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I vizi del consenso nell’adozione di maggiorenne

autore: F. Alessi

L’adozione di maggiorenne è disciplinata dal Libro I, titolo ottavo, capo I del Codice civile, agli articoli 291 al 314. Tra i presupposti essenziali per l’adozione di maggiorenne vi è la necessità del consenso dell’adottante e dell’adottato, così come disciplinato dall’art. 296 (per l’adozione si richiede il consenso dell’adottante e dell’adottando). L’art. 298, invece, sancisce la decorrenza degli effetti della adozione, stabilendo che l’adozione produce i suoi effetti dalla data del decreto che la pronuncia e che finché il decreto non è emanato, tanto l’adottante quanto l’adottando possono revocare il loro consenso; prosegue poi esplicitando la situazione di morte dell’adottante dopo l’emanazione del consenso e prima dell’emanazione del decreto, in cui si può procedere al compimento degli atti necessari per l’adozione. In questo caso, però, gli eredi possono presentare memorie ed osservazioni in Tribunale per opporsi all’adozione che, se ammessa, produce i suoi effetti dal momento della morte dell’adottante. Il consenso è definito come conformità di intenti, di voleri; come accordo, permesso o approvazione e presuppone dunque un premesso o un’approvazione ad un facere. L’etimologia di consenso deriva dal latino consentire, cioè sentire insieme e mantiene, al participio passato, il significato di approvazione, armonia di idee, opinioni, sentimenti. Il consenso dell’adottante e dell’adottando (o del di lui legale rappresentante) deve essere manifestato, ai sensi dell’art. 311 c.c., personalmente al Presidente del Tribunale del circondario in cui l’adottante ha la residenza. Tuttavia, alcuni tribunali richiedono, a corredo del ricorso, anche una dichiarazione scritta dell’adottando il quale dichiara di non opporsi al procedimento. A livello procedurale, la richiesta per l’adozione di maggiorenne si propone con ricorso al Presidente del Tribunale. Il Tribunale, a norma dell’art. 313 c.c., in camera di consiglio e sentito il pubblico ministero, provvede con sentenza decidendo di far luogo o non far luogo all’adozione. Il secondo comma stabilisce, con elenco tassativo dei soggetti legittimati, la possibilità di proporre impugnazione nanti la corte d’appello. Il problema del consenso nell’adozione è strettamente correlato a quello sulla sua natura giuridica e la disputa sul punto è risalente. Un precedente orientamento giurisprudenziale e dottrinale attribuiva rilevanza anche esterna al consenso ed affermava la natura contrattuale dell’adozione. Tale insegnamento è stato superato con la pronuncia della I Sezione Civile della Corte di Cassazione, n. 12556 del 19 luglio 2012, la quale ha sancito che il consenso perde “ogni autonomia e rilevanza esterna, diventando un presupposto interno o una conditio iuris alla pronuncia di adozione”. Il Tribunale, verificata l’esistenza dei consensi e degli assensi, così come gli adempimenti prescritti dalla legge e la convenienza e la convenienza per l’adottando, pronuncerà il provvedimento di adozione. Terminato il procedimento e pronunciata la sentenza (prima decreto), consensi ed assensi non avranno più alcuna autonoma rilevanza. Logica conseguenza di tale assunto è per impugnare la procedura di adozione si deve assumere la nullità, e non all’annullamento. Pertanto, per la prestazione del consenso è necessaria la capacità legale (di intendere e di volere) e la capacità di agire di adottante e dell’adottando e tali requisiti devono permanere fino al momento della pronuncia dell’adozione. Il codice prevede la revoca fino al momento della pronunzia; la revoca, come il consenso, deve essere esercitata solo da persona giuridicamente capace. Il consenso, sebbene debba essere dato da persone che abbiano la capacità di agire, può essere sussistente anche in casi di amministrati di sostegno che lo possono prestare; ed infatti, “la misura di protezione dell’amministrazione di sostegno non priva il beneficiario della capacità di agire, se non per quegli atti che richiedono la rappresentanza esclusiva o l’assistenza dell’amministratore (art. 409 c.c.). Trattandosi di atto personalissimo non è ipotizzabile alcuna rappresentanza (Trib. Milano, Sez. I, 25/11/2015, n. 54). Perciò al consenso non si potrà apporre né termine né, tantomeno, condizione. Gli eventuali vizi del consenso sono quelli disciplinati in ambito contrattuale, nonostante sia stata esclusa la natura contrattuale dello stesso. Il consenso deve essere espresso liberamente, senza alcun ostacolo o impedimento. Per quanto riguarda l’errore, se di fatto, è rinvenibile solo se cade sull’identità della persona; se è di diritto, si può presentare in diverse ipotesi. Per quanto concerne la violenza ed il dolo, sono anche essi vizi dell’adozione. Ed infatti, qualora vi fossero irregolarità, queste vizieranno sia gli atti successivi sia la pronuncia finale, alla quale sola si dovrà fare riferimento. Quindi non potrà più impugnarsi il solo consenso, assurto adesso a mero presupposto per l’adozione. Tale valorizzazione della natura del consenso non potrebbe portare ad ammettere una legittimazione cd. diffusa (di chiunque vi abbia interesse) ad impugnare il negozio ovvero il provvedimento di adozione che lo presuppone, sol che si consideri la tassatività dell’elencazione dei soggetti legittimati all’impugnazione contenuta nel secondo comma dell’art. 313c.c. In sostanza, quindi, a meno che non sussistano nuovi impedimenti sopraggiunti dopo la pronunzia, l’unico soggetto realmente legittimato (ed interessato) ad una impugnazione all’adozione, è lo stesso adottante, titolare della posizione soggettiva in eventuale contestazione. Tale azione deve considerarsi esclusivamente personale e non trasmissibile, se non esercitata in vita dal titolare del rapporto adottivo (C. Cass. 4694/1992). La suprema Corte, con la sentenza 12556/12 pone dunque fine all’annoso dibattito circa l’incapacità naturale dell’adottante.

Secondo la Cassazione, l’inesistenza di una espressa previsione normativa riguardo alle persone legittimate a far valere l’azione invalidante, rispetto alla dettagliata elencazione delle categorie di persone che possono proporre azioni dettate dal cc in materia di diritto di famiglia, esclude che in questo caso possa trovare applicazione la disposizione di cui all’art. 428 cc (atti compiuti da persona incapace di intendere o di volere), poiché tale norma è volta a tutelare interessi essenzialmente patrimoniali L’insegnamento giurisprudenziale sul carattere personale del rapporto adottivo e sulla intrasmissibilità della legittimazione ad impugnare il provvedimento di adozione è costante e risalente nel tempo (per tutte C. Cass. N. 2520/1975). L’adozione di maggiore, nella sua natura giuridica, contiene dunque sia il profilo privatistico che quello pubblicistico. Il primo consiste nel consenso all’adozione prestato dai soggetti interessati, ed il secondo nella subordinazione dell’effetto costitutivo del rapporto ad un provvedimento giudiziale. La summenzionata sentenza, però, pur non inficiando la concatenzione dei due profili della natura giuridica, definitivamente. Infine, una breve disamina sull’assenso. Come anticipato, ai sensi dell’art. 297 c.c., “per l’adozione è necessario l’assenso dei genitori dell’adottando e l’assenso del coniuge dell’adottante e dell’adottando, se coniugati e non legalmente separati. Quando è negato l’assenso previsto dal primo comma, il Tribunale, sentiti gli interessati, su istanza dell’adottante, può, ove ritenga il rifiuto ingiustificato o contrario all’interesse dell’adottando, pronunziare ugualmente l’adozione, salvo che si tratti dell’assenso dei genitori esercenti la responsabilità genitoriale o del coniuge, se conviene, dell’adottante o dell’adottando. Parimenti il Tribunale può pronunziare l’adozione quando è impossibile ottenere l’assenso per incapacità o irreperibilità delle persone chiamate ad esprimerlo”.

Diversamente dall’assenso di cui all’art. 297, necessario all’adozione ed esplicitato in forma scritta (ai fini della procedura) dai genitori dell’adottando, se in vita, e dal coniuge dell’adottante e dell’adottando. Qui l’assenso è inteso nuovamente nella sua definizione letterale di “approvazione espressa liberamente e apertamente o concessa con apposito atto”, dal latino assentiri (esprimere un parere). Nel caso in argomento, l’assenso è un “atto che valore di autorizzazione o di approvazione e che è necessario per il valido compimento di un altro atto o negozio giuridico” (L. Monnier). Ecco perché, giustamente, il codice utilizza, per due momenti diversi in differenti situazioni temporali e soggettive, due termini simili nell’immediato significato, ma profondamente dissimili. Perché differenti sono i soggetti manifestanti: nel consenso sono solo le parti che costituiscono il rapporto adottivo; nell’assenso, invece, sono soggetti esterni all’adozione che dichiarano di nulla opporre alla pronunzia della stessa. Tanto è vero che il consenso deve essere prestato personalmente, mentre l’assenso può essere espresso anche da un rappresentante. La diversità delle due fattispecie rileva ulteriormente, anche in considerazione del fatto che l’adozione, in certi casi, può essere pronunciata anche in caso di mancanza dell’assenso, ma mai quando il consenso è revocato. Certamente, in questa ipotesi, l’istituto dell’assenso è diverso da quello che rileva ad esempio, nel diritto amministrativo.

NOTE

Bibliografia

Le adozioni, Dogliotti, Astiggiano, Giuffrè, 2014

Il nuovo diritto di famiglia, vol. I, Cagnazzo, Preite, Tagliaferri, Giuffrè

2015

Sulla rilevanza e la revocabilità del consenso all’adozione di persona maggiorenne, Simona Bardi,

Dir. Famiglia, fasc. 1, 2000