico (art. 50 c.p.). La normativa italiana prevede, inoltre, con la Costituzione, all’art. 2 che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo singolo e in società”, all’art. 3 che “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”, all’art. 13 che “la libertà individuale è inviolabile” e all’art. 32 che “nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario se non per diposizione di legge (TSO). La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Inoltre, il Codice Deontologico medico del 2006 all’art. 16 impone ai medici di “astenersi dalla ostinazione in trattamenti”, ed agli artt. 35, 39 di “risparmiare sofferenze inutili”. Oltre alla nostra carta costituzionale, l’art. 1 della DU dei diritti dell’uomo recita che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti” e l’art. 3 “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona”. Sul piano statistico il terreno in cui la protezione della persona viene ad essere rafforzata dal richiamo della dignità umana è quello della salute5 . Per intendere in cosa si sostanzi l’attenzione e la cura delle persone malate, oltre che attingere alle parole contenute nella previsione legislativa (Legge 15 marzo 2010, n. 38) sulle Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, si è avuta già, come normativa di riferimento, la Convenzione di Oviedo del 1997 che, all’art.9, stabilisce che “saranno presi in considerazione i desideri (wishes) precedentemente espressi”. In ultimo, sempre il Codice di Deontologia Medica del 2006 con l’art. 38 invita il medico a “tenere conto delle scelte manifestate in precedenza” e (art. 53) del “rifiuto consapevole di nutrirsi” allargando, così, le maglie della capacità di autodeterminazione del paziente alla scelta finale. Ulteriore, ma non meno importante, coordinata essenziale che sancisce il confine della correttezza comportamentale del medico tra il lecito e l’illecito delle scelte terapeutiche è la previsione normativa relativa al consenso informato, l’Italia con la legge del 28 marzo 2001, n. 145, ha ratificato la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata a Oviedo il 4 aprile 1997, che dedica alla definizione del consenso il Capitolo II (articoli da 5 a 9) in cui stabilisce come regola generale che “Un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso” (art. 5). La detta convenzione stabilisce, inoltre, la necessità del consenso di un “rappresentante” del paziente nel caso in cui questo sia un minore o sia impedito ad esprimersi. Infine, stabilisce che “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”6 .

Sulla sostanziale rilevanza ed imprescindibilità del rapporto tra il paziente ed il medico la S.C. è di recente intervenuta nello stabilire che “L’obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, senza il quale l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità – sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente. Ai sensi dell’articolo 32, comma 2, della Costituzione (in base al quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), dell’articolo 13 della Costituzione (che garantisce la inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica) e dell’articolo 33 della legge n. 833 del 1978 (che esclude la possibilità di accertamenti e trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex articolo 54 del Cp), pertanto, un tale obbligo è a carico del sanitario il quale, una volta richiesto dal paziente della esecuzione di un determinato trattamento, decide in piena autonomia, secondo la lex artis di accogliere la richiesta di darvi corso. Un tale obbligo attiene alla informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto e in particolare al possibile verificarsi – in conseguenza della esecuzione del trattamento stesso – di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, onde porre questo ultimo in condizione di consapevolmente consentire al trattamento sanitario prospettatogli. Il medico ha - quindi - il dovere di informare il paziente in ordine alla natura dell’intervento, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili e delle implicazioni verificabili”7 . Così come in precedenza la S.C. era intervenuta sulla informazione delle cure palliative8 modificando i precedenti orientamenti. Nel caso si specie “Il paziente entra in ospedale per un intervento al ginocchio, niente di particolarmente serio. Prima dell’intervento il chirurgo ortopedico lo sottopone ad una serie di esami di routine. Uno di questi esami è una radiografia toracica, dalla quale si evince la assai probabile presenza di una massa tumorale nei polmoni, tanto che si consigliava di approfondire gli accertamenti mediante una TAC. Purtroppo, l’ortopedico procede nel suo lavoro senza tenere minimamente in considerazione la cosa e senza disporre ulteriori indagini. L’intervento al ginocchio riesce perfettamente, ma il paziente peggiora rapidamente e pochi mesi dopo muore. E non per le conseguenze dell’intervento al ginocchio, anche se essere sottoposto ad un intervento chirurgico non indilazionabile nelle sue condizioni non poteva considerarsi una scelta molto avveduta. Gli eredi intentano causa, ma si vedono dare torto sia in primo che in secondo grado. I giudici di merito rilevavano infatti che il paziente era affetto da una patologia non curabile e non operabile. Non era stato possibile accertare, tramite apposita CTU, né la sussistenza di un qualche rapporto tra l’intervento al ginocchio ed il crollo delle condizioni del paziente, né se la tempestiva diagnosi avrebbe permesso di sottoporre il paziente a cure tali da evitarne il decesso. In altri termini, il medico e l’ospedale si erano difesi affermando che una diagnosi tempestiva non avrebbe cambiato nulla, quanto ad esito infausto del decorso patologico, e gli attori non avevano avuto modo di fornire una prova contraria. La sentenza della Cassazione ribalta il decisum dei giudici di merito ed in parziale accoglimento del ricorso principale cassa con rinvio la sentenza d’appello, ritenendo che l’omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, anche se si tratta di un male incurabile e sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona. Infatti, come rileva la Cassazione, lo sfortunato paziente non ha potuto fruire di tale intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell’intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze. […] Era stato il medico di base, mesi dopo, a prescrivergli degli esami da cui era emerso che non c’era più nulla da fare. Forse non ci sarebbe stato nulla da fare nemmeno se gli esami fossero stati effettuati subito; forse la condotta terapeutica sarebbe risultata la stessa anche nel caso in cui la diagnosi fosse stata tempestiva. Ma questa circostanza, anche se dimostrata, di per sé non esclude che la tardività della diagnosi abbia inciso sulla qualità di vita del paziente. E questo non solo perché lo stesso intervento, effettuato prima, avrebbe prodotto più tempestivamente i suoi effetti; ma anche perché il ritardo può significativamente compromettere la ‘qualità di vita’ a cui avrebbe avuto diritto il paziente nelle more della diagnosi correttamente eseguita, condannandolo ad un periodo in cui non ha avuto nemmeno la possibilità di somministrazione di farmaci ed interventi palliativi. Al limite, nel caso in cui non fosse stato nemmeno possibile intervenire, il paziente avrebbe ricevuto quanto meno le cure palliative. Proprio in quest’ultimo caso troviamo le affermazioni più significative – e più pesanti per la responsabilità dei medici –. Infatti, la giurisprudenza afferma che anche a fronte di un processo morboso ineluttabile, di fronte a cui la medicina nulla può, se non alleviare le sofferenze, la diagnosi non tempestiva cagiona comunque al paziente un danno alla propria persona fisica, per il semplice fatto di aver dovuto sopportare per intero le gravissime conseguenze dell’intero processo morboso, con le conseguenti sofferenze, che avrebbero potuto essere quanto meno alleviate. […] vi è ugualmente una responsabilità del sanitario, la cui funzione non è soltanto quella di fare in modo che il paziente non muoia, ma anche di fare in modo, se il decesso non può essere evitato, che il suo paziente viva il più a lungo possibile ed il meglio possibile”. Secondo la più recente giurisprudenza di merito, recepita dal testo legislativo sul biotestamento, “in base al principio del consenso informato, perché si possa procedere all’interruzione di un trattamento sanitario vitale l’interessato deve esprimere un rifiuto personale, libero, attuale, concreto e informato. La disposizione è revocabile in qualunque momento fino alla sua attuazione. In caso di sopravvenuta incapacità del titolare, è necessario che, immediatamente prima dell’interruzione del trattamento, la volontà sia confermata dall’amministratore di sostegno”9 . La gestione delle end-of-decision ottiene, con questa proposta di legge, un riconoscimento della volontà futura. Il malato esce dal cono d’ombra ed assume un ruolo di protagonista della sua salute, tanto è vero che le motivazioni del malato sono altro rispetto alla valutazione del medico. Vi è un preciso obbligo di informazione (art. 1 co. 3), l’obbligo di alleviare le sofferenze (art. 2 co. 1), la possibilità di nominare un fiduciario e, in assenza, la previsione (art. 4 co. 4) della nomina, da parte del G.T di un ads. Alcune criticità possono essere rilevate quali, per esempio, il coordinamento tra autonomia del paziente sulla opzione di vita-morte e sistema giuridico, improntato alla vita come a “bene indisponibile” (Codice Civile Art.5), la perdita, da parte del medico, della posizione di garante della salute quale compito di tutela, in uno alla previsione in base alla quale il consenso non assolve sempre il medico (Codice Penale art. 50 e art. 579), in ultimo la volontà non è sempre attuale riguardo alla scelta ed alle indicazioni del fiduciario e le modalità di risoluzione del conflitto tra fiduciario e medico. La precedente legge n.38/2010, all’art. 1 nelle finalità garantisce al cittadino l’accesso alle cure palliative ed alla terapia del dolore in quanto “è tutelato e garantito, in particolare, l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del malato […] al fine di assicurare il rispetto della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze […]. 3. Per i fini di cui ai commi 1 e 2, le strutture sanitarie che erogano cure palliative e terapia del dolore assicurano un programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia, nel rispetto dei seguenti princìpi fondamentali: a) tutela della dignità e dell’autonomia del malato, senza alcuna discriminazione; b) tutela e promozione della qualità della vita fino al suo termine; c) adeguato sostegno sanitario e socio-assistenziale della persona malata e della famiglia”. È consentita al medico la somministrazione del sedativo per alleviare il dolore. Il mantenimento in vita del malato deve coincidere con la riduzione dei suoi tormenti ed il sostegno alla dignità e libertà nelle scelte sulla fine. Il malato ha diritto ad una “morte naturale”, ove possibile, anche se a causa della sospensione delle cure mediche la fine dovesse giungere prima del previsto. Ma cosa succede se il paziente non è più in grado di scegliere e di decidere? Anticipando la proposta di legge, la tendenza sino ad oggi è stata quella della nomina di un amministratore di sostegno nell’ipotesi in cui il paziente non sia più in grado di manifestare la propria autodeterminazione sulle cure da intraprendere. La giurisprudenza di merito ha già indicato la via della nomina dell’ads quale rappresentante autorizzato a prestare il consenso per le cure palliative in favore, per esempio, di beneficiaria affetta da sclerosi multipla maligna in fase avanzata10. Inoltre, “In base al principio del consenso informato, perché si possa procedere all’interruzione di un trattamento sanitario vitale l’interessato deve esprimere un rifiuto personale, libero, attuale, concreto e informato. La disposizione è revocabile in qualunque momento fino alla sua attuazione. In caso di sopravvenuta incapacità del titolare, è necessario che, immediatamente prima dell’interruzione del trattamento, la volontà sia confermata dall’amministratore di sostegno”11. Nel noto provvedimento della S.C. c.d. sentenza Englaro12 la Corte ha ammesso la nomina di un rappresentante legale della ragazza quale importante precedente cui si è ispirata la successiva giurisprudenza sul punto, con il richiamo alla previsione che sottende al consenso informato, quale rapporto giuridico imprescindibile tra medico e paziente che costituisce “norma di legittimazione del trattamento sanitario”.

NOTE

1 Per la lettura del testo ed una approfondita analisi si rimanda a quanto pubblicato in questa

rivista. emAnuelA comAnD, Norme in materia di consenso informato e di disposizione anticipate di

trattamento Lettura critica del disegno di legge n. 3599 approvato dalla Camera dei Deputati il 20

aprile 2017, p.45).

2 http://www.ilsole24ore.com

3 Della dignità del morire. Una difesa della libera scelta. hAns Küngcon WAlter

Jens, Milano, 1996.

4 Op. cit.

5 La dignità dell’uomo quale principio costituzionale, quaderno predisposto in occasione

dell’incontro trilaterale delle Corti Costituzionali italiana, spagnola e portoghese, Roma, 2007 a

cura di m. Bellocci e P. PAssAgliA

6 Si ricordi, altresì, La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà

fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale con Legge 24

marzo 2001, n. 89, anch’essa sotto l’egida del Consiglio d’Europa oltre che, naturalmente, della

Convenzione di New York del 13 dicembre 2006 a cui fa espresso richiamo.

7 Cassazione civile sez. III, 05/07/2017, n. 16503, Guida al diritto, 2017, 45, 89.

8 Cass.civ., sez. III, sent. 23/05/2014 n. 11522.

9 Tribunale Cagliari, 16/07/2016, Responsabilità Civile e Previdenza 2017, 3, 910 (nota di: Pisu).

10 Trib. Reggio Emilia, decreto 24 luglio 2012 (G.T. dr.ssa Chiara Zompì).

11 Tribunale Cagliari, 16/07/2016, Responsabilità Civile e Previdenza 2017,

3, 910 (nota di: Pisu).

12 C. Cass, sent., n. 21748 del 2007.